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« Risposta #15 inserito:: Marzo 16, 2008, 07:35:30 pm » |
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ESTERI
La capitale tibetana presidiata da migliaia di soldati cinesi
Proteste in altre aree dell'altipiano, soprattutto in Amdo
La rivolta si estende oltre Lhasa
Dalai Lama: "Genocidio culturale"
La guida spirituale: "Io non posso fermare le violenze, è un movimento di popolo"
di RAIMONDO BULTRINI
DHARAMSALA - Lhasa è presidiata da migliaia di soldati e solo piccoli gruppi hanno manifestato oggi nelle strade semideserte. Duecento camion con una media di 50 soldati l'uno sono affluiti nellac apitale tibetana, secondo informazioni fornite da diverse fonti e rimbalzate nella città degli esuli, Dharamsala.
Ma altre manifestazioni, e altri morti, sono segnalati in altre regioni dell'altipiano, soprattutto in Amdo, area d'origine del Dalai Lama dove si parla di altre 30 vittime. Da ieri circolano inoltre diverse voci di una marcia degli abitanti di alcune province limitrofe verso Lhasa, ma senza conferme.
I media cinesi, che continuano a parlare di dieci vittime han delle violenze da parte della comunità tibetana, hanno riportato una posizione, evidentemente ufficiale, che invoca una "guerra di popolo" per "battere il separatismo, denunciare e condannare gli atti malevoli di queste forze ostili e mostrare alla luce del giorno il volto odioso della cricca del Dalai Lama".
Le autorità hanno anche ribadito la scadenza entro la mezzanotte di domani, lunedì, dell'ultimatum perché i manifestanti si costituiscano se vogliono evitare più gravi conseguenze.
A Dharamsala intanto centinaia di persone continuano a manifestare ogni giorno nella crescente trepidazione delle autorità indiane che temono di scatenare le proteste e la rabbia dei vicini cinesi. Dopo l'arresto del primo nucleo di marciatori determinati a raggiungere il Tibet in occasione delle Olimpiadi, un'altra cinquantina di esuli hanno ripreso la stessa strada determinati a portare avanti l'impresa dei loro compagni. Ma anche nel loro caso la polizia del distretto confinante con quello di Kangra ha annunciato la determinazione di fermarli. Per sostenere la loro causa, e protestare per le vittime di Lhasa, trenta monaci e laici sono da ieri in sciopero della fame davanti al tempio del Dalai Lama. E' in questo clima che il leader spirituale dei tibetani ha deciso oggi pomeriggio di incontrare i giornalisti indiani e stranieri per chiedere ufficialmente un'indagine indipendente di un organismo internazionale.
IL DALAI LAMA E LE VIOLENZE Durante l'incontro con la stampa il Dalai Lama ha risposto a una delle domande che sono sulla bocca di tutti: "Può lei fermare le violenze?", gli è stato chiesto. "Io non ho questo potere", ha risposto. "E' un movimento di popolo, e io considero me stesso un servo, un portavoce del mio popolo. Non posso domandare alla gente di fare o non fare questo e quello".
Nella sua spiegazione ha poi analizzato lo stato delle cose maturate in questi ultimi 60 anni di dominio dell'etnia cinese sulla popolazione locale.
GENOCIDIO CULTURALE "Intenzionalmente o no, assistiamo a una certa forma di genocidio culturale. E' un tipo di discriminazione: i tibetani, nella loro terra, molto spesso sono cittadini di seconda classe. Recentemente le autorità locali hanno addirittura peggiorato la loro attitudine verso il buddismo tibetano. E' una situazione molto negativa, ci sono restrizioni e cosiddette rieducazioni politiche nei monasteri", ha aggiunto il Dalai Lama. E ancora: "Ho notato negli anni recenti che tra i tibetani che vengono qui dal Tibet è cresciuto il risentimento, inclusi alcuni tibetani comunisti, che lavorano in diversi dipartimenti e uffici cinesi. Sebbene siano ideologicamente comunisti, siccome sono tibetani hanno a cuore la causa del loro popolo. Secondo queste persone più del 95 per cento della popolazione tibetana è molto, molto risentita. Questa è la principale ragione delle proteste, che coinvolgono monaci, monache, studenti, persone comuni". Il Dalai Lama
AUTONOMIA E INDIPENDENZA Il Dalai Lama ha poi tenuto a precisare la sua posizione: "Nelle mie dichiarazioni, nel corso degli anni, ho spesso menzionato che davvero, dico davvero, vorrei supportare il presente leader Hu Jintao nel comune slogan di sostenere e creare un'armonia sociale. Voi sapete che noi non cerchiamo la separazione, il resto del mondo lo sa. Inclusi alcuni tibetani, inclusi i nostri sostenitori occidentali ed europei, o indiani che sono critici verso il nostro approccio perché secondo loro non cerchiamo l'indipendenza, la separazione. Ma sfortunatamente, i cinesi hanno trovato una scappatoia per accusare noi di quanto sta avvenendo".
Dopo aver sottolineato le critiche alla sua linea, il Dalai Lama ha però detto che "un numero crescente di cinesi ci stanno manifestando solidarietà. Studiosi cinesi e ufficiali governativi privatamente appoggiano il nostro approccio della via di mezzo", ha detto.
INDAGINE INDIPENDENTE E NON VIOLENZA "Allora - ha proseguito il leader spirituale tibetano - per favore indagate da soli, se possibile lo faccia qualche organizzazione rispettata a livello internazionale, indaghi su che cosa è successo, su qual è la situazione e quale la causa. All'esterno tutti vogliono sapere, me compreso. Chi ha davvero creato questi problemi adesso? In realtà credo che tutti sappiano qual è il mio approccio. Ognuno sa qual è il mio principio, completa non violenza, perché la violenza è quasi come un suicidio. Ma che il governo cinese lo ammetta o no, c'è un problema. Il problema è che l'eredità culturale nazionale è in una fase di serio pericolo. La nazione tibetana, la sua antica cultura muore. Tutti lo sanno. Pechino semplicemente si affida all'uso della forza per simulare la pace, ma è una pace creata con l'uso della forza e il governo del terrore. Un'armonia genuina deve venire dal cuore del popolo, sulla base della fiducia, non della paura".
OLIMPIADI "Per questo - ha spiegato il leader tibetano in esilio - la comunità internazionale ha la responsabilità morale di ricordare alla Cina che deve essere un buon ospitante dei Giochi Olimpici. Ho già detto che ha il diritto di tenere le Olimpiadi, e che il popolo cinese ha bisogno di sentirsi orgoglioso di questo".
LE PRECEDENTI TRATTATIVE Il Dalai Lama ha ricordato che ci sono state sei conferenze bilaterali tra la Cina e i suoi inviati "fin dal febbraio 2002". Ma la Cina "ha iniziato a indurire la sua posizione sul problema tibetano dal 2006", intensificando le critiche nei suoi confronti.
LE VITTIME In una intervista alla Bbc il Dalai Lama ha detto di aver ricevuto dei rapporti secondo i quali le violente proteste anticinesi a Lhasa potrebbero aver causato "almeno 100 morti". Ammettendo che la cifra è impossibile da verificare, ha aggiunto di temere in ogni caso che "potrebbero esserci altri morti, a meno che Pechino non cambi la sua politica verso le regioni himalayane controllate dal regime".
(16 marzo 2008) da repubblica.it
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« Risposta #16 inserito:: Marzo 17, 2008, 09:59:32 am » |
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17/3/2008 - Quel sangue ci riguarda La politica italiana deve reagire al massacro in Tibet, uscendo finalmente dall'imbarazzo ANDREA ROMANO
Nel giorno in cui scade l'ultimatum cinese ai manifestanti tibetani - premessa di una nuova Tienanmen da realizzare in tutta calma al riparo dalle televisioni occidentali - colpisce l’imbarazzo che attraversa la politica italiana dinanzi all'ennesima esibizione della capacità repressiva di Pechino. Abbondano le dichiarazioni di prammatica, le esortazioni al dialogo e gli auspici di pacificazione. Ma le uniche voci che hanno parlato con nettezza sono quelle alla destra estrema che conservano nell’anticomunismo uno strumento di identità e militanza.
Tra le componenti più «rispettabili» dell'arco politico prevale invece un senso di distacco dal sangue che torna a scorrere a Lhasa, nella convinzione che quanto sta accadendo non possa influenzare più di tanto la politica estera italiana. In fondo ci occupiamo d'altro, sembra dire la gran parte del Parlamento, e non sarà certo qualche decina o centinaia di morti invisibili a farci cambiare idea sull'opportunità di intrattenere con Pechino una positiva relazione ispirata al realismo e all’apertura di credito.
Lo «spirito di Monaco» In questa nuova e condivisa arrendevolezza al terrore di massa - quasi una riedizione provinciale dello «spirito di Monaco» - manca solo che qualcuno si spinga a descrivere i fatti tibetani come «una contesa in un Paese lontano tra gente di cui non sappiamo niente», per riprendere le parole d'infamia con cui Neville Chamberlain volle commentare nel 1938 l'imminente aggressione nazista alla Cecoslovacchia. Per ora ci accontentiamo di apprendere dal ministro degli Esteri D'Alema che la scelta del boicottaggio olimpico creerebbe «confusione», mentre attendiamo fiduciosi di conoscere le iniziative (ovviamente più lineari e meno confuse) che la nostra diplomazia ha in animo di realizzare verso Pechino. Certo è da escludere che una forte spinta morale in questa direzione venga dal Vaticano che, a proposito di «valori non negoziabili», ha fatto sentire ancora ieri tutto il peso del proprio silenzio.
La logica padronale L’imbarazzo della politica italiana sulla tragedia tibetana colpisce ma non deve stupire. La Cina gode infatti di un duplice privilegio nella nostra discussione pubblica. Da una parte buona parte della sinistra, anche democratica, continua a mostrare i segni di quel terzomondismo che non ha ancora sgombrato il campo e che oggi saluta in Pechino la capitale di un impero economico alternativo a quello occidentale, destinato secondo i più entusiasti a sopravanzare nel giro di qualche decennio la stessa egemonia statunitense. Dall'altra parte funziona alla perfezione la logica padronale secondo la quale chi ha il timone degli affari non può essere troppo infastidito, neanche quando ha le mani sporche di sangue. È un duplice privilegio che ha già dimostrato di saper tutelare la serenità di cui gode Pechino nel nostro Paese, ad esempio tenendo ben lontano il Dalai Lama sia da Montecitorio che dalla Farnesina nel corso della sua visita di dicembre. Allora per entrare nei luoghi della democrazia italiana non bastò alla principale autorità morale e religiosa del Tibet l'essere già stato ricevuto dal cancelliere tedesco Merkel. E chissà se oggi che si spinge a parlare di «genocidio culturale», conservando peraltro un profilo di grande pacatezza, lo stesso Dalai Lama non rischierebbe di essere tenuto fuori dai nostri confini.
da lastampa.i
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« Risposta #17 inserito:: Marzo 17, 2008, 02:38:00 pm » |
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ESTERI IL COMMENTO
Se prevale la realpolitik
di FEDERICO RAMPINI
L'INDIGNAZIONE internazionale per il calvario del Tibet, le manifestazioni in tutto il mondo davanti alle ambasciate cinesi non impressionano i leader di Pechino. Con la feroce repressione della rivolta, che ora si estende a tutte le zone del "Tibet etnico" amputate dopo l'invasione militare del 1950, il regime cinese corre un rischio calcolato.
