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Autore Discussione: MILENA GABANELLI.  (Letto 7180 volte)
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« inserito:: Gennaio 30, 2009, 02:57:28 pm »

Il personaggio. Dopo 13 anni di carcere parla Francesco Pazienza

L'uomo dei misteri d'Italia rivela: lingotti per aiutare Walesa

"Io, Gelli e la strage di Bologna"

Ecco le verità della super-spia

di MILENA GABANELLI

 

"Che fine ha fatto?" mi chiedo guardando la foto su un catalogo che sto per buttare. Il suo nome era comparso sui giornali nel 1982 con la qualifica di "faccendiere". Le ultime tracce le trovo su internet: uscito dal carcere di Livorno, sta scontando gli ultimi mesi di pena presso la Pubblica Assistenza di Lerici. Francesco Pazienza ha scontato 10 anni per depistaggio alle indagini sulla strage di Bologna, altri 3 per il crac Ambrosiano e associazione a delinquere. Amico di Noriega, frequentatore dei servizi segreti francesi, americani e sudamericani, nel 1980 è a capo del Super Sismi.

Braccio destro di Licio Gelli, il suo ambiente è il sottobosco di confine fra l'alta finanza e l'alta criminalità, l'alta politica e il Vaticano. Protagonista delle vicende più tragiche della storia italiana degli anni '80, è depositario di informazioni mai rivelate, altre raccontate a modo suo. Laureato in medicina a Taranto, non ha mai indossato un camice. Negli anni '70 vive a Parigi e fa intermediazioni d'affari per il miliardario greco Ghertsos. Poi l'incontro con il capo del Sismi, Santovito. Grandi alberghi, yacht, belle donne, sigari rigorosamente cubani e tagliasigari d'oro... Un'altra epoca. Adesso ha 62 anni e fuma le Capri, mentre cammina da uomo libero sul lungomare di Lerici.

Cominciamo dall'inizio: come avviene l'incontro con Santovito?
"Me lo presentò l'ingegner Berarducci, oggi segretario generale dell'Eurispes. Santovito era suo zio, e mi chiese di fare il suo consulente internazionale".

E perché Santovito le dà questo incarico senza conoscerlo prima?
"Sa, io parlavo diverse lingue e avevo un sacco di relazioni in giro per il mondo. Normalmente non avviene così, ma all'epoca era quasi tutto improntato all'improvvisazione".

E in cambio cosa riceveva?
"Rimborso spese. Siccome non avevo bisogno di soldi, era quello che volevo: se volevo andare a New York in Concorde, andavo in Concorde. Mi sembrava tutto molto avventuroso".

Si dice che lei sia stato determinante nella sconfitta di Carter contro Reagan.
"La storia comincia con Mike Ledeen a Washington, che mi aveva presentato Santovito; lui dirigeva il Washington Quarterly e faceva capo ad una lobby legata ai repubblicani (e alla Cia-ndr). Così gli dico: "Guarda che quando c'è stata la festa per l'anniversario della rivoluzione libica, il fratello di Carter ha fraternizzato con George Habbash", che era il capo del Flp. E a quel punto disse: "Se tu mi dai le prove , noi possiamo fare l'ira di Dio"".

E le prove come se le era procurate?
"Attraverso un giornalista siciliano, Giuseppe Settineri, che io mandai con un microfono addosso ad intervistare l'avvocato Papa, che faceva il lobbista e aveva partecipato alla festa di Gheddafi. Lui raccontò per filo e per segno tutto quello che era successo. Le foto dei festini me le avevano fornite Michele Papa e Federico Umberto D'Amato, la testa degli affari riservati del Viminale".

Il Viminale ha dunque interferito nelle elezioni di un paese alleato?
"Sissignore, però la débacle ci sarebbe stata ugualmente, ma non in misura così massiccia".

Lei, che non è un militare, diventa capo del Super Sismi. Cos'era?
"Il Super Sismi ero io con un gruppo di persone che gestivo in prima persona".

Marzo 1981, le Br sequestrano l'assessore campano Cirillo. Lei che ruolo ha avuto?
"Un ruolo importante. Fui sollecitato da Piccoli, allora segretario della Dc. Incontrai ad Acerra il numero due della Nuova Camorra Organizzata di Cutolo, Nicola Nuzzo. Mi disse che in dieci giorni Cirillo sarebbe stato liberato, e così è stato".

Chi ha pagato?
"Non i servizi. Il giudice Alemi disse di aver scoperto che furono i costruttori napoletani a tirar fuori un miliardo e mezzo di lire, che finirono alle Br".

Piccoli cosa le ha dato per questa consulenza?
"Niente, assolutamente niente, eravamo amici, non c'era un discorso mercantilistico". (Del miliardo e mezzo, alle Br finiscono 1.450 milioni. Chi ha imbustato i soldi del riscatto sarebbe Pazienza, che, secondo vox populi, avrebbe taglieggiato le Br tenendo per sé 50 milioni).

A gennaio 1981 sul treno Taranto-Milano viene piazzata una valigia con esplosivo della stessa composizione di quello usato nella stazione di Bologna... Ci sono dei documenti intestati a un francese e un tedesco, indicati dai servizi come autori di stragi avvenute a Monaco e Parigi. Si scoprirà poi che si trattava di depistaggio.
"Il depistaggio è stato fatto dal Sismi per non fare emergere la vera verità della bomba di Bologna. Secondo l'allora procuratore Domenico Sica c'era di mezzo la Libia, e coinvolgerla in quel momento avrebbe voluto dire tragedia per la Fiat e per l'Eni. Vada negli archivi delle sedute parlamentari: il 4 agosto 1980, Spadolini in persona presentò un'interrogazione parlamentare in cui attribuiva la bomba di Bologna a origini straniere mediorientali".

Ma qual era l'interesse mediorientale?
"L'Italia non poteva sottrarsi agli obblighi Nato, e quindi doveva fare un accordo con Malta, per proteggerla in caso di attacchi del colonnello Gheddafi. L'accordo fu firmato, e Gheddafi fece la ritorsione. Ustica porta la stessa firma. Me lo ha raccontato Domenico Sica. Quando tolgono il segreto di Stato la verità salterà fuori".

Lei è stato condannato a 10 anni per depistaggio, qualche prova a suo carico evidentemente c'era, i servizi segreti li comandava lei.
"Le prove a mio carico erano dovute al fatto che sono stato il braccio destro, mandato dagli americani, per sostituire Licio Gelli alla guida della P2. E siccome Gelli era il motore primo del depistaggio, io che ero il suo braccio destro, automaticamente...".

Quando è scoppiata la bomba a Bologna dov'era?
"A New York".

84 morti e 250 feriti, nel suo paese. Lei è consulente del Sismi, non ha pensato: "Adesso bisogna trovare chi è stato"?
"Io no. Perché non è mio compito. I servizi segreti sono come un'azienda. Giusto? Se tu ti occupi di una cosa, non è che dici "adesso parliamo di Bologna, parliamo di Ustica"...".

1982. Calvi viene impiccato sotto un ponte. Si è parlato di un suo coinvolgimento.
"Sì, e qual era il mio interesse? Io non sono stato mai neanche indagato nell'omicidio Calvi. La sua morte è un mistero anche per me, comunque non si uccide Calvi a livello di Banda della Magliana... E non mi venga a dire che l'MI5 non sapesse che Calvi si trovava a Londra da giorni! I giochi di potere erano molto più grossi. Capisce cosa voglio dire?".

No.
"La morte di Calvi e lo scandalo del Banco Ambrosiano avrebbero imbarazzato pesantemente il Vaticano, che insieme all'Arabia Saudita voleva Gerusalemme città aperta a tutte le religioni, e Israele era contrario. Poi c'era lo scontro politico interno italiano, c'erano i comunisti, che hanno preso una valanga di soldi dal Banco Ambrosiano. Non è così semplice dire è A, B o C".

Di chi erano i soldi che andavano verso la Polonia?
"Arrivavano dai conti misti Ior-Banco Ambrosiano. L'organizzatore era Marcinkus d'accordo con papa Wojtila. Sono stato io a mandare 4 milioni di dollari in Polonia".

Ma come ha fatto tecnicamente?
"Vicino a Trieste, abbiamo fatto preparare una Lada col doppio fondo e dentro c'erano 4 milioni di dollari di lingottini d'oro di credito svizzero. Era aprile 1981, un prete polacco venne a ritirare questa Lada e la portò a Danzica. Qual era il discorso? Agli operai in sciopero non potevamo dare gli zloty, né i dollari perché i servizi segreti polacchi se ne sarebbero accorti. Anche perché lei può fare il patriota come vuole, però se a casa ha 4 bambini e non ha come farli mangiare, lo sciopero non lo fa. Giusto?".

Ma lei perché si portava su un aereo dei servizi segreti un ricercato per tentato omicidio, braccio destro di Pippo Calò, capo della banda della Magliana?
"Lei sta parlando di Balducci. Io sapevo che era uno strozzino, ma non è mai salito su un aereo dei servizi. Usava lo pseudonimo di Bergonzoni e una volta lo feci passare a Fiumicino mentre proveniva da Losanna. Era un favore che mi chiese il prefetto Umberto D'Amato, suo amico intimo". (Per questo "favore" Pazienza fu condannato per favoreggiamento e peculato: fu accertato che aveva trasportato, su un aereo dei servizi , il latitante Balducci sotto falso nome).

Nell'84 lei deposita da un notaio un documento intitolato "operazione ossa". "Ossa" starebbe per Onorata Società Sindona Andreotti. Che cos'era?
"All'epoca c'era il pericolo che Sindona potesse inventare dei coinvolgimenti di Andreotti in questioni di crimini organizzati. Bisognava capire cosa volesse fare Sindona per tirarsi fuori dai guai prima di rientrare in Italia quando si trovava nel carcere americano di New York".

Ci siete riusciti?
"Non c'è stato bisogno di fare nessuna misura attiva, ne abbiamo fatta una conoscitiva".

La misura attiva qualcuno l'ha fatta quando è finito nel carcere italiano...
"Qui parliamo del 1986. Nel carcere italiano ha bevuto un caffè di marca Pisciotta...".

Lei in quante carceri ha soggiornato?
"Alessandria, Parma e alla fine a Livorno.
Complessivamente ho fatto 12 anni di carcere gratis".

