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Autore Discussione: Berlinguer 25 ANNI DOPO...  (Letto 6645 volte)
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« inserito:: Gennaio 15, 2009, 11:39:33 pm »

Berlinguer e il contributo di quei cattolici

di Giovanni Gennari


Cara “Unità”, il 2 gennaio scorso mi sorprendi due volte! Alle pp. 6 e 7 che ricordano Enrico Berlinguer nel 1977 e la sua “austerità” come recupero di valori di solidarietà e dialogo vedo nella foto anche l’inconfondibile sagoma di Tonino Tatò.

In quel 1977 ricordo i lunghi dialoghi nella sua stanza, accanto a quella del “Segretario”, per la “Lettera a Bettazzi” che dichiarò ufficialmente che il Pci puntava ad un partito e uno Stato “non teista, non ateista, non antiteista”: insomma, “una sana laicità”. Grande passo oltre Gramsci e Togliatti, e decisivo.

Eppure quel Pci di Berlinguer tre anni prima aveva difeso la legge sul divorzio, e si preparava a quella sulla “tutela della maternità e dell’interruzione volontaria della gravidanza”, approvata in Parlamento nel 1978 e difesa nel referendum del 1981…
Sì, ma allora accoglieva ed anche ascoltava voci apertamente cattoliche, mai contestava la libertà della Chiesa di manifestare il suo pensiero su grandi questioni morali, e se decideva per leggi come quelle su divorzio ed aborto le vedeva anche come condizione di un “male minore”, non come rivincite anticattoliche.

Per la mediazione efficace di quei “cattolici nelle liste del Pci” la 194 non sancì un “diritto d’aborto”, inaccettabile per ogni coscienza cristiana e cattolica, e perciò allora molti si riconobbero in quel Pci, che proprio dal 1974 al 1984 ebbe il massimo successo, fino al 35%. Eppure c’era una Dc con “l’unità politica dei cattolici”! Tra quei “cattolici”, forti nella fede ed anche nella ragione, c’era il compianto Mario Gozzini. Qui la tua seconda bella sorpresa! Le tue pp. 22 e 23 sono per lui: “Mario Gozzini, l’uomo che aprì ai detenuti la porta della speranza”. Grazie!

E oggi? La Dc non c’è più e la sinistra è in crisi. Perché? Almeno nei confronti dei cattolici, che sono ancora tanti, manca a questa sinistra proprio la “mediazione” vera della politica, e allora partiti e coalizioni vanno per principio contro punti di dottrina morale cristiana e cattolica, detti “oscurantisti”, “disumani”, “negatori di libertà”. È un grande e grave passo indietro, visibile anche nelle urne… Ebbene: Berlinguer proprio in quel dicembre 1977 in un grande Convegno sulla maternità invitò Vilma Gozzini, moglie di Mario e teologa cattolica, che propose di “programmare la politica a partire dai più piccoli”, bambini e poveri, disoccupati, emarginati, immigrati, sfruttati.
Un caso? Il Papa a Natale ha centrato il suo discorso sui bambini e a Capodanno sui poveri, chiedendo con forza per loro una trasformazione globale della società e dell’economia. E temi simili li ha toccati anche il Presidente Napolitano… Ecco: nella libertà di coscienza di tutti, credenti e no, vale la pena di ripensare a quel Berlinguer e a quel contributo efficace di cattolici come i Gozzini. Grazie.


15 gennaio 2009
da unita.it
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« Risposta #1 inserito:: Giugno 11, 2009, 05:45:28 pm »

«La sua straordinaria attualità e il coraggio di navigare in mare aperto»
di Piero Fassino
In questi venticinque anni che ci separano dalla scomparsa tragica di Enrico Berlinguer, tutto intorno a noi è cambiato. Il mondo, l’Europa, l’Italia, la società hanno conosciuto trasformazioni enormi che ci consegnano uno scenario del tutto diverso da quello in cui il più amato Segretario del Pci visse la sua straordinaria stagione politica e umana.

E, tuttavia, tornare a riflettere sull’azione e sul pensiero di uno dei dirigenti che più ha segnato la storia della sinistra e della democrazia italiana è tanto più utile perché il nostro tempo ci consegna temi su cui Berlinguer ebbe intuizioni preziose e precoci.
Quando il Segretario del Pci parlò di “austerità”, nel nostro linguaggio non c’era ancora un’altra parola con la a accentata – “sostenibilità” – che è divenuta oggi di uso quotidiano.

Era la metà degli anni ’70, il tempo della prima grande crisi petrolifera, che spingeva i paesi produttori di petrolio a rivendicare un cambiamento delle ragioni di scambio e dei rapporti di mercato e di investimento con i paesi industrializzati e consumatori.
I più guardarono in quel momento all’austerità berlingueriana con diffidenza, quasi fosse una forma di rifiuto della modernità. In realtà Berlinguer capì molto prima di altri che una concezione dello sviluppo come sola e ininterrotta produzione di beni e di merci è destinata a scontrarsi con i limiti invalicabili della natura e del destino umano. E che fondare lo sviluppo su basi sostenibili – demografiche, ambientali, sociali – è condizione perché la crescita sia capace di produrre benefici di cui possa godere una vasta umanità e senza pregiudicare le opportunità e il destino delle generazioni future.

“Governo mondiale” fu altra espressione originale che Berlinguer coniò, volendo sottolineare la consunzione del sistema bipolare e la necessità di un nuovo equilibrio politico del pianeta, non più governabile soltanto sulla base dei rapporti di scontro o competizione o confronto tra Urss e Stati Uniti.
Anche quell’espressione poteva sembrare utopica – e non mancò chi accusò il leader del Pci di astrazioni e visioni velleitarie – quando invece Berlinguer anticipava così un tema che oggi la crisi della globalizzazione ci pone in modo stringente: la necessità di una governance globale e di un multipolarismo responsabile a fronte di un mondo sempre più unico e interdipendente, che non può essere retto dalle sole sovranità nazionali e dalle loro mutue relazioni.

E’ ancora una delle affermazioni più note e forti di Berlinguer – la “democrazia come valore universale” – che torna oggi di prepotente attualità.
Se ieri quell’affermazione aveva il significato forte e esplicito di contestare il comunismo sovietico e il suo carattere oppressivo, oggi la “questione democratica” torna di straordinaria attualità, in una società in cui i poteri delle nazioni si svuotano, i cittadini sentono più incerti i loro diritti, la politica e le istituzioni appaiono deboli e inadeguate e, anzi, crescente è lo spostamento di poteri, decisioni, risorse da istituzioni legittimate dai cittadini – “democratiche” appunto – a luoghi e sedi extraistituzionali e si affermano concezioni populistiche e plebiscitarie della politica e delle leadership.