Il presidente Hu Jintao e il suo gruppo dirigente sono convinti che nelle relazioni con il resto del mondo pagheranno un prezzo modesto per l'orrore di questi giorni. È probabile che abbiano ragione. La Cina è un colosso che le altre nazioni trattano con i guanti. Tra i governi occidentali le logiche della realpolitik sembrano prevalere sulla solidarietà umanitaria. Perfino una potenza ultraterrena come la chiesa cattolica brilla per i suoi silenzi.
Ieri il papa ha condannato le guerre nel mondo ma non ha parlato del Tibet. Il Vaticano ha in corso un negoziato per riallacciare i rapporti diplomatici con Pechino; esita a prendere una posizione sul Tibet che potrebbe compromettere questo storico obiettivo. In fatto di cautela è una bella gara. Nelle stesse ore in cui stava nascendo la protesta a Lhasa, Washington annunciava di aver tolto la Repubblica popolare dalla lista nera dei dieci paesi accusati dei peggiori abusi contro i diritti umani. Un infortunio, una coincidenza infausta ma tutt'altro che sorprendente.
Anche se gli Stati Uniti considerano la Cina come il rivale strategico in grado di sfidare la loro egemonia planetaria, negli ultimi anni hanno accresciuto la loro dipendenza dal gigante asiatico. Hanno goduto dello "sconto cinese", l'invasione di prodotti a basso costo che hanno limitato l'inflazione e hanno sostenuto il potere d'acquisto dei consumatori. L'esplosione del debito americano è stata finanziata da Pechino: la banca centrale cinese "ricicla" l'immenso attivo commerciale acquistando buoni del Tesoro Usa; ha le casseforti più ricche del pianeta con 1.550 miliardi di dollari di riserve valutarie.
Nella crisi che scuote il sistema bancario mondiale, gli americani sono stati i primi ad accogliere a braccia aperte gli investitori cinesi come "cavalieri bianchi" nel capitale dei loro istituti di credito, da Bear Stearns a Morgan Stanley. Non è facile ora fare la voce grossa contro chi siede nei tuoi consigli d'amministrazione.
Anche la politica estera di Washington ha qualche debito. Se la Filarmonica di New York ha potuto giocare alla "diplomazia del violino" a Pyongyang, è perché la Cina ha convinto il vassallo nordcoreano a congelare (per ora) i suoi piani nucleari. Avendo due conflitti aperti, con sollievo Bush ha depennato il dittatore Kim Jong Il dall'"asse del male".
Gli europei non sono da meno. Ricordiamo l'ultimo viaggio del Dalai Lama nel nostro continente. Salvo Angela Merkel, i governi europei evitarono di riceverlo. Non fece eccezione quello italiano, e neppure Benedetto XVI: tutti preoccupati di non irritare Pechino. La Repubblica popolare è diventata ormai il principale partner commerciale dell'Europa, scalzando gli Stati Uniti da un ruolo storico che avevano avuto per mezzo secolo.
Al di là delle periodiche minacce protezioniste, agitate da politici demagoghi in cerca di voti, nessuno può fare seriamente a meno del made in China. Nei prodotti hi-tech come i computer e i telefonini la Cina è diventata un quasi-monopolista, indispensabile e insostituibile. Le fabbriche elettroniche e informatiche sono state in larga parte smantellate dai paesi europei e non torneranno indietro.
Se smettessimo di comprare cinese tutto si fermerebbe, perché non siamo più in grado di produrre molti beni essenziali. È sintomatico che di fronte alla tragedia del Tibet l'unico dibattito in Occidente è sull'opportunità di boicottare le Olimpiadi di Pechino. È un'ammissione implicita: il solo danno che possiamo immaginare di infliggere alla Cina è sul piano simbolico.
Naturalmente l'interdipendenza è reciproca. Il regime cinese sa che il formidabile sviluppo economico degli ultimi anni è stato trainato dalle esportazioni. Il presidente Hu Jintao e la nuova leva di dirigenti tecnocratici non sottovalutano l'importanza delle buone relazioni con il resto del mondo. Ma hanno una loro visione delle priorità e delle poste in gioco. Per quali ragioni la Cina tiene così tanto al Tibet, come si spiega la determinazione con cui controlla questa immensa nazione montagnosa, semidesertica e per lungo tempo inaccessibile?
In primo luogo, storicamente, per il ruolo di protezione strategica in vista di un possibile conflitto con l'India o altre potenze presenti nell'Asia centrale (dalla Russia agli stessi Stati Uniti). Più di recente per la scoperta di giacimenti di energia, materie prime e metalli rari che sono risorse preziose per l'industria delle zone costiere. Una volta riscritti i manuali di storia, dopo aver indottrinato generazioni di cinesi sul fatto che il Tibet è "sempre" stato loro, come Hong Kong e Taiwan, ecco subentrare il nazionalismo, la memoria dell'onore ferito dalle aggressioni imperialiste dell'Ottocento e del primo Novecento.
Infine vi è la battaglia sul controllo egemonico della religione. Ci sono 150 milioni di buddisti praticanti in Cina, incoraggiati dallo stesso regime a riscoprire nei culti antichi le radici di un'identità nazionale. Pechino intende affermare che ogni manifestazione religiosa è ammissibile solo se sottomessa alla supremazia del regime comunista; perciò un leader buddista autonomo come il Dalai Lama è il Male assoluto, l'avversario con cui non si scende a patti. Il regime cinese è disposto a subire un peggioramento temporaneo della sua immagine nel mondo, pur di affermare che il Tibet è una questione domestica, e che nel suo nuovo status di superpotenza globale Pechino non accetta lezioni di diritti umani o altre "interferenze".
Certo quel che sta accadendo manda in frantumi la visione di una confuciana società armoniosa, che Hu Jintao predica come modello della convivenza interna e delle relazioni internazionali. A lungo termine la Cina dovrà accorgersi che le ambizioni neoimperiali devono reggersi anche sul "soft power", la capacità di esportare fiducia, di proiettare valori. Ma nel lungo termine chissà cosa sarà rimasto del popolo tibetano. Per ora le ragioni del cinismo, della prudenza e dell'opportunismo sono destinate a prevalere.
(17 marzo 2008)
da repubblica.it
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« Risposta #18 inserito:: Marzo 19, 2008, 02:54:53 pm » |
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Sangue e compassione l’illusione tibetana
Ugo Leonzio
Che il Tibet sia un paese immaginario inventato dagli occidentali un paio di secoli fa come rifugio dagli illuminismi e poi dalla metastasi della tecnologia dei consumi e dei viaggi «avventura» lo si può vedere dalla falsa coscienza con cui si manifesta con candeline accese e scritte Free Tibet in paesi che per cinquant’anni non hanno mai riconosciuto il Dalai Lama come capo di un governo in esilio. Il Premio Nobel per la Pace, offerto molti anni fa a Tenzin Gyatso, Oceano di Saggezza, è la prova di questa dimensione irreale in cui lo abbiamo collocato.
Per chi compra un viaggio «avventura» Lhasa-Kailash-Samye, il Paese delle Nevi è popolato solo da lama persi in meditazioni profonde tra cime di cristallo traversate da mantra accompagnati dai suoni delle trombe sistemate in cima ai gompa. Chi non è lama o almeno un naljorpa itinerante abituato a meditare in «luoghi di potere», sacre caverne o cimiteri, non suscita alcun interesse nel viaggiatore sprofondato nel suo sonno mistico, motivato da un paesaggio di una bellezza profonda e struggente.
Chi va a Dharamsala per ricevere insegnamenti da Sua Santità o iniziazioni di Kalachakra nelle varie parti del mondo in cui questo monaco forte, saggio e ironico cerca di tener viva l’immagine del suo paese, non si chiede che cosa sia veramente il Tibet, i suoi luoghi, la sua storia, affascinante e contraddittoria come tutte. Alimenta esclusivamente la sua ansia di spiritualità e di «compassione», dimenticando un famoso e sostanziale avvertimento del Budda Sakyamuni: «la via della spiritualità è quella che porta più velocemente all’inferno». Chogyam Trungpa, il più intenso e affascinante lama che provò per primo a spiegare il tantrismo tibetano in America, definì i suoi primi allievi, ansiosi di penetrare nei segreti insegnamenti del tantrismo Vajrayana allacciando proficui legami con divinità Pacifiche e Feroci, «pescecani spirituali». Non era un complimento.
È probabile che qualcosa sia cambiato da allora, il buddismo si è diffuso ovunque e in modo imprevedibile, l’immagine di pace interiore che diffonde è un richiamo troppo forte, un antidoto contro la demoniaca avidità che trasforma la nostra mente in un cannibale afflitto da bulimia anoressica. I lama tibetani che oggi danno insegnamenti, conoscono molto meglio i loro allievi e le loro ansie di «altrove», la sete insaziabile di contemplazione & compassione.
Associazioni non governative come Asia, fondata dal grande lama e insegnante dzog chen Namkhai Norbu, costruiscono in Tibet ospedali e scuole dove si insegna la lingua tibetana e mantengono viva, in centri di studio e di meditazione sparsi in tutte le parti del mondo, la tradizione spirituale e le profonde pratiche del tantrismo tibetano che nel Paese delle Nevi rischiano di scomparire.
Eppure, cinquant’anni dopo la drammatica fuga in India del Dalai Lama e i tragici, sanguinosi fatti di questi giorni a Lhasa, il Tibet è rimasto com’era, un paese che continua a essere un sogno, un’utopia mistica ben radicata nelle mente dei suoi sostenitori e che per questo sembrerebbe possedere meno speranze di ritrovare la sua identità della Birmania, che non è un mito ma un territorio buddista con infinite pagode, monaci con tonache suggestive, stupa d’oro, un regime repressivo, eroina, turisti ecc.
Il Tibet, bod come lo chiamano i tibetani, è diverso. Il Tibet è unico. Anche se privato non solo del suo futuro ma anche del suo passato, anche se rischia di essere inghiottito pericolosamente dal «Paese delle nevi», un sogno disegnato genialmente dal mistico pittore russo Nicholas Roerich e costruito con infinita quanto involontaria perizia dalle geniali spedizioni di Giuseppe Tucci nello Zhang Zhung e da una miriade di film, documentari, spedizioni, scalate, viaggi, libri ed estasi pacifiche e feroci, bod sopravviverà.