Non si ritiene colpevole di nulla?
"Zero. Le racconto una cosa, 30 marzo 1994: un maggiore della Dia, nome M. cognome M. mi dice: "Lei è un uomo informatissimo, ci deve raccontare di come portava le lettere di Fabiola Moretti (compagna di De Pedis, componente della banda della Magliana, coinvolto nel rapimento di Emanuela Orlandi-ndr) al senatore Andreotti, nel suo ufficio privato. Sa, fra poco esce la sentenza di Bologna, e noi la mettiamo a posto". Io gli ho detto: "A me di Andreotti non importa niente. Il problema è che quel che lei mi chiede di ricordare non è vero". Avevo il microfono addosso. Sa qual è la cosa comica? Che molti pensano che io sapessi di questo e di quell'altro e che non ho detto niente perché sono un duro. Non ho detto niente perché non sapevo. Capisce la differenza?".

Quando è uscito dal carcere dove è andato?
"A casa dei miei genitori, comunque non è un problema ricominciare da capo".

Cosa fa ora per sbarcare il lunario?
"Il consulente per transazioni internazionali. Sto trattando un cementificio in Africa".

Come pensa di ricostruirsi una credibilità?
"La storia non è finita, sta cominciando il secondo tempo".

Erano 25 anni che volevo incontrare il grande faccendiere. Una curiosità tutta personale, volevo vedere in faccia l'uomo che ha fatto da cerniera in tutti i misteri profondi di questo paese. Ci vuole grandezza anche per essere protagonisti di grandi drammi. Invece si incontrano delle comparse, figure che si dimenticano. Sembrano scelte apposta.

Cosa ricordo io di quel 2 agosto? Ero andata a prenotare delle cuccette. Nell'atrio tanta gente che andava e veniva, in un sabato di ferie, e i ragazzini che fanno sempre un gran casino, fra la biglietteria e il marciapiede del binario 1. L'immagine successiva non ha sonoro: è quella di un luogo irriconoscibile coperto dalla polvere. E poi il bianco di un lenzuolo che attraversa la città, appeso alle porte di un autobus. Per qualche anno, ho avuto paura tutte le volte che andavo in stazione. Da 15 anni prendo un treno tutte le settimane, vado di fretta, e non guardo mai lo squarcio coperto da un vetro, non guardo mai l'orologio fermo alle 10.25. Ogni anno il 2 agosto osservo da lontano la gente che si raduna per commemorare. Qualche volta mi viene da piangere.

(30 gennaio 2009)
da repubblica.it
« Ultima modifica: Gennaio 14, 2013, 06:05:54 pm da Admin » Registrato
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« Risposta #1 inserito:: Agosto 27, 2011, 04:07:59 pm »

L'INCHIESTA - LA SPESA PUBBLICA

Quei super dirigenti statali pagati con un doppio stipendio

Lo scandalo dei «fuori ruolo». Solo i magistrati sono trecento


Il governatore Formigoni dice che i cittadini chiedono un segnale: vendere le Poste, la Rai, il patrimonio immobiliare.
L'esperienza ha purtroppo insegnato che finora vendere significa svendere, o meglio, profitti privati e perdite pubbliche.
Il ministro è sempre lo stesso, quello della cartolarizzazione più grande del mondo, ovvero la vendita degli immobili degli enti previdenziali, attraverso società di diritto lussemburghese, Scip 1, 2 e 3.

Un fallimento pagato da noi e che qualcuno ha definito «romanzo criminale». Forse il cittadino avrebbe maggiore fiducia se a vendere fosse una nuova generazione politica. Certo è che il primo segnale che il cittadino, quello che deve continuare a tirarsi il collo, oggi chiede, è di farla finita almeno con privilegi che gridano vendetta e che si continua ad escludere dalla cura dimagrante.

Era l'inizio di dicembre 2010, era appena stata varata una manovra di correzione dei conti pubblici con i soliti tagli lineari, quando invitammo, senza essere degnati di cortese risposta, la presidenza del Consiglio e il ministro Tremonti a provvedere all'eliminazione di una norma che non ci risulta applicata in nessun altro paese civile: l'incasso di uno stipendio per un mestiere che non fai
( www.report.rai.it ). Quando un dipendente pubblico viene chiamato a svolgere un incarico presso un ministero, una commissione parlamentare, un'authority o un organismo internazionale, va in «fuori ruolo». Trattandosi di incarico temporaneo, conserva ovviamente il posto, l'anomalia è che conserva anche lo stipendio, a cui si aggiunge l'indennità per il nuovo incarico. In sostanza due stipendi per un periodo di tempo spesso illimitato. Nel 1994 il Csm lanciava l'allarme, segnalando «il numero crescente dei magistrati collocati fuori ruolo, la durata inaccettabile di alcune situazioni, alcune superano il ventennio, quando non il trentennio... la reiterazione degli incarichi... con la creazione di vere e proprie carriere parallele».

Domanda: è ammissibile che un soggetto che non lavora per un'amministrazione, ma lavora per un'altra, venga pagato anche dall'amministrazione per la quale non lavora? Sono bravi dirigenti dello Stato, sicuramente i migliori, visto che sono sempre gli stessi a passare cronicamente da un fuori ruolo ad un altro, lasciando sguarnito il posto d'origine perché non possono essere sostituiti, e i loro colleghi che restano in servizio si devono far carico anche del loro lavoro. E poi c'è il danno, il magistrato fuori ruolo percepisce anche l'indennità di malattia, mentre quelli in servizio la perdono. Per arrivare alla beffa, e cioè possono essere promossi, ovvero avanzare di carriera mentre sono fuori ruolo. Ad esempio Antonio Catricalà è fuori ruolo dal Consiglio di Stato da sempre, è stato capo gabinetto di vari ministri di schieramenti opposti, poi all'Agcom, fino al 2005 segretario della presidenza del Consiglio con Berlusconi, quindi nominato presidente dell'Antitrust. Non ricopre la carica in Consiglio di Stato, ma ciononostante nel 2006 da consigliere diventa presidente di sezione, e senza ricoprire quel ruolo incassa uno stipendio di 9.000 euro netti al mese che si aggiungono ai 528.492,67 annui dell'Antitrust.

A fare carriera senza ricoprire la carica è anche Salvatore Sechi, distaccato alla presidenza del Consiglio con un'indennità di 232.413,18, e Franco Frattini, nominato presidente di sezione del Consiglio di Stato il 7 ottobre del 2009 mentre è ministro della Repubblica (che però risulta in aspettativa per mandato parlamentare). Consigliere di Stato è anche Donato Marra: percepisce 189.926,38, più un'indennità di funzione di 352.513,23 perché è alla presidenza della Repubblica. Il dottor Paolo Maria Napolitano oltre allo stipendio di consigliere di Stato in fuori ruolo, prende 440.410,49 come giudice della Corte costituzionale. Anche Lamberto Cardia, magistrato della Corte dei conti fuori ruolo, è stato 13 anni alla Consob, ma il 16 ottobre del 2002 è stato nominato presidente di sezione, «durante il periodo in cui è stato collocato fuori ruolo», specifica l'ufficio stampa della Corte dei conti, «ha percepito il trattamento economico di magistrato, avendo l'emolumento di 430.000 euro corrisposto dalla Consob, natura di indennità».

Tra Consiglio di Stato, Tar, Corte dei conti, Avvocatura dello Stato e magistratura ordinaria, sono fuori ruolo circa 300 magistrati che mantengono il loro trattamento economico percependo un'indennità di funzione che a volte supera lo stipendio. Il commissario dell'Agcom Nicola D'Angelo ha sentito la necessità di rinunciare all'assegno e mettersi in aspettativa. Dall'Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni riceve un'indennità di 440.410,49 annui, dall'agosto del 2010, dopo la manovra che tagliava gli insegnanti di sostegno nelle scuole per i disabili e gli stipendi dei dirigenti pubblici del 10%, ha rinunciato ai 7.000 euro al mese che prendeva da consigliere del Tar fuori ruolo. Una scelta personale, visto che non ci ha pensato Tremonti. D'Angelo dice di essere l'unico a porsi un problema etico, in effetti gli altri, ad esempio Alessandro Botto, consigliere di Stato fuori ruolo e componente dell'Autorità di vigilanza sui contratti pubblici, con doppio stipendio, ha dichiarato di non sapere che si potesse rinunciare al doppio assegno. La giustificazione è che lo stipendio da magistrato serve ad integrare quello per la carica da dirigente perché non abbastanza remunerata.

È proprio vero che all'ingordigia non c'è fine: il presidente della Consob spagnola prende 162.000 euro l'anno, quello delle telecomunicazioni 146.000, non un euro in più, e nessun magistrato prestato ad altre funzioni mantiene il posto e tantomeno lo stipendio. Le nostre associazioni dei magistrati hanno chiesto più volte di limitare l'uso dei magistrati fuori ruolo ai casi strettamente necessari, perché si può creare una pericolosa commistione tra ordine giudiziario e potere politico, oltre a quello di sottrarre centinaia di magistrati al lavoro di giudici per svolgere il quale sono stati selezionati e vengono pagati. Ma sicuramente alla politica che sceglie, dai capi gabinetto ai membri delle Authority, fa sempre comodo «valorizzare» i magistrati, sia penali che amministrativi, perché in atti dove si deve forzare un po' la mano, possono dare utili consigli. Allora, visto che in questi giorni ai cittadini verranno imposte lacrime e sangue, cominciamo ad eliminare elargizioni e benefici il cui accumulo rende impossibile perfino la quantificazione. Non sono questi i numeri che porteranno al pareggio di bilancio, ma certamente hanno contribuito a far sballare i conti e alla formazione di una cultura arraffona e irresponsabile. Una classe politica che non sa essere «giusta» incattivisce i suoi cittadini, e alla fine verrà condannata dalla storia.

Milena Gabanelli e Bernardo Iovene

25 agosto 2011 10:51© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/cronache/11_agosto_25/super-dirigenti-statali-pagati-doppio-stipendio-gabbanelli-iovene_13e80f94-cedc-11e0-9639-95c553466c70.shtml
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« Risposta #2 inserito:: Dicembre 29, 2012, 07:45:20 pm »

Berlusconi, dichiarazioni a peso d'oro

Le uscite del Cavaliere e le ricadute sul titolo Mediaset.

I rialzi sempre in coincidenza con le «discese in campo»

Milena Gabanelli

“Cosa è successo al titolo Mediaset quando Berlusconi si è ripreso il microfono?" Una domanda nata, come spesso avviene, maliziosamente, in mezzo a tante altre che affollano ogni giorno i pensieri di un giornalista curioso.

Guardiamo le date: il 9 ottobre, in diretta a Canale 5, dichiara: «Appello a tutti i moderati che non si riconoscono nella sinistra: posso rigenerare il movimento creato nel ‘94 (Forza Italia n.d.r.) per formare i giovani». Due giorni dopo Dell’Utri conferma: «Pronti a creare un’altra Forza Italia, con il fuoco che manca al Pdl, ripartendo dai circoli del buon governo».