E, infine, come non vedere la straordinaria attualità di una concezione della politica non scissa da principi etici e regole morali.
Per aver evocato la “questione morale” Berlinguer fu spesso accusato di settarismo e moralismo. E ancora oggi c’è chi imputa all’evocazione di quella questione ferite laceranti e non ricomposte.
In realtà in quella espressione c’era non soltanto la consapevolezza del degrado a cui il tessuto politico e istituzionale era pericolosamente esposto, ma soprattutto la ferma convinzione che la credibilità della politica e di chi la rappresenta consiste nella trasparenza, nella onestà, nel rispetto dell’autonomia delle istituzioni, nell’osservanza delle leggi e nell’adozione di comportamenti che non violino essenziali principi etici e morali in cui i cittadini si riconoscono. Valori e concetti di cui possiamo ben apprezzare la necessità in un tempo in cui la politica italiana ci consegna ogni giorno immagini assai deprimenti.

Riflettere su Berlinguer, dunque, non per un’antistorica nostalgia, ma per avvalersi delle sue intuizioni e delle sue riflessioni in un tempo presente che, ancora una volta, chiede alla sinistra e ai riformisti di non aver timore – come non lo è per Berlinguer – di percorrere cammini inesplorati e di navigare in mare aperto.



10 giugno 2009


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Vittorio Foa: «Quel suo coraggio di parlare chiaro e semplice»
di Vittorio Foa L'immagine (che era poi la realtà) dell'uomo era ed è in violento contrasto con l'immagine consueta dell'uomo politico. Umanità, franchezza, modestia e discrezione - pure in un incarico di così grande autorità e di effettivo potere - sono connotati che fanno a pugni con le immagini ricorrenti di arroganza, astuzia, presunzione e ostentazione del potere a cui siamo ormai abituati . La trasparenza e l'onestà della vita privata e pubblica di quest'uomo ha un rilievo eccezionale sullo sfondo squallido dell'affarismo politico, piduista o no.
Ma vi è un altro coraggio di Berlinguer che voglio ricordare. E' il coraggio di affrontare delle masse operaie tese ed esasperate, di parlare a loro con le parole chiare e semplici che sono le loro, senza lenocini verbali.
Tratto da l'Unità del 13 giugno 1984
10 giugno 2009


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Luigi Pintor: «Caduto in battaglia»
di Luigi Pintor Provo moltissima difficoltà a scrivere di Enrico Berlinguer. Non è solo per tristezza. Sento quello che è successo come una tragedia politica. È come se quest’uomo integro, verso il quale ho sempre provato una istintiva amicizia che in qualche modo sentivo ricambiata, fosse caduto vittima di uno sforzo troppo grande. Caduto in battaglia è una brutta espressione retorica, eppure è così. Come segretario del Partito comunista, ma io credo anche come persona, come coscienza politica e morale, Berlinguer aveva avvertito che la democrazia italiana sta correndo grandi rischi, che molti valori essenziali che abbiamo cercato di affermare nella società nazionale in questi decenni sono stati minacciati. E ha trovato, negli ultimi tempi, lui per sua natura così prudente, accenti estremi per esprimere questo convincimento, e suscitare energie capaci di rovesciare l’andamento delle cose. È tragico, e sembra quasi un ammonimento per noi, che si sia spezzato sotto questa tensione.
(..) Egli appartiene a una generazione che, incontrandosi con il movimento operaio negli anni della seconda guerra mondiale, fece molto di più di una scelta politica come può essere intesa oggi, si identificò con una causa ideale e ne fece un modo di essere. Se non è stato facile per nessuno, in questi decenni, reggere alle tempeste che si sono abbattute sull’universo comunista senza smarrirsi e confondersi, quanto deve essere costato di intelligenza e sensibilità a uno che è diventato un capo senza pretenderlo?
Schivo e fragile, sono due definizioni di Berlinguer che si leggono oggi sui giornali e facilmente si associano alla sua immagine: eppure ha aiutato milioni di uomini a orientarsi in un combattimento divenuto sempre più difficile.
Tratto da l’Unità del 13 giugno 1984

10 giugno 2009


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Moravia: Non doveva essere colpito un giusto
di Alberto Moravia Condivido e faccio mie le parole del presidente della Repubblica Sandro Pertini. Non è giusto, non doveva essere colpito un giusto.
Tratto da l'Unità del 12 giugno 1984
10 giugno 2009


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Ricordo di Rita Levi Montalcini
di Rita Levi Montalcini Per me Enrico Berlinguer è stato una delle figure più rappresentative della vita politica italiana di questi ultimi vent'anni. Gli incontri personali che ho avuto con lui hanno ancora rinforzato questa mia impressione. Berlinguer era una persona profondamente impegnata e onesta, e aveva il dono di suscitare una viva simpatia in chi veniva a diretto contatto con lui, anche se non completamente d'accordo con tutte le sue idee. Raramente un politico era capace di ispirare tanta stima e poteva dare la sensazione che ogni sua azione fosse indirizzata al bene del paese.
Tratto da l'Unità del 12 giugno 1984
10 giugno 2009


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Ricordo di Norberto Bobbio
di Norberto Bobbio Caratteristica fondamentale di Enrico Berlinguer è stata, a mio avviso, quella di non avere i tratti negativi che contraddistinguono tanta parte della politica italiana. Penso alla vanità, all’esibizionismo, all’arroganza, al desiderio di primeggiare che purtroppo fanno parte del «mestiere» della professione del politico. Ecco, in questo Berlinguer era diverso e per questo suscitava un senso di ammirazione che condivido.
Spesso si è parlato della cosiddetta peculiarità del PCI. Ebbene, forse si potrà discutere della peculiarità del partito ma non certo di quella del suo segretario. Ciò non significa che io abbia sempre condiviso il suo modo di fare politica, soprattutto in questi ultimi tempi: penso alla richiesta a tutti i costi dell’unanimità, al ricorso alla piazza. Ma non posso negare che è stato un uomo di grande coerenza, intransigente nelle sue idee, in cui credeva.
Insomma, un uomo di grande serietà morale e politica. E non privo di coraggio. Non sono mai stato d’accordo con coloro che criticarono Berlinguer quando venne a Torino per parlare agli operai durante il lungo sciopero alla Fiat. Fece quello che doveva fare, che riteneva fosse il suo dovere di leader del partito che alla classe operaia fa riferimento.
Tratto da l'Unità del 12 giugno 1984
10 giugno 2009


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Padre o maestro? No, poeta
di Beppe Sebaste
Della «statura internazionale» di Berlinguer ebbi la prova quando alla notizia della sua scomparsa, nella sala tv della cité universitaire di Ginevra dove ero studente, giovani di varie etnie e Paesi mi rivolsero le condoglianze (poiché ero italiano). Quanto al suo indimenticabile carisma, una foto che lo ritrae è forse traduzione iconica della sua diversità: Enrico Berlinguer esile e quasi lieve, i capelli spettinati al vento, di fianco a rappresentanti del Pcus tetragoni e massicci, da cui era già politicamente a distanze siderali.

