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Autore Discussione: CINA -  (Letto 23739 volte)
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« inserito:: Luglio 29, 2007, 06:38:37 pm »

ESTERI

Politici e super-ricchi fanno a gara a collezionare amanti: un costume che fu già degli imperatori e di Mao.

Ma il regime lancia una campagna di moralizzazione

Cina, il ritorno delle concubine sesso e corruzione per i nuovi potenti

dal nostro corrispondente FEDERICO RAMPINI


 PECHINO - La videocamera del casinò di Macao riprende l'anziano vicepresidente del Parlamento cinese, Cheng Kejie, mentre punta migliaia di dollari alla roulette. A fianco ha una vistosa bellezza di 45 anni, Li Ping, il cui ampio décolleté mette in mostra una sovrabbondanza di gioielli. Tutti quei soldi che il politico rovescia sul tappeto verde, e quelli che ha investito per decorare il corpo della sua amante, sono stati sottratti illecitamente dalle casse della Repubblica popolare.

Grazie alla confessione della donna, Cheng viene condannato a morte e giustiziato poco tempo dopo. La signorina se la cava con una pena di carcere più modesta per aver collaborato con la giustizia. La sua testimonianza, prima ancora della telecamera a circuito chiuso del casinò, è stata decisiva per incastrare il politico corrotto. Dietro il "ravvedimento operoso" dell'amante c'è la scoperta che il vecchio Cheng manteneva un intero esercito di concubine, e lei non era più la favorita dell'harem.

Una storia parallela ha per protagonista il viceammiraglio di Pechino di cui le cronache hanno taciuto rispettosamente nome e cognome (il prestigio delle forze armate supera perfino quello del partito comunista). Dopo anni di ruberie nelle casse dello Stato l'alto gerarca della marina militare era convinto di poter contare sull'impunità. L'anno scorso invece è stato condannato all'ergastolo. Il suo errore fatale: è "scivolato" sulla vendetta di una delle sue numerose amanti, convinta di ricevere una fetta troppo piccola del bottino.

Non accade solo in Cina che gli scandali di corruzione politica abbiano anche dei risvolti sessuali. Ma a Pechino la nomenklatura di regime sembra avere riesumato integralmente l'antico costume imperiale: un Vip che si rispetti deve manifestare il suo status mantenendo un esercito di giovani amanti. L'ampiezza dell'harem di concubine è uno degli indicatori più fedeli del livello di potere politico o finanziario. Già Mao Zedong si era premurato di emulare gli imperatori: le memorie del suo medico personale narrano che alcune Guardie rosse della sua scorta avevano il compito specifico di reclutare giovani compagne sempre nuove, per sfamare l'insaziabile appetito sessuale del leader comunista.

Ma ai tempi di Mao questo privilegio sovrano era riservato quasi esclusivamente al Grande Timoniere. La rivoluzione capitalistica ha diversificato i ranghi della nomenklatura e ne ha allargato le disponibilità economiche. Una vasta élite di nuovi capitalisti e manager arricchiti condivide le risorse con i politici che intascano tangenti; nella classifica dei loro consumi opulenti le giovani amanti figurano al primo posto.

Il fenomeno delle "seconde mogli" iniziò con i cinesi della diaspora all'inizio degli anni Ottanta: non appena Deng Xiaoping aprì le frontiere al ritorno dei capitali che erano fuggiti all'estero durante il periodo più duro del comunismo. I ricchi imprenditori di Hong Kong e Taiwan attirati dalle riforme economiche furono i primi a investire in Cina. Facendo la spola con la terraferma mantenevano due famiglie: una nel luogo d'origine, l'altra nella seconda casa intestata a una ragazza di Canton o Shanghai.

Il fenomeno della doppia vita si è esteso a tal punto che nelle ricche metropoli industriali della Cina orientale e meridionale, da Hangzhou a Shenzhen, interi quartieri di lusso sono noti oggi come "i condominii delle seconde mogli", abitati dalle giovani amanti (e dai figli) dei ricchi businessmen pendolari.

Ora, con l'avvicinarsi del congresso del partito comunista che si terrà questo autunno, i vertici del regime lanciano una delle solite campagne anti-corruzione. E al primo posto figura, non a caso, la denuncia della "poligamia di fatto" che si accompagna alle ruberie dei potenti. La signora Liu Xirong, numero due della Commissione disciplina del partito (un organismo ben più temuto della magistratura), ha rivelato che "l'anno scorso nel 70% degli scandali di corruzione le tangenti sono finite nelle tasche di mogli e amanti". I mass media ricevono direttive dal dipartimento di propaganda per intensificare gli appelli alla moralità con l'avvicinarsi dell'importante scadenza congressuale.

In una fase in cui molte famiglie, anche nel ceto medio, sono preoccupate per l'aumento del costo della vita e dalla dura competizione per i figli neolaureati sul mercato del lavoro, lo spettacolo degli harem di concubine dei potenti viene denunciato come "perversione e decadentismo". Con un'audacia evidentemente autorizzata dall'alto, alcuni organi di stampa hanno ripreso da un blog su Internet una "classifica nazionale dei campioni dell'adulterio", un inedito campionato ufficioso degli harem.

La palma d'oro viene assegnata a un ex boss di partito del sud del paese, Su Qiyao, che con 146 amanti ufficiali ha sgominato la competizione. Yang Feng, ex segretario comunista nella provincia dello Anhui, ha vinto il premio speciale per "qualità di management". Avendo conseguito un Master in business administration all'università di Pechino, Yang ha messo in pratica la sua competenza economica nella gestione del suo harem. Alla concubina più efficiente ha affidato la contabilità per le altre sei, e ognuna riceveva regolarmente una pagella di valutazione del suo rendimento a letto.

Ma l'arrivo di una nuova compagna ha scatenato un crescendo di gelosie che hanno portato alla denuncia e alla caduta del boss. Perché naturalmente in questa classifica sono finiti solo i casi che il regime ha deciso di scoperchiare e castigare, la punta dell'iceberg.
Il fenomeno delle seconde, terze, quarte mogli in Cina denota una persistente diseguaglianza tra i sessi. Solo di recente, con la diffusione del benessere, si segnala anche il fenomeno inverso: ricche imprenditrici, o mogli di miliardari trascurate dai mariti, "affittano" per migliaia di euro al giorno giovanotti di bella presenza che le accompagnano a fare shopping, al ristorante, in discoteca e naturalmente nel dopo-discoteca. Ma è ancora un fenomeno minoritario. L'infedeltà maschile sembra provocare una riprovazione etica e sociale meno forte dell'infedeltà femminile.

Il dilagare delle concubine è uno degli ingredienti che spiegano il crescente successo delle serie televisive sulla storia imperiale. In questo momento in testa agli indici di audience c'è un telefilm di 80 puntate dedicato al secondo imperatore della dinastia Tang. Gli episodi che hanno il massimo ascolto sono quelli che descrivono le complesse lotte di potere tra concubine e cortigiane. Dietro le elaborate scenografie d'epoca il pubblico deve aver colto un sapore di attualità.


(29 luglio 2007)  

da repubblica.it
« Ultima modifica: Luglio 07, 2011, 10:32:51 am da Admin » Registrato
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« Risposta #1 inserito:: Agosto 08, 2007, 08:06:13 pm »

Pechino 2008, protesta di Amnesty: «Tibet libero»


Pechino festeggia l’arrivo delle Olimpiadi, ma arresta gli attivisti di Amnesty International. Con balli, canti e fuochi d'artificio la Cina celebra la mancanza di un anno alle Olimpiadi, cercando di ignorare le proteste. In questo periodo attivisti a favore del Tibet hanno manifestato sulla Grande Muraglia e almeno quattro autorevoli organizzazioni umanitarie internazionali hanno accusato Pechino di non aver mantenuto le promesse sulla «completa libertà di stampa» per i Giochi. Come se non bastasse la capitale è stata avvolta in una cappa grigiastra di inquinamento solo parzialmente eliminata dalla pioggia - vero incubo degli organizzatori - che è caduta copiosamente la sera, più o meno nelle ore nelle quali, tra 365 giorni, dovrebbe svolgersi la fantasmagorica cerimonia d'apertura concepita dal regista cinematografico Zhang Yimou.

Indicando con chiarezza quali sono le preoccupazioni del mondo sportivo John Coates, il responsabile della squadra olimpica australiana in visita a Pechino, ha affermato che quello dell'inquinamento è «probabilmente il problema più grosso» e che agli atleti australiani verrà raccomandato di non venire a Pechino in anticipo per ridurre al minimo il pericolo di «malattie respiratorie o dello stomaco».

In una conferenza stampa nella capitale, il Comitato per la Protezione del Giornalisti (Cpj) ha chiesto al Comitato Olimpico Internazionale (Cio), di insistere con la Cina perché rispetti le promesse fatte al momento dell'assegnazione dei Giochi. Il Cpj - un'organizzazione no profit di giornalisti americani - ha accusato la Cina di non aver mantenuto fede agli impegni presi. Martedì la polizia di Pechino è intervenuta pesantemente contro i giornalisti che avevano seguito una manifestazione di protesta di “Reporters sans frontiere”, organizzata per denunciare le stesse mancanze. I rappresentati del Cpj hanno fatto i nomi di 29 giornalisti in carcere, e hanno chiesto che vengano liberati, affermando che «la loro stessa detenzione contraddice le promesse fatte». Bob Dietz, responsabile del gruppo per l'Asia, si è rivolto ai circa ventimila giornalisti stranieri che verranno in Cina in occasione dei Giochi, e li ha invitati a ricordarsi delle condizioni nelle quali lavorano i loro colleghi cinesi, sottoposti agli arbitri dei potenti locali e alle restrittive leggi nazionali.

La denuncia del Cpj - contenuta in un rapporto intitolato «Falling Short» (Promesse non mantenute) - è stata quasi contemporanea alla diffusione di documenti dello stesso tenore stilati da Human Rights Watch e da Amnesty International. I gruppi ricordano la repressione contro giornalisti e cyberdissidenti, contro le minoranze etniche tibetana e uighura, contro i religiosi della setta del Falun Gong e le organizzazioni cristiane non registrate presso le autorità.