Adesso prendiamo il grafico dei movimenti dei rendimenti giornalieri dell’indice di mercato, il FTSE-MIB, e del titolo Mediaset relativo ai primi 15 giorni di ottobre; e cosa si vede?
Il titolo Mediaset sale e scende in modo coerente all’andamento di mercato, ma il 10 ottobre (subito dopo l’annuncio della disponibilità a scendere in campo), il titolo comincia a salire ed arriva ad un picco di quasi +8% (mentre l’indice FTSE-MIB viaggia fra il –2% e il +2%).

Proseguendo fino a Natale si trova una serie di altre “coincidenze”.
Il 26 ottobre arriva la condanna a 4 anni per i diritti Mediaset, e il mercato punisce il titolo, ma poco dopo lo premia con un altro picco del +4%, il 27 ottobre quando al tg5 Berlusconi dichiara: «Mi sento obbligato a restare in campo per riformare il pianeta giustizia, nei prossimi giorni decideremo se togliere immediatamente la fiducia a questo governo».
Il 16 Novembre arriva in elicottero e parla alla squadra: «Bilancio del governo Monti disastroso, e attacco alla politica economica della Merkel».

Nei giorni a seguire il titolo sfiora un picco del +6%. Il 28 novembre La Russa annuncia la candidatura di Berlusconi per la premiership. Il 1° dicembre al vertice di Arcore l’ex premier dice: «Sono assediato dalle richieste di ridiscesa in campo. Il Paese è sull’orlo del baratro, non posso permetterlo».

Sempre in controtendenza il titolo comincia a salire fino a raggiungere, il 3 dicembre, un altro picco del +7%. Forse il mercato già scommette che 3 giorni dopo il Pdl si asterrà al Senato e alla Camera su decreto sviluppo e costi della politica nelle regioni. D’altronde nei giorni prima il mercato ha imparato ad apprezzare che gli eventi ‘discesa in campo di Berlusconi’, ‘election day’ e ‘ritiro della fiducia’ sono tra loro assai collegati.

L’8 dicembre Berlusconi annuncia: «Torno in campo per senso di responsabilità; un altro leader non c’è». E il 12: «Vorrei riposarmi, ma se serve sono pronto; ho accettato di essere candidato premier, ma anche leader della coalizione». Il titolo nuovamente si impenna, ma precipita subito dopo quando il Ppe sfiducia Berlusconi, per risalire immediatamente nei giorni successivi con l’intervento a Porta a Porta: «Avete bisogno di me, sento il dovere di prestare soccorso a chi ne ha bisogno».

In sostanza negli ultimi tre mesi si rilevano numerosi picchi rispetto al resto dell’anno, che hanno portato un guadagno per Mediaset del 27%, contro un andamento medio di mercato del 6%. Se poi si considera che, a dicembre 2011, Mediaset aveva perso circa il 20% rispetto ad un incremento medio di mercato del 9%, ci si chiede: ma Berlusconi ignora le ricadute sul titolo (e chi se ne avvantaggia) delle sue uscite pubbliche?
Risposta: probabilmente no.

Allora ne sorge un’altra: manipolazione informativa, insider trading? Qualcuno se ne dovrebbe occupare: certo la Consob. Chissà se Vegas, tra una discettazione sulla Tobin tax ed una sulle sue proposte bizzarre per ridurre il debito pubblico (tempestivamente assunte a riferimento da Alfano), riuscirà a trovare il tempo per fare anche il suo lavoro, ovvero le dovute verifiche?

Per esempio andare a vedere quali sono gli operatori, e soprattutto gli investitori che hanno beneficiato dell’andamento del titolo.
In fondo richiede meno tempo di quello che inopportunamente trovò per andare a votare la fiducia al governo Berlusconi nel dicembre 2010, quando era già stato nominato Presidente della Consob.

Guarda il grafico dei movimenti dei rendimenti giornalieri dell’indice di mercato, il FTSE-MIB, e del titolo Mediaset

Milena Gabanelli

28 dicembre 2012 (modifica il 29 dicembre 2012)© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/inchieste/reportime/economia/berlusconi-dichiarazioni-peso-d-oro/e36107ee-5135-11e2-9c70-def14518d4ca.shtml
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« Risposta #3 inserito:: Gennaio 14, 2013, 05:59:21 pm »

Il Vaticano, le regole e l'antiriciclaggio

L'Europa, la Santa Sede e quella promozione mancata:il MoneyVal si è limitato a dare un giudizio di “insufficienza”, rinviando a una successiva riunione un'ulteriore valutazione, che dovrà tener conto non solo delle regole, ma anche della loro effettiva attuazione. -


Milena Gabanelli

Il Signor Bruelhart, direttore generale dell’Autorità di informazione finanziaria (Aif) della Santa Sede non capisce perché Bankitalia abbia deciso di bloccare i bancomat della Deutsche Bank in Vaticano.

Come emerso nel corso di un'ispezione della Vigilanza della Banca d'Italia, Deutsche Bank Italia aveva stipulato una convenzione per lo svolgimento di sistemi di pagamento automatici (Pos) nell'ambito della Città del Vaticano, senza chiedere la prescritta autorizzazione alla stessa Vigilanza.

Autorizzazione chiesta successivamente, ma negata per le seguenti ragioni:

- assenza presso la Città del Vaticano di un idoneo sistema di regole e controlli di vigilanza bancaria e, quindi, della possibilità di scambio di informazioni tra le rispettive autorità di controllo;
- la Città del Vaticano non è presente nell'elenco degli Stati ritenuti equivalenti a quelli europei a fini antiriciclaggio.

Secondo il dottor Bruelhart, invece, lo Stato Vaticano avrebbe posto in essere adeguati sistemi di controllo, e incassato il giudizio positivo per la vigilanza sull’antiriciclaggio lo scorso luglio nella riunione plenaria del MoneyVal (il Comitato di esperti per la valutazione di misure contro il riciclaggio di capitali del Consiglio d'Europa).

Per quel che riguarda la normativa e i controlli bancari, bisognerebbe credergli sulla parola, poiché al momento sono del tutto assenti.
Quanto all'antiriciclaggio, non è vero che il MoneyVal abbia promosso il Vaticano.
Al termine di una riunione, disertata dai rappresentanti dell'Uif italiana (Unità di informazione finanziaria) in quanto diffidati dal Ministero dell’Economia (chissà perché…) dall'esprimere le proprie valutazioni negative, il MoneyVal si è limitato a dare un giudizio di “insufficienza”, rinviando a una successiva riunione un'ulteriore valutazione, che dovrà tener conto non solo delle regole, ma anche della loro effettiva attuazione.

Sotto il profilo antiriciclaggio, la definizione di un Paese extra Ue come “equivalente” a quelli comunitari, vuol dire che le banche extra Ue effettuano sui loro clienti una adeguata verifica, e che tale verifica è considerata valida dalle banche italiane. In assenza di equivalenza, l'adeguata verifica dev'essere effettuata dalle banche italiane sulla base delle informazioni fornite dalle corrispondenti banche extra Ue.
In tale contesto, lo Ior ha più volte rifiutato le informazioni richieste dalle banche italiane presso le quali aveva aperto dei conti, preferendo chiudere tali conti e trasferire i relativi fondi in altri Paesi più disponibili.

All'affermazione che l'Aif vaticana ha stipulato protocolli d'intesa con altri Stati, si può replicare che l'Italia - come l'esperienza del passato dovrebbe aver insegnato - è l'unico paese effettivamente interessato alla regolarità dei comportamenti delle istituzioni finanziarie vaticane.
Va inoltre considerato il fatto che è quasi impossibile realizzare all’interno della Città del Vaticano strutture pubbliche di controllo realmente autonome ed efficienti, proprio per le piccole dimensioni del suo territorio, e del suo apparato pubblico (le persone che decidono sono poche e frequentano la stesse stanze). Ciò rende molto probabile che le regole astratte vengano vanificate da comportamenti distorti e opportunistici.

Milena Gabanelli

13 gennaio 2013 (modifica il 14 gennaio 2013)© RIPRODUZIONE RISERVATA

DA - http://www.corriere.it/inchieste/reportime/economia/vaticano-regole-antiriciclaggio/b8fe4066-5dd3-11e2-8540-81ed61eeac0a.shtml
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« Risposta #4 inserito:: Gennaio 31, 2013, 11:17:34 am »

La trasparenza che non piace alla Consob

Tra i controllori del «gran premio delle banche», che non si sono preoccupati di verificare la loro capacità di controllare i rischi, non c'è solo la Banca d'Italia, ma anche la Consob

- Milena Gabanelli

Ci sono diverse cose che abbiamo imparato dall’improvvisa ribalta del caso Mps, che così nuovo ed inatteso non è.
La prima è che nel frenetico mondo della finanza globalizzata, i derivati sono il motore “turbo” che serve a far correre tutta l’attività delle banche più velocemente, ma se non lo sai governare vai a sbattere. Mps ha usato l’auto truccata su dissestate strade di montagna, assumendosi grandi rischi senza strumenti efficaci di controllo.

La seconda è che i controllori del “gran premio delle banche” non si sono preoccupati di verificare la capacità degli istituti finanziari di saper controllare effettivamente i rischi; questi rischi sono dappertutto nell’attività ordinaria di una banca, i derivati consentono di assumerne di più per poter vincere il gran premio.
E non c’è solo Banca d’Italia (che dovrà dimostrare a cosa hanno portato le sue ispezioni e quali provvedimenti ha adottato), ma anche la Consob, che ha poteri simili a quelli dell’autorità giudiziaria e dovrebbe imporre che questi rischi vengano monitorati, controllati e resi noti a tutto il mercato.
Non a caso alcune violazioni che stanno emergendo dal caso Mps sono la “turbativa dei mercati” ed il “falso in bilancio”, entrambe territorio d’azione della Consob.

Ma questa Consob governata rigidamente dall’ex Vice Ministro dell’Economia e dal capo del legislativo di Tremonti dell’ex-governo Berlusconi (Vegas e Caputi) non sembra interessata a far sì che le informazioni sugli intermediari finanziari, quelle importanti, circolino realmente.
C’è un solo modo per conoscere con precisione e rendere trasparenti le esposizioni ai rischi delle banche e finanziarie quotate, ed è attraverso i calcoli degli scenari di probabilità.
Tali scenari consentono di sapere quanto e con che probabilità un investimento in derivati fa guadagnare o perdere la banca, per poter così dare un prezzo a questi prodotti, visto che i prezzi si fanno con le probabilità.