Difficile spiegare oggi il suo «comunismo etico». Per farlo si dovrebbe decostruire impietosamente e quasi per intero quanto la sinistra ha fatto negli ultimi vent’anni: la rincorsa a un profilo di governo a prezzo della rinuncia a essere vincente su fronti più ampi - la cultura, la società, il pensiero, il linguaggio - fino a rivalorizzare Craxi contro di lui. Dopo Berlinguer la critica delle ideologie (quelle di sinistra, mai quelle del mercato e del risorto darwinismo sociale) ci ha condotti all’imperio dell’ideologia più triste, quella della non ideologia, cioè del mero presente, senza futuro e senza storia (tranne gli spot pubblicitari).

Dissipata con la propria identità e differenza quell’egemonia culturale che a ragione la destra rimproverava alla sinistra, dopo Berlinguer il linguaggio dei politici è diventato un «lessico famigliare», separato dai cittadini ma condiviso da destra e sinistra, fino alla ripetizione di quella parola d’ordine comune e vacua di senso, «riformismo». Perché anche chi della mia generazione ha avuto col Pci e con Berlinguer conflitti fortissimi lo rimpiange come un padre o un maestro? Per la splendida intransigenza morale che emanava, per un’affinità, prima che elettorale, elettiva. Se è vero che solo i poeti, a differenza dei politici, non possono mai mentire, Berlinguer era un poeta. Ma votato da un terzo degli Italiani.
10 giugno 2009


da unita.it
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« Risposta #2 inserito:: Giugno 15, 2009, 06:27:28 pm »

«Quel giorno a Yalta con Ponomariov...»


di Concita De Gregorio

Dal giorno della sua morte la famiglia di Enrico Berlinguer – la moglie, i suoi quattro figli – ha mantenuto un riserbo assoluto.

Mai un’intervista né uno scritto sul marito e sul padre. «Perché così lui avrebbe voluto, perché niente si poteva togliere né aggiungere davanti a quella grande testimonianza di affetto collettivo», dice oggi Bianca.
Ora che sono passati 25 anni, un quarto di secolo, la primogenita di Enrico ha deciso di condividere con i lettori dell’Unità un frammento del diario familiare. Una foto dall’album che ci lascia entrare per un momento nella sua vita privata e nei suoi ricordi, un varco in uno spazio gelosamente custodito: ci mostra il padre com’era e ci consente di immaginare di vederlo.

Al mare, un giorno qualsiasi. È un regalo, in un certo senso. Lo accogliamo con gratitudine.


Di papà amo ricordare quella frase di un’intervista a Giovanni Minoli: “Mi dà fastidio che dicano che sarei triste, perché non è vero”. È come lo dice che mi piace: sorridendo. Non era triste nemmeno un po’. Era introverso e tuttavia capace di essere anche molto estroso, in particolare con noi bambini. Ci portava alla ruota dell’Eur, in tutti i luna park delle città che visitavamo, a camminare in luoghi impervi e su rocce a strapiombo e poi in barca, a vela latina, quella senza deriva, nel mare di Stintino. Mia madre racconta che lui diceva sempre: se potessi scegliere come morire vorrei che fosse in mare. Mamma aggiungeva scherzando che più di una volta ci aveva pure provato. Affrontava il mare in tempesta con il cugino Paolo. Per lui il mare era un’avventura e una sfida. Una volta io e mia sorella Maria abbiamo fatto naufragio al largo dell’Asinara, fortunatamente papà era avanti e ha visto che non lo seguivamo più: di certo non saremmo potute rientrare a nuoto. Mi ha insegnato il mare. Un amore assoluto. E ad andare in bicicletta quando ero ancora piccolissima.

In un giorno solo, al Foro italico. Io cadevo e lui diceva: devi risalire subito se no ti viene paura e non ci vai più. Sono tornata a casa con le ginocchia sbucciate ma avevo abbandonato definitivamente le ruotine. Sono sempre i padri che insegnano ad andare in bici, no? Con lui abbiamo imparato anche a nuotare. Un giorno in canotto. Ha detto, a me e ai miei fratelli: scommettiamo che se vi buttate nuotate? Io vado in acqua, voi tuffatevi, se non ce la fate vi prendo io. Ci aiutava nei compiti. Soprattutto storia e filosofia. E ci faceva capire se i nostri fidanzati gli piacevano ma senza dirlo: non era necessario, si vedeva molto chiaramente. Abbiamo quasi sempre pranzato insieme. Almeno quando poteva tornare a casa. Noi figli si parlava, spesso si litigava, lui soprattutto ascoltava. E ripeteva: non urlate, non urlate, per carità. Non era severo, era fermo. Abbiamo sempre fatto almeno quindici giorni di vacanze tutti insieme. Luglio si andava con gli amici, ciascuno coi suoi. Ad agosto insieme noi sei. Per anni abbiamo affittato a Stintino l’ultima casa del paese quella della signora Speranza. Allora era proprio un borgo di pescatori.

Ciascuno di noi figli aveva il suo gruppo, si cresceva insieme un’estate dopo l’altra. Poi nel ’77 non ci potemmo andare più. Erano gli anni del terrorismo, c’erano grandi problemi di sicurezza. Ricordo un giorno a Roma, tornando a casa col Boxer, lo trovai da solo fuori dalla porta senza nessuno della scorta. Mi hanno convocato a scuola dei tuoi fratelli, mi disse, dobbiamo andare subito, portami tu. Andammo in due sul motorino, aveva il sellino da uno, io stavo in piedi sui pedali. Al ritorno sotto casa c’era uno spiegamento di forze: ma dov’è che sei andato, in motorino con tua figlia da solo, siamo matti? Fu l’unica volta. Era rispettosissimo delle regole della sicurezza soprattutto perché non voleva creare problemi ai compagni che stavano con lui: Menichelli, Franceschini, Righi, Alessandrelli. Siamo cresciuti con loro. Comunque: dal 77 non fu più possibile andare a Stintino. Quella casa non si poteva proteggere. Così per due anni andammo all’Elba, poi nel ’79 i miei decisero di portarci in Unione Sovietica. Yalta, Leningrado, Kiev. Si andò in nave passando dalla Grecia. Mi ricordo che all’arrivo affacciandosi dal ponte papà disse: “oddio c’è Ponomariov”. Ponomariov era il dirigente che si occupava dei partiti comunisti non al governo.