Lo smacco peggiore, gli organizzatori dei Giochi lo hanno subito da sei attivisti filo-tibetani, che hanno aperto sulla Grande Muraglia, non lontano da Pechino, uno striscione che, riprendendo lo slogan delle Olimpiadi diceva: «One world, one dream, Tibet libero nel 2008. «Protestando alla Grande Muraglia, il simbolo più riconoscibile della Nazione cinese, vogliamo dire con chiarezza che il sogno della Cina di essere un paese leader nel mondo non può realizzarsi fino a che prosegue la sua brutale occupazione del Tibet», ha affermato in un comunicato diffuso insieme alla notizia della clamorosa protesta Tenzin Dorjee, vice direttore del gruppo “Students for a free Tibet”. I sei attivisti (due canadesi, tre americani e un britannico) sono stati arrestati dopo la protesta e al momento se ne ignora la sorte.

Pubblicato il: 08.08.07
Modificato il: 08.08.07 alle ore 9.10   
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« Risposta #2 inserito:: Agosto 11, 2007, 08:54:54 pm »

Pechino, diritti umani percorso a ostacoli
Lina Tamburrino


Ogni anno a scadenza fissa c'è tra Stati Uniti e Cina uno scambio al vetriolo di libri bianchi sui rispettivi diritti umani. I primi rimproverano alla seconda l'oppressione del Tibet e dei dissidenti, eredi di Tiananmen. I secondi replicano elencando puntigliosamente i livelli di criminalità americana. Ignorano gli uni e gli altri che gli Usa affondano le radici dei loro diritti umani nel primo emendamento del Bill of Rights; mentre la Cina , come ricorda il sinologo francese Jean- Philippe Bèja- «è diretta dal Partito comunista, il che significa che è proibito opporsi alla sua direzione». Una differenza non da poco. Ma lasciamo perdere le polemiche politiche che attengono ai calcoli delle relazioni internazionali. Andiamo alla sostanza della situazione cinese. È fuori discussione che il dossier sia consistente: violazione dei diritti umani, appunto; robusto ricorso alla pena di morte; mano dura nei confronti delle minoranze etniche, a cominciare dai tibetani. Ma non è un dossier facilmente occultabile. Il Paese , anche se deve essere interpretato, preme per cambiamenti. E si dibatte tra buone intenzioni, buone decisioni ( forse) e una struttura del potere che fa da ostacolo. La Cina di oggi, anche in questo campo, non è più quella maoista, e nemmeno quella dei primi di anni del post- maoismo. Ha fatto passi in avanti, ma gli ostacoli sono ancora paralizzanti. Ha approvato nel 1998 la Convenzione internazionale sui diritti civili e politici e ha riconosciuto nella Costituzione i «diritti umani». Non più dunque i diritti civili, eredità di quando si veniva catalogati cittadini in base alla appartenenza di classe o alla varie rivoluzioni culturali. E non più nemmeno «diritti cinesi» o «diritti asiatici». Ma «diritti umani» come riconoscimento della loro universalità. Cui però fa subito da contrappeso il «socialismo con caratteristiche cinesi» e il nazionalismo spinto che, con la crescita economica, è il cemento della legittimazione della classe dirigente.
Diritti umani, dunque, ma ancora non piena libertà di espressione ( la repressione religiosa) e nemmeno pieno diritto alla tutela personale. Esemplare la lunga vicenda della pena di morte, già fiorente sotto la dinastia Qing. E tutt'ora. Secondo un dato ufficiale cinese del 2004, ogni anno ci sono in Cina diecimila sentenze eseguite. Di conseguenza, l'argomento non è più un tabù. Se ne discute, anche se solo tra studiosi e nel chiuso delle università. Perché fuori, secondo un sondaggio del 2002, l'88 per cento dei cinesi è d'accordo per questo tipo di punizione finale. La prima sortita abolizionista si ebbe nella primavera del 2000, a un convegno sul tema alla Università di Pechino, per bocca del professor Qiu Xinlong. È rimasto sostanzialmente solo. I giuristi più giovani si sono detti d'accordo con lui, ma ritengono non matura e per il momento impraticabile l'abolizione (ecco, le «caratteristiche cinesi» che fanno sempre capolino). E così vari esperti hanno suggerito di diluire la abolizione della pena di morte nel tempo ( propongono cento anni), cominciando con il ridurre di quindici l'elenco dei crimini per i quali è prevista. E con il riformare radicalmente la struttura giudiziaria chiamata a giudicare: oggi con i testimoni non c'è contraddittorio, possono solo inviare testi scritti; il procedimento giudiziario è farraginoso; gli avvocati fanno di tutto per sfuggire questi processi perché senza speranza; il potere di decisione, spesso non molto competente, lasciato interamente alle corti locali. E dunque una delle modifiche cui si sta lavorando - e che è stata già introdotta in alcune province- è di portare la decisione ultima, quindi anche la possibilità della revisione del verdetto, alla Alta Corte. Questa misura, a parere degli esperti, potrebbe ridurre del 30 per cento il numero dei condannati. Si sta anche riflettendo, tra gli intellettuali cinesi, sulle ragioni del radicamento cosi profondo della pena di morte nel loro Paese. Si dice che non c'è nella loro cultura la difesa dell'individuo come nella tradizione occidentale del cristianesimo o in quella buddista. C'è il peso della luna fase imperiale e di quella maoista che alla pena di morte contro i nemici politici ha fatto massiccio ricorso. E c'è - ancora oggi non rinnegata- la pratica della commistione tra giustizia e politica come, quando anche in anni recenti, sono state lanciate campagne dirette a «colpire duro» per una opera di «pulizia», specialmente nelle zone aperte agli stranieri, contro criminali poi giustiziati.
Il principale ostacolo al pieno dispiegamento della politica dei diritti umani in Cina è l'articolazione del potere, che fa da blocco potente. C'è ora in Cina, molto forte, la tendenza a dirottare verso i tribunali le insoddisfazioni crescenti nella società- specie nelle campagne-, per evitare la ripetizione di piccole o grandi Tiananmen. Sono arrivati a 200 mila giudici, quasi allo stesso numero di pubblici ministeri, a 120 avvocati e a 400 scuole di legge; anche molte ong si sono dedicate all'attività legale. Ma i giudici sono ostaggio della politica: sono assunti, pagati, promossi, licenziati, dai quadri locali; ci sono nepotismo e corruzione; i casi vengono rinviati o cancellati. La giustizia resta un miraggio: ci sono casi in cui i querelanti sono stati accusati di «litigiosità eccessiva» e ricoverati in ospedali psichiatrici. E in più: i contrasti tra centro e periferia, la mancanza di chiarezza sui conflitti di competenza e, infine, il pesante e costante intervento del partito nelle cose giudiziarie, per le quali ovviamente non c'è da parlare di indipendenza.
La ragione della corruzione? È la mancanza di un sistema di contrappesi, ha risposto il 66,3% degli intervistati dalla università di Suzhou (che i cinesi amano presentare, con molto ottimismo, come la loro Venezia). Ovvero, hanno lamentato il potere senza controllo, né da parte degli uomini né da parte di apposite istituzioni. Accade anche in altri campi. Ha fatto scalpore nei giorno scorsi la notizia dei giornalisti fermati in occasione della presentazione di una delle manifestazioni per i prossimi Giochi Olimpici. Reporters sans frontières ha calcolato che a gennaio di quest'anno la Cina aveva 31 giornalisti in prigione, il numero più alto al mondo. Lo stato della stampa in Cina va ben oltre questo dato pur cosi allarmante. È grave e paradossale, stretto tra una commercializzazione sfrenata e un controllo ancora severo da parte del partito. Anche in Cina la cronaca tira, e si arriva anche a casi come questo: un anno fa il giornalista di un gruppo editoriale del Sichuan ha convinto una ragazza a farsi operare per donare il rene in modo da poter avere l'esclusiva della storia. Ma dopo ha telefonato all'ospedale minacciando di pubblicare tutto se non avesse ricevuto 10 mila dollari. È stato arrestato e condannato a sei anni.
L'oppressione che viene esercitata sulla stampa, ha scritto David Bandurski sulla Far Eastern Economic Review, è «la conseguenza della politica ufficiale che combina un controllo politico paranoico, senza riforma, con la illimitata commercializzazione dei media. Bassi salari e pressione commerciale spingono a monetizzare il potere che deriva dall'estensione della pubblicità di stato, e dunque dalla subordinazione al potere autoritario». Insomma corruzione e censura. Ma c'è opposizione a questo modo di fare giornalismo e c'è anche un certo malessere. In un brillante paper per l'Ispi di Milano, il già citato sinologo francese Bèja ha raccontato quanto stia accadendo con il sistema di censura politica ancora ben in auge sulla stampa e sulle pubblicazioni in genere in Cina. Al dipartimento di propaganda del PCC, sorto dodici anni fa come risposta alla libertà del 1989, spetta il «ruolo di orientamento dell'opinione» e quindi il controllo della stampa ( che spesso viene fatto con una telefonata che non lascia tracce); questo termine- e questo ruolo- avevano avuto la loro punta massima nel 2003 in occasione della crisi della Sars. Dopo l'uso è diminuito drasticamente, scendendo del 68% nel 2006, una caduta più marcata rispetto al precedente 22%. Ciò dimostra, scrive il sinologo, che i dirigenti sono riluttanti a utilizzare un termine che rinvia troppo evidentemente a una censura governativa sempre più impopolare.
Ci sono stati naturalmente ancora casi di siluramento di giornalisti e la chiusura del «Bingdian», un giornale dei giovani. Ma questa ultima mossa ha determinato reazioni: sui principali siti cinesi sono apparsi numerosi messaggi che la condannavano. Non hanno protestato solo semplici cittadini. Si sono fatti sentire anche vecchi quadri di partito come Li Rui, segretario di Mao. Insomma, gli ufficiali incaricati di mettere in opera le politiche di restrizione delle libertà continuano a farlo, ma dubitano sempre più della legittimità della loro azione;quanto alle vittime godono della simpatia della società.

