"Israele siamo noi".
Per un equilibrio secondo realtà e ragione nel nostro rapporto con l'islam
A proposito dell'appello e delle duecento firme contro Magdi Allam e il suo libro "Viva Israele", pubblicati sul numero di luglio 2007 di "Reset"
di Pietro De Marco
La moschea di Ponte Felcino presso Perugia, adibita a “laboriosa e approfondita opera di istruzione e addestramento all’uso delle armi e delle tecniche di combattimento” ci chiede, ci urla, di riflettere ancora e instancabilmente sui nostri correnti criteri di discernimento del rischio islamista.
Nell’identificare l’islam come antagonista culturale e nemico geopolitico, concorrono e si contaminano tesi diverse.
A un capo estremo si assume che la conflittualità islamista, anche non terroristica, è sempre una prova di forza cui siamo sottoposti dalle formazioni musulmane anti-occidentali, un estenuante sondaggio della nostra capacità di resistenza ovvero disponibilità alla resa rispetto ad un progetto o processo di islamizzazione. Corollario: a questa sfida, in qualsiasi forma si esprima, bisogna reagire, con mezzi idonei, su tutti i terreni interni e internazionali.
Al capo opposto, si preferisce parlare non di iniziativa o progetto, ma di “reazione” dell’islam. La conflittualità islamista sarebbe il portato di una storia anche recente di aggressioni occidentali al mondo arabo e vicino orientale; la responsabilità ultima è nostra, e nostro l’onere di disinnescare (anzitutto dentro le nostre società e le politiche dell’Occidente) la bomba etno-politica islamica.
Di questa forbice intellettuale e morale è testimone la querelle che ha investito Magdi Allam per il suo ultimo libro: "Viva Israele".
Il mensile "Reset" diretto da Giancarlo Bosetti ha pubblicato sul numero di luglio-agosto 2007 una lettera contro Allam; tra i primi firmatari Paolo Branca, l’arabista dell’Università Cattolica di Milano, un prestigioso intellettuale ebreo come David Bidussa e altri nomi importanti, da Ombretta Fumagalli Carulli agli storici contemporaneisti Alberto Melloni, Agostino Giovagnoli, Angelo D’Orsi e Giovanni Miccoli, dall’ebraista Paolo Debenedetti a Enzo Bianchi, alla poetessa Patrizia Valduga. Il documento, corredato di oltre duecento firme, incluse quelle di molti universitari, denuncia “la sfrontatezza di chi [Magdi Allam] afferma che le università italiane ‘pullulano’ di docenti ‘collusi con un’ideologia di morte profondamente ostile ai valori e ai principi della civiltà occidentale'”.
Il profilo della lettera, un genere dilagante in questi mesi (e le firme talora si ripetono di lettera in lettera), è quello di una levata di scudi per la libertà accademica. Altrove le stesse firme intevengono per la libertà di critica nella Chiesa cattolica, per la laicità e il pluralismo; curiosamente la sollecitudine di Bosetti e l’economia del ricco fascicolo di "Reset" – che ospita anche una discussione sul cattolicesimo come minoranza, più auspicata che effettiva – sembrano mettere in serie queste occasioni diverse.
La lettera esprime, in forma relativamente contenuta, una reazione che si intravede violenta; ma proprio per questo non sfuggono al lettore dei passaggi singolari. Che senso ha connotare Magdi Allam come portatore di “una pretesa unica verità interpretativa” che condannerebbe i sostenitori di posizioni differenti a divenire “automaticamente estranei a universali valori di civiltà o, addirittura, alieni dalla comune umanità”? Ogni attore ha nella sfera pubblica un suo genere di autorità comunicativa e ad un opinionista non appartiene rivendicare “pretese di verità unica”; né Magdi Allam lo fa. Avviene più spesso ai professori. Scorrendo queste formule, sembra di aver davanti la copiatura di una lettera di "doléances" verso Benedetto XVI o la presidenza CEI del cardinale Camillo Ruini. Chi ha paura, sempre e comunque, del responsabilizzante confronto pubblico tra tesi e, magari, tra visioni del mondo?