Ci portarono in una casa sul mare con un bellissimo giardino. Papà ci disse, mi raccomando cercate di non parlare in casa perché sarà piena di microfoni, parlate all’aperto. Mia sorella Laura aveva 9 anni, ci fece impressione questa storia dei microfoni ma tanto che potevamo dire di segreto?, gli chiedemmo, lui sorrideva. Eravamo circondati dagli uomini della sicurezza sovietica, ci seguivano dappertutto. Se il mare era mosso non volevano che facessimo il bagno. Quando vedevano uno di noi figli entrare in acqua arrivavano di corsa e facevano segno col dito: “Berlinguer, no”. Ci chiamavano tutti Berlinguer. Allora andavamo a protestare da mio padre, io avevo 18 anni protestavo molto. E così lui veniva in acqua con noi: se entrava lui non potevano dir nulla. Capeggiava la ribellione familiare. Faceva il bagno con noi e i sovietici a quel punto dovevano spogliarsi ed entrare in acqua anche loro. C’era un’interprete che si chiamava Nina, allegra e chiacchierona, ma quando veniva a cena Ponomariov diventava taciturna e rigida, si cambiava, si toglieva i pantaloni e si metteva la gonna. Nell’Urss non siamo più tornati. Papà sì per i funerali di Andropov, quella volta che non volle mettersi il colbacco.

L’anno dopo finalmente potemmo tornare a Stintino. Dall’80, qualche anno ancora. Di nuovo a veleggiare, papà era sempre al timone. Gli piaceva tantissimo il maestrale forte, mamma non voleva che ci portasse quando c’era mare ma ormai eravamo grandi e in barca ci andavamo da soli. Il giorno che è partito per Padova siamo andati all’aeroporto insieme. Lui a Genova, io in Sardegna. Ci siamo salutati lì. Quando mi hanno chiamata la notte ho capito subito che doveva essere una cosa molto grave: lui non avrebbe permesso che chiamassero a quell’ora.

A Stintino, a casa di Speranza, non siamo tornati mai più».

13 giugno 2009
da unita.it
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« Risposta #3 inserito:: Giugno 29, 2009, 06:22:38 pm »

Cultura

22 maggio 2009


L’austerità obamiana di Berlinguer

Un’idea attuale del suo pensiero per una nuova qualità dello sviluppo


L’idea di austerità di Berlinguer è fra le più significative e tortuose del suo pensiero, ma non può essere ridotta a una semplice istanza moralistica o a un rifiuto intransigente del mondo dei consumi. In realtà, la questione mi sembra più profonda e grave. Berlinguer nel 1977 era convinto di una crisi imminente del modello di sviluppo capitalistico, un pensiero spiegabile con la crisi petrolifera del 1973, con la sconfitta degli Stati Uniti in Vietnam, con la diffusione di regimi socialisti in Africa, con la crisi sociale presente nelle principali aree urbane del pianeta. Di conseguenza, inserì quel discorso in una linea di progressiva fuoriuscita da quel sistema, un progetto – è bene ricordarlo per non incorrere in dannosi anacronismi – presente pure nei programmi dei principali partiti socialisti europei, si pensi solo a quello francese.
Allora, interrogarsi oggi sull’austerità significa chiedersi quale fu la lettura che Berlinguer diede della crisi degli anni Settanta. Forti del senno del poi, possiamo dire che essa fu strategicamente sbagliata, ma anche tatticamente deficitaria, perché il blocco centrista da quell’incontro ne uscì rafforzato, al contrario del Pci che ne venne irrimediabilmente logorato. Il principale errore fu quello di sottovalutare gli elementi di dinamismo e le capacità di ristrutturazione del capitalismo in quel giro di anni. In realtà, nel momento in cui il capitalismo sembrava con la testa sott’acqua, ebbe la capacità di aprire una nuova fase storica del suo sviluppo nel segno di una rivoluzione informatica e tecnologica, di un aumento delle attività terziarie e di una de-localizzazione dei processi produttivi. Tutto ciò si imperniò su una espansione dei consumi e dei soggetti in grado di consumare, esattamente l’opposto di quanto prospettato da Berlinguer. Appunto in questa fase si crearono le condizioni di un ritardo della principale forza della sinistra italiana a comprendere i processi di modernizzazione in atto, proprio nel momento in cui si definiva una lunga offensiva ideologica neo-conservatrice – guidata a partire dal 1979 da Margaret Thatcher e da Ronald Reagan – che oggi si è infranta davanti all’attuale crisi, ma che ha inevitabilmente cambiato anche il modo di essere della sinistra, più nel resto del mondo – va detto – che in Italia.
Per questo insieme di ragioni credo che la lettura dell’austerità di Berlinguer abbia maggiore attualità e interesse sul terreno dell’elaborazione culturale, che non su quello della politica economica.
Egli era persuaso che il divario fra il nord e il sud del mondo avrebbe costituito un nodo centrale del nostro futuro, obbligando l’Europa a qualificarsi come soggetto politico forte e unitario. Si intravedono in questo passaggio i problemi e i limiti del mondo di oggi, quando ormai il terzo mondo non esiste più come soggetto politico, eppure continua a giungere nelle nostre tiepide case sottoforma di immagini televisive che raccontano di una realtà alla deriva sui barconi della speranza, immagini e storie che interrogano con la loro disperazione la nostra politica, mostrando tutta la sua egoistica fragilità. L’altro volto della repressione.
Il secondo «pensiero lungo» di Berlinguer si riferisce alla necessità di interconnettere la politica italiana con l’ambito internazionale dentro un quadro di «governo mondiale» dell’economia che anticipò temi e processi propri della globalizzazione: come ha scritto Andrea Riccardi, l’austerità aveva una sua geopolitica, ossia la convinzione che nessun avanzamento fosse possibile nei mondi dell’opulenza senza la soluzione dei problemi dei continenti della fame.
Il terzo elemento carico di futuro è costituito dalla centralità della questione ambientale e delle tematiche ecologiste.
Berlinguer contribuì a superare la prevalente cultura industrialista del Pci e a porre in forme inedite il problema di una nuova qualità dello sviluppo. In fondo, l’austerità nelle sue intenzioni era un patto fra quanti puntavano alla quantità dello sviluppo e quanti si ponevano anche un problema di qualità dello sviluppo: quale senso dare al lavoro, alla produzione? La particolare attenzione al mutamento e alla tollerabilità dei modelli di produzione e di consumo costituisce la più importante conseguenza della riflessione di Berlinguer sull’austerità.
Una sensibilità che oggi credo non avrebbe sposato la teoria della decrescita di Serge Latouche, ma piuttosto si sarebbe orientata nella direzione di uno sviluppo compatibile con l’ambiente e con la qualità della vita secondo un nuovo umanesimo fondato su una crescita sostenibile dei viventi.
Oggi queste tematiche ricorrono nella proposta di Obama di una green economy, tutta incentrata sulle energie rinnovabili e su una nuova cultura del consumi. Anche qui è presente l’idea di uscire dalla crisi attraverso una grande trasformazione, una rivoluzione verde in grado di riattivare l’economia e di diventare un’opportunità interdipendente di crescita, nei paesi industrializzati come in quelli del terzo mondo. Il rilancio economico prevede la realizzazione di una maggiore efficienza energetica, l’utilizzo di energie rinnovabili, una terza rivoluzione industriale, quella dell’economia a basse emissioni di anidride carbonica. Ma anche e soprattutto un nuovo stile di vita, improntato a una maggiore morigeratezza. Sono un insieme di suggestioni che appartengono alla migliore cultura democratica americana sin dai tempi di Bob Kennedy, quando invitava a non misurare lo spirito nazionale sulla base del Pil perché esso «comprende anche l’inquinamento dell’aria e la pubblicità delle sigarette (...) mette nel conto le serrature speciali con cui chiudiamo le nostre porte, le prigioni per coloro che le scardinano e comprende la distruzione delle sequoie».