Pubblicato il: 11.08.07
Modificato il: 11.08.07 alle ore 13.15   
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« Risposta #3 inserito:: Agosto 16, 2007, 04:57:56 pm »

Antonio Laspina, di Aidone, è il direttore dell´Ice a Pechino

L´uomo che vende la Sicilia ai cinesi


 «I cinesi riassumono la complessità culturale siciliana con una sintesi linguistica: Dao Sicily, l´isola Sicilia». A raccontarlo, con una punta di non celato compiacimento, è Antonio Laspina, 51 anni, di Aidone, da quattro anni direttore dell´Istituto per il commercio estero a Pechino. Una prestigiosa carriera internazionale che muove dalla laurea in Scienze politiche conseguita a Catania nel 1979.
«Scelsi l´indirizzo internazionale, nel cui ambito operavano grandi esperti - ricorda Laspina - intellettuali come Fulvio Attinà, docente di Relazioni internazionali, ma soprattutto Giuseppe Schiavone, ordinario di Organizzazione internazionale, che considero il mio maestro. Uno studioso di spessore europeo che poi ho ritrovato a Roma, alla scuola di formazione "Alcide De Gasperi" da lui diretta».
La prima esperienza sul campo ebbe come destinazione l´Egitto. «Nel 1980 ottenni una borsa di studio per l´analisi dei finanziamenti operati dalla Banca mondiale in Egitto. Al Cairo mi ritrovai a lavorare con un altro grande siciliano, l´ambasciatore Giuffrida». L´anno successivo fu quello dell´assunzione all´Ice. «Avevo 24 anni quando vinsi il concorso. A Roma ho trascorso quattro anni, impegnato nel processo di trasformazione e ammodernamento dell´istituto».

La lunga parentesi orientale del funzionario siciliano si apre nel 1985 con l´assegnazione della direzione dell´Ice di Seul. «Sono rimasto in Corea per cinque anni. Un arco temporale che segnò la radicale trasformazione economica coreana, fino al grande evento delle Olimpiadi del 1988». Nel 1990 il ritorno alla sede centrale di Roma per lavorare alla nascita di un nuovo dipartimento, quello legato all´architettura e all´arredo. Progetto che troverà la sua piena applicazione a Tokyo.

Nel 1991 la nuova missione, a Kuala Lumpur. «Quando arrivai in Malaysia, l´export italiano segnava un fatturato di quattrocento milioni di dollari. Quella italiana era un´attività produttiva gravata da pregiudizi. Una realtà che stentava a operare in una nazione di tradizione anglosassone. Alla fine del 1996 l´Italia poteva contare su un consolidato di duemila milioni di dollari di fatturato».
Il peregrinare asiatico di Laspina lo conduce, nel 1996, all´apertura dell´Istituto per il commercio estero a Taipei. A Taiwan rimane per due anni. Nel 2003 l´arrivo alla direzione dell´ufficio Ice a Pechino. Una direzione che, nel breve volgere di qualche mese, si ritroverà a essere il principale veicolo di valorizzazione e promozione del made in Italy.

«Nel corso di tutti questi anni, però, non ho mai smesso di rivolgere uno sguardo alla mia isola - sottolinea Antonio Laspina - Ho sempre lavorato per la valorizzazione dei prodotti tipici siciliani. Un lavoro di rivalutazione che muove dal nuovo concetto di glocal, la realtà locale che compete all´interno di un processo di globalizzazione. È stato così per la ceramica di Caltagirone a Tokyo. Fino al grande successo di pubblico e di critica per la mostra a Pechino di "Continente Sicilia, 5000 anni di storia" che abbiamo organizzato al National museum in piazza Tienanmen. Stiamo lavorando da qualche anno alla costruzione di un´immagine della Sicilia rivolta al sempre crescente mercato turistico cinese. L´idea - spiega Laspina - è quella di offrire una meta turistica unica sia per l´offerta culturale che per ciò che attiene la produzione agroalimentare di qualità. Periodicamente organizziamo educational che vedono coinvolti i giornalisti dei principali network cinesi. Operatori dell´informazione che visitato la Sicilia hanno raccontato l´Isola in maniera insolita. Un racconto esotico, rivolto proprio a coloro che nel nostro immaginario collettivo incarnano l´esotismo».

A fare da ambasciatore per questa operazione di promozione, dopo trecento anni, è stato ancora un siciliano: Prospero Intorcetta, un gesuita nato a Piazza Armerina nel XVII secolo. Fu il primo a tradurre Confucio in latino. Una figura e un operato che sono stati al centro della grande mostra siciliana ospitata a Pechino. «Dopo tre secoli - sottolinea Laspina - lo strumento di dialogo tra la Cina e la Sicilia passa ancora attraverso il dialogo e il confronto».

(14 agosto 2007)

da espresso.repubblica.it
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« Risposta #4 inserito:: Agosto 18, 2007, 10:58:38 pm »

Cina e Russia: i muscoli dell'Est
Adriano Guerra


Se accanto a Putin che annuncia il ripristino dei voli strategici dei suoi bombardieri fermi dal 1992, non ci fosse il presidente cinese Hu Jjin Tao, potremmo limitarci a parlare di una nuova, ennesima sparata del presidente russo. Una nuova “prova di muscoli”. Ma Hu c’è. E con lui ci sono i rappresentanti degli altri paesi del Gruppo di Shangai riunitosi a Biskek per il suo vertice annuale: il Kasakistan, l’Usbekistan, il Tagikistan, il Kirghizistan. Un poco separati, ci sono poi ad applaudire i rappresentanti dell’Iran, del Turkmenistan, dell’Afganistan e della Mongolia. E in un ampio spazio che va dall’aeroporto kirghizo di Manas, che si trova a fianco della più importante base americana nell’area, a Celjabinsk, 6.500 soldati dei sei paesi e almeno 1000 tecnici militari hanno appena concluso manovre militari congiunte. Il nome dato all’operazione è «Piano di pace 2007», e l’obiettivo indicato è quello che viene sintetizzato con le parole «neutralizzare e distruggere il terrorismo e il narcotraffico», ma per i commentatori americani si parla di sfida alla Nato e di «rinascita» di qualcosa che ricorda addirittura il Patto di Varsavia.

È bene non cadere in conclusioni precipitose, ma forse siamo davvero di fronte a qualche elemento di novità alla cui base non c’è soltanto la crescente aggressività di Mosca - che appunto “mostra i muscoli”, pianta la sua bandiera nei fondali del Polo Nord, fa la voce grossa con Londra per la faccenda delle “operazioni spionaggio” svolte in territorio inglese, proclama che lo scudo spaziale progettato da Bush e che dovrebbe avere nella Polonia la sua base principale , è un atto di guerra - ma forse anche un processo ormai avviato di ricomposizione di forze e di equilibri in uno spazio - che va dall’Asia centrale alla Cina e al Sud est asiatico - ove sempre più difficile è per gli Stati uniti imporre il ruolo, ereditato da crollo del sistema bipolare, di unico protagonista della scena mondiale.

Gli Stati Uniti insomma sono riusciti ad entrare negli anni passati, utilizzando la debolezza della Russia e il loro ruolo di capofila nella guerra contro il terrorismo, nell’area del Caspio e dell’Asia centrale - di eccezionale importanza e per la sua vicinanza con la Cina e per il petrolio - ma l’operazione non è mai riuscita in pieno e adesso appare fortemente compromessa. A breve potrebbe nascere - secondo alcuni - un “club energetico” comprendente tutti i i paesi del Gruppo di Shangai e altri ancora, con l’esclusione degli Stati uniti. Una minaccia seria? Si vedrà. Quel che si può dire in questo momento è che da una parte la vera protagonista di questa operazione non è forse la Russia quanto la Cina, che si prepara con calma, sostenendo solo sino ad un certo punto Putin e puntando a rafforzare le relazioni con gli Stati uniti e con l’Europa senza fare la voce grossa, a creare le migliori condizioni per il “secolo cinese”. E dall’altra che sugli Stati Uniti pesa quella che è in ogni caso possibile definire la sconfitta di storiche proporzioni che essi hanno già subito nell’Iraq. È stata quella sconfitta a mettere in crisi l’idea stessa di mondo bipolare. E forse non solo nell’area del Gruppo di Shangai.

Pubblicato il: 18.08.07
Modificato il: 18.08.07 alle ore 11.18   
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« Risposta #5 inserito:: Agosto 24, 2007, 11:44:16 pm »

SENZA FRONTIERE

La democrazia e il paradosso cinese
di Minxin Pei*

La prosperità economica fa paura a Pechino.

Si teme il collasso del regime come in Unione sovietica 


Le democrazie occidentali sostengono che grazie al dialogo politico e all'integrazione economica la Cina sarà gradualmente sospinta verso la democratizzazione. E quindi, malgrado le riserve a fronte dello scarso rispetto per i diritti umani, o la preoccupazione per i surplus commerciali in ascesa e la crescente esibizione di potenza militare, l'Occidente persevera nella sua apertura verso Pechino. Eppure, dopo tre decenni di costante e faticoso impegno, l'obiettivo occidentale di democratizzare lo Stato autocratico più grande del mondo resta inafferrabile. Se è vero che da quando ha aperto le sue porte nel 1978, la Cina ha conosciuto una straordinaria espansione delle libertà economiche e personali, continua tuttavia a essere governata con mano ferma da un regime monopartitico. Davanti alla determinazione con cui il Partito comunista si mantiene al potere, e all'efficienza nel reprimere ogni dissenso, solo un inguaribile illuso può ancora pensare che la democratizzazione sia dietro l'angolo.

Per una serie di motivi, la crescente prosperità del Paese avrebbe dovuto porre la Cina in primo piano tra i candidati alla transizione verso la democrazia. Con un reddito pro capite di oltre 2 mila dollari (equivalenti a 6 mila dollari in termini di potere d'acquisto) la Cina è oggi più ricca di molti paesi democratici del Terzo mondo, con un livello di alfabetizzazione che è quasi doppio a quello dell'India. L'informazione è largamente accessibile grazie alla diffusione delle moderne tecnologie; la televisione copre il 95 per cento del Paese. Inoltre, 500 milioni di linee telefoniche fisse, 400 milioni di cellulari e 125 milioni di utenti Internet mettono la Cina ai primissimi posti tra i paesi in via di sviluppo.

Ma questi segnali di ascesa economica rendono più cocente la delusione occidentale per il mancato progresso democratico, che pure è stato possibile altrove in condizioni economiche meno favorevoli. Perché non in Cina? Nei dibattiti spesso non si tiene conto del fatto che, paradossalmente, è stata proprio la crescita economica a ostacolare la democratizzazione. In base alle teorie accademiche e all'esperienza occidentale, molti erano convinti che la crescita avrebbe creato condizioni favorevoli alla democrazia, promuovendo la formazione di un ceto medio, facilitando l'accesso all'informazione e incoraggiando la società civile. Pochi si rendono conto che, sebbene nel lungo periodo la crescita economica favorisca la democratizzazione, quando è molto rapida può provocare nell'immediato effetti diametralmente opposti.