E cosa ha fatto la Consob negli ultimi due anni?
Ha riorganizzato tre volte i propri uffici e marginalizzato in un ruolo secondario e subordinato proprio quell’Ufficio che potrebbe controllare l’esposizione ai rischi di banche, holding e società quotate.
Nel caso di Unipol, l’Ufficio Analisi Quantitativa è stato incaricato di verificare quanto valgono i 6 miliardi di strutturati che ha in pancia con 6 mesi di ritardo, quando ormai l’operazione di fusione con Fonsai è partita, e solo dopo che la stampa ha sollevato il problema.
Questo fatto indica che non c’è indipendenza, né autonomia di azione; basta leggere l’organigramma dell’Ufficio sul sito della Consob per capire che l’Ufficio in questione non vigila come gli altri, ma sembra costretto a lavorare all’interno di procedure burocratiche che sembrano essere messe apposta per impedirgli di fare il proprio lavoro, cioè evitare che le banche possano assumersi rischi incontrollati senza dirlo al mercato e operare vendendo ai risparmiatori prodotti tossici.

Forse il peccato originale di questo Ufficio è l’aver chiesto regolamenti che rendevano automatica la pubblicazione e la divulgazione dei rischi degli investimenti finanziari proprio attraverso le probabilità,in maniera tale che tutti sul mercato potessero sapere chi rischiava e quanto rischiava. Ma questa trasparenza riduce i margini di azione di chi magari preferisce gestire i controlli in maniera più personale.

I sindacati e le associazioni dei consumatori sono in allarme: una Consob che ingabbia sé stessa per impedirsi di fare il proprio mestiere non sta lavorando al servizio del Paese. È un motivo sufficiente per ricorrere al Tar? Loro pensano di sì, noi anche.
Se poi si considera che i principali responsabili dei guai Mps sono stati promossi invece di essere rimossi, e il fatto che il conto salato per il salvataggio del Monte lo andremo a pagare noi contribuenti, ci si aspetta che il prossimo governo intervenga con adeguate riforme.

È noto che la trasparenza dei rischi previene comportamenti scorretti e promuove la fiducia nel sistema finanziario, circostanza che reimmetterebbe virtuosamente nel circuito il risparmio (la cui quota investita in attività finanziaria è di oltre 4 volte il Pil), stimolando le banche a fare il loro mestiere, cioè riattivare le erogazioni di prestiti verso il sistema produttivo e le famiglie, con benefici su produzione ed occupazione.

Guarda l'inchiesta "I garanti" andata in onda a Report il 7 ottobre 2012

Milena Gabanelli

28 gennaio 2013 (modifica il 29 gennaio 2013)© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/inchieste/reportime/economia/trasparenza-che-non-piace-consob/7567a2ee-6980-11e2-a947-c004c7484908.shtml
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« Risposta #5 inserito:: Marzo 04, 2013, 06:26:47 pm »

Incompatibili e illegittimi ma gestiscono il potere

L'architrave del Potere da smantellare -


Milena Gabanelli

Cosa potrebbe succedere se domattina una banca, un’assicurazione, o una società di revisione dovesse impugnare davanti al Tar i provvedimenti di vigilanza della Consob nell’ultimo anno e mezzo in quanto potenzialmente illegittimi?
La possibilità non è peregrina, poiché il Direttore Generale Gaetano Caputi ha una collezione di incarichi incompatibili con il suo ruolo.

L’art 2 della legge 216/74 dice: «Al personale in servizio presso la Commissione è in ogni caso fatto divieto di assumere altro impiego o incarico o esercitare attività professionali, commerciali o industriali». La Consob è l’unica autorità ad avere per legge l’ordinamento della Banca d’Italia. Vi immaginate Visco o Saccomanni collezionare incarichi? Bene, Gaetano Caputi, stretto collaboratore di Tremonti nei governi Berlusconi, nel 2001 diventa Professore Ordinario alla scuola superiore dell’economia e delle finanze (quella scuola dove insegna anche Marco Milanese, e i cui docenti sono stati parificati ai professori universitari per decreto).

In data 6 aprile 2011 Caputi viene nominato Segretario Generale della Consob, e quindi questo incarico, secondo legge, lo dovrebbe perdere. Invece risulta che nel frattempo ne ha accumulato altri: dal 24 settembre 2009 è componente della Commissione di garanzia per l’attuazione della Legge sullo sciopero nei servizi pubblici essenziali.
Vuol dire che il Prof. Caputi, oltre ad essere l’interfaccia fra i sindacati e i soggetti vigilati, da una parte è la naturale controparte dei dipendenti della Consob in caso di contrasti sindacali che possono sfociare anche in mobilitazioni ed in scioperi all’interno dell’Istituto, e dall’altra, come componente della Commissione sul diritto di sciopero, è chiamato ad accertarne all’interno le irregolarità, ed a comminare le relative sanzioni.
Inoltre è stato fino a maggio 2012 consigliere della Difesa Servizi S.p.A, che tra le altre cose bandisce gare cui partecipano società quotate, cioè soggetti vigilati della Consob.

Nel 2011 risultava socio della Geco s.r.l., e fondatore della Glm, società private che dispensano consulenze anche in materia di riciclaggio (231/2007), che come noto riguardano una lunga lista di soggetti vigilati della Consob. La notizia però è trapelata sulla stampa e in tempo reale ha prima ceduto le quote di queste società alla moglie, e poi liquidate.

Un’avidità che non gli ha impedito di proseguire la carriera visto che, a luglio 2011, Caputi cumula a quello di Segretario Generale l’incarico di Direttore Generale che poi assumerà a Settembre dello stesso anno, con un emolumento di base di circa 300.000 euro, ma in molti sostengono arrivi a 400.000 euro, a cui si sono aggiunti i 180.000 euro per l’attività di professore, e 90.000 come componente della Commissione di garanzia sullo sciopero. Non è invece noto il compenso percepito come consigliere della Difesa Servizi Spa.

Il problema è che il dipendente Consob può fare una cosa sola! Vegas, messo sotto pressione, in violazione della legge, cambia l’ordinamento interno, in modo che Caputi possa rimanere Professore fuori ruolo alla scuola superiore dell’economia e delle finanze, e pensa di risolvere la questione vietando a Caputi di percepire l’emolumento della Commissione sullo Sciopero. Ma Caputi non rinuncia a nulla ed ha impugnato il provvedimento davanti al Tar.

La Federconsumatori, preoccupata dell’inefficacia della vigilanza Consob e delle ricadute per il pubblico risparmio, intima al Presidente e ai commissari di risolvere questa incompatibilità (anche se ha cambiato le regole interne, la legge dice che non puoi avere “nessun” incarico) e chiede di vedere gli atti della nomina di Caputi. La Consob ne nega l’accesso, in fondo la trasparenza è un optional ed è meglio non vederci chiaro. Federconsumatori ricorre al Tar, vedremo come si pronuncerà nell’udienza prevista il 6 marzo.

C’è un incarico che però è sfuggito alla Federconsumatori, ma del resto come poteva saperlo visto che non sono disponibili informazioni in chiaro? Nel 2001 Caputi diventa componente della Commissione consultiva per le infrazioni in materia valutaria e di lotta al riciclaggio presso il ministero delle Finanze. In questa Commissione, composta da 4 membri più un segretario, l’incarico è di 3 anni, ma il nostro Caputi oggi è ancora lì, a ricoprire una funzione non solo illegittima, ma anche incompatibile con il suo ruolo in Consob.

Cosa fa questa Commissione? Dispensa pareri obbligatori al ministero dell’Economia in merito ai provvedimenti sanzionatori relativi ad operazioni sospette, esportazione di contante, infrazioni valutarie, omesse segnalazioni, che provengono dall’Unità di Informazione Finanziaria, da Bankitalia, dalla Guardia di Finanza, dalla Consob, dalla Dia. Decide in pratica se è opportuno che il ministero dell’Economia archivi, o sanzioni, e in quale misura.

Caputi quindi in qualità di Direttore Generale Consob potrebbe trovarsi a segnalare questioni da sanzionare su una società di revisione o un intermediario per questioni di riciclaggio o operazioni sospette, e dall’altra parte dover valutare se il tal soggetto merita la sanzione e quanto.
Da anni l’Uif chiede di conoscere quanti provvedimenti siano andati a buon fine, quali archiviati, quante sanzioni sono state irrogate e per quale ammontare. La risposta non è mai arrivata.
Qual è quindi l’utilità di questa Commissione? Non pare quella di snellire l’azione amministrativa, molto più probabile il contrario, perché magari l’illuminato parere arriva fuori tempo massimo.

In questa mansione “illegittima” Caputi si trova in compagnia di un altro collezionista di incarichi: Pasquale de Lise, nominato da Tremonti Presidente della Commissione a Giugno 2010, mentre era Presidente del Consiglio di Stato. De Lise, in 50 anni di attività, ha ricoperto tutti i ruoli apicali della giustizia amministrativa: è stato Capo Gabinetto presso il ministero del Bilancio, della Programmazione economica, dei Trasporti, per 3 volte al ministero del Tesoro; Capo Ufficio Legislativo di una infinita lista di Ministeri, è stato membro di tutte le Commissioni che contano, ha espresso pareri per la riforma del sistema delle Autorità indipendenti e le riforme istituzionali. Presidente di sezione della Commissione tributaria regionale del Lazio, Presidente della Commissione istituita presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri per l'attuazione delle Direttive comunitarie che ha redatto il codice dei contratti pubblici. Giudice del Tribunale supremo militare, componente del Comitato per la pensioni privilegiate ordinarie, componente del Consiglio superiore dei lavori pubblici. Ha collezionato tutte le più prestigiose onorificenze al merito.

Oggi il pensionato de Lise, a 76 anni, oltre a valutare chi sanzionare e chi no, è ovviamente Presidente emerito del Consiglio di Stato, Presidente della Commissione di garanzia per la giustizia sportiva presso la Federcalcio, componente del Comitato etico dell’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni, della Commissione scientifica consultiva sul Codice della Pubblica Amministrazione.

Cambiano i partiti, cambiano i governi, ma questi apparati dello Stato, formati da individui sconosciuti alla maggior parte della popolazione, sono sempre lì, sempre gli stessi, in spregio alle incompatibilità previste dalla legge e dal buon senso. Sono questi inamovibili Direttori Generali, Segretari di Stato, Presidenti di Commissioni, che impediscono la costruzione di uno Stato moderno, efficiente, affidabile. È questa l’architrave del Potere da smantellare.