*dall’intervento alla commemorazione di Enrico Berlinguer che si è svolta ieri alla camera

Miguel Gotor
da europaquotidiano.it
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« Risposta #4 inserito:: Luglio 10, 2011, 05:10:48 pm »

Archivio cartaceo | di Luca Telese

Berlinguer, trent’anni di questione morale


Roma, 28 luglio 1981. L’intervista rilasciata da Enrico Berlinguer a Eugenio Scalfari contiene una scudisciata che il giorno dopo farà sobbalzare i lettori di La Repubblica e metà della classe politica italiana: “I partiti di oggi sono soprattutto macchine di potere e di clientela”. Nessun leader, nel tempo della prima repubblica, con l’esclusione dell’antisistema Marco Pannella – aveva mai osato tanto. Sono passati trent’anni da quel giorno. Trent’anni di questione morale. Trent’anni di rabbia e di oblio. È stato esattamente trent’anni fa, che in una estate calda come questa Enrico Berlinguer ha coniato – in una intervista che sarebbe entrata in tutti gli archivi – una locuzione destinata a raccontare l’Italia di allora, quella di Mani pulite (che sarebbe arrivata undici anni più tardi) e – purtroppo – anche quella che stiamo vivendo, nel tempo dei pizzini, degli appalti facili, delle p3 e della P4, dei contributi spontanei alle fondazioni “amiche”.

Intervista “profetica”, si disse. Ma in realtà nata con un processo di elaborazione che in Berlinguer fu tutt’altro che rapido.
Oggi Scalfari ricorda quel giorno con una nitidezza cristallina: “Parlammo ore. Segnai pochi appunti e poi ricostruii di getto tutta l’architettura del discorso. Berlinguer era uno dei pochi politici che mi considerava e di cui mi consideravo amico. Poteva capitare che cenassimo insieme, a casa mia o a casa sua. Ancora più frequentemente a casa di Tonino Tatò. Ma quando poi l’intervista era scritta, con lo stesso Tatò iniziava un lavoro minuzioso di limatura. Di quell’intervista – aggiunge il fondatore di La Repubblica – toccammo poco o nulla. E mi accorsi subito che la sua portata avrebbe trasceso quella della cronaca politica”.

Era l’Italia che esce faticosamente dagli anni di piombo. L’Italia del terremoto, di Vermicino, delle lacrime di Sandro Pertini.
Ed è il Pci che sta abbandonando la Solidarietà Nazionale e l’accordo con la Dc per passare all’opposizione. Ma lo strappo che questa svolta produce nel partito non è, e non può essere, indolore. Lo scontro che è già nell’aria prende corpo quasi improvvisamente, anche perché il grande critico della svolta ha il nome del dirigente più pesante nel gruppo dirigente di quel Pci: Giorgio Napolitano. Sono curiosi i paradossi della storia, quando passano trent’anni. Oggi forse Napolitano, che fu il fiero oppositore di quella svolta, limerebbe molte delle sue critiche del 1981 a Berlinguer, e condividerebbe molte delle sue affermazioni. E probabilmente Massimo D’Alema, che allora era un sostenitore del segretario, oggi lo criticherebbe.

Si disse che quel dialogo del segretario del Pci con Scalfari era stato l’atto fondativo dell’antipolitica: oggi, dopo tutto quello che la politica ci ha regalato, possiamo forse dire che quella critica drastica era (ed è) l’unica possibilità di salvezza della politica pulita. “I partiti – diceva Berlinguer – sono soprattutto macchine di potere e di clientela: scarsa o mistificata conoscenza della vita e dei problemi della società e della gente, idee, ideali, programmi pochi o vaghi, sentimenti e passione civile, zero. Gestiscono interessi, i più disparati, i più contraddittori, talvolta anche loschi – sosteneva - comunque senza alcun rapporto con le esigenze e i bisogni umani emergenti, oppure distorcendoli, senza perseguire il bene comune”.

In quei giorni, secondo la migliore tradizione del gruppo dirigente comunista, le ragioni della politica contingente vennero dissimulate dietro la disputa di dottrina. Napolitano aveva scelto di attaccare Berlinguer, partendo da lontano. Ovvero dall’editoriale che doveva scrivere per commemorare l’anniversario della morte di Togliatti, ma usando Togliatti per criticare Berlinguer su tre punti: il giudizio sul degrado dei partiti, la denuncia inappellabile che Berlinguer faceva sulla questione morale, la chiusura netta che il segretario del Pci opponeva a Craxi, il rifiuto della via socialdemocratica in nome della cosiddetta “terza via” fra socialismo reale e capitalismo.

Ma il giudizio più duro era quello sulla società italiana e sul suo degrado: “I partiti – diceva il segretario del Pci – hanno occupato lo Stato e tutte le sue istituzioni, a partire dal governo. Hanno occupato gli enti locali, gli enti di previdenza, le banche, le aziende pubbliche, gli istituti culturali, gli ospedali, le università, la Rai, alcuni grandi giornali”. Parole che sarebbero passate alla storia come il manifesto della “Diversità”. “Io - diceva il segretario – credo di sapere a che cosa lei pensa: poiché noi dichiariamo di essere un partito “diverso” dagli altri, lei pensa che gli italiani abbiano timore di questa diversità”. E Scalfari: “Sì, è così, penso proprio a questa vostra conclamata diversità. A volte ne parlate come se foste dei marziani, oppure dei missionari in terra d’infedeli: e la gente diffida. Vuole spiegarmi con chiarezza in che consiste la vostra diversità? C’è da averne paura?”. Berlinguer ovviamente negava: “Qualcuno, sì, ha ragione di temerne, e lei capisce subito chi intendo. Per una risposta chiara alla sua domanda, elencherò per punti molto semplici in che consiste il nostro essere diversi, così spero non ci sarà più margine all’equivoco. Ma noi vogliamo che i partiti cessino di occupare lo Stato”.

Per Napolitano era troppo. Racconterà di aver telefonato a Gerardo Chiaromonte: “Eravamo entrambi sbigottiti: in quella clamorosa esternazione coglievamo un’esasperazione pericolosa come non mai, una sorta di rinuncia a fare politica, visto che non riconoscevamo più nessun interlocutore valido, e negavamo che gli altri partiti, ridotti a macchine di potere e di clientela, esprimessero posizioni e programmi con cui confrontarci”. Insomma, lo spettro della cosiddetta “antipolitica”, e l‘esaltazione del primato dei partiti, il dilemma su cui ancora oggi si dibatte a sinistra, (a partire dal celebre discorso di D’Alema a Gargonza che preconizzò la fine dell’Ulivo nel 1996). Il primo segnale premonitore della Questione morale a sinistra, era arrivato da Torino, con lo scandalo Zampini. Un imprenditore era andato dal sindaco comunista Diego Novelli dicendo di aver pagato una tangente. Novelli (berlingueriano di ferro) anziché insabbiare disse: “Lei deve andare dal magistrato”.