Il motivo è semplice. La prosperità economica tende a indebolire le pressioni verso riforme democratiche, legittimando un regime autoritario e dotandolo dei mezzi per comprare la connivenza di alcuni gruppi chiave del tessuto sociale, quali il ceto medio urbano e gli imprenditori privati. Inoltre, uno Stato più ricco dispone di maggiori risorse per rafforzare le proprie capacità repressive. Nel caso della Cina, l'élite al potere ha fatto un serio tentativo riformista in senso democratico solo verso la metà degli anni '80, prima dello spettacolare decollo economico. Dall'inizio di questo boom, nei primi anni '90, la leadership cinese ha invece opposto una resistenza crescente alla democratizzazione.

Un'altra causa di questo atteggiamento va ricercata nella lezione del collasso sovietico, che i dirigenti cinesi hanno tenuto in debito conto. Dopo averlo analizzato, hanno attribuito le principali responsabilità del tracollo al fallimento economico e alle riforme democratiche. Nelle sedi internazionali, i leader di Pechino hanno fatto più volte riferimento all'esperienza dell'Urss e dichiarato la loro ferma intenzione di non rinunciare al "ruolo guida del Partito comunista". E hanno affidato la loro sopravvivenza politica esclusivamente alla crescita economica. In termini politici, questa diffidenza verso la democrazia ha comportato l'imposizione della censura su Internet, il controllo della società civile, la limitazione della libertà di stampa e lo stallo di riforme politiche quali il rafforzamento dell'indipendenza del sistema giudiziario, o l'espansione del sistema elettorale per un maggior coinvolgimento della base.

Tra prosperità e repressione, il governo di Pechino si è assicurato, dopo la crisi di Tienanmen del 1989, quasi un ventennio di pace sociale. Eppure, quella che il Partito comunista sta conducendo è una battaglia in prospettiva già persa, data l'impossibilità di assicurare per altri due decenni gli attuali, elevatissimi tassi di crescita. La corruzione diffusa ha alienato al regime le simpatie dell'opinione pubblica, tanto da far apparire più verosimile la prospettiva di una crisi. In particolare, il ceto medio, sempre più consistente, sta cominciando ad affermare i propri diritti, e chiede di avere voce sui metodi di governo.

È impossibile prevedere quando l'attivismo di base dei cittadini creerà le condizioni per democratizzare il Paese; ed è difficile immaginare come una Cina pienamente coinvolta nella globalizzazione possa continuare a tempo indeterminato a contrastare la tendenza globale verso la democrazia. Alla fine, pur dopo un lungo e frustrante interludio, il sogno occidentale di democratizzare la Cina potrebbe diventare realtà.

*autore di 'China's Trapped Transition' e Senior Associate del Carnegie Endowment for International Peace di Washington

traduzione di Elisabetta Horvat

da espressonline
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« Risposta #6 inserito:: Agosto 31, 2007, 12:07:48 am »

Da Pechino a Shanghai, in vent’anni i grattacieli hanno rubato il cielo alle città
Lina Tamburrino


La domanda è stata sempre la stessa: quale città tra Pechino e Shanghai, è meglio visitare prima per avere subito un'idea della Cina? Ma nessuna delle due: a entrambe hanno rubato il cielo. Andate piuttosto a Bailingguan , il piccolo borgo contadino ai piedi della Grande Muraglia di Simatai; oppure a Zhouzhuang, un villaggetto con suggestioni veneziane, non lontano da Shanghai. Ma è una risposta troppo snob e allora cediamo la parola a Pamela Yatsko, che in un bel libro su Shanghai descrive bene la differenza: «Pechino è molto formale e imponente ma per niente affascinante. Shanghai gode di ottime infrastrutture e con gli investimenti esteri si è riempita di appartamenti di lusso, negozi, supermercati, ristoranti, bar ,caffè, nightsclub, campi da golf. Per uno straniero la vita è godibilissima». Ma non solo per loro. Solo un dato: negli anni ‘90 per dotarsi di infrastrutture all'avanguardia- autostrade, tre nuovi ponti , metropolitana, acqua, luce, gas -, e poi grattacieli, museo, teatro, biblioteca, ha sbancato 25 milioni di metri quadri e ha spostato quattro milioni e mezzo di persone.

Le due città- ma non solo loro- le ho visto negli anni cambiare in maniera precipitosa, radicale, imprevedibile, innanzitutto inattesa, nell'aspetto architettonico e nelle facce della gente. Venti anni fa a Pechino, uscendo dal compound della zona orientale di Jianguomenwai assegnato alle abitazioni per diplomatici e giornalisti stranieri, si imboccava la superstrada numero due per arrivare, dopo un certo percorso, all’area delle università, quasi in aperta campagna. Si incontravano rari complessi abitativi, qualche palazzo del governo, molti carretti tirati da animali e molti camion. Ora da quell'incrocio si possono rapidamente imboccare ben sei raccordi anulari che accerchiano la vecchia città con enormi nuovi quartieri e hanno assediato l'antica area universitaria, innalzato centinaia e centinaia di condomini simil-grattacieli, con piano terra occupati da bar, negozi, uffici. I raccordi sono le arterie della Pechino che vi verrà costruita da qui al 2020, quando raggiungerà , tra residenti e pendolari, 18 milioni di abitanti e cinque milioni di auto.

A Shanghai venti anni fa si salvava solo il lungo fiume, il Bund , sul quale affacciavano ( tutt'ora) i massicci palazzi di primo novecento delle Banche e delle compagnie di assicurazione straniere. All'interno, restavano attive le vecchie concessioni: la più elegante e meglio protetta è quella francese. Dal fiume, via Nanchino si allungava come un budello di case lerce, fatiscenti, con balconcini sui quali si vedeva di tutto: cavoli per l'inverno, gabbiette per gli uccellini, qualche utensile domestico. Ora via Nanchino, completamente distrutta e ricostruita, dunque nuova ed elegantissima, sbuca nella splendida piazza del Popolo dove, tra le altre nuove costruzioni, brilla il Museo nazionale, uno dei più belli al mondo per le sue collezioni di bronzi che risalgono all'ultima fase della dinastia Xia ( ventesimo-diciassettesimo secolo prima di Cristo), le sue giade bianche, le sue statue buddiste. Ci sono emozioni continue: può capitare di scendere alla fermata della modernissima metropolitana situata all'interno del tempo buddista di Yang'an. O può capitare di trovarsi al Museo quando è in corso l'esposizione di 27 vasi di bronzo appena arrivati dai nuovi scavi nella provincia dello Shaanxi.

Shanghai è vibrante e attira gente giovane, anche molti italiani che tentano di giocare qui le carte della loro vita: alcuni resistono, altri no. Shanghai non si ferma: è sempre in pieno boom. Solo nel mese di luglio di quest'anno, le banche hanno concesso 770 milioni di dollari per l'acquisto di nuove case. Ogni tanto però qualcuno paga, in alto. È stato appena espulso dal partito, e quindi licenziato da tutti i suoi incarichi, Chen Liangyu , segretario del Pcc della città. Accusato naturalmente di corruzione e malversazioni. Ma navigare in quel mare di soldi. E poi gli avranno fatto pagare l'immagine di Shanghai cosi fuori dagli schemi urbanistici tradizionali, cosi leggera, con grattacieli esili e svettanti, sopraelevate avveniristiche, ponti che sembrano puntare verso la luna. E anche il fatto che a Shanghai non ci si nasconde se sei gay ( o tongzhi).

Ma la Cina è Pechino, con quella sua atmosfera che la Yatsko definisce «imperiale, sovietica, tradizionale». Parole da condividere. Nell'enorme cintura sono nati i nuovi quartieri satelliti dove si è sistemata una classe media che negli anni novanta ha goduto di balzi in avanti salariali e si è rivelata molto prudente in politica e nei gusti. La profonda distruzione-ricostruzione che ha travolto la capitale, ha isolato e reso corpi morti la Città proibita, il parco del Popolo, il Tempio dei cielo, finanche il Tempio dei Lama, luoghi ormai solo di shopping. Nel centro storico, dove Mao aveva già fatto abbattere nel 1949 le vecchie mura perché «feudali», sono stati in questi anni rasi al suolo tutti i quartieri di case basse, dai tetti grigi, chiuse da alte mura per proteggerle dalla esperienza- terribile ma molto affascinante- delle tempeste di sabbia. Gli spazi così svuotati- ma anche laddove si sia proceduto a semplici riammodernamenti- sono stati riempiti da costruzioni massicce, che danno alla città quell'aria sovietica di cui sopra, come imbronciata, come da «ruolo guida del partito comunista». Si è discusso, naturalmente, in questi anni del dilemma: svendiamo al turismo o proteggiamo il nostro passato? Ricordo che nel 1988, Wang Meng, allora ministro della cultura e scrittore tradotto anche in Italia, chiese che si proteggesse dall'incombente sfascio la Città proibita. Invece, come è emerso da incontri ufficiali, la ristrutturazione dell'estesa area antica ha seguito criteri di efficienza, non di rispetto delle strutture tradizionali della città. Ed è scomparso anche il vicolo del pesce d'oro, fagocitato dall'ampliamento di una piazza per far fare spazio a auto e bus. E ha contato più un supermercato che uno siheyuan, la classica abitazione a cortile per famiglie un po' più abbienti. Lo scrittore Shu Yi ha denunciato, senza esito, il meccanismo perverso che ha operato dietro le quinte dell'imponentissimo cambiamento della città antica: l'alleanza tra i soldi, le società immobiliari, il potere delle strutture di governo che dispongono delle aree come vogliono, senza nessun tipo di vincolo. Non ritrovo più l'anima autentica di Pechino.