La sua malìa incanterà anche i cinesi quando l’ansia di forza e di potenza passerà la mano perché il mutamento è la legge dell’esistenza. Questo insegnamento è probabilmente il primo che sia stato dato dal Buddha, nel Parco dei Daini di Kashi, in riva al Gange, insieme alla constatazione che la vita è dolore. Questo piccolo seme di infinita potenza, trasportato negli infiniti deserti tibetani traversati solo da cumuli di nuvole bianche, ha trasformato il Tibet più di qualsiasi altro paese in cui questo insegnamento sia giunto e abbia attecchito.
Ma non sono stati i selvaggi tibetani, di cui si diceva che fossero predoni, assassini e perfino cannibali (sebbene uno dei primi re ricordati dalle cronache antiche, Podekungyal, vivesse all’epoca dell’imperatore cinese della dinastia Han Wuti, un paio di secoli prima di Cristo) a svilupparlo. È stato il paesaggio, la profondità dell’orizzonte, l’altitudine che affila l’ossigeno fino a farlo sparire, a creare le Divinità pacifiche e feroci che dominano l’immaginario delle pratiche tantriche rendendolo diverso da tutte le altre forme buddiste di «pianura».
Le religioni nascono nei deserti ma, si sa, niente è più diverso dei deserti. Solo il silenzio li apparenta. Il silenzio è il luogo privilegiato delle apparizioni. Nessuna pratica mistica è più ricca di apparizione del buddismo tibetano. È un’apparizione incessante di divinità pacifiche e ostili, consolanti o persecutorie, assetate di sangue e di sciroppi di lunga vita, quasi tutte descritte scrupolosamente nel classico Oracles and Demons of Tibet da Réne De Nebesky-Wojkowitz (Tiwari’s Pilgrim Book House). Divinità che cavalcano eventi naturali, furori della natura, venti travolgenti, valanghe, instabili abissi e immobili cime, laghi parlanti e salati. Erano queste apparizioni che davano forma alle pratiche e agli insegnamenti esoterici e non il contrario.
Così l’aspetto e la forma di queste apparizioni hanno finito per dividere in tre gruppi (e svariate scuole) l’insegnamento buddista, anche se la leggenda vuole che il monaco Sakyamuni fin dall’inizio desse insegnamenti semplici ad alcuni ed altri, più segreti, esoterici, occulti a quelli che erano in grado di capirli.
Tutti, comunque, conducevano sul sentiero della liberazione. La differenza consisteva nel tempo e nel numero delle rinascite necessarie per il risveglio. Gli insegnamenti segreti permettevano un risveglio istantaneo, nel corso di una sola vita. Per quelli comuni, bisognava armarsi di pazienza. Decine se non centinaia di nascite e rinascite, di transiti tra vita e morte e tra morte e vita (secondo la legge del karma, cioè di causa ed effetto) erano appena sufficienti per sbirciare fuori dai confini del samsara, il regno della sofferenza in cui ci troviamo adesso (di questo, pochi credo possano dubitare e anche chi dubita, perché baciato dalla fortuna, da un lifting ben riuscito o da una fortunata avventura nel regno dei trapianti svizzeri) farebbe meglio ad aspettare le sorprese immancabili e per nulla consolanti del post mortem. Le pratiche che riguardano questo avvenimento cruciale è il cuore dell’insegnamento del tantrismo tibetano e non appartiene ad alcuna altra scuola buddista.
Per i tibetani e soprattutto per il loro celebre Bardo Thos grol, meglio conosciuto come Libro dei morti tibetano, quando il nostro corpo smette di funzionare e si dissolve, noi non andiamo «a far terra per ceci», ma per la durata di sette settimane viaggiamo in un territorio incredibilmente frustrante, crudele e ingannatore. Il nostro grasso inconscio. Tutto il rimosso, il non detto, il negato ci appare interpretato dalla figure sardoniche, irridenti, affamate del coloratissimo pantheon che soggiorna nei regni oltremondani della nostra mente che scomparirà solo alla fine di questo viaggio estremo.
Il libro dei morti tibetano dà a tutti le istruzioni per uscire senza danni da questa imbarazzante situazione e in modo più o meno onorevole. Se riconosciamo che quelle spaventose visioni che ci inseguono, ci minacciano e ci terrorizzano mettendo davanti ai nostri occhi la vera identità di chi siamo stati da vivi, sono il prodotto (illusorio) della nostra mente, istantaneamente l’incubo sparisce e in un raggio glorioso di arcobaleno torniamo ad essere quello che siamo sempre stati, senza mai saperlo. Saggezza, luce, onnipotente vuoto da cui ogni forma, ogni pensiero, ogni pensiero deriva in una instancabile gioco d’illusione. I tibetani, lama, monaci, gente comune hanno questa certezza che potrebbero condividere con molti dei fisici quantistici che studiano la «teoria delle stringhe». Tutta la realtà è il riflesso iridescente, ma vuoto, del nulla. Niente ha consistenza, niente è «reale». Il dolore, la sofferenza nascono quando non si riconosce questo stato che imprigiona la nostra mente, privandola della sua perfezione felice.
Allora perché ribellarsi a Lhasa? Perché provocare un bagno di sangue e moltiplicare il dolore se tutto è illusione?
Attaccarsi alla propria casa, al proprio paese non solo è inutile ma può essere una forma di avidità che ci proietterà, dopo morti, in uno dei Sei Loka, i regni della sofferenza che costituiscono il samsara, gravido delle nostre passioni.
C’è qualcosa che divide profondamente l’insegnamento buddista e le sue scuole principali, Hinayana, Mahayana e Vajrayana. La compassione.
Nell’Hinayana si persegue il risveglio da soli. La pratica è etica, morale, devozionale. Ciascuno percorre da solo il Sentiero, essenziale è liberarsi. Mahayana e Vajrayana, invece, mettono al centro degli insegnamenti la Compassione, che vuol dire non uscire dal samsara finché anche il più piccolo, il più insignificante degli insetti non sia stato liberato. Il risveglio di tutti gli esseri è il punto essenziale. È la compassione a condurre, prima delle preziose pratiche occulte, sul sentiero irreversibile del Risveglio. Irreversibile, perché anche se l’illusione ci trascina nel sangue, non ci permette mai di scordare l’irrealtà di quello che stiamo vivendo.
C’è un insegnamento più prezioso di questo?
Pubblicato il: 19.03.08 Modificato il: 19.03.08 alle ore 8.10 © l'Unità.
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« Risposta #19 inserito:: Marzo 23, 2008, 07:07:11 pm » |
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Tra i tibetani rapati a zero per lutto
Manfredi Manera
I tragici avvenimenti i questi giorni mostrano in modo evidente quanto il problema del Tibet sia una delle più grandi questioni irrisolte, che il mondo si trascina dal dopoguerra.
Qui a Dharamsala nel Nord India, residenza del Dalai Lama e sede del governo in esilio i rifugiati tibetani vivono queste ore in uno stato di esaltazione continua alternato a disperanza e frustrazione di fronte a un senso sconfortante d’impotenza.
La città è tappezzata delle crude immagini di una strage operata dalle autorità cinesi nella regione dell’Amdo (est Tibet) il 16 marzo scorso. Le sole che per vie rocambolesche sono riuscite a filtrare oltre la cappa di piombo imposta dal regime cinese sul Tibet.
Jigmy, un giovane originario di Lhasa venuto in India a studiare: «Ho i genitori a Lhasa, temo per la loro incolumità, in queste notti la polizia opera raid notturni. La gente sparisce». Riuscite ad avere notizie?. «È molto difficile, potrei telefonare ma temo di mettere nei guai i miei genitori, tutte le linee sono controllate. Le immagini della strage che si vedono in giro per la città sono state mandate a rischio della propria vita, probabilmente inviandole attraverso paesi terzi. È molto pericoloso per i tibetani in Tibet comunicare con noi che stiamo in India». Noto che anche lui come molti altri si sono fatti rasare i capelli. «Lo abbiamo fatto in segno di lutto per i nostri fratelli che soffrono aldilà dell’Himalaya». Nella piazza in prossimità della residenza del Dalai Lama proprio davanti al cancello vi sono tre barbieri indiani che alacremente radono a zero coloro che vogliono unirsi in questo modo al lutto collettivo. In due cortili adiacenti vi sono due gruppi di una trentina di tibetani che ormai dal 15 marzo esercitano un digiuno a oltranza.
Le manifestazioni di protesta si svolgono in continuazione anche tre o quattro volte al giorno. Nascono spontaneamente prendendo avvio da notizie e voci di nuove rivolte in Tibet, di nuove repressioni e stragi. Ieri mattina si parlava di altri venti morti nella città di Serta nella regione dell’Amdo, venerdì di un intero villaggio assediato dall’esercito cinese nella regione del Kham. Alcune fonti parlano di soldati cinesi con le baionette innestate e armati di ak47 pronti a intervenire contro la popolazione inerme. Durante una manifestazione incontro il signor Pema Tseringche lavora alla biblioteca tibetana: «È un momento storico, i fatti sono terribili ma ci dà speranza questo senso di unità del nostro popolo. È la prima volta dal 1959 che l’intero Tibet è insorto da Lhasa fino alle regioni orientali e anche i tibetani all’estero fanno la loro parte. È un momento fatale, non ci sono mezze misure. O riusciremo a riottenere la nostra libertà oppure sarà la fine del Tibet». Nonostante la drammaticità del momento le proteste anche se accese non sono mai violente.
Al massimo vengono bruciate delle bandiere cinesi. La polizia indiana si limita ad accompagnare le manifestazioni armata solo di leggere canne di bambù. Di sera si svolgono delle processioni a lume di candela, accompagnate da litanie religiose che terminano nella piazza davanti al tempio del Dalai Lama, dove vengono pronunciati discorsi e vengono mostrati i video delle poche immagini trafugate dal Tibet o delle manifestazioni parallele in giro per il mondo.
L’atmosfera è gravida di emotività e spesso il pubblico ha le lacrime agli occhi. Cercano disperatamente aiuto e sostegno presso gli stranieri presenti e i media internazionali. Durante le prime giornate di repressione in Tibet gli unici rappresentanti occidentali a dare conforto ai tibetani , erano degli italiani. I radicali Sergio d’Elia, Marco Perduca e Matteo Mecacci. Erano venuti a inaugurare il 10 marzo l’iniziativa della marcia di ritorno in Tibet organizzata dalle 5 principali ong tibetane capeggiate dalla storica Tibetan Youth Congress. Avevano avuto l’intuizione che si stava avvicinando un momento cruciale per il Tibet. La marcia continua nonostante il governo indiano, inchinandosi alla potenza cinese, abbia tentato di fermarla e il Dalai Lama stesso abbia suggerito di interromperla. In queste ore drammatiche sta cercando in tutti modi di calmare il suo popolo per tentare di mantenere un canale di dialogo con la Cina. Ma nonostante la sua moderazione da Pechino riceve solo insulti.