Nel 1992-93, nel ciclone di Tangentopoli, emersero le confessioni di un segretario di federazione milanese, Cappellini, che ammetteva di aver preso tangenti e di “averle buttate nel calderone dei bilanci delle feste dell’Unità”. Parole che sconvolsero i militanti di base, insieme alle rivelazioni successive che riguardavano pagamenti per la metropolitana di Milano, e poi l’epopea del compagno “G”, alias primo Greganti, e quella della tangente “scomparsa” alle soglie di Botteghe Oscure su cui indagò (senza trovare prove definitive) il pm Di Pietro. Achille Occhetto arrivò a proclamare, contro la corruzione, “una seconda Bolognina”. Poi i piccoli smottamenti di costume come l’entusiastico grido di Piero Fassino al telefono con Giovanni Consorte: “Abbiamo una banca?”. Proprio Fassino, nel suo Per passione, aveva ricostruito l’ultima parte della vita di Berlinguer come un partita a scacchi bergmaniana con Craxi, dove il segretario muore un attimo prima che l’altro gli faccia scacco matto. Parole di pessimo gusto, in ogni caso. Soprattutto alla luce degli scandali “sinistri” di questi giorni. Ha detto Pierluigi Bersani al Messaggero: “Nel nostro partito non c’è nessuna questione morale”. Ma la questione morale – sia per Berlinguer sia per Napolitano – prima che un problema giuridico, era uno stile di vita.

Il Fatto Quotidiano, 7 luglio 2011

da - http://www.ilfattoquotidiano.it/2011/07/07/berlinguer-trentanni-di-questione-morale/143596/
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« Risposta #5 inserito:: Marzo 18, 2014, 12:00:28 pm »

Berlinguer, perché ti abbiamo voluto bene
Il comunista timido che mi ricorda Papa Francesco

di EUGENIO SCALFARI
   
COMINCIO quest'articolo con un paradosso ed è questo: Enrico Berlinguer ha avuto nella politica italiana (e non soltanto) un ruolo in qualche modo simile a quello che sta avendo oggi papa Francesco nella religione cattolica (e non soltanto). Tutti e due hanno seguito un percorso di riformismo talmente radicale da produrre effetti rivoluzionari; tutti e due sono stati amati e rispettati anche dai loro avversari; tutti e due hanno avuto un carisma che coglieva la realtà e alimentava un sogno.

Oggi, anziché commentare i fatti politici della settimana appena terminata, ho deciso di ricordare Berlinguer di cui quest'anno si celebra il trentennale dalla morte e sulla cui figura in questi giorni stanno uscendo libri e documentari che ne ricordano la forza morale, il coraggio politico, gli errori commessi e il profondo rinnovamento della sinistra.

La sua somiglianza al ruolo di papa Francesco - l'ho già detto - è un paradosso, ma come tutti i paradossi contiene aspetti di verità. Se avessero vissuto nella stessa epoca si sarebbero sicuramente rispettati e forse perfino amati. Per quanto riguarda me, ho conosciuto, rispettato ed anche avuto profonda amicizia personale per Enrico. Lo conobbi per ragioni professionali nel 1972, quando fu eletto segretario del Pci dopo Longo e Togliatti. Fu dunque il terzo segretario di quel partito dalla fine della guerra mondiale.

La prima intervista che gli facemmo sul nostro giornale è del maggio del '77 cui ne seguirono altre quattro, rispettivamente nel '78, nell'80, nell'81, nell'83. Morì nel giugno dell'84 e ancora ricordo che mentre era già in agonia andai a porgere le mie condoglianze a Botteghe Oscure dove erano ancora riuniti i pochi dirigenti rimasti a Roma che partirono quella sera stessa per Verona per vegliarne la morte.

Ricordo quella mia brevissima visita perché, dopo aver detto brevi parole di condoglianze conclusi dichiarando che la sua scomparsa era una grave perdita per il suo partito ma soprattutto per la democrazia italiana. Lo dissi perché lo pensavo e lo penso ancora. La visita era conclusa, salutai i presenti e Pietro Ingrao mi accompagnò all'uscita da quella sala. Ci stringemmo la mano ma io ero molto commosso, lo abbracciai piangendo e anche lui pianse consolandomi. M'è rimasto in mente perché non era mai accaduto qualcosa di simile: d'essere consolato nella sede del Pci per la morte del capo d'un partito al quale non sono mai stato iscritto né di cui ho mai condiviso l'ideologia politica.

Nelle interviste ci siamo sempre dati del lei come lo stile giornalistico prevede, ma quando ci incontravamo privatamente passammo presto al tu. Alcune volte cenammo insieme a casa di Tonino Tatò che era il suo segretario e che conoscevo da molti anni; un paio di volte venne lui a casa mia. Oltre alle interviste su Repubblica accettò anche un dibattito televisivo con Ciriaco De Mita, allora segretario della Dc. Che sosteneva da tempo nel suo partito l'idea dell'"arco costituzionale" dalla Democrazia cristiana fino al Pci che non poteva dunque essere escluso dal governo senza che la democrazia fosse zoppa. Queste cose De Mita le diceva in tempi di guerra fredda in nome della sinistra democristiana e in polemica con il resto del suo partito.

In quel dibattito, trasmesso su Rete4 che allora era di proprietà della famiglia Mondadori e della quale noi del gruppo Espresso avevamo una quota di minoranza, i due interlocutori parlarono come possibili alleati per modernizzare lo Stato e risolvere i problemi sociali del paese e lo storico dualismo tra il Nord e il Sud. Il dibattito si concluse con una stretta delle nostre tre mani, una sull'altra, e così fummo fotografati. Ho attaccato quella foto in casa mia e ogni tanto, quando la guardo, mi viene da pensare che quelli d'allora erano altri tempi e altre persone.

Nel corso degli anni, dal 1977 all'84, le domande più importanti che gli feci e le risposte che ne ottenni furono sette: la natura del Partito comunista italiano rispetto agli altri e in particolare a quelli che operavano in paesi occidentali; il suo rapporto con l'Urss e col Partito comunista sovietico; il suo rapporto con il leninismo; la concezione che aveva della futura Europa; la dialettica in atto con i socialisti e con la Dc; la natura del centralismo democratico e il ruolo che il Pci doveva avere con l'Italia; il problema da lui sollevato della questione morale. Queste domande gliele feci molte volte e le risposte non furono sempre le stesse, alcune cambiarono col passare del tempo ma l'evoluzione fu comunque coerente.