Milena Gabanelli

3 marzo 2013 (modifica il 4 marzo 2013)© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/inchieste/reportime/economia/incompatibili-illegittimi-ma-gestiscono-potere/fd8859ea-843b-11e2-9582-bc92fde137a8.shtml
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« Risposta #6 inserito:: Gennaio 02, 2014, 03:04:43 pm »

Tutto quello che non ha fatto la politica del «noi faremo»
Il peso delle tasse, la giustizia lenta, le difficoltà di imprese e lavoratori, i tagli alla Rai

A fine anno, nella vita come in tv, si replica. Il Capo dello Stato fa il suo discorso, quello del Governo ricicla le dichiarazioni di 6 mesi fa in occasione del decreto del fare, con l’enfasi di un brindisi: «Faremo». Vorremmo un governo che a fine anno dica «abbiamo fatto» senza dover essere smentito. Il Ministro Lupi fa l’elenco della spesa: 10 miliardi per i cantieri, «saranno realizzate cose come piazze, tutto ciò di cui c’è un bisogno primario». C’è un bisogno primario di piazze e di rotatorie? «Trecentoventi milioni per la Salerno-Reggio Calabria». Ancora fondi per la Salerno Reggio-Calabria? Fondi per l’allacciamento wi-fi. Ma non erano già nel piano dell’Agenda Digitale?
E poi la notizia numero uno: «Le tasse sono diminuite». Vorrei sapere dal premier Letta per chi sono diminuite, perché le mie sono aumentate, e anche quelle di tutte le persone che conosco o che a me si rivolgono. È aumentata la bolletta elettrica, l’Iva, l’Irpef, la Tares. L’acconto da versare a fine anno è arrivato al 102% delle imposte pagate nel 2012, quando nel 2013 tutti hanno guadagnato meno rispetto all’anno prima. Certo l’anno prossimo si andrà a credito, ma intanto magari chiudi o licenzi. E tu Stato, quando questi soldi li dovrai restituire dove li trovi? Farai una manovra che andrà a penalizzare qualcuno. I debiti della pubblica amministrazione con le imprese ammontano a 91 miliardi. A giugno il Governo dichiara: «Stanziati 16 miliardi». È un falso, perché quei 16 miliardi sono un prestito fatto da Cassa Depositi e Prestiti agli enti locali. E per rimborsare questo mutuo, i comuni, le province e regioni hanno aumentato le imposte. L’Assessore al Bilancio della Regione Piemonte in un’intervista a Report ha detto: «Per non caricare il pagamento dei debiti sui cittadini, si doveva tagliare sul corpo centrale delle spese del Governo, e se non si raggiungeva la cifra … non so ... vendo la Rai!».

Privatizzare la Rai è un tema ricorrente. Nessun paese europeo pensa di vendersi il servizio pubblico perché è un cardine della democrazia non sacrificabile. In nessun paese europeo però ci sono 25 sedi locali: Potenza, Perugia, Catanzaro, Ancona. In Sicilia ce ne sono addirittura due, a Palermo e a Catania, ma anche in Veneto c’è una sede a Venezia e una a Verona, in Trentino Alto Adige una a Trento e una a Bolzano. La Rai di Genova sta dentro ad un grattacielo di 12 piani…ma ne occupano a malapena 3. A Cagliari invece l’edificio è fatiscente con problemi di incolumità per i dipendenti. Poi ci sono i Centri di Produzione che non producono nulla, come quelli di Palermo e Firenze. A cosa servono 25 sedi? A produrre tre tg regionali al giorno, con prevalenza di servizi sulle sagre, assessori che inaugurano mostre, qualche fatto di cronaca. L’edizione di mezzanotte, che è una ribattuta, costa 4 milioni l’anno solo di personale. Perché non cominciare a razionalizzare? Se informazione locale deve essere, facciamola sul serio, con piccoli nuclei, utilizzando agili collaboratori sul posto in caso di eventi o calamità, e in sinergia con Rai news 24. Non si farà fatica, con tutte le scuole di giornalismo che sfornano ogni anno qualche centinaio di giornalisti! Vogliamo cominciare da lì nel 2014? O ci dobbiamo attendere presidenti di Regione che si imbavagliano davanti a Viale Mazzini per chiedere la testa del direttore di turno che ha avuto la malaugurata idea di fare il suo mestiere? È probabile, visto che la maggior parte di quelle 25 sedi serve a garantire un microfono aperto ai politici locali. Le Regioni moltiplicano per 21 le attività che possono essere fatte da un unico organismo.

Prendiamo un esempio cruciale: il turismo. Ogni regione ha il suo ente, la sua sede, il suo organico, il suo budget, le sue consulenze, e ognuno si fa la sua campagna pubblicitaria. La Basilicata si fa il suo stand per sponsorizzare Metaponto a Shangai. Ognuno pensa a sé, alla sua clientela (non turistica, sia chiaro) da foraggiare. E alla fine l’Italia, all’estero, come offerta turistica, non esiste. Dal mio modesto osservatorio che da 16 anni verifica e approfondisce le ricadute di leggi approvate e decreti mai emanati che mettono in difficoltà cittadini e imprese, mi permetto di fare un elenco di fatti che mi auguro, a fine 2014, vengano definitivamente risolti.

Punto 1. Ridefinizione del concetto di flessibilità. Chi legifera dentro al palazzo forse non conosce il muro contro cui va a sbattere chi vorrebbe dare lavoro, e chi lo cerca. Un datore di lavoro (che sia impresa o libero professionista) se utilizza un collaboratore per più di 1 mese l’anno, lo deve assumere. Essendo troppo oneroso preferisce cambiare spesso collaboratore. Il precario, a sua volta, se offre una prestazione che supera i 5000 euro per lo stesso datore di lavoro, non può fare la prestazione occasionale, ma deve aprire la partita Iva, che pur essendo nel regime dei minimi lo costringe comunque al versamento degli acconti; inoltre deve rivolgersi ad un commercialista per la dichiarazione dei redditi, perché la norma è di tre righe, ma per dirti come interpretare quelle tre righe, ci sono delle circolari ministeriali di 30 pagine, che cambiano continuamente. Il principio di spingere le persone a mettersi in proprio è buono, ma poi le regole vengono rimpinzate di lacci e alla fine la partita Iva diventa poco utilizzabile. Perché non alzare il tetto della «prestazione occasionale» fino a quando il precario non ha definito il proprio percorso professionale? Il mondo del lavoro non è fatto solo da imprese che sfruttano, ma da migliaia di micropossibilità che vengono annientate da una visione che conosce solo la logica del posto fisso. Si dirà: «Ma se non metti dei paletti ci troveremo un mondo di precari a cui nessuno versa i contributi». Allora cominci lo Stato ad interrompere il blocco delle assunzioni e smetta di esternalizzare! Oggi alle scuole servono 11.000 bidelli che costerebbero 300 milioni l’anno. Lo Stato invece preferisce dare questi 300 milioni ad alcune imprese, che ricavano i loro margini abbassando gli stipendi (600 euro al mese) e di conseguenza i contributi. Che pensione avranno questi bidelli? In compenso lo Stato non ha risparmiato nulla…però obbliga un libero professionista o una piccola impresa ad assumere un collaboratore che gli serve solo qualche mese l’anno. Il risultato è un incremento della piaga che si voleva combattere: il lavoro nero.

Punto 2. Giustizia. Mentre aspettiamo di vedere l’annunciata legge che archivia i reati minori (chi falsifica il biglietto dell’autobus si prenderà una multa senza fare 3 gradi di giudizio), occorrerebbe cancellare i processi agli irreperibili. Oggi chi è beccato a vendere borse false per strada viene denunciato; però l’immigrato spesso non ha fissa dimora, e diventa impossibile notificare gli atti, ma il processo va avanti lo stesso, con l’avvocato d’ufficio, pagato dallo Stato, il quale ha tutto l’interesse a ricorrere in caso di condanna. Una macchina costosissima che riguarda circa il 30% delle sentenze dei tribunali monocratici, per condannare un soggetto che «non c’è». Se poi un giorno lo trovi, poiché la legge europea prevede il suo diritto a difendersi, si ricomincia da capo. Perché non fare come fan tutti, ovvero sospendere il processo fino a quando non trovi l’irreperibile? Siamo anche l’unico paese al mondo ad aver introdotto il reato di clandestinità: una volta accertato che tizio è clandestino, anziché imbarcarlo subito su una nave verso il suo paese, prima gli facciamo il processo e poi lo espelliamo. Una presa in giro utile a far credere alla popolazione, che paga il conto, che «noi ce l’abbiamo duro».

Punto 3. L’autorità che vigila sui mercati e sul risparmio. Dal 15 dicembre, scaduto il mandato del commissario Pezzinga, la Consob è composta da soli due componenti. La nomina del terzo commissario compete al Presidente del Consiglio sentito il Ministro dell’Economia ed avviene con decreto del Presidente della Repubblica. Nella migliore delle ipotesi ci vorranno un paio di mesi di burocrazia una volta che si sono messi d’accordo sul nome. Ad oggi l’iter non è ancora stato avviato e l’Autorità non assolve il suo ruolo indipendente proprio quando si deve occupare di dossier strategici per il futuro economico-finanziario del Paese come MPS, Unipol-Fonsai e Telecom. Di fatto Vegas può decidere come vigilare sui mercati finanziari e sul risparmio, direttamente da casa, magari dopo essersi consultato con Tremonti (che lo aveva a suo tempo indicato), visto che il voto del Presidente vale doppio in caso di parità, e i Commissari hanno facoltà di astensione. Perché il Governo non si è posto il problema qualche mese fa, e perché non si è ancora fatto carico di una nomina autorevole, indipendente e in grado di riportare al rispetto delle regole?

Punto 4. Ilva. È alla firma del Capo dello Stato il decreto «terra dei fuochi», dentro ci hanno messo un articolo che autorizza l’ottantenne Commissario Bondi a farsi dare i circa 2 miliardi dei Riva sequestrati dalla procura di Milano. Ottimo! Peccato che non sia specificato che quei soldi devono essere investiti nella bonifica. Inoltre Bondi è inadempiente, ma il decreto gli da una proroga di altri 3 anni, e se poi non sarà riuscito a risanare, non è prevista nessuna sanzione. Nel frattempo che ne è del diritto non prorogabile della popolazione a non respirare diossina? Ovunque, di fronte ad un disastro ambientale, si sequestra, si bonifica e i responsabili pagano. Per il nostro governo si può morire ancora un po’.