Il governatore del Tibet in un’ultima dichiarazione lo ha definito «un mostro». E i tibetani in India di fronte a questa chiusura, ignorando l’invito alla moderazione del loro leader, hanno assaltato ieri per la terza volta l’ambasciata cinese a Delhi. «Non possiamo fermarci ora -dicono i tibetani- la marcia deve proseguire-non possiamo abbandonare in questo frangente i nostri fratelli in Tibet». Anche a costo di disobbedire al Dalai Lama? A questa domanda, Palky una giovane tibetana del TYC tentenna, abbassa lo sguardo e dopo una lunga pausa, quasi sussurrando ma con determinazione dice: «Dobbiamo andare avanti».
Pubblicato il: 23.03.08 Modificato il: 23.03.08 alle ore 8.09 © l'Unità.
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« Risposta #20 inserito:: Marzo 25, 2008, 11:50:15 pm » |
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Una fiaccola contro Pechino
Siegmund Ginzberg
La torcia olimpica promette di lasciarsi dietro una scia infinita di proteste sul Tibet. È cominciata ad Atene. Continuerà probabilmente in tutte le 135 città del mondo che saranno attraversate. Abbastanza da creare un grosso problema di immagine per Pechino. Anche se i dirigenti cinesi del Comitato olimpico vanno presi in parola quando promettono che «questi eventi non altereranno in alcun modo la staffetta della torcia in Cina». Nemmeno quando andrà, in maggio, sulla cima dell´Everest, e passerà per Lhasa. Hanno i mezzi per farlo. L´hanno fatto in passato. Anche per avvenimenti e crisi molto più macroscopiche. Nessun paese ha mostrato, nel corso dei millenni della sua storia, e in particolare nella seconda metà del secolo scorso, tanta expertise nel sapersi trasformare, quando vuole, in un buco nero da cui non filtra assolutamente nulla.
Eppure, qualcosa è cambiato. Grosso modo una ventina d'anni fa. C'è un prima e un dopo piazza Tiananmen. Ci sono cose che non si possono più nascondere a piacere all'esterno. E che anzi, se vengono oscurate, rischiano di assumere dimensioni ancora più gigantesche, proprio perché se ne sa poco. Che poi per periodi anche molto lunghi si tenda a dimenticare, sopravvengano amnesie planetarie, è un altro paio di maniche. Quello non è colpa della Cina, è colpa tutta nostra.
"Siamo pronti", dice l'inno che Pechino ha scelto per le Olimpiadi. C'è da credergli. Sono pronti a far fronte, a modo loro, alla crisi tibetana, così come sarebbero stati pronti a far fronte anche ad una crisi potenzialmente più grave, quella su Taiwan, su cui si concentravano attenzione e timori anche più che sul Tibet. L'elezione a presidente di Ma Ying-jeou, un esponente del Kuomintang, cioè di un partito che ha nel suo Dna la stessa vocazione totalitaria del Pcc, anziché di un indipendentista, rende meno probabile che esplodano frizioni su quel fronte. Non temono molto un boicottaggio delle Olimpiadi, e a ragione: se non ci sta l'America, è difficile, anzi impossibile che su questa strada si avvii l'Europa; getti la prima pietra chi non ha una banca pericolante su cui spera nell'aiuto dei Sovereign Wealth Funds arabi, russi o cinesi; e comunque l'ultimo boicottaggio, quello delle Olimpiadi di Mosca nel 1980, per protesta contro l'invasione sovietica dell'Afghanistan, non aveva avuto nessun effetto sull'Urss di Breznev, così come è dubbio che un eventuale boicottaggio delle Olimpiadi del 1936 a Berlino avrebbe avuto qualsiasi effetto positivo sul regime di Hitler. Molto di più si ricordano e hanno avuto risonanza piccoli fatti (come la vittoria del nero americano Jesse Owens nel 1936), o piccoli gesti (come il saluto dal podio col guanto nero e il pugno chiuso del Black power da parte di Tommie Smith e John Carlos a Città del Messico nel 1968). Che di Tibet si parli all'Onu è un miraggio. Ammesso e non concesso che qualcuno voglia arrischiare uno scontro diplomatico con la Cina, in questa Onu Pechino e Mosca hanno diritto di veto.
L'incubo di Pechino non è il prevedibile, ma l'imprevedibile. Non sono tanto le gradinate vuote, quanto che si ripetano episodi tipo quando la cantante islandese Bjork, recentemente in concerto a Shanghai, ha cantato una sua vecchia canzone che invitava le Isole Faroe a "dichiarare l'indipendenza", "proteggere le loro lingua" e innalzare "la propria bandiera", concludendola con un ritmato: "Tibet! Tibet!". Si tratta di cose che nell'era di Youtube è impossibile nascondere.
Neppure tutta la potenza di Pechino, tutta la capacità tecnica di controllo e di censura, anche su Internet e sulle trasmissioni via satellite, possono oscurare tutto e chiudere la bocca a tutti. A Pechino in questi giorni è successo anche qualcosa di straordinario, che non ha precedenti da decenni in Cina: un gruppo di prestigiosi intellettuali ha rivolto un appello alla moderazione, rivolto alla protesta tibetana, ma soprattutto al proprio governo. Ma l'altra faccia, quella brutta, della medaglia è che all'interno della Cina lo spin control, l'indirizzamento governativo dell'interpretazione degli avvenimenti tibetani, pare al momento decisamente vincente. La posizione ufficiale è che in Tibet viene attaccata la sovranità della Cina. Che non reagire sarebbe come incitare ad una "pulizia etnica" dei tibetani contro i cinesi. "Siamo impegnati in una battaglia di sangue e di fuoco, di vita o morte (per la Cina) contro la cricca del Dalai lama", sono le parole del segretario del Pcc a Lhasa, Zhang Qinli, seguite da un invito severo ai "leader del resto del paese" a non sottovalutare la minaccia. Si erano preparati scrupolosamente ad una offensiva mediatica in questo senso. Già prima che scoppiasse il Tibet, avevo letto sul Wall Street Journal un resoconto molto accurato sul trattamento del Tibet nei corsi di giornalismo all'Università Tsinghua di Pechino. Paradossalmente, anche quel poco che filtra dal Tibet malgrado il blackout gli serve a sostegno di questa linea. Hanno fatto il giro di tutti i siti internet cinesi la foto delle "atrocità" commesse non contro i monaci tibetani ma contro "cinesi innocenti". Sul sito del New York Times ieri c'erano molte foto scattate da non identificati turisti sulle distruzioni e i saccheggi dei negozi cinesi nel centro di Lhasa.
Sarei pronto a scommettere che queste foto passeranno la censura "mamma net", come chiamano i siti cinesi, sono una testimonianza di furia popolare di cui non si ricordano precedenti, nemmeno nei giorni della rivolta del 1987. Il giornale newyorchese ha anche una corrispondenza in cui si racconta che nelle prime 24 ore non si vedeva in giro neanche un poliziotto o un soldato cinesi, che insomma hanno "esitato" prima di intervenire con la forza. Anche questo può far brodo alla propaganda cinese a fini interni. Il Dalai lama viene descritto dalle autorità cinesi come "uno sciacallo vestito da monaco, uno spirito maligno con faccia umana e cuore di belva". Non importa che dal leader religioso siano sempre venute parole di moderazione. Contro di lui ora viene fatto pesare anche il fatto che non riesca più a controllare la rabbia del suo popolo, i suoi ultrà, i giovani e forse nemmeno parte di coloro che seguivano la sua "via di mezzo"; che i suoi gli rimproverino di "non aver ottenuto nulla" con 30 anni di moderazione. Non il caso di farsi illusioni: l'opinione pubblica cinese, l'armata del fenqing, della gioventù cinese arrabbiata, del nazionalismo ultrà, sta conducendo una campagna senza quartiere, anche via internet, non in difesa dei tibetani ma contro gli attentati all'onore dei figli dell'Imperatore Giallo e contro eventuali ingerenze straniere ai danni della Cina. Ogni intervento che possa essere percepito come pressione anti-cinese rischia di peggiorare la situazione. Peggio: mette in difficoltà anche Hu Jingtao e il gruppo dirigente attuale, il che rende più difficile, se non esclude del tutto, che venga da loro un intervento moderatore.
Pubblicato il: 25.03.08 Modificato il: 25.03.08 alle ore 11.22 © l'Unità.
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« Risposta #21 inserito:: Marzo 28, 2008, 05:15:06 pm » |
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Il Dalai Lama come Sakharov
Mario Soares
Negli ultimi giorni, i giornali e le televisioni di tutto il mondo hanno evidenziato, una volta di più, la figura un po’ enigmatica ma ampiamente rispettata del Dalai Lama. Leader spirituale della comunità buddista del Tibet e, contemporaneamente, Capo di Stato in esilio in India dal 1959, ha visitato in varie occasioni il mio Paese, il Portogallo, dove ho avuto l’occasione di frequentarlo.
Da tempo sento una forte ammirazione per questa singolare ed affabile personalità che la comunità internazionale ha riconosciuto con il Premio Nobel per la Pace nel 1989 e che per molti tibetani ha una natura divina.
Il Dalai Lama ha percorso tutto il mondo in difesa dell’identità del suo popolo. Dietro le sue genuine semplicità e modestia, proprie dei grandi uomini, c’è una volontà d’acciaio e una serena intelligenza, doti costruite in anni di lotta per il controllo di sé stesso e messa interamente al servizio della sua terra e della sua gente. In termini biblici, il suo combattere assomiglia a quello di David contro Golia.
Il Dalai Lama è tornato ad occupare il centro dello scenario mondiale in virtù della ribellione disarmata dei tibetani e della brutale repressione con cui ha risposto il governo di Pechino.
Un grave errore - per usare un eufemismo -, nel momento in cui la Cina si prepara ad ospitare nella sua capitale i Giochi Olimpici del 2008.
Da Dharamsala, sede del suo esilio, il Dalai Lama ha risposto con la sua abituale fermezza, accusando la Cina di «genocidio culturale», un’espressione che è servita a mobilitare le coscienze di tutto il Pianeta. La retorica del governo di Pechino si è limitata a imputargli la responsabilità di aver provocato i disordini con l’intenzione di creare difficoltà per la realizzazione dei Giochi Olimpici. Tranquillamente, il Dalai Lama ha ricordato che, come pacifista, non pensa che il problema del Tibet possa risolversi con la forza, ma attraverso il dialogo, un’opzione che lo colloca in opposizione rispetto al settore estremista tibetano. Persino aggiungendo, con arguzia e ironia, che spera in un normale svolgimento dei Giochi Olimpici di Pechino per «rispetto verso il popolo cinese e per quanto questi giochi possano significare per la loro voglia di libertà». Ascoltando queste sue parole in televisione, mi sono ricordato l’esperienza avuta quando volli conoscere Andrei Sakharov, anch’egli Premio Nobel della Pace (nel 1975) durante un viaggio ufficiale come Presidente del Portogallo in quella che allora era l’Unione Sovietica ai tempi di Mijail Gorbachov e della Perestroika. Il protocollo sovietico mi oppose una enorme quantità di ostacoli per farmi desistere. Insistei, minacciando di interrompere la mia visita. Finalmente, arrivo l’autorizzazione affinché un’auto dell’ambasciata portoghese andasse a prendere Sakharov, una mattina gelida a Mosca, per prendere un caffè con me all’ambasciata.