Ricordo ancora una telefonata che ebbi da Ugo La Malfa il giorno in cui Enrico ruppe decisamente con Mosca rivendicando la sua autonomia rispetto all'Urss, al Pcus e al Cominform. "Quello che aspettavamo da tanto tempo è finalmente accaduto ieri. Adesso quel miserabile cercherà di non farlo uscire dal ghetto in cui per tanti anni il Pci è stato. Spetta a noi aiutarlo affinché la nostra democrazia sia finalmente compiuta".

Gli risposi che aveva ragione ma che l'uscita dal ghetto non sarebbe stata facile, una parte del Pci era ancora sedotta dall'ideologia leninista stalinista. Noi avremmo certamente aiutato Berlinguer ma le difficoltà erano numerose, in parte esterne al Pci e in parte nel suo stesso interno. "Hai ragione -  rispose Ugo -  ma noi abbiamo una grande funzione da svolgere e per quanto mi riguarda mi impegnerò fino in fondo". Gli chiesi chi fosse il "miserabile" che avrebbe cercato di bloccare l'evoluzione democratica del Pci. "Lo sai benissimo chi è, infatti lo attacchi tutti i giorni".

Era Craxi, di cui non voleva pronunciare neanche il nome. Purtroppo La Malfa morì pochi mesi dopo e solo dopo morto gli italiani scoprirono che era stato uno dei padri della Patria, così come scoprì la grandezza politica e morale di Berlinguer al suo funerale. Il nostro è un popolo abbastanza strano: s'innamora più spesso dei clown che dei politici impegnati a mettere il bene comune al di sopra di ogni interesse personale e di partito. Abbiamo tanti pregi, ma questo è un difetto capitale che spiega la fragilità della nostra democrazia e dello Stato che dovrebbe esserne il titolare e il contenitore.

***
Sullo stalinismo Berlinguer fu sempre contrario e del resto la sua ascesa alla segreteria del partito era avvenuta molti anni dopo la morte di Stalin e il rapporto di Kruscev aveva già fatto chiarezza sulla natura criminologica di quella tirannide. Diverso invece era il suo rapporto con il leninismo, ma quella fu una posizione che col passare degli anni cambiò segnando l'evoluzione del Pci verso la democrazia compiuta. Ne cito il passo più significativo tratto dall'intervista del settembre 1980, quando la Polonia si era ribellata al giogo di Mosca. Fu anche in quell'occasione (l'avevo già fatto altre volte) che gli chiesi qual era la parte del pensiero leninista che rifiutava e quella invece che continuava ad accettare.

Rispose così: "Lenin ha identificato il partito con lo Stato; noi rifiutiamo totalmente questa tesi. Lenin ha sempre sostenuto che la dittatura del proletariato è una fase necessaria del percorso rivoluzionario; noi respingiamo questa tesi che da lungo tempo non è la nostra. Lenin ha sostenuto che la rivoluzione ha due fasi nettamente separate: una fase democratico- borghese e successivamente una fase socialista. Per noi invece la democrazia è una fase di conquiste che la classe operaia difende ed estende, quindi un valore irreversibile e universale che va garantito nel costruire una società socialista". Mi pare -  dissi io in quel punto -  che voi rifiutate tutto di Lenin. "No. Lenin scoprì la necessità delle alleanze della classe operaia e noi siamo pienamente d'accordo su questo punto. Infine Lenin non si è affidato ad una naturale evoluzione riformista ed anche su questo noi siamo d'accordo".

Questo, gli dissi io, l'ha sostenuto anche Machiavelli molto prima di Lenin. "Anche noi comunisti abbiamo letto Machiavelli che fu un grande rivoluzionario del suo tempo il quale però si riferiva "alla virtù individuale di un Principe" mentre noi ci riferiamo ad una formazione politica che organizzi le masse per trasformare la società".

Un altro tema fu quello della questione morale, affrontato da lui nell'intervista del 1981 ma poi ripreso molte volte. La questione morale per lui non erano le ruberie perpetrate da uomini politici; quelli erano reati da denunciare alla magistratura. La questione morale era invece l'occupazione delle istituzioni da parte dei partiti. Questo, secondo lui, era necessario fare e la leva avrebbe dovuto essere il rispetto letterale della Costituzione come avevano più volte auspicato Bruno Visentini e il nostro giornale che l'aveva sostenuto. Anche Berlinguer lo sostenne fin dall'81 ma ci ritornò con la massima chiarezza sul nostro giornale nel maggio dell'83. "Noi vogliamo un governo diverso, un governo-istituzione, formato sulla base dell'articolo 92 della Costituzione, cioè che nasce su scelta del presidente del Consiglio incaricato dal capo dello Stato senza patteggiamenti con le segreterie dei partiti. Chiediamo cioè il rispetto puro e semplice della Costituzione e siamo certi che se si cominciasse a far così l'esempio si trasmetterebbe alle istituzioni minori, enti, banche, unità sanitarie, televisione e tutta l'infinita serie del sottogoverno. Questo è per noi il governo diverso. Per noi qualunque governo dev'essere costituito così indipendentemente dal colore della maggioranza che lo sorregge".

Infine le domande sulla politica economica e la risposta chiarissima (1983). "Non si può giocare a poker puntando sui bluff. Bisogna essere ben determinati ma prudenti. Non penso certo che un governo di sinistra possa fare finanza allegra. Perciò diciamo che tutte le spese correnti debbono esser coperte da entrate fiscali mentre l'indebitamento serve solo a finanziare gli investimenti. Poi bisogna rivedere la leggi sulla sanità e sulla previdenza affinché, al di sopra d'una certa fascia di redditi inferiori, i cittadini contribuiscano al finanziamento di tasca propria. Un buon governo non si può regolare che in questo modo".

Ve l'aspettavate, cari lettori, che Berlinguer trent'anni fa, parlando d'un governo di sinistra del quale il Pci sarebbe stato uno degli assi portanti, auspicasse una sanità che i redditi medio alti finanziassero di tasca propria? Attenzione a chi parla dell'attuale tentativo del nuovo presidente del Consiglio di vagare in cerca di coperture per un governo più a sinistra degli ultimi trent'anni. Berlinguer, proprio trent'anni fa, le coperture le trovava sgravando i lavoratori a spese dei redditi medio-alti. Ma oggi una proposta del genere sarebbe tacciata di comunismo inaccettabile e infatti non viene neppure ritenuta possibile e già un aumento della tassazione sulle rendite (quali?) è ritenuto "sovversivo".

Ho cercato di ricordare il Berlinguer che ho conosciuto. Aveva un grande carisma ma era timido, era riservato, era prudente, era moralmente intransigente. Voleva, insieme a Lama e ad Amendola, l'austerità, perfino sui salari operai, ma voleva anche che i valori della classe operaia coincidessero con l'interesse nazionale, come sempre deve avvenire quando un ceto sociale ha la responsabilità di sintonizzarsi con tutto il paese.