Giorgio Israel, su "il Foglio" del 24 luglio indica come retroterra degli atteggiamenti e delle alleanze documentate dalla lettera una “fredda ostilità [di ambienti cattolici, laici ed ebraici progressisti] nei confronti di questo papato, visto come un attacco reazionario ai valori ‘democratici’ conciliari”, nonché una concezione del dialogo tra ebrei e cattolici che aborrisce l’asse civilizzazionale ebraico-cristiano, mal sopporta l’esistenza di Israele (“meglio se non fossse mai nato”) e considera, invece, terreno qualificante un filoislamismo che io definirei “scriteriato”.
Altri ipotizzano come origine della lettera un conflitto entro la stessa Università del Sacro Cuore. Comunque sia, sarebbe stato preferibile riflettere. Magdi Allam non è isolato nell’affermare che “ciò che maggiormente preoccupa e spaventa è la resa morale, l’obnubilamento intellettuale, la collusione ideologica e la fattiva collaborazione dell’Occidente con gli estremismi islamici”. Proprio l'editrice dell’Università Cattolica, Vita e Pensiero, ha tradotto sul tema l’intelligentissimo e duro saggio di Roger Scruton, "L'Occidente e gli altri. La globalizzazione e la minaccia terroristica". Sulla eventualità e le conseguenze di un tale obnubilamento non vi è da scherzare. Se davvero Branca ha detto che le parole dell’imam Moussa di Roma sui “martiri dell’Islam” possono strappare il nostro consenso, e comunque sarebbero "di natura più religiosa che politica”, non crede di dover chiarire enunciati all’apparenza così imprudenti, anche in sede scientifica?
A sua volta il professor Massimo Campanini – che un Magdi Allam esasperato aveva preso ad esempio delle università ove “pullulano ecc.” – ha avuto, su "Reset", spazio per spiegarsi. Ma in questo spazio egli conferma la pertinenza dell’accusa di antiamericanismo e di ostilità ad Israele. Lo fa con candore, poichè mostra di pensare che la questione delle responsabilità del terrorismo internazionale e in Palestina sia “semplice da risolvere”: basterà imputarle in parte oggi a Bush, in parte ieri a Ben Gurion. Anche le notizie sui Fratelli Musulmani, che occupano oltre la metà della sua risposta su "Reset", non escludono ciò che fa infiammare Magdi Allam: i leader dei Fratelli Musulmani, descritti da Campanini così operosi sulla via di una democrazia islamica, sono o no responsabili, magari in termini da meglio circostanziare che nell’accusa di Allam, di “apologia di terrorismo, di diffusione di ideologie dell’odio, della violenza e della morte”? Se no, sarebbe stato bene vederlo affermato e argomentato.
Insomma, né Branca né Campanini hanno ritenuto di dover chiarire o smentire. Un atteggiamento inadeguato che non risulta certamente vantaggioso per loro; né dieci né duecento firme di solidarietà valgono un argomento. In verità siamo di fronte a un tipico tic autoritario da intelligencija.
Tenendo conto della difficoltà comunicativa tra i conoscitori simpatetici dell'islam (per lo più filoarabi e antiamericani) e le “cassandre”, non meno dotate di conoscenze e per questo in costante allarme, azzardiamo un ragionamento non polemico. Temono i simpatetici di perdere un contatto prezioso, politico e scientifico, con l’islam italiano, qualora prendano francamente le parti di Israele e accettino come verosimili le accuse di filoterrorismo alla nebulosa delle moschee italiane? Temono di non poter più mediare tra le culture? Chi conosce le mie posizioni (nel libro "Apparizioni quotidiane" del 2005 e in
www.chiesa) sa quanto mi attenda da rigorose pratiche negoziali con l’islam, aperte al suo riconoscimento. Le comunità musulmane in Europa hanno diritto a conservare lingua, diritto e cultura propria; le donne ad indossare il velo e l’islam africano a conservare, sia pure nei limiti di una simbolizzazione incruenta, i riti dell’iniziazione femminile. Diffido anch’io, come gli islamici diffidano, del miraggio del meticciato.