Quando arrivai all’incontro, la sede diplomatica era circondata dalla polizia sovietica, con uno spiegamento di sicurezza così sproporzionato che fece paura persino al personale dell’ambasciata, in gran parte impiegati delle pulizie e della segreteria e quasi tutti russi e incapaci di dissimulare la loro paura. Arrivarono a mettere sotto assedio l’intero quartiere e le sue vie d’accesso e d’uscita.
Poco dopo arrivo l’auto che portava Sakharov e sua moglie Yelena Bronner. Lui era un uomo alto, tranquillo, con occhio azzurro chiari. Ebbi la sensazione che un raggio di luce attraversasse la nebbia di quella fredda mattina russa. Arrivato alla sala da pranzo, dove lo ricevetti, gli feci segno per avvertirmi che lì con molta probabilità ci sarebbero stati microfoni nascosti. Mi rispose con calma. «Non importa. Loro sanno tutto quel che penso. E sono già abituati». Dopo parlammo di tutto, lungamente, in piena libertà. La forza bruta dell’intimidazione nulla potè contro la coscienza civica di Sakharov.
Traduzione di Leonardo Sacchetti
Copyright Ips
(*) Mário Soares, ex Presidente ed ex Primo Ministro del Portogallo
Pubblicato il: 28.03.08 Modificato il: 28.03.08 alle ore 8.32 © l'Unità.
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« Risposta #22 inserito:: Marzo 31, 2008, 12:50:00 am » |
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L'IRA DI COLDIRETTI
DOPO LA MOZZARELLA, LA CINA PROIBISCE ANCHE LA FRUTTA ITALIANA
La decisione delle autorita' cinesi di sottoporre qualsiasi genere di formaggio prodotto in Italia a esame di laboratorio prima di entrare nel Paese si aggiunge al divieto di inviare nel paese asiatico frutta Made in Italy mentre solo da pochi giorni e' stato possibile esportare alcuni tipi di prosciutti italiani ma esclusivamente da specifici stabilimenti. Lo afferma la Coldiretti nel sottolineare "che la "quarantena" di ventuno giorni imposta dalla autorita' doganali cinesi, che impedisce di fatto l'arrivo nel paese asiatico di mozzarella di bufala campana Dop e di tutti i formaggi freschi a pasta filata, e' solo una degli esempi delle misure protezionistiche adottate dal gigante asiatico nel confronti del Made in Italy che le ripetute missioni diplomatiche non sono riuscite a superare".
Le importazioni in Italia "di prodotti agroalimentari dalla Cina - sottolinea la Coldiretti - superano di quasi sette volte in valore le esportazioni Made in Italy nel paese asiatico anche per effetto dei numerosi vincoli di carattere burocratico, sanitario ed amministrativo, che hanno sino ad ora impedito le spedizioni dei prodotti alimentari nazionali noti e consumati in tutto il mondo". Dopo cinque anni di trattative, da pochi giorni sembra che i primi prosciutti italiani siano riusciti ad arrivare sul territorio cinese che risulta pero' ancora off limits per la frutta italiana come mele e kiwi, per il presunto pericolo della diffusione di parassiti, mentre il grande paese asiatico non solo esporta quantita' sempre crescenti di prodotti ortofrutticoli verso l'Unione europea e l'Italia (mele, aglio, concentrato di pomodoro, castagne, funghi, semilavorati di ortofrutta), ma ha addirittura ha "regalato" negli ultimi anni almeno due insetti dannosi come il Cinipide del castagno che ha distrutto i boschi e l'Anoplophora chinensis che colpisce una vasta gamma di piante ornamentali e non.
"Il risultato - sostiene la Coldiretti - e' un pesante deficit commerciale negli scambi tra Italia e Cina nell'agroalimentare, con la forbice tra il valore delle importazioni e quello delle esportazioni che si e' ulteriormente allargata. Nel 2007 sono quasi triplicate le importazioni di pomodoro concentrato dalla Cina (+163 per cento) per un quantitativo che di 160 milioni di chili che equivale a circa un quarto dell'intera produzione di pomodoro coltivata in Italia. E se il pomodoro in scatola rappresenta circa un terzo del valore delle importazioni nazionali, dalla Cina arrivano anche aglio, mele e funghi in scatola". Peraltro viene dalla Cina l'86 per cento degli oltre 250 milioni di articoli contraffatti sequestrati alle frontiere nell'Unione Europea in un anno che oltre all'abbigliamento, scarpe e i tecnologici di uso comune, riguardano in misura crescente falsificazioni pericolose, cioe' quelle riguardanti generi alimentari, prodotti per la cura personale e medicinali che sono aumentate del 400 per cento in Europa, sulla base delle statistiche doganali pubblicate dalla Commissione europea.
Ad essere venduti come Made in Italy oltre ai derivati del pomodoro sono anche i prodotti alimentari come fagioli e aglio che arrivati in Italia vengono spacciati come prodotti tipici nostrani: dal fagiolo di Lamon all'aglio bianco del Polesine. A questo si aggiunge l'allarme mondiale nei confronti della sicurezza dei prodotti cinesi che ha riguardato ravioli, giochi per bambini, dentifrici, alimenti per cani e gatti, anguille, pesce gatto e conserve vegetali, di fronte ai quali nessuna restrizione e' stata imposta dall'Italia. "Ci sono dunque tutte le condizioni - conclude la Coldiretti - per una seria iniziativa diplomatica che possa contrastare le decisioni assunte e rivedere i rapporti commerciali tra i due Paesi nel senso di un maggior equilibrio".
(AGI) - Roma, 30 mar. -
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« Risposta #23 inserito:: Marzo 31, 2008, 12:51:42 am » |
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Food
MOZZARELLA: CIA, STOP CINA ASSURDO, GOVERNO INTERVENGA
(AGI) - Roma, 29 mar. - Il blocco da parte della Cina delle importazioni di mozzarelle di bufala italiane "e' incomprensibile e non ha alcuna motivazione, visto anche il via libera dell'Unione europea e il ritiro del provvedimento di "fermo" del Giappone".
Lo sostiene la Cia-Confederazione italiana agricoltori per la quale la decisione di Pechino, che si aggiunge ad un'analoga decisone da parte di Singapore, "ha dell'assurdo anche perche' va ad interessare tutti gli altri formaggi "made in Italy" i quali devono essere sottoposti i a test di laboratorio prima di che sia consentito il loro ingresso in Cina. Abbiamo il sospetto - avverte la Cia - che tale misura abbia veramente poco a che fare con l'aspetto salutistico dei prodotti. E' strano che proprio la Cina adotti una misura del genere, quando proprio dal paese asiatico arrivano su tutti mercati del mondo prodotti "taroccati" che provocano pesanti conseguenze a moltissimi marchi di qualita', soprattutto nel settore dell'agroalimentare.
In Italia di questi "falsi" ne arrivano tantissimi e la conferma viene dai sequestri dove il "made in China" occupa da tempo il primo posto nella graduatoria. Il provvedimento del governo cinese - avverte la Cia - rischia, quindi, di chiudere le frontiere al nostro agroalimentare e di provocare ulteriori danni che si vanno ad accumulare a quelli che in questi giorni ha subito il settore della mozzarella di bufala".
La Cia chiede quindi al governo "di intervenire immediatamente a tutela delle produzioni agroalimentari italiane e di compiere i dovuti passi in sede d'Unione europea per adottare tutte le misure necessarie contro una decisione, quella cinese, che non ha alcun fondamento". (AGI)
da agi.it
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« Risposta #24 inserito:: Aprile 01, 2008, 12:01:20 am » |
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Lontani dalla Cina Maurizio Chierici «I valori dello sport aiutano la pace» parole che accompagneranno tv e giornali fino all’ultimo giorno delle olimpiadi di Pechino. «I Giochi servono a stimolare la democratizzazione e il rispetto per i diritti umani», Jacques Rogge, presidente del comitato olimpico ripassa le buone intenzioni. È d’accordo lo scrittore Alberto Bevilacqua: le Olimpiadi rappresentano la spiritualità dello sport. Eppure nessuna voce riesce a spiegare cosa sono questi valori e quale spiritualità possono aiutare mentre la Cina ripulisce le città da «teppisti e teste calde»: migliaia e migliaia in marcia verso i campi di rieducazione. Forse torneranno a casa a giochi fini. Forse. Non è una novità che lo sport prova a nascondere politica e affari con l’ipocrisia di una distensione che non c’è. Giocare nello stadio di Santiago ridotto da Pinochet a lager di prigionieri «politici» ammassati come animali e torturati negli spogliatoi, colpo alla testa e corpi uno sull’altro come pezzi di legno, in quale modo ha aiutato i cileni a liberarsi della dittatura? Per invogliare Pinochet alla democrazia, le nazionali dei paesi democratici hanno continuato a giocare nello stadio degli orrori finché le vittime si sono arrangiate da sole rimpicciolendo l’oppressore dopo 17 anni di partite internazionali. Ho ascoltato per la prima volta la favola dei «valori dello sport» nella notte bianca di martedì 5 settembre 1972, Monaco di Baviera. Olimpiadi sconvolte da un commando palestinese. Otto uomini incappucciati avevano preso in ostaggio atleti e massaggiatori israeliani per svegliare la disattenzione che avvolgeva (e avvolge) la vita amara di milioni di profughi. Non hanno risvegliato niente. Il dramma continua malgrado la buona volontà di pacifisti inascoltati: scrittori, intellettuali arabi ed ebrei, ma anche della vecchia Europa e dell’America che predica bene mentre riempie gli arsenali. I protagonisti della tragedia di Monaco sono stati uccisi 21 ore dopo. Gli infallibili cecchini della polizia tedesca non hanno fatto differenze tra aggressori e ostaggi fulminati dalla terrazza dove prendevano la mira. Avevano fretta. L’incidente andava subito chiuso: l’olimpiade non poteva fermarsi. Due giorni senza gli elastici bianchi e neri che bruciavano vecchi record sembravano insopportabili. Rinchiusi nelle sale stampa sterilizzate, feltri sintetici e ragazze-bambola ben pettinate, ben profumate, sorrisi del tutto va bene, noi che dovevamo raccontare aspettavamo notizie. Centottanta giornalisti ad ogni piano, angosciati perché le ore passavano e i giornali dovevano chiudere e i direttori si arrabbiavano: siamo sicuri che la concorrenza non sa cosa è successo? Raccoglievamo solo le prediche delle autorità. Fermare l’olimpiade diventava un sacrilegio che avrebbe stimolato nuove catastrofi. I valori dello sport riappacificano i popoli ripiegando odio e terrorismo. Guai abbassare i riflettori. Di ora in ora, un