Come contribuente e come cittadina non mi interessa un governo di giovani quarantenni. Pretendo di essere governata da persone competenti e responsabili, che blaterino meno e ci tirino fuori dai guai. Pretendo che l’età della pensione valga per tutti, che il rinnovo degli incarichi operativi non sia più uno orrendo scambio di poltrone fra la solita compagnia di giro. Pretendo di essere governata da una classe politica che non insegna ai nostri figli che impegnarsi a dare il meglio è inutile. 
31 dicembre 2013
© RIPRODUZIONE RISERVATA
Milena Gabanelli

Da - http://www.corriere.it/inchieste/reportime/economia/tutto-quello-che-non-ha-fatto-politica-noi-faremo/df04e168-71ad-11e3-acd7-0679397fd92a.shtml
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« Risposta #7 inserito:: Gennaio 02, 2014, 03:15:39 pm »

La denuncia
La replica di Usigrai e la risposta di Milena Gabanelli
Dopo la pubblicazione dell’articolo «Tutto quello che non ha fatto la politica del noi faremo»

L’attacco alle sedi regionali della Rai sferrato da Milena Gabanelli dalle colonne del Corriere della Sera è disinformazione pura: dati errati e una scarsa conoscenza dell’azienda per la quale lavora da anni. Una operazione del genere fatta in una fase cruciale del rinnovo del Contratto di Servizio e del dibattito sul Concessione di Servizio Pubblico del 2016 rischia di dare un grande aiuto ai detrattori della Rai. Prima di fornire alcuni dati, non posso che esprimere sconcerto per l’opinione che Gabanelli ha delle colleghe e colleghi che lavorano nelle redazioni regionali: nella Tgr non abbiamo 700 reggimicrofono o esperti di sagre, ma straordinari professionisti che ogni giorno garantiscono l’informazione di Servizio Pubblico per e dal territorio. Passiamo ai dati. Le sedi regionali non sono 25, ma 21: una per ogni regione, più Trento e Bolzano. Le redazioni invece sono 24, perché si aggiungono quelle di minoranza linguistica: Bolzano tedesca, Bolzano ladina e Trieste slovena. Le redazioni regionali non producono solo 3 tg al giorno, ma 3 telegiornali, 2 giornali radio, gli appuntamenti quotidiani della mattina Buongiorno Regione e Buongiorno Italia, un tg scientifico quotidiano, un settimanale, diverse rubriche quotidiane e settimanali a trasmissione nazionale, cui vanno aggiunti tutti i servizi che ogni giorno vengono prodotti per i tg nazionali. Solo per fare alcuni numeri: da Milano, Torino e Napoli arrivano oltre 12mila pezzi all’anno. In sintesi, la TgR produce 8500 ore tv e 6200 radiofoniche. Sul tg della sera (la cosiddetta terza edizione) ricordiamo che - nonostante l’assenza di un orario fisso - garantisce alla rete sempre un leggere aumento di ascolto. È falso che Firenze e Palermo siano centri di produzione. Come è falso che non producano nulla. A Firenze si produce Bellitalia, rubrica nazionale dedicata ai beni culturali. A Palermo si produce Mediterraneo, rubrica di attualità internazionale realizzata con France 3, in collaborazione con Entv Algeria e trasmessa da 8 emittenti europee e in lingua araba. Che alcuni immobili poi siano sovradimensionati lo abbiamo denunciato noi per primi, proponendo alla Rai una valutazione congiunta, convinti che in alcuni casi si possano trovare soluzioni più adeguate e con il ricavo investire in innovazione tecnologica. Insomma, con un condensato di luoghi comuni, Gabanelli si iscrive di diritto nel partito - a dire il vero molto trasversale - di quanti pensano che il problema della Rai sia come ridimensionarla. E infatti, rivolgendosi al governo e ai partiti attraverso l’autorevole tribuna del Corriere della Sera (grazie a un contratto Rai che non le impone l’esclusiva), Gabanelli si inserisce nella scia qualunquista per chiedere una sforbiciata alla Rai e non invece ciò che realmente serve alla nostra azienda di Servizio Pubblico. Innanzitutto una legge di nomina dei vertici che garantisca autonomia e indipendenza dai partiti e dai governi. Una riforma del canone che assicuri certezza di risorse alla Rai e permetta ai cittadini di pagarla tutti, pagare meno, e in maniera progressiva sul reddito: invece la giornalista neanche una parola ha scritto sull’evasione di 550 milioni di euro all’anno. Poi una legge sui conflitti di interesse. Come quello che permette di essere in Commissione parlamentare di Vigilanza al proprietario di una tv privata locale che da imprenditore e da senatore chiede che la Concessione di Servizio Pubblico venga affidata ad azienda come la sua. Eppure è un tema che Gabanelli ben conosce visto che è stato oggetto di una intervista che la sua redazione mi ha chiesto ormai mesi fa, anche se ancora non ha avuto occasione di mandare in onda. Insomma, stimo fortemente Milena Gabanelli come professionista e leader di una squadra che assicura inchieste che danno lustro alla Rai. Proprio la sua autorevolezza e credibilità, dovrebbe indurla a informarsi con più attenzione prima di esprimere giudizi sul lavoro di centinaia di colleghe e colleghi e proporre soluzioni che rischiano di fare il gioco di chi vuole ridimensionare la Rai e quindi l’informazione di Servizio Pubblico.

Vittorio di Trapani Segretario Usigrai



Di seguito la risposta di Milena Gabanelli

Scusi, ma le redazioni di Verona e Catania si occupano di minoranza linguistica? Ci mancherebbe che 700 giornalisti si tirassero le dita! Io non li ho umiliati, poiché non sono sempre i giornalisti che decidono di occuparsi di sagre o assessori, ma magari il loro di direttore, di nomina politica. E la mancata razionalizzazione delle sedi locali (ostacolata dalla politica e a quanto pare anche dai sindacati) è un peso che impedirà alla Rai di essere realmente concorrenziale. Non bisogna difendere solo i diritti acquisiti, bisogna anche capire in quale direzione deve andare l’azienda! i tempi sono cambiati, c’è il web, c’è Rainews24. Nel 1994 mi occupavo di un programma che si chiamava Professione Reporter e spiegava ai giornalisti il più agile ed economico modello di videogiornalismo , l’Usigrai protestò e chiese di chiudere il programma, perché non avrebbe avuto altro scopo che la riduzione dei cameramen. Oggi più o meno tutti i giornalisti sanno usare la videocamera. Se l’allora direttore di Rai2 Minoli, vi avesse ascoltato, Report non sarebbe mai nato, e non produrrebbe ad un costo così competitivo. Per quel che riguarda il resto noi ce ne siamo occupati più volte affrontando l’ira del cda di turno. Non mi risulta che l’abbiano fatto pubblicamente altri colleghi. Le ricordo che non sono una dipendente Rai, ma capisco che secondo la sua ottica non dovrei scrivere per il Corriere. Lo faceva anche Biagi (altro calibro, certo)... ma forse abbiamo idee diverse su cosa sia il valore aggiunto. Buon Anno

Milena Gabanelli

31 dicembre 2013
© RIPRODUZIONE RISERVATA

Da - http://www.corriere.it/cronache/13_dicembre_31/replica-usigrai-risposta-milena-gabanelli-256c1fec-7229-11e3-9570-45a67b1bba62.shtml
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« Risposta #8 inserito:: Gennaio 14, 2016, 06:45:03 pm »

Il salvataggio degli istituti di credito
Le 4 banche in difficoltà e l’incapacità tecnica di stare a Bruxelles
Il vero problema, però, è come mai siamo arrivati a fine novembre 2015 con questo bubbone


Di Milena Gabanelli

U n miliardo di risparmio in fumo e un tragico precedente. Questo l’epilogo del «salvabanche» di Renzi. La difesa: «Ce lo ha chiesto l’Europa».
È vero? Non è stato facile ricostruire cosa sia successo dato che anche la politica ci ha messo del suo. Essendo di fatto la questione complessa è partito l’usuale tiro al piccione. La colpa è della Boschi, anzi di suo padre; si poteva usare il Fondo Interbancario dei Depositi. O meglio: basta cambiare i contributi con cui le banche salvano altre banche da obbligatori a volontari. Anzi no, si doveva fare come in Portogallo con la Banif e nazionalizzarle; dimenticando il dettaglio che quando potevamo farlo con MPS, per l’insipienza di tutti, abbiamo preferito depredare con farlocchi aumenti di capitale 9 miliardi di risparmio nazionale. Insomma, ognuno ha detto la sua con livelli di superficialità differenziali.

Arrivati a fine novembre 2015 con l’imminenza di regole europee sul salvataggio bancario ancora più severe (il bail-in partenza da gennaio 2016) non c’erano alternative. Da agosto 2013 è infatti in vigore una regola europea che impone, per poter procedere a un salvataggio delle banche, l’azzeramento dei valori di azioni e obbligazioni subordinate (la «comunicazione sul settore bancario»). E da qui non si scappa soprattutto se hai due mesi di tempo.
Il problema, però, è come mai siamo arrivati a fine novembre 2015 con questo bubbone e con il rischio che non sia finita, visto che anche le banche venete non è che navighino proprio in ottime acque.
Orologi indietro e torniamo all’estate del 2013. All’unanimità si approva in Europa questa Comunicazione che interviene dritto per dritto sul Trattato di Funzionamento dell’Unione Europea. Quindi l’Italia è della partita e approva l’idea che per salvare una banca ci voglia il preliminare azzeramento del valore di azioni e di obbligazioni subordinate. Sorgono alcune domande: la politica, prima di firmare, ha chiesto o fatto verificare a qualcuno quante obbligazioni subordinate erano state piazzate ai piccoli risparmiatori? Qualcuno ha verificato quale fosse lo stato di salute delle banche che avevano piazzato subordinate ai piccoli investitori o fatto aumenti di capitale a raffica a prezzi esorbitanti?

Sono verifiche che avrebbero dato il seguente esito: le banche che nell’estate del 2013 avevano probabilità di saltare superiori al 30% avevano piazzato 20 miliardi di subordinati ai risparmiatori e 10 miliardi di aumenti di capitale. Se nessuno però ha disposto queste verifiche, vuol dire che abbiamo firmato in bianco. Se invece qualcuno (Bankitalia o Consob) ha rassicurato il governo di turno che era tutto a posto, sarebbe pure peggio.
Purtroppo non è finita qui. Qualora non avessimo capito che cosa implicassero le nuove regole dell’agosto 2013, a febbraio 2015 la Commissione europea scrive una bella lettera al governo avente ad oggetto: «Aiuto di Stato, sostegno dello Stato a Banca Tercas» in cui chiarisce i termini della questione e dice che se non si azzerano azioni e subordinate il Fondo Interbancario di Tutela dei Depositi non può aiutare la Tercas.