Le città sono case e le case sono sapienti, parlano anche loro di cambiamenti. Era impossibile 20 anni fa essere invitati nell'abitazione di un cinese: poteva capitare solo una decina di anni dopo e solo se l'ospite disponeva di case lussuose, come la signora Lu Lu Fei, una vecchia militante del 1949, che viveva in un grande appartamento con un bel gatto bianco. Ma se ti capitava, scoprivi case mal tenute, disordinate, senza mobili tranne letti e qualche sedia e tavolino in plastica. A Chengdu, la capitale del grande Sichuan, nella casa dell'interprete per vedere il video dei disordini violenti avvenuti anche in quella città nella notte tra il 3 e il 4 giugno dell'89, non c'era niente, se non il letto con un signore dormiente, un tavolo, giornali appallottolati dovunque. Chengdu era allora la classica città-paese cinese, con incroci sghembi e case cadenti. Oggi l'ho rivista ridisegnata con larghi e lunghi viali sui quali affacciano alberi imponenti e i soliti alberghi , ristoranti, negozi. Le case di Shanghai: nel salottino-studio molto gradevole di Wang Yuanhua, autorevole e raffinato studioso di estetica, ho ascoltato il suo sconforto per una gioventù che vedeva acriticamente attratta dall'occidente. Perchè emana sempre, dalla casa di un vecchio intellettuale cinese, una presa di distanza, una sottile altezzosità nei confronti della cultura non cinese, giudicata materialista e quindi pesante e opaca, mentre la loro viene considerata l'emblema della spiritualità e del simbolo. Lo studio del famoso pittore -dal figlio bellissimo quasi un Gasmann cinese- aveva stanze imponenti, che si inseguivano l'una l'altra, in un trionfo di rosso perchè color lacca era il colore del legno delle pareti. Ma questi sono gli intellettuali che ai suoi tempi Mao aveva condannato e perseguitato come «destri» e spediti nei campi di rieducazione. Oggi, dalla metà degli anni 90 c'è stata una crescita a macchia d'olio della massa di piccola e media borghesia. Il governo ha favorito massicci programmi abitativi, con appartamenti più che decenti, venduti ai membri della nomenklatura a prezzi ridotti. Sussidi sono stati dati anche per acquistare appartamenti più preziosi nelle stesse zone residenziali degli uomini di affari. I piccoli-medi appartamenti piccolo- borghesi sono arredati in stile simil Ikea, come quello della mia interprete pechinese: nella stessa stanza, angolo salottino e angolo pranzo, ma cucina e bagno finalmente indipendenti, con tutte le attrezzature necessarie. Nelle case della media borghesia hanno fatto la loro apparizione anche i quadri, che ripetono oggi a olio i vecchi temi della tradizione cinese: i fiori, i paesaggi, le donne con le trecce. Nessuno compra o è interessato a sperimentare forme più moderne. Yin Qi, un giovane pittore astratto che vive a Parigi mi racconta che deve accontentarsi di portare i suoi lavori solo nelle esposizioni dei musei locali, dove comunque dominano immagini di militari, donne delle minoranza etniche, scene di antiche battaglie eroiche, addirittura qualche episodio della guerra contro i giapponesi o della Lunga Marcia. Salvate i bambini , ha gridato Lu Xun come battuta finale del suo: «diario di un pazzo». Oggi bisogna dire: salvate il cielo della Cina.

Pubblicato il: 30.08.07
Modificato il: 30.08.07 alle ore 8.53   
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« Risposta #7 inserito:: Agosto 31, 2007, 12:09:33 am »

Prato. La scoperta di Finanza e Inps in 500 imprese

Aziende cinesi, evasione record

Fisco beffato per quasi 10 milioni


 PRATO. Quasi diciotto miliardi delle vecchie lire. La bellezza di 9,3 milioni di euro di euro di evasione accertati su un bacino di 500 aziende cinesi che operano a Prato. È l’ultima operazione portata a termine dalla Guardia di finanza di Firenze in collaborazione con gli ispettori provinciali dell’Inps. Le ditte in questione pagavano un decimo dei contributi per i propri dipendenti arrivando negli ultimi cinque anni a eludere il pagamento di centinaia di migliaia di euro ciascuna. Il grosso buco contributivo è stato accertato grazie a un’indagine pilota che ha consentito di incrociare più informazioni.

Le aziende messe sotto controllo sono praticamente tutte quelle del territorio con titolari cinesi, con dipendenti e operative da molti anni. Nel gruppo degli evasori ci sono le aziende tessili ma anche altre realtà manifatturiere e non mancano all’elenco gli imprenditori più conosciuti nel distretto. Insomma l’accertamento ha riguardato quelle società dalle dimensioni maggiori e con un radicamento più forte nell’area pratese. Nel Macrolotto come in altre zone della provincia.

Una scelta dovuta al fatto che la Guardia di Finanza aveva, oltre all’accertamento dell’evasione, l’obiettivo di andare a colpire quelle realtà produttive che avrebbero garantito maggiori probabilità di incassare, in futuro, i verbali. E quindi ingrassare le casse dello Stato. Un’operazione che è stata possibile grazie a una nuova tecnica di indagine che sarà esportata anche in altre realtà italiane e che ora è in atto nell’area fiorentina.

Il vecchio accertamento, con la Finanza che bussa alla porta e sequestra i documenti, avrebbe infatti richiesto un tempo ben maggiore. «Quando abbiamo contattato le aziende - ha spiegato il colonnello Pietro Tucci - sapevamo già tutto sulla loro situazione. Questo era stato possibile grazie a una nuova tecnica che ci permette con l’utilizzo di un nuovo software di incrociare tutti i dati disponibili nelle banche dati, dell’Inps come della Camera di commercio».

Una fotografia informatica, o se si vuole un Grande fratello del Fisco, che ha consentito di elaborare un indice, chiamato di pericolosità. Ossia in parole povere di attribuire a ogni azienda una percentuale di evasione.

(29 agosto 2007)

da espresso.repubblica.it
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« Risposta #8 inserito:: Ottobre 16, 2007, 12:09:42 pm »

Pechino, il congresso del partito-azienda

Siegmund Ginzberg


Non ci sono mai state, né è previsto che ci siano un giorno primarie nel Partito comunista cinese. Non c'è molta suspense sul fatto che il 17mo Congresso del Pcc, che si apre oggi a Pechino, confermerà Hu Jintao, per altri cinque anni, a capo del partito. E non ci sarà bisogno che si presentino poi di fronte all'elettorato per essere confermati lui presidente e Wen Jibao capo del governo: la Cina non vota a suffragio universale per eleggere i propri dirigenti nazionali.

La suspense, concordano tutti gli esperti, riguarda semmai la successione, chi gli subentrerà dopo il 2012. Non è questione da poco. Sui successori erano scivolati anche leader del calibro di Mao Tse-tung e Deng Xiaoping. Anzi avevano addirittura portato il paese sull'orlo della catastrofe, l'uno con la rivoluzione culturale, l'altro con piazza Tiananmen. La successione in Cina si misura sull'ordine di arrivo dei nuovi entranti nei massimi organismi del partito, l'ufficio politico e il suo comitato permanente.

Si dice che la grande novità sul piano della «democrazia interna di partito» potrebbe essere che stavolta ci sarà un numero di candidati maggiore di quelli che risulteranno eletti. Pare che abbiano studiato con molta attenzione il precedente dell'ultimo congresso del Partito comunista vietnamita, tenutosi lo scorso anno, in cui c'erano addirittura due candidati al posto di segretario generale. E forse applicheranno il metodo ai successori in pectore. Non si tratta di outsider o nuovi arrivati: i nomi che circolano tra i candidati in lizza sono quelli di personalità testate, già al vertice della nomenclatura di partito. C'è, tra i politologi, chi prova a classificarli e distinguerli tra «populisti», che insistono sulla «società armoniosa», cioè preoccupati di non allargare la frattura tra la Cina che corre e si arricchisce e quella che invece è rimasta povera (tra questi Li Keqiang, segretario del Liaoning, nel nord est industriale, una regione di fabbriche che hanno dovuto chiudere ed operai licenziati, che sarebbe anche il favorito di Hu) ed «elitisti», attenti soprattutto a non danneggiare la crescita economica a rotta di collo, il boom delle regioni costiere (tra questi il segretario di Shanghai, Xi Jianping).

Il Pcc non è un partito a vocazione maggioritaria. È un partito a vocazione totalitaria. Non fanno neanche finta di imitare la democrazia occidentale. Non pretendono trasparenza nelle decisioni e nella scelta dei propri gruppi dirigenti. I 73 milioni di membri del Pcc sono agli occhi del restante miliardo di cinesi una «casta» da far impallidire quella di cui si parla da noi. In un paese dove si stima che ci siano 162 milioni di persone che hanno accesso a internet e 450 milioni di telefonini, tutti i mezzi di informazione, sono controllati dal partito, tutte le decisioni vengono prese a porte chiuse. Il partito ha l'emplein dei poteri forti e deboli insieme. Il partito controlla non solo le forze armate, in omaggio al principio maoista per cui «il potere nasce dalla canna del fucile», ma anche la magistratura, l'opinione pubblica, la Banca centrale, l'economia di Stato, e a quanto pare ora persino quella privata. Ho trovato diabolicamente affascinante la descrizione, letta l'altro giorno sul Financial Times, la descrizione di come un partito che continua a chiamarsi «comunista», sia riuscito a «colonizzare» persino i centri nevralgici del proprio «capitalismo» privato. «Sono riusciti a fare del Partito comunista cinese la più grande holding al mondo», è il modo in cui la mette, con una battuta, ma forse neanche tanto, Ding Xueliang, testa d'uovo della americana Carnegie Endowment a Pechino. Sono insomma riusciti a realizzare un «partito azienda», verrebbe da dire.

Certo, il partito non è affatto monolitico, né in economia, né sulle scelte politiche, né sul resto. Si scontrano mille fazioni fondate su gruppi di interesse, differenze tra città e regioni, giochi di potere locali, interessi personali, come in qualsiasi altro sistema politico. C'è una corruzione diffusa e dilagante, ci sono risse a non finire, capricci c'è arroganza da parte dei potenti, ci sono scontri feroci. Eppure, pare che alla fine il sistema funzioni perché tutti alla fine dipendono dalle decisioni di «un solo padrone».