discorso dopo l’altro e i poveretti stretti tra i fucili scivolavano nell’oscurità delle comparse che in fondo davano fastidio. Sapete quanto abbiamo speso per stadio nuovo e villaggio olimpico? Miliardi da capogiro. Da riguadagnare coi palazzoni in vendita appena si spegne la fiamma. Se perdiamo i diritti delle tv la voragine del debito farà tremare la nostra economia. Questo non ci interessa, rispondevano dalle redazioni di ogni giornale. Sono morti o sono salvi? Quanti morti, quanti feriti? Insomma, la notizia. Dei palestinesi e di Israele magari parleremo appena si ricomincia a correre. Tra mezzanotte e le cinque del mattino scopro cosa c’era sotto il cerone malinconico che allungava le facce dei bavaresi. Non solidarietà umana, né pena per l’innocenza degli ostaggi, tantomeno comprensione per la follia di disperati che non avevano niente da perdere dopo il settembre nero di Amman quando re Hussein aveva rovesciato il fuoco del suo esercito sulle baracche nelle quali sopravvivevano palestinesi da mezzo secolo cittadini giordani. Il lamento non veniva solo dai politici che vedevano sfumare la grandeur del grande spettacolo, o dagli imprenditori che perdevano il grande affare. Anche bottegai, ristoranti, alberghi, spacciatori di souvenir, fabbricanti di birra e le scarpe, e le magliette, profumi e automobili, pubblicità da riversare negli spot del mondo, battevano i denti immaginando il crac. Chiudere l’olimpiade cinque giorni prima voleva dire compromettere la contabilità sognata dalla folla che giocava con la pelle degli altri come si gioca in borsa. Avevano torto o ragione? A loro modo, ragione. Ma era la ragione del tornaconto che si contrapponeva alla vita di nove persone prigioniere nel blocco 31, palazzina bassa fra le torri di calcestruzzo della nuova Monaco che doveva sfavillare. Il ministro bavarese Merk passa da un piano all’altro per distribuire ai giornalisti la sua rabbia: «Cosa sperano i terroristi? La pagheranno e la pagheranno cara... ». E cosa può sperare un giovanotto che è nato ed abita in un campo profughi, pattumiere di città che non lo vogliono e non sopportano altri ottocentomila accampati come lui? Arriva la conferma: tutti morti. Devono passare sei ore per capire chi ha sparato, ma alle nove del mattino finalmente lacrime di coccodrillo e bella notizia. L’olimpiade continua. Si ricomincia a correre e a saltare perché l’olimpiade è «la festa della gioventù». Cerco fra gli atleti un’ombra di sdegno. Sono agitati da altri pensieri. «Mi alleno da tre anni; una tragedia tanta fatica per niente... ». I Giochi riaprono coi pachistani appena usciti dall’agonia della guerra. Nella finale dell’hockey sul prato dovevano vedersela con l’India, quasi la rivincita delle battaglie perdute. Come potevano rinunciare? E gli americani del black power cosa faranno? Corrono, vincono: il gesto coraggioso dell’alzare il pugno verso la bandiera fa capire che sotto i muscoli batte un cuore generoso. Un po’ di noi scriveva così. E appena la fiamma si spegne, la retorica dolciastra unge ogni parola: valori dello sport, coraggio dell’affrontare gli ostacoli senza arrendersi ai ricatti. Con l’inno che suona, la conferma solenne: Olimpiadi simbolo di pace e di fraternità. Quattordici anni prima, olimpiade a Città del Messico, la polizia aveva sparato sugli studenti: 400 morti alla vigilia della prima gara, per fortuna telecamere non disturbate dal sangue e dai corpi trascinati nell’asfalto. Insomma, bella festa dello sport. Otto anni dopo gli Stati Uniti non vanno a correre a Mosca perché la Russia ha invaso l’Afghanistan. E la Russia si vendica nell’olimpiade che viene dopo: nessun atleta dell’arcipelago Est a Los Angeles perché Salvador e Nicaragua sono le colonie insanguinate del grande vicino. Se oggi i morti della Cecenia, Iraq, Afghanistan (un’altra volta) contassero come i morti di qualche anno fa, a Pechino salterebbero in pochi. Ma i Tg che raccontano le guerre e i giornalisti embedded hanno abituato le famiglie a non impressionarsi troppo. Vittime svalutate. E poi la Cina moderna è il paese del prodotto lordo che scavalca Wall Street. Ripiega nel suo portafoglio un terzo del debito di Washington. Quando Pechino ha il raffreddore, i nostri mercati tremano. Chi se la sente di pestare i piedi alla tigre dell’Asia, un miliardo e trecento milioni di clienti? Anche perché, diciamo la verità, il Tibet è un bel paese per fare trekking, e mettersi in posa fra i monaci buddisti, stupendi figuranti nelle foto delle vacanze, ma val la pena mettere in dubbio i valori dello sport per una piccola repressione nel piccolo tetto del mondo? Le proteste devono restare educate con qualche asprezza diplomatica a proposito delle immagini dure che sconsiderati reporter distribuiscono al mondo: «abbiamo l’impressione che state esagerando». Ma Bush brillerà in tribuna d’onore quando si aprirà il velario e quattro miliardi di sportivi saranno incollati alla tv. Un gol e uno spot, colpo di fioretto e altro spot. Ogni telecamera si incanterà davanti al ponte più lungo, all’aeroporto sterminato o allo stadio più lunare del mondo. In fondo spiace per il Dalai Lama, tanto garbato. Continui pure a pregare, prima o poi anche il Papa lo riceverà, ma più di così non si può fare: non sarebbe conveniente. mchierici2@libero.itPubblicato il: 31.03.08 Modificato il: 31.03.08 alle ore 9.23 © l'Unità.
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« Risposta #25 inserito:: Aprile 03, 2008, 05:07:15 pm » |
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Dalai Lama: sono pacifista ma la Cina cessi le violenze
Marco Dolcetta
Ho avuto occasione di parlare ieri con il Dalai Lama che mi ha risposto telefonicamente dall’India. Pochi mesi fa ho fatto avere alla sua segretaria una serie di incunaboli tibetani del II e III secolo d.C. che avevo, più di tre anni fa, ricevuto in dono da Heinrich Harrer, lo scalatore austriaco che conobbe negli anni 40 e 50 il Dalai Lama. Parte della loro amicizia è stata raccontata nel romanzo e nel film «Sette anni in Tibet». Harrer è stato interpretato da Brad Pitt. Lo incontrai ultranovantenne sulle montagne austriache che ricordavano le vette tibetane avendo lui ricreato là un monastero buddista. All’interno del monastero erano conservati diversi antichi testi del tantrismo tibetano che gli furono donati dai monaci tibetani che lo avevano ospitato vicino a Lhasa in monasteri fino alla primavera del 1951, data dell’invasione cinese. Ritenendo io di non essere in grado di utilizzare al meglio questi preziosi testi, ho ritenuto opportuno farli ritornare a «casa» dal legittimo proprietario che sicuramente avrebbe saputo utilizzarli al meglio. Inizia così il nostro colloquio telefonico con le rituali frasi di ringraziamento e di saluto, dopodiché passo a fargli le domande sull’attuale situazione in Tibet. Proprio ieri infatti il Dalai Lama ha lanciato un nuovo appello alla comunità internazionale perché ponga fine al «giro di vite» messo in atto dalla Cina nel Tibet in seguito all'ondata di manifestazioni per ricordare la sollevazione anticinese del 1959.
Santità, negli ultimi giorni la situazione in Tibet è peggiorata drasticamente, cosa è successo?
«La violenza è iniziata con delle manifestazioni di protesta pacifiche in tante località tibetane e nella capitale Lhasa. La rabbia viene dal profondo del cuore e ha le sue radici nell’amarezza del mio popolo causata dalla occupazione cinese. Il governo centrale cinese sa che così non si può andare avanti con questa pressione, non ci sarà mai una stabilità nella mia patria, e in questo modo non arriveremo mai a una soluzione sostenibile e conveniente per tutti».
Lei si è sempre definito un non violento e ha sempre contrastato la violenza. Anche in questo momento lei rimane di questa opinione?
«Questa è sempre stata la mia posizione, lo è oggi e lo sarà per sempre. Io sono un pacifista. Scongiuro i miei confratelli di non rifugiarsi nella violenza, ma mi appello soprattutto al governo cinese affinché le forze dell’ordine cessino di usare la violenza e facciano dei tentativi seri per avviare un dialogo costruttivo con il mio popolo. Soltanto così può essere superata l’avversione dei tibetani nei confronti dei cinesi».
In seguito ai recenti avvenimenti in Tibet e in India molte persone hanno lanciato l’appello di boicottare i Giochi olimpici che quest’anno si terranno in Cina. Lei no. Qual è la sua posizione oggi rispetto agli ultimi avvenimenti?
«Mantengo la mia opinione. Ho sostenuto fin dall’inizio che la Cina merita i giochi olimpici. Si tratta di una grande nazione. Lo ammetto, all’inizio anche io ho considerato la possibilità del boicottaggio. In seguito però ho capito che aumenterebbe i problemi invece di produrre delle soluzioni».
La sua decisione dipende forse dal fatto che così facendo spera di ottenere qualche concessione da parte del governo cinese?
«Assolutamente no. La mia posizione rispetto ai giochi olimpici viene direttamente dal cuore. Inoltre, il governo cinese non fa nessun tipo di concessione, come può constatare. Tempo fa, ho incontrato un ragazzo tibetano che conosceva a stento la sua lingua madre. Mi spiegò che le autorità cinesi non ritenevano necessaria la sua conoscenza e lo studio della lingua tibetana poiché non gli sarebbero servite a nulla per il suo futuro».
Lei una volta ha detto che il 21° secolo sarebbe stato il secolo della pace. Non sembrerebbe. Cosa è andato storto?
«Attenzione, ci vada piano! Sono passati solo 8 anni, ne rimangono ancora 92. Aspettiamo che passino prima di dare un giudizio. Posso ancora avere ragione. L’aumento della spiritualità alla fine del 20° secolo ha prodotto dei semi molto potenti. Il seme sboccerà e le guerre avranno fine perché sono completamente inutili. Esistono delle avvisaglie positive che preannunciano una nuova era. Il disarmo atomico è una grande fortuna. Dobbiamo impegnarci affinché questo secolo diventi il secolo del dialogo. La pace non significa non avere problemi, i problemi ci saranno sempre. Dobbiamo semplicemente affrontarli senza violenza, perché la violenza produce altra violenza e altro dolore. Diventa un circolo vizioso e diabolico».
Per Lei, la religione è un mezzo per arrivare alla pace. La stessa fede non può essere utilizzata anche come pretesto per opprimere il popolo?