Si tratterà, piuttosto, di definire giuridicamente la compenetrazione tra i loro statuti e gli ordinamenti occidentali. Alla base di questi ultimi vi è l’identità occidentale cristiana. In questa razionale prospettiva pattizia, devo riconoscere, trovo scarsi alleati. Conoscitori e difensori dell’islam hanno, in genere, paura delle reazioni del femminismo e coltivano anch’essi il conformismo antitradizionalista e antireligioso tipico dell’intelligencija, assieme all'attesa consolatoria di un islam riformato e moderato, come interlocutore. Un'attesa comunque inappropriata al presente, poiché il soggetto con cui si deve negoziare è quello che è e non quello che vorremmo fosse. Le polemiche, ora divergenti ora convergenti, dei laici di destra e di sinistra contro religione e consuetudini islamiche sono atti di inimicizia, inutili e tendenzialmente interminabili.
Dunque, bisogna imporre al dibattito e all’allarme una essenziale distinzione: altro è il confronto di potenza, pubblico e politico, nazionale e internazionale, altro è quello civile e culturale. Un paese musulmano può essere "hostis"; è il caso della guerra irachena, cui sono stato e resto favorevole. "Hostes", nemici pubblici, sono le forme militanti e armate che chiamiamo jihadiste. Ma esse non sono tradizione e costume islamici, sono dei modernismi neotradizionali. Quando li combattiamo senza debolezze, l’islam-tradizione non si trasforma per noi in una "acies inimica".
Ma, proprio cercando un equilibrio secondo realtà e ragione nel nostro rapporto con l'islam, dobbiamo riconoscere che non saremmo riusciti ad avere oggi, in noi stessi, un contrappeso al rischio di opacità diagnostica e all’involontaria collusione col nemico, se non si fosse levato negli anni il drammatico allarme di Oriana Fallaci, e non ci aiutassero la battente pubblicistica di Magdi Allam e del "Foglio", il coraggio di Fiamma Nirenstein, di Giorgio Israel e di altri. Dobbiamo essere grati a Magdi Allam che ci ha imposto avvertenza e discernimento costanti per il sistematico disegno di conquista che guida anche le impalpabili, mascherate, pressioni culturali esercitate dal mondo musulmano intraeuropeo.
Allam ha ragione nella drammatizzazione delle sue denunce. Il riconoscimento dell’islam civiltà, già complesso, non ha proprio niente a che fare con una lettura giustificazionista di ciò a cui dobbiamo invece opporci. La nostra cedevolezza è un pessimo sintomo perché implica, ed è forse il peggio, una vera cecità sulla intangibilità di Israele e sul suo significato per l’Occidente.
Questo è il terreno simbolico cruciale. Secondo Magdi Allam, per il professor Campanini il riconoscimento dello stato di Israele non potrebbe mai essere richiesto all’interlocutore musulmano, in una “Carta dei valori” del genere di quella elaborata da Carlo Cardia e assunta ad atto di governo da Giuliano Amato, intesa come base negoziale nelle trattative tra stato italiano e rappresentanze musulmane.
Credo si debba affermare il contrario: proprio nel difficile scambio tra il riconoscimento statale e gli obblighi contratti dalle comunità musulmane, debbono essere menzionate e vietate la propaganda antiebraica e ogni idealità terroristica. Il “martire” che uccide è un modello che il paradigma cristiano non ammette e su cui esercita non una generica critica umanitaria ma una critica teologica, di sostanza: quella critica che l’islam è capace di intendere.
Vi è una verità profonda nel titolo di un libro recente di Fiamma Nirenstein: "Israele siamo noi". Il riconoscimento del diritto all’esistenza di Israele è uno dei vincoli primi da porre alle popolazioni musulmane in Occidente. Tale vincolo coincide con la richiesta alle stesse comunità musulmane, ai loro rappresentanti e uomini di dottrina, di riconoscere il futuro diritto ad esistere di noi e di loro, come Occidente.
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31.7.2007
da chiesa.espresso.repubblica.it