Qualcosa di familiare con le vicende politiche di casa nostra? Forse. Ma con una differenza: che loro se lo sono potuti permettere perché vanno a gonfie vele. Noi no. Tutto questo è roba da età della pietra, preistoria della democrazia. Senza neanche troppi sforzi per presentarsi con un volto più moderno. In un certo senso il Congresso di Pechino si presenta come un'assise di dinosauri, destinati all'estinzione se non sapranno adeguarsi. Ma la cosa da cui non si può prescindere è che questi dinosauri sono i più dinamici, vispi che ci siano al mondo di questi tempi. La Cina corre come un treno, cambia con un ritmo mozzafiato. L'economia cinese ha un bisogno disperato di petrolio e materie prime, molto più dell'America, ma non hanno fatto guerre. Anzi, sono diventati pacificatori, gli «aggiustatutto» delle grandi crisi internazionali. «Mr. Fixit» delle crisi nucleari, li ha definiti il New York Times dopo che hanno convinto Kim Jong Il a rinunciare all'atomica, a Washington si guarda a Pechino per l'Iran. C'è da rammaricarsi che non li abbiano coinvolti in Iraq.

È alla Cina che si guarda perché fermino la mano ai generali in Birmania. Da quando è diventato lui il capo del partito, cinque anni fa, Hu Jintao pare insomma non averne sbagliata una. Ha consolidato senza scosse il suo potere, ha mediato tra le mille anime del partito unico, ha promosso i suoi alleati nelle regioni, è riuscito ad evitare che si scannassero l'un l'altro. Ha saputo dosare rassicurazioni alla casta, a coloro che temono di perdere i privilegi, con rassicurazioni a coloro che stanno male, ai contadini, agli sfruttati, ai più deboli.



Pubblicato il: 15.10.07
Modificato il: 15.10.07 alle ore 12.08   
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« Risposta #9 inserito:: Gennaio 09, 2008, 11:51:49 pm »

Erano stati mandati ad Hubei a reprimere la protesta degli abitanti contro una discarica

Filma i poliziotti, lo uccidono a bastonate

Cina, gli agenti hanno aggredito a manganellate un uomo che li stava riprendendo con il cellulare


PECHINO - Un uomo è stato ucciso a bastonate dagli agenti della polizia municipale per averli filmati con il suo cellulare mentre costoro stavano reprimendo una protesta popolare contro una discarica in un villaggio nel centro della Cina. Dell'episodio, accaduto lunedì scorso, parlano oggi i media cinesi.

GLI ARRESTI - L'agenzia Nuova Cina scrive che 24 persone sono state arrestate per queste nuove violenze della polizia. La vittima aveva 41 anni ed era il direttore generale di una azienda locale di lavori pubblici. L'uomo stava filmando con il suo telefono cellulare una cinquantina di poliziotti di Tianmen, città nella provincia dell'Hubei nel centro della Cina, inviati a reprimere la rivolta degli abitanti di un villaggio che tentavano di impedire ai camion di immondizia di accedere alla discarica vicino alle loro case. I poliziotti si sono scagliati contro Wei Wenhua prendendolo a bastonate. L'uomo è morto subito dopo il trasporto in ospedale.

«SONO DEI BANDITI» - L'accaduto ha sollevato un'ondata di indignazione sulla stampa e su internet. «Sono dei banditi» è la frase più ricorrente sul web, mentre altri chiedono che siano definitivamente stabiliti «diritti e responsabilità di questi poliziotti incaricati di mantenere l'ordine e che invece in questi ultimi anni si sono distinti per brutalità.


09 gennaio 2008

da corriere.it
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« Risposta #10 inserito:: Marzo 12, 2008, 10:38:00 pm »

La Cina delle Olimpiadi arresta 50 monaci in marcia per il Tibet

Lhasa, bloccata manifestazione per l’indipendenza

Diritti umani, gli Usa tolgono Pechino dalla lista nera

Lina Tamburrino


La paura a Pechino che qualcosa potesse macchiare le prossime Olimpiadi ieri ha trovato modo di esprimersi e di essere esorcizzata con una drastica reazione. In vari posti del mondo, e a Lhasa, capitale del Tibet, innanzitutto, erano ieri previste marce per la indipendenza, che avrebbero dovuto approdare a Pechino giusto il giorno della cerimonia di apertura dei giochi. La marcia doveva partire da Lhasa, appunto, arrivare a Kathmandu , nel Nepal, e quindi puntare su Pechino dopo un percorso di 4000 chilometri attraverso le vallate e i passi più belli dell'altopiano tibetano. Una scommessa non solo faticosa ma innanzitutto coraggiosa perché doveva mettere in conto il fatto che Pechino non avrebbe assistito tranquillamente all'impegnativa passeggiata, vedendola, come sempre vede le iniziative tibetane, alla stregua di una mossa politica mirante a minare l' integrità della Cina. Così il primo giorno, è stato chiesto alle autorità indiane, di bloccare il percorso dei marciatori. Poi ieri, sono scesi in campo direttamente i cinesi. È stata bloccata la manifestazione di protesta in corso a Lhasa e secondo fonti cosiddette indipendenti sarebbero stati arrestati tra i 50 e i 60 monaci, tutti appartenenti al monastero di Drepung, uno tra i più grandi e i più importanti del Tibet. A Pechino, le autorità hanno negato gli arresti e hanno fatto ricorso al solito rituale usato in questi casi: hanno detto che si è trattato di un piccolo gruppo sobillato dall'esterno e hanno ribadito , come sempre, che si continuerà a colpire con durezza «qualsiasi attività illegale».. Che l' iniziativa , anche per la sua dimensione mondiale, una piccole marcia si è tenuta il giorno 10 anche a Roma, abbia creato imbarazzo a Pechino è confermato dalla dichiarazione fatta da Hu Jintao, segretario del partito il quale ha cercato per cosi dire di dare una dimensione più strategica alla vicenda e alla reazione chiarendo che la «stabilità in Tibet è essenziale alla stabilità del Paese». Quindi la salvezza della Cina richiede che dei monaci vengano arrestati, alla faccia delle pressioni di questo momento da ogni parte del mondo perché la Cina rispetti i diritti umani. La marcia per l' indipendenza serviva a due scopi: ricordare gli avvenimenti dell'ottobre del 1950 che portarono la Cina a impadronirsi militarmente del Paese e costrinsero il Dalai Lama all'esilio in India. Fu quella una vicenda che non ebbe sostegno da nessuna parte: non dall'India, da Nehru, non dalle Nazioni Unite. Da allora quello tibetano è diventato un punto dolente della politica cinese senza che mai le parti interessate siano riuscite a trovare un modus vivendi. Pechino ha sempre accusato il Tibet ed il Dalai Lama di volere la indipendenza-parola che per i cinesi suona quasi come una bestemmia. Mentre il Dalai Lama- anche a costo di deludere i giovani suoi seguaci- ripetere che vuole per il Tibet una maggiore autonomia. Si ma che cosa, significa? La Cina è piena di regioni «autonome», ma quali siano i loro reali poteri nessuno lo sa, anche perchè la Cina è una Paese fortemente accentrato e niente viene delegato ai centri che non siano quelli vicini a Pechino. Sull'autonomia pesano poi anche i cambiamenti che si sono verificati in Tibet grazie agli investimenti che il governo centrale vi ha fatto per «tenere la situazione sotto controllo». In Contemporay Tibet, un recente libro scritto da Barry Sautman e J.T.Dreyer, si dimostra come i piccoli commercianti cinesi arrivati a Lhasa e che hanno il monopolio di qualsiasi attività, una volta arrivati, più a lungo restano, meno sono propensi ad andare via. Che cosa potrebbe significare per queste persone una maggiore autonomia? E guardiamo poi alla religione. I tibetani desiderano rivedere il Dalai Lama, ma non solo non possono vederlo nel loro Paese, non possono nemmeno andare in India a rendergli omaggio. C'è dunque anche un problema di come regolare i comportamenti religiosi. Insomma c'è molta materia per una trattativa, ove mai, come è augurabile, vi si arrivasse. Adesso si tratta solo di vedere come andrà a finire questa vicenda, se veramente questa marcia e questi giovani, cosi seccati dalla diplomazia tranquilla del Dalai Lama, avranno la possibilità di arrivare a Pechino. E sporcare i giochi olimpici. Dagli Usa ieri sono arrivate buone notizie per Pechino: nel rapporto annuale del Dipartimento di Stato la Cina non è più nella lista nera dei Paesi che compiono maggiori violazioni anche se - si afferma nel testo - Pechino continua a negare diritti umani di base e a torturare prigionieri.


Pubblicato il: 12.03.08
Modificato il: 12.03.08 alle ore 8.26   
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« Risposta #11 inserito:: Marzo 15, 2008, 11:59:25 am »

ESTERI

E' scoppiata con una furia cieca nel centro della città dopo le proteste dei giorni scorsi intorno ai monasteri.

La repressione su cittadini e monaci

India, la rivolta vissuta con gli esuli "Repressione sempre più feroce"

A Dharamsala gli altoparlanti rimandano le drammatiche notizie

"Hanno sentito l'esercito sparare". Ecco la ricostruzione degli incidenti

di RAIMONDO BULTRINI

 
DHARAMSALA - Le notizie della rivolta e delle repressioni provenienti dal Tibet vengono diffuse dagli altoparlanti tra la comunità degli esuli a Dharamsala, in territorio indiano. Altre arrivano da Phuntsok Wangchuk, il segretario generale di Gu Chu Sum, l'associazione degli ex prigionieri politici esiliati dopo le rivolte anticinesi di vent'anni fa.

Dopo giorni di proteste dei grandi centri religiosi attorno a Lhasa - come Drepung, Sera e Ganden in queste ore sigillati dalla polizia - oggi è stato il popolo laico a scendere in piazza, mentre i religiosi sono bloccati nei monasteri circondati dalla polizia e stanno effettuando un massiccio sciopero della fame. Le prime proteste al mattino sono avvenute al mercato Tromsikhang, costruito di recente nel Jockang, cuore di Lhasa e luogo più sacro della città. Una folla inferocita ha dato alle fiamme negozi e banchi, senza prendersi cura che le fiamme devastassero anche le attività commerciali dei pochi tibetani e musulmani Hui che fanno affari fianco a fianco coi cinesi, la grande maggioranza.

Poi sono giunti in città a protestare i monaci del tempio di Ramoche, e a loro si sono uniti altri cittadini. "Non abbiamo notizie dirette dell'intervento della polizia - dice Puntsok -. Quello che sappiamo è ciò che ci hanno detto da Lhasa, la gente ha sentito molti colpi di arma da fuoco e qualcuno ha visto persone ferite in strada".