Qualcuno nel governo l’ha letta questa lettera? Qualcuno ha verificato se c’erano altre banche in una situazione simile a Tercas? In fondo a quella data erano «solo» 16 le banche commissariate da Banca d’Italia, e tra i presupposti di quei commissariamenti ci sono le gravi perdite al patrimonio.
Insomma, è vero che queste regole ci hanno colti di sorpresa. Ma la sorpresa deriva dall’inadeguatezza della politica a stare tecnicamente in Europa. Una nota di colore: fino a luglio 2013 il governo tedesco ha erogato direttamente 250 miliardi di euro per salvare le sue banche senza contare la KFW (la Cassa Depositi e Prestiti tedesca). Come a dire, una volta risolti i problemi tedeschi si possono aggiornare le regole europee.
Forse serve un bagno d’umiltà. Andare in Europa e spiegare che la situazione ci è sfuggita di mano e adesso ci serve un po’ di tempo in più prima di applicare queste regole. In alternativa, possiamo continuare a dire che il nostro sistema bancario è solidissimo e fare finta di avere ipotetici piani B... fino al prossimo «caso Civitavecchia».

9 gennaio 2016 (modifica il 9 gennaio 2016 | 10:18)
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Da - http://www.corriere.it/economia/16_gennaio_09/4-banche-difficolta-l-incapacita-tecnica-stare-bruxelles-faf1ac46-b6af-11e5-9dd6-8570df72b203.shtml
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« Risposta #9 inserito:: Febbraio 08, 2018, 06:30:32 pm »

Il lavoro del futuro: cosa conviene studiare

Di Milena Gabanelli

All’inizio degli anni Duemila la figura del social media manager, lo specialista nella gestione delle pagine Facebook o Instagram, non compariva nei Cv. Chi dieci anni fa ha investito in un corso di formazione e ha sperimentato il linguaggio dei social network oggi può dirsi un professionista. C’è un dato sul quale è necessario iniziare a ragionare da subito ed è quello fornito dallo studio del World Economic Forum: il 65% dei bambini che oggi vanno a scuola, una volta diplomati o laureati, svolgeranno dei lavori che ad oggi ancora non esistono, ma che possiamo provare ad immaginare.
Il mercato del lavoro è in rapida trasformazione, la parola chiave è certamente “flessibilità nelle forme contrattuali”, ma anche nelle mansioni si sta realizzando un enorme turn over di competenze a livello mondiale. Secondo il forum di Davos, entro il 2020 si prevede la perdita di 7.1 milioni di posti di lavoro, la maggior parte nei ruoli amministrativi. Contemporaneamente però ci sarà anche un incremento fino a 2 milioni di posti di lavoro nelle professioni del settore delle tecnologie, della matematica e dell’ingegneria. Tra i posti perduti e quelli guadagnati, resta un “buco” di 5,1 milioni di posti di lavoro.

La macchina sostituirà l’uomo nel lavoro
Si stima che entro il 2033, i settori in cui la manodopera rischia più di essere sostituita dalle macchine riguardano l’agricoltura e la pesca, la manifattura e in maniera importante il commercio. Nonostante nelle province italiane si continui a investire nella costruzione di grossi centri commerciali, la tendenza sempre più diffusa è quella dell’acquisto su internet. In prospettiva ci saranno sempre meno commessi non specializzati e più specialisti dell’e-commerce. I settori in cui invece, nonostante tutto, continuerà a rimanere improbabile la sostituzione uomo-macchina, sono quelli dell’istruzione e della salute. Le cure sanitarie, anche se sempre più coadiuvate dalle apparecchiature biomediche, non potranno mai fare a meno di una presenza umana capace di assistere e scegliere quali medicine somministrare al paziente. Anche nella scuola del futuro ci saranno sempre gli insegnanti alla lavagna nelle classi. Impensabile allo stesso modo poter sostituire uno psicologo capace di ascoltare in terapia.

In Italia, oggi, tra le cause della disoccupazione giovanile c’è la lunga coda della crisi economica, il precariato, la mancanza di un sistema meritocratico. Una parte della responsabilità va cercata anche nei ministri della Pubblica istruzione degli anni ’80, che non si sono impegnati a capire quali prospettive avrebbero dovuto avere gli studenti nel mondo di oggi, investendo di conseguenza sulla loro formazione. Nella lettura globale delle possibili evoluzioni future del mercato del lavoro, più alto sarà il livello di istruzione e specializzazione in un settore, maggiore la possibilità di avere lavoro. Allora cosa stiamo facendo oggi per preparare le prossime generazioni al mondo di domani?

I mestieri del futuro
Tre processi inarrestabili influiranno più di altri: la tecnologia e internet, l’invecchiamento della popolazione, il riscaldamento globale. Il commercio continuerà a spostarsi fino ad assestarsi sull’e-commerce, ci saranno sempre meno negozi di vicinato e più store on line. Di conseguenza sempre più aziende investiranno sulla pubblicità e sulla gestione del marchio online, dall’immagine alla vendita. Manager dell’e-commerce, seo manager sono già oggi delle figure professionali più che reali.

I big data
Viviamo in una società informatizzata, dai telefoni cellulari ai computer degli uffici pubblici: ogni minuto vengono creati, immagazzinati e condivisi milioni di dati. E spesso si tratta anche di dati sensibili. È utile dunque formare dei data scientist, ovvero persone capaci di gestire tutte queste informazioni. Ma cosa ha fatto negli ultimi anni il ministero dell’Istruzione e della Ricerca per creare dei corsi di studio che diano concrete possibilità di formazione ai giovani in Italia nei Big Data? Secondo un rapporto promosso dal Miur, non mancano i corsi di specializzazione o master post laurea, ma nelle università pubbliche, ad oggi, esistono solo due lauree triennali in data science e tre corsi di laurea magistrale. Manca il rapporto del 2017.

Coding e programmazione
Già nella primissima infanzia i bambini imparano a usare il touch screen e i tablet, ma la vera sfida è però rendere gli adulti di domani coscienti degli strumenti che maneggiano e capaci di dominarli, non limitandosi a subirne gli effetti del click. È importante dunque insegnare dalle scuole elementari gli elementi di emancipazione dalla tecnologia attraverso il linguaggio di programmazione (coding). Saper programmare vuol dire essere in grado di ordinare ad una macchina come svolgere un dato compito. Il ministero dell’Istruzione, nella riforma della Buona Scuola ha inserito, nel 2014, proprio il progetto “Programma il futuro” con l’obiettivo di portare questa materia nelle classi, e arrivare a coinvolgere almeno il 40% delle scuole. Leggendo i risultati del report si legge che in media, nel corso di un anno, gli studenti svolgono appena 13 ore di lezione, e solo grazie ai docenti volenterosi.

La popolazione invecchia
In Italia il 22,3% della popolazione ha più di 65 anni, una percentuale che nei prossimi anni aumenterà. Prevedere serie politiche di sostegno per i più anziani e per le famiglie che li accudiscono rimane una priorità. Dal punto di vista occupazionale si apre uno scenario nel quale serviranno sempre più persone disponibili a occuparsi dei più anziani, sia nella cura sia nelle attività di vita quotidiana.

Il futuro del pianeta
Il riscaldamento globale ci costringe a un’economia a basse emissioni. La trasformazione in un’economia più verde, che sappia sostenere l’adattamento agli effetti dei cambiamenti climatici, genererà nuovi posti di lavoro aggiuntivi in tutti i settori economici. I lavori verdi (green jobs) sono quelli che si impegnano per minimizzare ogni forma di spreco e inquinamento, per ridurre l’impatto ambientale delle imprese migliorandone l’efficienza energetica, per un uso efficiente delle materie prime come l’acqua. Secondo uno studio Ocse, sarà necessario trovare soluzioni alla gestione e al riciclaggio dei rifiuti e alla sostenibilità dei trasporti. Ma sarà anche necessaria un’industria mineraria ed estrattiva con reti intelligenti e una nuova tecnologia nella costruzione e gestione degli edifici.

Cosa stiamo facendo oggi per prepararci al futuro
In Italia il 30% dei cittadini non ha competenze digitali. E nelle scuole c’è solo un computer ogni 8 alunni. Investiamo in ricerca e sviluppo l’1,3% del Pil, rispetto alla media europea che è del 2%. Una percentuale decisamente bassa soprattutto se paragonata alla Germania dove si investe il 2,9% del Prodotto interno lordo. Inoltre, fra la popolazione dai 25 ai 64 anni, solo l’8,3% è coinvolto in programmi di formazione. La media europea è del 10,8%.

Guardando alla formazione scolastica e alla ricerca, nella legge finanziaria approvata nel dicembre 2017, è previsto un finanziamento fino a 30milioni di euro per gli istituti tecnici superiori (Its) per l’incremento degli strumenti tecnologici legati allo sviluppo dell’industria 4.0. Si prevede l’istituzione di un Fondo (fino a 250 milioni annui dal 2019) per finanziare i progetti proposti dal pubblico e dal privato per lo sviluppo del capitale immateriale. Questo è il massimo che il Parlamento è riuscito a mettere in campo come investimento per i prossimi anni. Resta aperto il tema della formazione nelle scuole, ancora troppo vecchie nell’organizzazione, mentalità e reclutamento, per poter dare ai ragazzi gli strumenti che servono a prepararli al futuro. Un tema che non figura nei programmi dei partiti durante questa campagna elettorale.

7 febbraio 2018 | 17:47
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« Risposta #10 inserito:: Febbraio 09, 2018, 11:07:04 am »

Sanità: il «buco» dei rimborsi

Di Milena Gabanelli e Simona Ravizza

La spesa sanitaria incide per oltre il 70% sul bilancio delle Regioni, ma siccome la domanda aumenta la politica del risparmio taglia le prestazioni e aumenta il costo ticket a carico dei pazienti. Ma è possibile che una clinica privata, per una risonanza magnetica, applichi una tariffa tre volte inferiore a quella che rimborsa la Regione a una clinica convenzionata con il servizio sanitario nazionale, e ci guadagni pure? È possibile. A conti fatti, mentre gli ospedali pubblici si stanno via via impoverendo, per una struttura sanitaria incassare una convenzione equivale a garantirsi una gallina dalle uova d’oro.

Partiamo dall’inizio: gli italiani fanno oltre 55 milioni di esami l’anno, e la metà delle prestazioni vengono eseguite fuori dagli ospedali e dagli ambulatori pubblici. Il motivo è che il nostro sistema sanitario pubblico, pur essendo uno dei migliori al mondo, da solo non ce la fa e, per abbattere le liste d’attesa e colmare le inefficienze, si appoggia agli imprenditori privati convenzionati — ossia rimborsati con soldi pubblici. Ma in base a quale criterio gli esami vengono rimborsati fino a tre volte il loro costo?