«La religione aiuta sempre, se si impiega in maniera giusta e seria. Un amico ebreo disse una volta ai suoi alunni in una scuola di Gerusalemme: “Se un giorno incontrerete qualcuno che detestate, ricordatevi che egli è l’immagine di Dio”. Qualche tempo dopo, un suo alunno palestinese gli raccontò che fu esattamente quello il suo pensiero quando vide un posto di blocco israeliano e lui si rese conto di non detestare più quei soldati. La religione è utile se è buona e tollerante e se insegna comprensione e perdono. Purtroppo esistono molte persone che manipolano e sfruttano la fede per altri scopi. Questo vale per qualsiasi religione ed è sempre pericoloso».
Pubblicato il: 03.04.08 Modificato il: 03.04.08 alle ore 8.26 © l'Unità.
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« Risposta #26 inserito:: Aprile 06, 2008, 11:59:07 pm » |
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ESTERI
Il reportage / A McLeod Ganj, casa indiana del Dalai Lama, le istantanee della rivolta di Lhasa che hanno aggirato la censura
In India il Muro della vergogna le foto segrete dell'orrore in Tibet
Gli scatti provano la repressone: cadaveri e corpi deformati dalle botte dei militari
dal nostro inviato DANIELE MASTROGIACOMO
DHARAMSALA - Le foto sono sbiadite, i colori spenti, le figure sgranate. Le hanno immortalate con il cellulare, tra le vie, gli anfratti, le case anonime di Lhasa: scatti frettolosi, rubati, mentre i reparti speciali della polizia e l'esercito cinese davano la caccia ai feriti e portavano via i morti della rivolta. Adesso sono lì, prove crude e concrete; per un mondo che prima inorridisce, s'indigna, condanna e poi, sommessamente, chiude gli occhi e rimuove, schiacciato dagli interessi economici, deciso a non alterare gli equilibri geopolitici di un'area che resta e deve restare immutata. Corpi nudi, di uomini. Corpi deformati dai colpi, dalle percosse, le bocche chiuse in una smorfia che non sai se attribuire al dolore o all'ultimo respiro di un'agonia infinita.
Cadaveri distesi pieni di sangue rattrappito, i fori dei proiettili all'altezza del viso, del petto, dei fianchi, delle gambe, della schiena, della testa. Qualcuno ha avuto la forza e il coraggio di spedirli ad altri cellulari, a siti sicuri e protetti del web in una corsa contro il tempo. Prima del black-out, dei ripetitori disattivati, del blocco delle linee telefoniche, delle tv oscurate, delle retate porta a porta, nei monasteri, nelle università, negli alberghi, negli ospedali. Prima degli arresti e del cerchio di acciaio e piombo che ha sigillato l'intero Tibet.
Le foto, stampate come un manifesto, campeggiano su un filo di naylon teso sopra il cancello d'ingresso del "Tsuglakhang complex", la residenza ufficiale in esilio del Dalai Lama immersa nel cuore di McLeod Ganj, India del nord, il villaggio-simbolo del Tibet in fuga abbarbicato sul costone di una montagna che si arrampica verso la catena dell'Himalaya. Quaranta uomini e quaranta donne del villaggio, seduti in due distinti recinti, gli uni di fronte alle altre, proseguono da tre settimane lo sciopero della fame e della sete.
Si danno il cambio ogni 12 ore. Cantano a voce bassa, pregano, sollevano provati le dita della mano in segno di vittoria. Le voci si affievoliscono con il passare delle ore, i corpi si distendono, qualcuno crolla tra coperte e giacche, teli, cartelli con gli slogan, incensi che bruciano. Davanti ondeggiano le foto, sospinte da folate di vento gelido che scende dalle vette innevate dell'Himalaya. Sono un pugno allo stomaco. Centinaia di persone le osservano, le fotografano, le filmano, le studiano da vicino. Chi per riconoscere un familiare, un amico, un conoscente.
Chi soltanto per inorridire di fronte ad una mattanza che difficilmente troverà giustizia. Nonostante le proteste di mezzo mondo, pochissimi paesi hanno insistito per sapere la verità. Il mitico "Shangri-là", il tetto del mondo, la terra nella quale il buddismo, simbolo di pace e di tolleranza, affonda le sue radici, resta chiuso agli stranieri e ai turisti cinesi. Bisognerà attendere il primo maggio, festa dei lavoratori, data scelta da Pechino con chiara valenza politica, per capire e vedere con i propri occhi cosa sta veramente accadendo dal 10 scorso a Lhasa e nelle province vicine di Sichan, Gansu e Qinghai.
Attraverso il segretario del partito comunista del Tibet, la Cina ha annunciato che da quel giorno la regione centroasiatica riaprirà i battenti al mondo. Perché l'industria turistica ha risentito del blocco e perché Pechino vuole presentarsi a testa alta all'appuntamento con le Olimpiadi di agosto.
Le voci che giungono qui raccontano di carri armati schierati nei principali incroci di Lhasa, di monasteri ancora chiusi e assediati, di pattugliamenti incessanti su tutte le strade e di elicotteri che volteggiano in cielo pronti a mitragliare il primo assembramento sospetto. Non sappiamo se sia vero. Sappiamo solo ciò che raccontano le testimonianze raccolte e riproposte ogni giorno a McLeod Ganj durante il corteo che si snoda lungo le vie del villaggio per tenere accesa l'attenzione sul Tibet.
Storie che si assomigliano tutte, per l'orrore che svelano e per il terrore di chi le racconta. Il tempo, però, tende a smorzare i sentimenti. Più passano i giorni più l'appuntamento delle sei del pomeriggio, un pellegrinaggio di monaci, sostenitori, turisti, ragazzi e ragazze venuti da ogni angolo del pianeta, le candele accese, bandiere tibetane, preghiere e slogan, sembra un rito stanco. Un ragazzo, armato di megafono, passa per tutte le vie del villaggio e invita la gente a radunarsi.
L'appello è accolto, più per forma che per sostanza. E ogni giorno la folla dei primi momenti, quando questa fetta di Tibet in esilio si radunava in massa, chiudeva negozi, bar e ristoranti e gridava la sua rabbia mista al dolore, si assottiglia sempre di più.
Resistono l'orgoglio di un popolo defraudato della sua terra, il desiderio di verità e di giustizia, una solidarietà diffusa, istintiva. Ma in giro si respira un sentimento di impotenza. Per ben quattro volte, negli ultimi dieci giorni, i vertici di India e Cina si sono sentiti al telefono: Pechino ha chiesto a New Delhi garanzie sul percorso della fiaccola olimpica che il 17 aprile passerà nella capitale e ha sollecitato una presa di posizione più decisa sul tema del Tibet.
Il premier Manmohan Singh si è detto contrario al boicottaggio dei Giochi e ha sollecitato il Dalai Lama a non svolgere alcuna attività politica anticinese fino a quando sarà ospitato. Perfino il gesto di Baichung Bhutia, capitano della nazionale di calcio indiana, considerato una vera star per aver diffuso il football in un paese che vive solo per il cricket, è caduto nel vuoto. Ha respinto l'invito a portare la fiaccola quando passerà a New Delhi. Ma è rimasto solo. Nessuna delle altre 50 celebrità dello spettacolo e dello sport coinvolte nell'operazione politico-diplomatica si è tirata indietro. Ammir Khan, stella di Bollywood a cui si era appellato lo Tibetan youth congress, si è detto "orgoglioso" di alzare la fiamma olimpica. "Nessuno rifiuta", ha motivato, "non vedo perché l'India dovrebbe rinunciare a questo onore".
Sorride nervoso il presidente della Tibetan youth congress, Tsewang Rigzin: "Da un punto di vista religioso rispettiamo le opinioni del Dalai Lama ma sul piano politico siamo favorevoli al boicottaggio. Far passare per Lhasa e piantare sulla cima dell'Everest la fiaccola è un gesto politico, non sportivo".
Anche la gente di McLeod Ganj non si rassegna. Ma la vita deve ricominciare. Riaprono i negozi, gli alberghi, i bar, le sale da tè, i ristoranti. I turisti di sempre arrivano giorno e notte, con gli autobus carichi all'inverosimile, i taxi traballanti, i treni colmi di passeggeri. Un fiume umano di donne, uomini, spesso giovanissimi, che qui cerca la soluzione ai propri affanni. Con corsi di filosofia tibetana, di magia, di massaggi, di lingua, di astrologia, di yoga e di meditazione. Tra nobile volontariato, bonzi fuggiti da un inferno, qualche cialtrone e i soliti approfittatori. La gente segue, studia, partecipa. S'immerge fino al collo in questo ambiente, rispettando alla lettera valori e usanze. Sveglia all'alba, niente alcol, fumo e cibo solo vegetariano. C'è chi rimane un mese, chi un anno, chi il resto dei propri giorni. Vanno e vengono. La comunità tibetana vive anche su questo. Sognando, da mezzo secolo, di tornare un giorno a casa.
Gruppi di ragazzi si allenano correndo sulle strade in salita del paese, altri si riscaldano con esercizi sulle terrazze dei campi coltivati a grano. Forse pensano alle Olimpiadi. Quelle vere, libere. Con la bandiera gialla, blu e rossa del Tibet che garrisce al vento.
(6 aprile 2008)
da repubblica.it
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« Risposta #27 inserito:: Aprile 08, 2008, 05:54:44 pm » |
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Quando il mondo si fa sentire
Luigi Bonanate
La fiaccola olimpica deve fare ancora 130.000 chilometri: se ogni sua tappa sarà come quelle di Londra e Parigi c’è da temere che non arriverà mai a Pechino per incendiare il braciere olimpico che deve ardere nel periodo delle gare. Rischia invece di incendiare le opinioni pubbliche di quei paesi ai quali il Comitato, scegliendo la Cina come sede olimpica, intendeva mostrare i progressi civili e sociali di quell’immenso e appetibilissimo Paese. Inizia ora una specie di calvario lungo ancora 130 giorni di viaggio: altro che il giro del mondo in 80 giorni di Jules Verne! Questo inutile circuito mediatico della fiaccola mira(va) a suscitare simpatia per lo spirito olimpico, che doveva a sua volta veicolare la benevolenza verso un grande Paese che sta rinnovando profondamente la sua pelle, che sta preparando un’accoglienza turistico-spettacolare che non ha precedenti nel mondo, e proprio nel Paese che un tempo si era costruito una Grande muraglia per starsene al sicuro al di là! Naturalmente le buone intenzioni degli organizzatori erano rivolte, nello stesso tempo, anche al tentativo di liberare la popolazione da certe strettoie.
Strettoie nelle quali un governo comunista/capitalista (un bel nodo!) cerca di tenere sotto controllo uno sviluppo sociale, economico e produttivo talmente impetuoso che potrebbe rivelarsi uno tsunami per chiunque cercasse di incanalarlo e regolarne il flusso. In altri termini, la Cina oggi è di fronte all’alternativa tra repressione (anche se non siamo più ai tempo dello stalinismo, né a quelli di Pol Pot) e liberalizzazione (che potrebbe rivelarsi incontrollabile travolgendo ogni governo).