Notizie analoghe giungono dai siti web dei tibetani in esilio. Manifestazioni sono ancora in corso non solo a Lhasa ma anche a Nyangra, un villaggio a 50 chilometri dalla capitale dove una gran parte della popolazione è scesa in strada per difendere i monaci del vicino monastero di Sera.

Phuntsok riferisce anche delle proteste dei monaci del tempio di Labrang, un altro grande monastero dell'Amdo, mentre gli altri gruppi del dissenso parlano di cortei nelle strade di Sangchu Conty Kanlho, nella Prefettura autonoma tibetana. E' un susseguirsi di informazioni che lasciano i tibetani di Dharamsala col fiato sospeso.

A far esplodere tutto in Tibet, dopo vent'anni dall'ultima grande manifestazione di piazza a Lhasa, non è stato un aumento dei prezzi come in Birmania nel settembre scorso. A dare il coraggio ai tibetani di manifestare tutta la propria frustrazione e rabbia è stato soprattutto il testo del discorso che il loro leader spirituale, il Dalai Lama, ha diffuso alla vigilia della ricorrenza del 10 marzo. "Da sessant'anni i tibetani continuano a vivere in un clima di paura, intimidazione e sospetto", aveva dichiarato, aggungendo che "la repressione cinese aumenta con numerose, inimmaginabili e massicce violazioni dei diritti umani".

(14 marzo 2008)

da repubblica.it
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« Risposta #12 inserito:: Marzo 15, 2008, 12:33:41 pm »

ESTERI

Le insicurezze del presidente Hu Jintao che 18 anni fa scatenò l'esercito

Il Dalai Lama non può essere accettato: è una autorità spirituale indipendente

Riesplode la "polveriera" Tibet e la Cina rivive l'incubo dell'89

dal nostro corrispondente FEDERICO RAMPINI

 
PECHINO - Sulla pacifica protesta dei monaci tibetani è scattata feroce la repressione cinese: dagli ospedali di Lhasa giungono notizie di numerosi morti e feriti. La capitale è in stato d'assedio e sotto coprifuoco, tutti i principali monasteri buddisti della regione sono circondati da reparti della polizia antisommossa.

È la più grande rivolta popolare in Tibet dal 1989, un anno di infausta memoria: allora il plenipotenziario del partito comunista cinese a Lhasa era Hu Jintao, oggi presidente della Repubblica popolare. Hu Jintao l'8 marzo 1989 non esitò a dichiarare la legge marziale e a scatenare l'esercito contro la popolazione indifesa. Si acquistò i galloni dell'uomo forte, i suoi metodi servirono da prova generale per il massacro di Piazza Tienanmen tre mesi dopo.

Sono passati quasi vent'anni ma il Tibet non ha mai smesso di essere una polveriera dove si accumulano le tensioni create dalla politica di "assimilazione forzata". La fiammata di questi giorni può sembrare improvvisa e inaspettata, in realtà da mesi si segnalavano episodi di protesta nei monasteri, arresti, deportazioni e torture dei religiosi fedeli al Dalai Lama. C'è una logica stringente dietro questa escalation. Una maggioranza dei tibetani continua a considerare illegittima l'invasione dell'armata maoista che nel 1950 ha annesso il loro territorio. Sentono che il tempo gioca contro di loro, per l'invasione continua di immigrati "han" (l'etnia maggioritaria cinese) che sconvolge gli equilibri della popolazione locale e ne snatura l'identità culturale.

Il precedente della rivolta birmana nel settembre scorso è stato seguito con passione, solidarietà e sofferenza da parte dei buddisti tibetani: anche questo popolo ha un attaccamento straordinario alla propria religione, e non tollera le violenze contro i monaci. La gente di Lhasa che ha osato protestare in queste ore sogna di avere miglior sorte del popolo birmano. Si affida all'influenza del Dalai Lama, un leader spirituale che gode di un immenso prestigio nel mondo. Inoltre la Cina non è un piccolo paese arretrato e isolato come la Birmania. Mentre a Lhasa vige il terrore poliziesco, a poche ore di volo Pechino si appresta a celebrare i Giochi come una prova della sua apertura verso il resto del mondo, accogliendo milioni di turisti stranieri.

Ora o mai più: è il sentimento che ha spinto molti tibetani a scendere in piazza. C'è la speranza che nell'anno delle Olimpiadi, con gli occhi del mondo puntati su Pechino, Hu Jintao avrà qualche esitazione prima di ordinare una nuova carneficina.

Per gli occidentali la politica cinese in Tibet appare non solo ignobile ma anche assurda. Con realismo e moderazione, il Dalai Lama ha smesso da decenni di rivendicare l'indipendenza e chiede solo una ragionevole autonomia. Basterebbe applicare al Tibet il sistema in vigore a Hong Kong: porre dei limiti all'immigrazione dal resto della Cina, consentire forme di autogoverno per preservare la fisionomia culturale e proteggere l'ambiente naturale, pur lasciando a Pechino le competenze in materia di politica estera e difesa. Ma anche un modesto federalismo appare al regime cinese come una concessione intollerabile, destabilizzante.

Pechino continua a bollare il Dalai Lama come un "secessionista" con cui è impossibile dialogare. La paura che provano i tibetani è, specularmente, la certezza di Hu Jintao: il fattore tempo gioca in favore della Cina. Con 3,8 milioni di km quadrati di superficie, quanto l'Europa occidentale, il Tibet occupa un terzo della Repubblica popolare ma i suoi sei milioni di abitanti sono appena lo 0,5% dei cinesi. Lo squilibrio demografico è immane, è difficile resistere alla "sinizzazione".

Il regime può contare anche su un consenso reale fra la maggioranza dei cinesi sulla questione tibetana. Imbevuti di nazionalismo fin dalle scuole elementari, imparano sui manuali di storia solo la versione della propaganda ufficiale: il Tibet è "sempre" appartenuto alla Cina; dietro le velleità di autonomia ci sono forze che vogliono indebolire la nazione, proprio come nell'Ottocento e primo Novecento quando gli imperialismi occidentali e giapponese "amputarono" l'Impero Celeste di pezzi di territorio, da Hong Kong alla Manciuria.

Nazionalismo cinese, superiorità demografica, sviluppo economico, sono i rulli compressori che lavorano ad appiattire il Tibet. Mentre la nuova ferrovia rovescia fiumane di "coloni", vasti quartieri di Lhasa già hanno subito uno stravolgimento: ipermercati, shopping mall di elettronica, banche e uffici turistici sono gestiti prevalentemente dai cinesi han, più istruiti e abili negli affari. Lo stesso turismo di massa violenta l'anima dei luoghi: il Potala Palace, ex dimora del Dalai Lama trasformato in museo, è circondato dai torpedoni, invaso da comitive cinesi volgari e arroganti.

Eppure dietro la sicumera di Hu Jintao traspare il germe di un dubbio. L'incapacità di aprire un dialogo col Dalai Lama rivela un'insicurezza. Il partito comunista cinese non accetta che dentro la società civile vi siano movimenti organizzati, autorità alternative. I culti religiosi sono stati autorizzati dopo la fine del maoismo ma sono sottoposti a controlli stringenti, indottrinamenti politici, obblighi di fedeltà assoluta al governo. La figura del Dalai Lama è inaccettabile perché è un'autorità spirituale indipendente.

Al di fuori del Tibet la Cina ha altri 150 milioni di buddisti praticanti: guai se dovesse insinuarsi nel resto del paese l'idea che la religione può diventare il tessuto connettivo di una società civile autonoma. Tra gli incubi della nomenklatura c'è lo scenario Solidarnosc, proiettato in versione buddista.

Nonostante le sue fobie totalitarie, la classe dirigente cinese gestisce tuttavia una superpotenza fortemente integrata nelle relazioni internazionali. La Repubblica popolare è membro permanente del Consiglio di Sicurezza Onu, dell'Organizzazione del commercio mondiale; è il principale partner commerciale dell'Unione europea e degli Stati Uniti. Ha l'ambizione di essere un attore responsabile nella governance globale. E' indispensabile che l'Occidente eserciti ogni pressione per far capire a Hu Jintao i rischi che corre in Tibet: vanno ben al di là dei Giochi olimpici.

Lo sviluppo con cui i dirigenti di Pechino si garantiscono un consenso reale fra una parte della popolazione, può incappare in serie turbolenze se la Cina decide di presentarci un volto odioso e minaccioso.

(15 marzo 2008)

da repubblica.it
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« Risposta #13 inserito:: Marzo 16, 2008, 12:32:30 am »

I Giochi e i morti

Luigi Bonanate


C’era da aspettarselo: qualche giorno fa, la polizia cinese ha eliminato alcuni terroristi uiguri prima ancora che entrassero in azione. Ieri hanno sedato nel sangue le manifestazioni popolari che in Tibet sostenevano la protesta nonviolenta dei monaci buddhisti in occasione dell’anniversario dell’occupazione cinese del 1950. Ancora una volta, a guardare la carta geografica si capisce un mucchio di cose: tanto per incominciare, che il Tibet fa parte della Cina; che lo stesso Tibet è vicinissimo alla terra degli uiguri, altra provincia che è parte integrante della Cina. Le due regioni sono poi entrambe nell’Ovest della Cina; stanno a Nord del triangolo Afghanistan, Pakistan, Nepal (al quale la protesta tibetana si sta estendendo).

E guardano a Est, a dispetto dei loro desideri, verso quella Repubblica popolare cinese che avendo sconfitto la concorrenza organizza i prossimi giochi olimpici, dall’8 al 24 agosto, a Pechino. Ora, non solo riscontriamo ogni giorno di più che l'Asia centrale è ormai il centro assoluto di tensioni internazionali difficilissime da gestire, ma vi emergono di continuo nuove e sempre più incontrollabili difficoltà. Se è sufficiente la celebrazione di un anniversario (quello dell’occupazione cinese in Tibet) a scatenare la dura repressione cinese, è difficile aver fiducia che altre possibili e immaginabili contestazioni di qui al mese di agosto saranno sopite senza l’intervento violento delle forze cinesi. Ma altrettanto difficile sarebbe per il mondo assistervi muto e paziente.

