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Autore Discussione: I sogni di Winspeare "Da bambino? Volevo essere un latifondista"  (Letto 2587 volte)
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« inserito:: Luglio 27, 2007, 09:54:00 pm »

I sogni di Winspeare

"Da bambino? Volevo essere un latifondista"

ANTONELLA GAETA


 PRIMA di cominciare questo breve viaggio nell´infanzia del futuro regista Winspeare occorre recuperare atmosfere alla Novecento del collega Bernardo Bertolucci. E capire che, come accadeva nella rossa Emilia d´inizio secolo scorso, anche nel basso Salento solo una quarantina d´anni fa "era tutto molto semplice, da una parte stavano i proprietari terrieri e dall´altra gli agricoltori alle loro dipendenze".

Non è difficile sistemare il piccolo Edoardo Carlo dei baroni Winspeare nella prima categoria. Pertanto, il suo primo desiderio, naturalmente indotto dalla lunga teoria di ritratti di avi che si susseguono secolo dopo secolo nei corridoi del suo accogliente castello di Depressa, sia stato uno solo. «Da grande volevo fare il mestiere di mio padre». Cioè? «Produrre il vino e il tabacco. Insomma, fare quello che faceva lui. Con un parola, diciamo un tantino esagerata, il latifondista». Ma non era tanto una questione di censo o schiatta, il piccolo Edoardo quel mondo contadino, da qualsiasi parte lo si inquadrasse, lo amava per davvero. «Sono stato un bambino molto fortunato, ho potuto vivere a metà degli anni ´70 gli ultimi scampoli di una civiltà che ormai è andata scomparendo».

Ricordi e odori che rievoca con ricchezza di particolari quasi li sentisse immutati ancora.
«Avevo nove anni e il profumo di tabacco si diffondeva di casa in casa. Poi, era la volta della vendemmia, per le strade si mettevano i pomodori a seccare al sole e le donne preparavano la salsa. Era una festa per i sensi, ma anche per gli occhi con questi lussureggianti rossi e verdi. Vivevo quella Puglia da cartolina che esisteva ancora e che ho cercato sinceramente di raccontare nel mio primo film Pizzicata». Il tempo, anche dei piccoli Winspeare, era scandito dalle stagioni della terra. «Mia madre ci teneva molto a che anche noi figli lavorassimo a inizio vendemmia almeno un paio di giorni o che perlomeno provassimo, ma si stava comunque dalla parte dei proprietari, è chiaro». Elisabetta Lichtenstein andava ripetendo con il suo accento gutturale: «Dobbiamo dimostrare che non siete viziati» e così i biondi rampolli andavano per i campi, a condividere la fatica dei contadini per gioco. L´immagine più bella sta in una sequenza da film, con i tre fratellini Winspeare il primo giorno della trebbiatura. Davanti alla trebbiatrice, avevano il compito di varare la raccolta con una bottiglia di vino.

«Non era come in Novecento, ma molto peggio. Basta considerare che alle nostre dipendenze c´erano 350 coloni su 1.500 abitanti di Depressa». Il ricordo più partecipato è per le «fimmene, si chiamavano così le lavoratrici dei campi. Il vero potere non lo deteneva mio padre Riccardo ma la "mescia tabacchina", a capo delle raccoglitrici di tabacco, era lei che decideva le lavoranti da prendere a giornata». Il tutto durò fino a quando Edoardo Carlo non compì il quattordicesimo anno di età e, come si conveniva, fu spedito in collegio a Firenze per arricchirsi della migliore delle educazioni. Carlo come tutti gli uomini del suo casato, da quando il primo Carlo Winspeare oltre tre secoli fa mise piede in Italia, fuggendo dall´Inghilterra perché cattolico. «Ma siamo italianissimi da generazioni, anzi, un vivo desiderio che ha accompagnato la mia infanzia e la mia adolescenza è stato quello di cambiare il mio cognome inglese con uno italianissimo tipo Aniello, Granito, Della Leonessa, Pantaleo o Papa, che bel cognome che è Papa». Un altro gioco che amava, prima dell´educazione fiorentina, era quello di inventarsi identità alternative, per religione, epoca o credo politico.

«Un giorno ero un capopolo, anche se i tratti del mio viso non erano esattamente da popolano, e un altro ero il fondatore di una repubblica utopica pugliese nella quale avevano diritto di cittadinanza solo intellettuali, artisti e gente di valore. M´immaginavo di scendere in piazza e chiedere al mio amico "Cosimo cos´hai scritto oggi?". Mi sembrava naturale che accadesse nei luoghi dov´è nata la civiltà europea». Negli assolati pomeriggi a Depressa ha provato profondo odio per Caboto, per Vasco da Gama, per Cristoforo Colombo che hanno scoperto nuove sensazionali terre prime di lui. «Avrei voluto diventare un esploratore, continuare una tradizione che si è interrotta tristemente facendo diventare la nostra Italia solo quella del Risorgimento e della Resistenza. Ora viviamo nell´inferno dei contabili, nella mediocrità altro che spedizioni alla Marco Polo». Non è sbagliato affermare che lui, tutto sommato, ha realizzato una parte di quel desiderio svelando all´Italia la forza evocativa del suo Salento con i suoi film. «Sì, sono contento di aver girato qualcosa di nno perfetto ma originale, con del carattere come ha fatto il Lecce di Zeman che vinceva o perdeva clamorosamente ma, in ogni caso, faceva cose belle».

Anche il cinema partecipa della sua infanzia, ma sempre legato a doppio nodo con il suo immaginario arcaico. Dopo una folgorante visione del Dottor Zivago «con un registratore intervistavo persone che mi raccontassero del basso Salento degli ultimi cinquant´anni, l´emigrazione, l´amore, i tabù, i pochi fatti di sangue, il desiderio, i sogni e la mancanza di sogni». Cominciò anche a usare la super 8 di suo padre e a vent´anni ne comprò una tutta per sé. Il suo percorso formativo, ormai da cineasta, lo stava portando molto lontano da qui. «Ma al mondo contadino sono sempre tornato, appena possibile. Non me ne sono mai allontanato per davvero». Da qui la sua scelta di rimanere a vivere nella sua Depressa, continuo pendolare tra l´amore per la sua terra e quello per il cinema che a Roma si fa.

(27 luglio 2007)

da espresso.repubblica.it
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