La prima soluzione ha suscitato l’opposizione dell’opinione pubblica contro quei governi che vedono nella Cina uno straordinario grande magazzino nel quale tutto si può vendere e tutto si può comprare. La liberalizzazione, che è la seconda alternativa, farebbe felici tutti noi, ma creerebbe una tensione politico-sociale in Cina ingestibile dall’attuale potere, che quindi se ne tiene ben lontano. L’ha dimostrato, purtroppo, con una chiarezza che non teme smentite, con la repressione in Tibet, tanto scomposta e brutale quanto simbolica ed esemplare, avvisando tutto il mondo (ivi compresa la parte di osservanza cinese) che la Olimpiadi non potranno a nessun titolo essere trasformate in una tribuna internazionale dei diritti umani.
I dirigenti cinesi forse non sanno però che lo sport è politica (ricordate quando il mito della superiorità socialista era incarnato negli anabolizzati atleti della DDR che vincevano quasi tutto, ma morivano pochi anni dopo?), ma neppure che intrecci perversi e anche violenti tra Olimpiadi e politica hanno già seminato morte e devastazione. Basta il ricordo di Monaco 1972 per farci rabbrividire; ma anche Mosca 1980, se pensiamo che quell’Olimpiade fu boicottata dai Paesi occidentali (Italia esclusa) per condannare davanti all’opinione pubblica mondiale l'invasione sovietica dell’Afghanistan. Sembra preistoria... E ora, siamo di fronte a una suggestiva novità: di fronte ai vari governi, da quello cinese a quelli di Paesi come la Francia che promettono di partecipare ai giochi ma fingono di porre delle condizioni, si erge, con una carica di pura e semplice verità, un movimento d’opinione popolare che, di capitale in capitale, ripete la sua scoperta: gli “abiti nuovi dell’imperatore” non solo non sono nuovi, anzi non li ha neppure addosso. Sta succedendo in altri termini che la contestazione, sostanzialmente pacifica (e speriamo rimanga tale), mette in mora i governi che speravano di arrivare fino ad agosto in incognito, per così dire, facendo finta di niente; gli atleti si preparano, i dirigenti prenotano i biglietti, e poi via tutti ai Giochi.
I manifestanti stanno rompendo le uova nel paniere anche alla Cina, alla quale diventa ogni giorno più difficile tenere tutto nascosto. Dopo il Tibet, ora li aspetta un tragitto di più di centomila chilometri con 21 tappe, ciascuna delle quali può trasformarsi nel palcoscenico della contestazione della Cina e della volontà occidentale di andare ai Giochi: insomma, rischia di venirne fuori un’immensa frittata. Ma essa ci dice anche una cosa interessantissima: al black-out che la Cina si ostina a estendere a tutto il Paese fa riscontro una crescente apertura mediatica planetaria, che mostra quella è che la straordinaria forza comunicativa che le pubbliche opinioni, quando spontanee, sincere e non organizzate, hanno: esse sono la democrazia in cammino. Che cosa altro è la democrazia se non quella circostanza che vede in piazza (nella agorà greca) i cittadini (del mondo) che civilmente, ostinatamente, vivacemente espongono le loro critiche al proprio governo, a quello degli altri Paesi e anche a quello della Cina?
Un movimento democratico come questo potrebbe venir contrastato dalla Cina e dai governi dei principali Paesi con l’argomento della sicurezza: i disordini metterebbero in difficoltà gli Stati partecipanti, priverebbero di spontaneità e di gioiosità le varie gare, che dovrebbero venire blindate, nel timore di attentati, contestazioni, manifestazioni rivolte alla società cinese e non ai suoi Giochi. Insomma, non vorrete mica che l’opinione pubblica rovini i Giochi? Ma quando è in azione, la democrazia è irrefrenabile. Potremmo scoprire un bel paradosso: quanto più la Cina cercherà di calmare le acque aiutata dai governi occidentali, tanto più l’opinione pubblica internazionale si mobiliterà e alzerà la sua voce. Fino a farla sentire anche ai cinesi...
Pubblicato il: 08.04.08 Modificato il: 08.04.08 alle ore 8.31 © l'Unità.
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« Risposta #28 inserito:: Aprile 10, 2008, 03:59:19 pm » |
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ESTERI
Il Comitato esecutivo: Olimpiadi in crisi ma ne usciremo
Appello a Pechino sull'impegno "morale" a migliorare la situazione
Dalai Lama: autonomia per il Tibet
Cio: Cina rispetti impegni sui diritti
Per il leader spirituale i tibetani hanno diritto a protesta non violenta
PECHINO - Dopo aver superato pressoché indenne anche la tappa californiana, la fiaccola prosegue il suo viaggio verso Buenos Aires, dove sfilerà domani. Il Dalai Lama, che invece è in viaggio verso gli Stati Uniti, oggi ha fatto una breve sosta in Giappone dove ha detto che i tibetani hanno diritto a una protesta non violenta e ha chiesto nuovamente autonomia per il Tibet, pur riconoscendo che il popolo cinese merita le Olimpiadi. Intanto il Cio ammette la crisi in corso ma ribadisce che malgrado il percorso ostacolato nulla spegnerà la fiamma, e la torcia olimpica andrà avanti nel suo giro intorno al mondo. Il presidente del Cio, Jacques Rogge, ha ammesso la crisi in corso ma ha esortato gli atleti a non perdere la fiducia, e ha rivolto un appello alla Cina perché rispetti l'impegno "morale" a migliorare i diritti umani prima dell'Olimpiade.
Tokyo, nuovo appello del Dalai Lama. Il leader spirituale tibetano è arrivato oggi in Giappone, per una breve sosta nel suo viaggio alla volta di Seattle, in Usa, dove ha in programma una serie di conferenze sulla spiritualità. "La mia visita negli Usa non ha alcun valore politico" ha detto il Dalai Lama durante la conferenza stampa in un albergo presso l'aeroporto Narita, a pochi chilometri da Tokyo. Il Dalai Lama ha poi lanciato un nuovo appello per l'autonomia del Tibet dichiarando che il popolo cinese merita le Olimpiadi ma che i tibetani hanno diritto di protestare in maniera non violenta.
Senza incidenti la marcia a San Francisco. Si è conclusa senza incidenti ma con un significativo cambiamento di programma la tormentata tappa americana della fiaccola olimpica. Le autorità di San Francisco, che avevano deciso di modificare più volte il percorso della staffetta, hanno annullato la prevista cerimonia di chiusura organizzata nella Baia, sostituita da un'altra all'aeroporto, prima della partenza per Buenos Aires, settima tappa in programma domani. Intanto, dopo l'appello di Hillary Clinton, anche Barack Obama, candidato alla nomination democratica alla Casa Bianca e senatore dell'Illinois, ha detto che il presidente Usa, George W. Bush, dovrebbe boicottare la cerimonia d'apertura dei Giochi se la Cina non rivedesse la sua posizione sia per quanto riguarda il Tibet, sia il sostegno cinese al Sudan in relazione alla situazione in Darfur.
"Olimpiadi in crisi ma ne usciremo". Il presidente del Comitato olimpico internazionale (Cio), Jacques Rogge, si è rallegrato dell'esito della staffetta a San Francisco, dove è andata meglio rispetto a Londra e Parigi, ma ha aggiunto "non è stata la gioiosa festa che speravamo di vedere". Rogge ha poi confermato che non è "assolutamente in agenda" l'ipotesi di eliminare tappe dal periplo mondiale della fiaccola olimpica. Al termine di un incontro tra l'Associazione dei comitati olimpici nazionali e il consiglio esecutivo del Cio, Rogge ha ammesso che le Olimpiadi sono "in crisi", ma ha invitato i dirigenti sportivi a rassicurare gli atleti sul successo delle prossime Olimpiadi. "Dite loro - è stato l'appello di Rogge, - che, a dispetto di quanto hanno visto e sentito, i Giochi saranno bene organizzati. Dite loro di non perdere la fiducia, ci riprenderemo da questa crisi".
Cio: la Cina ha rispettato impegni sui diritti civili. La Cina ha preso solo un "impegno morale" sui progressi nel campo dei diritti umani al momento dell'assegnazione dei Giochi Olimpici del 2008 a Pechino. Il presidente del Cio, Jacques Rogge, ha ricordato che il governo cinese, quando chiese di poter ospitare le Olimpiadi, assicurò che avrebbe "migliorato la situazione sociale, compresi i diritti umani". "Direi che si tratta di un impegno morale più che giuridico" ha precisato, "ma chiediamo davvero alla Cina di rispettare questo suo impegno etico". Impegno che è stato "sostanzialmente rispettato", ha detto Rogge citando come esempio la nuova e relativamente liberale legge sulla stampa straniera varata all'inizio del 2007. Rogge ha aggiunto di "essere al corrente del fatto che oggi la legge non viene applicata e che quattro province cinesi, tra cui il Tibet, sono chiuse alla stampa e a tutti gli osservatori indipendenti. Lo abbiamo fatto presente al governo cinese", ha dichiarato, "che ha risposto che risolverà il problema il più preso possibile".
Pescante chiede a Cio "parole chiare". Secondo Mario Pescante, uno dei due membri italiani del Comitato esecutivo, il Cio deve dire una parola chiara sulla situazione dei diritti umani in Cina. "Non si tratta di boicottaggio, al quale sono contrario ma se ci sono comportamenti non conformi a un evento sportivo della portata delle Olimpiadi il Cio dovrebbe dire qualcosa". L'orientamento del presidente del Cio Jacques Rogge, appare diverso. Nelle riunioni preparatorie, ha sottolineato Pescante, solo i rappresentanti dei Comitati olimpici europei hanno sollevato il problema. "Non possiamo fare molto, possiamo solo dire delle parole, ma le parole hanno un peso. E questo silenzio - ha concluso Pescante - è rumoroso".
(10 aprile 2008)
da repubblica.it
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« Risposta #29 inserito:: Aprile 12, 2008, 10:40:19 am » |
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24ORE - ESTERI
Tibet, la Cina avverte "E' una questione interna"
PECHINO - Mentre la fiaccola di Pechino 2008 ha lasciato indenne Buenos Aires diretta in Tanzania, il presidente cinese Hu Jintao ha affermato che la questione tibetana è un affare interno che ha a che vedere con il separatismo e non con il rispetto dei diritti umani.
"Il nostro conflitto con la cricca del Dalai non è un problema etnico nè religioso nè di diritti umani", ha affermato Hu nel ricevere il primo ministro australiano, Kevin Rudd, "E' un problema di salvaguardia dell'unità nazionale o di divisione della patria".
Parlando per la prima volta della questione tibetana dalla rivolta iniziata il mese scorso, Hu ha aggiunto: "Nessun governo responsabile se ne starebbe con le mani in mano di fronte a tali crimini che violano i diritti umani, turbano gravemente l'ordine pubblico e compromettono gravemente la vita e la sicurezza della proprietà delle masse".
(12-04-2008)
da repubblica.it
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