La Cina sta giocando una partita di estrema complessità: ha deciso di mostrare al mondo le sue capacità, di manifestare la sua superiorità nei confronti di tutti noi, pretendendo l’accesso, a suon di dollari, per così dire (anche se valgono sempre meno, le banche cinesi ne hanno un’immensità), nell’alta società. L’apparecchiatura per le Olimpiadi è mozzafiato e mirabolante; gli atleti cinesi si preparano allo spasimo con l’obbiettivo di vincere, se non tutto, quasi. E così, ancora una volta (tristemente) le Olimpiadi vengono utilizzate da un governo come l’occasione per una straordinaria affermazione di potenza e mascolinità (anche in quelle atlete che sono deformate dagli esercizi o dagli anabolizzanti). Chi ha scordato l’immaginario retorico e visionario della Berlino hitleriana durante le Olimpiadi del 1936? Chi i pugni chiusi rivoluzionari alle Olimpiadi del Messico (1968), o i giochi di Seul 1988 e di Barcellona 1992, tra gli altri, che rilanciarono sul piano internazionale le due città e i rispettivi Paesi? E al contrario, non c’è statista cinese la cui memoria non vada, nei momenti di relax, a ciò che è successo a Monaco nel 1972, con il sequestro della squadra nazionale israeliana e la successiva strage, oppure a Mosca nel 1980, quando gli Stati Uniti e molti loro alleati boicottarono i Giochi a seguito dell’invasione sovietica dell’Afghanistan (il dispetto fu reso quattro anni dopo dai russi a Los Angeles). I Giochi di Atlanta poi (1996) furono blindati per il timore di azioni terroristiche, dopo che un aereo di linea si era inabissato davanti a New York (ma anni dopo la Commissione d'inchiesta dimostrò irrefutabilmente che si era trattato di un incidente e non di un attentato).

E ora, le libertà civili, il diritto di professare la propria religione, vengono calpestati per impedire che turbino la psiche di atleti portati sull’orlo del parossismo dalle esasperate tecnologie che contraddistinguono i loro allenamenti. La Cina vorrà alla fine esibire il suo medagliere, e far vedere che dopo i confronti Usa-Urss (o Germania dell’Est), ripetuti per tanti anni, ora tocca proprio a lei sfidare e probabilmente superare l’infiacchita e non più sportiva popolazione statunitense. E noi? Andremo volentieri in un Paese che ci strumentalizzerà come testimonial dei suoi successi e del suo splendore? C’è bisogno che ci diciamo che ogni volta che un popolo o un Paese hanno voluto costruire dei monumenti alla loro grandezza sono subito dopo precipitati, nella maggior parte dei casi trascinando nella caduta anche chi li circondava?

Sport e affari, politica e sport: chi, in Occidente, avrà il coraggio di rinunciarvi? La farisaica politica dei diritti umani che ci ha aiutati a chiudere gli occhi di fronte alle costanti ed evidenti violazioni cinesi riuscirà ad accecarci al punto di non vedere che la Cina fomenta la guerra in Darfour (non peggio di altri; ma dalla Cina non ce lo aspettavamo), che reprime da più di mezzo secolo gli autonomismi e le libertà religiose all’interno dei suoi confini, che in diverse sue province lascia che la vita non scorra meglio che ai tempi di Mao e che a Pechino si muoia di inquinamento? La gravità simbolica del momento è immensa: non scordiamo che di fronte a ciò si staglia la figura straordinaria e semplice del Dalai Lama (il Premio Nobel per la pace 1989, con qualche difficoltà accolto in Italia qualche mese fa, ancora per non dispiacere alla Cina), un pacifista che si interpone tra i guerrafondai alla Bush e gli affaristi cinesi di Hu Jintao (qualche anno fa proconsole proprio in Tibet, e ora al vertice del Partito e dello Stato).

Ma ora gli Stati Uniti hanno pensato bene di depennare la Cina dalla lista nera degli Stati-canaglia, bontà loro! A dire il vero, l’Unione Europea non ha brillato maggiormente: l’Alto rappresentante per la Politica Estera Javier Solana ci invita ad attendere pazientemente l’avvicinarsi del grande evento sportivo. Eppure, la serenità, in giro, è tanto poca che per il transito della fiamma olimpica, nel prossimo mese di maggio, il Nepal ha deciso, su suggerimento cinese, di chiudere niente meno che l’Everest! Ci sarà il timore di un’occupazione? Non potrà essere scalato per una decina di giorni, speriamo che nessuno si arrabbi...

Olimpiadi e politica: nell’antichità le prime sospendevano la seconda. Né guerre né violenza: ma è realistico pensare che ci bastino tre settimane ogni quattro anni per dire che viviamo nel migliore dei mondi possibili?

Pubblicato il: 15.03.08
Modificato il: 15.03.08 alle ore 8.52   
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« Risposta #14 inserito:: Marzo 16, 2008, 06:27:13 pm »

L’assillo del ritorno ai confini dell’impero dietro la linea dura di Pechino

Lina Tamburrino


Ma veramente, come sostengono i cinesi, il Tibet - il suo territorio - la sua gente da sempre appartengono alla Cina? Una risposta è difficile, nonostante su quel Paese sia stato scritto moltissimo, a cominciare dal famoso «Il collasso dello stato lamaista», di Melvyn C.Goldstein, profondo conoscitore del vecchio e dell'odierno Tibet. La storia di quel Paese è complicata dalla comparsa dei mongoli, dall'intreccio di guerre di frontiera, dei rapporti con l'India la Cina, dalla presenza e dal ruolo della burocrazia lamaista e dei templi, spesso luoghi di episodi di sollevamento contro il Dalai Lama in carica. Ma possiamo cercare un primo approccio al complicato tema servendoci di un termine «cho yon», che indica un rapporto particolare tra un 'autorità religiosa- in questo caso il buddismo di origine mongola e un'autorità temporale e cioè l'impero cinese. Il capo mongolo è Khubilay, più tardi fondatore della dinastia degli Yuan, che reggerà l’impero sino al 1368. Nel 1254 egli proporrà al capo buddista P'hagpa questo scambio: un potere di protezione temporale da parte del futuro imperatore e da parte dell'uomo di religione un potere spirituale che si estende anche alla Cina dei mongoli. Sarà ancora un capo mongolo, Altan Khan, a creare la figura del dalai lama, «grande oceano di saggezza», titolo che viene dato nel 1577 a un lama riconosciuto come reincarnazione del discepolo prediletto di Tsongkhapa, il fondatore della setta gialla, il buddismo lamaista, vincente in Tibet. Sarà sempre un capo mongolo a consegnare nel 1642 al quinto Dalai Lama il titolo di «re del Tibet». Ma questo particolare \rapporto non ha mai convinto i tibetani a dichiararsi cinesi e non è mai servito alla Cina a produrre un documento qualsiasi a sostegno della sua tesi della sovranità sul Tibet. Ma guardiamo avanti. Nel 1792 il Tibet diventa oggetto delle attenzioni interessate di Cina, Russia e Gran Bretagna; la prima è preoccupata -come oggi- di non perdere il controllo di una fascia territoriale che garantisce la integrità dell'impero. La seconda è interessata al Tibet per la sua posizione strategica, la terza, già saldamente insediata nello sfruttamento della Cina della costa, è desiderosa di conquistare degli avamposti commerciali oltre la frontiera indiana per neutralizzare quella che ritiene una minaccia cinese ai confini con l'India. Caduta la dinastia dei Qng, il contenzioso sul Tibet sembrava agli occhi dei tibetani chiuso. Non era affatto così. Nel 1945 il vincitore della guerra civile Chiang Kai-shek arriverà a ipotizzare per il Tibet, un alto grado di autonomia, se non addirittura la indipendenza. Finita la guerra, liberata l'intera Cina, proclamata il 1 ottobre la nascita della Cina socialista, c’è ancora un territorio da riportare sotto la sovranità cinese, il Tibet appunto, incarico che verrà affidato a Deng Xiaoping, un uomo che avrà negli anni seguenti un'importanza enorme per la storia e la modernizzazione della Cina. La sua avanzata in Tibet avverrà all'insegna di prepotenze e violenza, di cui rimarrà traccia nel ricordo della popolazione al momento della sollevazione dell'ottobre 1940 e della fuga del Dalai Lama in India. In quegli anni da parte della amministrazione americana, ci sono state pressioni sulla Cina per il rispetto dei diritti umani e il Congresso Usa aveva parlato a proposito del Tibet di diritto alla autodeterminazione. Una volta a Pechino, Clinton aveva incitato l'allora segretario dl partito Jiang Zemin a riaprire il dialogo con il Dalai Lama, al quale il presidente Usa aveva rivolto l'invito a riconoscere che il Tibet è parte della Cina e quindi a rinunciare, come il Dalai Lama ha fatto da tempo, alla parola d'ordine dell indipendenza. Il dialogo tra i due paesi non è mai decollato, per problemi ideologici probabilmente, riconoscere cioè qualcosa: diritti umani, autodeterminazione, che non fanno parte del codice genetico del socialismo con caratteristiche cinesi, riconoscere validità alle idee ed alle pressioni della comunità internazionale, un dimensione del tutto sconosciuta alla politica cinese , dare fiducia a un personaggio, il Dalai Lama, appunto, nei cui confronti cinesi hanno pronunciato giudizi molto sprezzanti ispirati forse alla convinzione che la religione è tutt'ora \l'oppio i popoli. È certo che il dialogo non è mai decollato perchè la Cina ha una sensibilità enorme sul tema dei confini e delle frontiere. L'obiettivo della classe dirigente cinese è quello del ritorno ai vecchi confini dell'impero. Tutta la vicenda tibetana si può facilmente leggere alla luce di questa preoccupazione. La Cina è riuscita a concordare i nuovi confini con la Russia, con il Vietnam, e mantenere truppe alla frontiera con l'India sotto la propria sovranità significa essere pronti fare fronte a qualsiasi emergenza nei rapporti con l'India. Insomma, si può dire che la mancata conclusione dalla vicenda tibetana sia segno della paura dell Cina, cha pure è cresciuta, è una potenza, proclama di avere un proprio interesse a mantenere equilibrio e pace nel mondo. Ma finora non ne ha dato la prova. E a pagarne il prezzo sono i monaci e la popolazione tibetane.

Pubblicato il: 16.03.08
Modificato il: 16.03.08 alle ore 14.46   
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