Sandro Pertini piangeva quando il feretro con le sue spoglie che era andato a prendere a Verona sbarcò all'aeroporto di Ciampino. Ero andato lì per incontrarlo e ricordo quel che mi disse: "Se n'è andato l'ultimo grande della sinistra italiana. Senza di lui questo paese riscoprirà i suoi vizi e le sue debolezze e non sarà certo la sinistra a fare da argine al fiume limaccioso che esonderà".

Vedeva giusto purtroppo il vecchio Pertini che aveva passato tanti anni della sua vita in galera, al confino o nelle brigate Matteotti della guerra partigiana.

C'era più gente a quel funerale di quanta ce ne fosse a quello di Togliatti che pure aveva mobilitato milioni di persone. Quella fu l'ultima fiammata, il ploro di tutta la nazione. Adesso siamo scivolati piuttosto in basso; si ride, si motteggia o s'impreca e si pugnala alla schiena. E vi assicuro che per un vecchio testimone del tempo non è affatto un bel vedere.

© Riproduzione riservata 16 marzo 2014

Da - http://www.repubblica.it/politica/2014/03/16/news/berlinguer_scalfari-81114389/?ref=HRER2-1
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« Risposta #6 inserito:: Giugno 24, 2014, 05:18:01 pm »

Berlinguer e l’insufficiente 51 per cento

01 - 03 – 2013
Giovanni Di Capua

Berlinguer e l’insufficiente 51 per cento Oggi il Pd non ha identità; vale meno delle forze che il Pci possedeva quarant’anni orsono; è un ircocervo di confluenze contraddittorie e culturalmente difformi ovvero assemblearistiche e di tipo anarcoide ma imperniato su un categorialismo corporativo; e, tutto ciò malgrado, respinge l’idea stessa di alleanze, che costituisce invece la condizione stessa perché si continui a garantire i persistenti pluralismo sociale e pluralismo politico in certezza di democrazia. Nel terzo saggio che, nell’autunno 1973, Enrico Berlinguer dedicò ad una riflessione sull’Italia dopo i fatti del Cile, che avevano condotto all’abbattimento della democrazia di Salvatore Allende con un colpo di Stato reazionario, il capo del Pci dimostrò come fosse “del tutto illusorio” ritenere che, col 51 per cento dei voti, si potesse garantire “la sopravvivenza e l’opera di un governo che fosse l’espressione di tale 51%”. E propose come “urgente e maturo un nuovo e grande compromesso storico tra le forze che rappresentano la grande maggioranza del popolo italiano”. Quel “compromesso storico” venne motivato esponendo il concetto che il Pci, secondo partito italiano, in un momento di grandi preoccupazioni internazionali che si riverberavano sulla condizione della democrazia in Italia, abbandonava la linea di una alternativa di sinistra e, con una svolta concettuale e politica, cominciava a parlare di una “alternativa democratica”, che necessariamente doveva passare attraverso “un confronto col mondo cattolico e con la Dc”, sin lì valutate come forze antagoniste, a giudizio dei comunisti esposte al rischio permanente di una involuzione antidemocratica. Berlinguer si riferiva agli schieramenti politici in atto nel Paese dopo la formazione del IV governo Rumor Dc-Psi-Psdi-Pri. Ma la sua riflessione era tutta interna ad un Pci che, continuando a mantenersi attestato sulla trincea della alternativa di sinistra, cioè di un integralistico settarismo di partito, anche laddove fosse risultato capace di superare la fatidica soglia della metà dei voti popolari, non sarebbe stato nelle condizioni politiche e storiche di governare davvero, e stabilmente. Specificava infatti che il contesto da cui ricavare un orientamento politico più utile al Paese, e non al solo Pci, fosse “la profonda trasformazione della società per via democratica”. Che poteva “realizzarsi solo come grande rivoluzione della grande maggioranza della popolazione; e solo a questa condizione, consenso e forza si integrano e possono divenire una realtà invincibile”. Cioè, in altri termini, a trasformarsi, passando da desiderio, sogno e utopia, in una politica concreta e possibile. In quella fase era in corso, sulle colonne di Rinascita, un dibattito sul ruolo degli intellettuali nella società contemporanea. In polemica con la “disperazione” che traspariva dalla prosa di Alberto Moravia, si osservava che era necessario uscire da quel “radicalismo intellettualistico che rifiuta la conoscenza critica della propria storia; contestualmente, era tempo, sottolineava Rinascita (7 settembre 1973) di evitare di “cadere nell’errore di segno contrario e scambiare l’operaio forgiato dai rapporti sociali capitalistici come modelli del genere umano. Al contrario: l’intellettuale rivoluzionario deve battersi per la soppressione di tutte le configurazioni storiche limitate in cui oggi si incarna un sistema sociale basato sullo sfruttamento e sulla divisione in classe: deve battersi per la soppressione non soltanto della borghesia ma anche del proletariato e persino dell’intellighentia come corpo sociale a sé stante”. Sono trascorsi quarant’anni da quelle intuizioni; tante utopie sono crollate; la sinistra ha mutato forme e nomi pensando di poter restare immodificabile, nella presunzione di potere, prima o poi, collocarsi in un ruolo politico egemone anche in Italia. Come allora, oggi la sinistra è minoritaria: nel 1973 il Pci era più forte dell’attuale Pd ed era guidato da un segretario che ragionava sui limiti di un rappresentativismo pur sempre inadeguato anche nell’ipotesi, del tutto teorica, di superare il 51 per cento del consensi popolari: che giudicava insufficiente a governare stabilmente e senza esporsi a ipotesi antirivoluzionarie sempre incombenti. Berlinguer era consapevole che il grosso del suo partito (e, soprattutto, del retroterra elettorale comunista) inseguiva delle chimere che non servivano né al Pci, né all’Italia democratica. Oggi il Pd non ha identità; vale meno delle forze che il Pci possedeva quarant’anni orsono; è un ircocervo di confluenze contraddittorie e culturalmente difformi ovvero assemblearistiche e di tipo anarcoide ma imperniato su un categorialismo corporativo; e, tutto ciò malgrado, respinge l’idea stessa di alleanze, che costituisce invece la condizione stessa perché si continui a garantire i persistenti pluralismo sociale e pluralismo politico in certezza di democrazia.
L’idea poi di poter imporre all’altra, più ampia, metà degli italiani un proprio modello di governo altrimenti si torna a votare a giugno, oltre ad essere infantile, contrasta macroscopicamente con il prudente insegnamento di Berlinguer, ma anche col comunismo italiano delle origini: che non partecipò all’Aventino democratico perché non credeva né alla costituzionalizzazione del fascismo né ad una ripresa democratica che lo trovasse isolato ed estraneo alle istituzioni.

Da - http://www.formiche.net/2013/03/01/berlinguer-e-linsufficiente-51-per-cento/
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