I costi a confronto
Vediamo quanto esborsa lo Stato, tramite le Regioni, per gli esami più diffusi (risonanze magnetiche muscoloscheletriche, tac del torace ed ecografie all’addome completo) e quanto si fanno pagare invece dai cittadini che pagano di tasca propria i migliori centri privati “non convenzionati”. Paragonando questi prezzi si scopre che il risparmio potrebbe arrivare a 100 milioni di euro. Il confronto è a parità di qualità delle attrezzature diagnostiche, di professionalità di personale medico e di inquadramento contrattuale.

I risparmi possibili per le risonanze magnetiche muscoloscheletriche
Al Sant’Agostino di Milano, che non lavora con il servizio sanitario, una risonanza magnetica muscoloscheletrica (ginocchio, spalla, mano, anca, piede) costa al cittadino che ha fretta 90 euro. Qual è il rimborso che la Lombardia garantisce ai suoi centri privati convenzionati? 169,97 euro. L’89% in più. Il numero delle prestazioni eseguite in un anno sono 168.514, quindi si potrebbero risparmiare quasi 13,5 milioni. Alla CasaSalute di Genova il costo è di 45 euro, contro i 133,28 pagati dalla Regione Liguria (196,18% in più). La Regione potrebbe quindi spendere 716.850 euro contro 2,1 milioni. Alla MediClinic di Padova si paga 59 euro contro 188,45 (219,40% in più). Il Veneto potrebbe quindi spendere 6,6 milioni invece di 21,3. Lo stesso discorso vale per le ecografie all’addome completo. Potrebbero essere spesi 38,4 milioni, invece ne vengono sborsati 46,7. Idem per Tac al torace senza contrasto: solo in Liguria e Veneto il risparmio potrebbe essere di 596.532 euro.

I COSTI NEGLI ALTRI 2 ESAMI
Il conto finale
Il totale di risparmio possibile, solo per i tre esami, e solo nelle tre Regioni, è di 38,4 milioni. Una cifra che, proiettata su scala nazionale, in base alla popolazione e all’incidenza dei centri privati convenzionati con il servizio sanitario, supera i 100 milioni. Se poi calcoliamo che gli esami ambulatoriali sono di duemila tipi, che per gli esami di laboratorio il costo di produzione oggi è il 50% inferiore a quello che viene rimborsato (perché la tecnologia ha fatto passi avanti, ma le tariffe sono ancora quelle di 15 anni fa), quanto si potrebbe risparmiare dei 4,6 miliardi di euro l’anno che lo Stato rimborsa ai privati convenzionati? Il conto non è semplice, ma forse si può stimare una cifra attorno ai 2 miliardi.

Lo spreco di soldi pubblici
Insomma: ci sono imprenditori privati puri — e non sono certo dei benefattori — che riescono a garantire ai cittadini esami di qualità a un certo prezzo e a guadagnarci. Ma allora perché lo Stato, tramite le Regioni, per quelle stesse prestazioni dà molti più soldi agli altri imprenditori privati convenzionati? Il risultato è una valanga di risorse che potrebbe essere utilizzata per assumere più medici negli ospedali pubblici e per accorciare le liste d’attesa. Un problema legato all’inefficienza, alla mancanza di personale e al fatto che i medici bravi esercitano la libera professione nei loro ambulatori privati. Allora pagateli meglio e fate lavorare le macchine 12 ore al giorno, come fanno nelle strutture private. Ce ne sarebbe anche per fare più prevenzione: un’attività poco remunerativa che di fatto il privato in convenzione non fa; mentre il pubblico, sempre più spolpato, la sta pian piano dismettendo. Ma come funziona il meccanismo dei rimborsi?

Un meccanismo di pagamento non aggiornato da anni
Le ultime tariffe sono state fissate dal decreto ministeriale del 18 ottobre 2012 del governo Monti. Le cifre riportate, però, sono solo indicative: ciascuna Regione le può ritoccare (di solito al rialzo) a suo piacimento in base al titolo V della Costituzione che sancisce l’autonomia regionale in materia sanitaria. Il principio è che gli imprenditori privati convenzionati ricevano lo stesso rimborso di un ospedale pubblico. Il che ci può stare per gli ospedali privati convenzionati che hanno il servizio di Pronto soccorso o curano i tumori. Parliamo di strutture che devono erogare un mix di prestazioni non sempre economicamente vantaggiose e possedere requisiti organizzativi equiparati al pubblico. Il problema è che lo stesso principio vale anche per le piccole cliniche e una miriade di centri ambulatoriali convenzionati che fanno risonanze, tac ed ecografie, esami del sangue dalla mattina alla sera, senza offrire nessun altro servizio.

La posta in gioco è alta. Chi decide?
Un meccanismo che non consente di acquistare sul mercato le prestazioni a un prezzo equo e conveniente, ma garantisce enormi profitti a imprenditori privati accreditati, senza gara, con il servizio sanitario. Profitti che poi vengono investiti in attività finanziarie, immobiliari, SPA e Resort. Ma chi ha deciso che la clinica o l’ambulatorio privato accreditato debba incassare quanto un ospedale pubblico? Dentro quali pareti si riuniscono i tavoli tecnici per stabilire “quanto” deve essere rimborsata una prestazione, e in base a quali calcoli? Da chi sono formate queste commissioni, quanti ne capiscono di sanità e chi dà le carte? Gli interessi in gioco sono alti e rivedere le tariffe, non aggiornate da anni, può soltanto essere una decisione politica. E la politica dovrebbe anche sapere che il grosso, quello che sta determinando una lievitazione della spesa complessiva e che si può definire “furto legalizzato alle casse pubbliche” senza portare alcun vantaggio ai cittadini, è il doppio binario dei ricoveri. Quali sono gli interventi chirurgici che negli ospedali pubblici si fanno solo nel 15% dei casi, perché valutati inutili se non dannosi, e in quelli privati convenzionati si arriva fino al 99%? A quanto ammontano questi rimborsi? Ampia documentazione nella prossima inchiesta.

2 febbraio 2018 | 16:33
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Da - http://www.corriere.it/dataroom-milena-gabanelli/sanita-fiume-denaro-privati-convenzionati/f89a4870-0768-11e8-8886-af603f13b52a-va.shtml
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« Risposta #11 inserito:: Febbraio 28, 2018, 11:14:19 pm »

Pec: l’Agenzia delle Entrate, la Consob e la difficoltà di aprire una posta elettronica certificata

Di Milena Gabanelli e Andrea Marinelli

Un mese fa un professionista milanese viene convocato dall’Agenzia delle Entrate e invitato a presentare una documentazione entro dieci giorni. Pensando fosse il metodo più rapido e sicuro, decide di inviare tutto il materiale attraverso la Pec. Dopo due settimane si presenta in via della Moscova 2 e scopre che i documenti non erano mai arrivati. «Ah, qua la Pec la apre un dirigente ogni sei mesi», si sente rispondere. «Mi raccomando, la prossima volta mandi tutto via email normale, se no qui non arriva niente».

Questa storia, e quella della Pec, sono lo specchio perfetto di come funziona la pubblica amministrazione in Italia. Introdotta dal decreto del Presidente della Repubblica n.68 del 11/02/2005 per sostituire digitalmente le raccomandate, aveva 6 obiettivi: il valore legale della mail, l’integrità del contenuto, la certificazione dell’invio e della consegna, la certezza dell’identità di mittente e destinatario. Una buona idea, ma pressoché ignorata.

Dieci anni di tira e molla
Pensando di dare un’accelerata, nel 2009 l’allora ministro per la Pubblica Amministrazione e l’Innovazione, Renato Brunetta, decide di lanciare un progetto parallelo, la Cec-Pac: una casella di posta certificata e gratuita per comunicare con la pubblica amministrazione. Gli obiettivi erano ambiziosi: attivare almeno 10 milioni di caselle attivate nel primo anno. Nel 2014 le caselle aperte erano appena 2.121.915. Di queste, l’82% non aveva mai inviato messaggi. I costi, invece, erano altissimi: 19 milioni di euro per un servizio praticamente inutilizzato. Così viene avviata la dismissione e, dal 18 settembre 2015, sono stati cancellati tutti gli account esistenti.

Mentre l’esperimento di Brunetta partiva (e poi falliva), il decreto n.185 del 2008 redatto dal Ministero di Giustizia — all’epoca presieduto da Angelino Alfano — aveva già stabilito che la Pec, quella originale, sarebbe diventata obbligatoria a partire dal 1° luglio 2013 per tutte le comunicazioni fra cittadini, imprese e pubblica amministrazione. Il servizio sarebbe stato a pagamento, tramite gestori privati iscritti a un elenco pubblico e monitorati.

Oggi aprire una Pec costa da 2 a 75 euro, a seconda dello spazio di archiviazione e dei servizi offerti e, secondo i dati resi pubblici dall’Agenzia per l’Italia Digitale, lo scorso ottobre il numero di caselle attive era arrivato a 8.852.174, mentre risultavano 271.161.064 messaggi inviati.

La Consob: «Mandi anche il cartaceo»
Ci sono voluti 12 anni, abbiamo buttato via un po’ di soldi, ma finalmente il sistema funziona. Con un «però», che riguarda l’analfabetismo digitale dei dipendenti della pubblica amministrazione, spesso in là con gli anni, e affetti da pigrizia cronica. La Consob, ad esempio, richiede che i documenti vengano mandati via Pec, ma anche in forma cartacea: immaginiamo per evitare di stampare o scansionare il materiale ricevuto. L’Agenzia per l’Italia digitale effettua controlli sui gestori, ma non ha compiti di vigilanza sul comportamento della pubblica amministrazione. Spetta al cittadino far valere i propri diritti, con in mano la ricevuta della Pec.

La morale di questa storia è che nei palazzi romani, molto spesso, la mano destra non parla con la sinistra, mentre negli uffici pubblici gli amministrativi non parlano con la tecnologia. Qualcuno ha calcolato l’impatto economico derivante dal risparmio di tempo nella gestione delle pratiche? Quante cartelle pazze nascono da una mancata padronanza informatica? Quanti processi non finirebbero in prescrizione se nelle procure e tribunali il personale amministrativo avesse maggiore dimestichezza digitale? E allora assumete proprio i nativi digitali, che ormai hanno 30 anni, e magari le cose dentro quegli uffici marceranno più velocemente.

27 febbraio 2018 | 19:03
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