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Autore Discussione: Antonio Ferrari La svolta di Fatah  (Letto 2472 volte)
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« inserito:: Gennaio 09, 2009, 01:14:23 pm »

La svolta di Fatah


di Antonio Ferrari

E' un silenzio assordante e significativo.


Un silenzio forse strano, certamente inatteso, quello della Cisgiordania dei palestinesi moderati, che desiderano laicamente un'esistenza più dignitosa. Non perché a Ramallah, a Nablus o a Betlemme il cuore non sanguini per le immagini dei civili uccisi e dei feriti, ostaggi di Hamas e bombardati da Israele. Ma perché la gente, nella Cisgiordania che vuol vivere in pace, ha capito che l'unica alternativa è accettare realisticamente l'inevitabile compromesso necessario per risolvere un conflitto tra due diritti: quello di Israele ad essere riconosciuto entro frontiere sicure, senza missili che cadano sulla sua testa, e quello dei palestinesi ad avere il loro Stato.

Diciamolo subito. E' un mutamento antropologico e, insieme, intriso di buon senso. Che va oltre le ambizioni del presidente dell'Anp Abu Mazen, fiero sostenitore del dialogo; e che va ben oltre il risentimento del laico Fatah nei confronti del fratello integralista, che non ha esitato ad agire con feroce violenza per neutralizzarlo. E' un mutamento che coinvolge il diffuso sentire di un popolo più maturo, consapevole dei rapporti di forza, degli equilibri internazionali, del desiderio di poter vivere senza essere vittima dell'appartenenza islamica, della coercizione, della paura e del fanatismo.

E' stato indubbiamente un grave errore puntare sulle ultime elezioni politiche, nella speranza che gli uomini del Fatah potessero vincerle. Vien da sorridere per le paradossali ingenuità dei palestinesi laici, che in molte circoscrizioni presentarono tre candidati contro quello solitario di Hamas, pur sapendo che uno soltanto sarebbe stato eletto. Era sincero Abu Mazen quando diceva amaramente, anche a noi, che con un po' più di scaltrezza, il risultato sarebbe stato diverso. Verissimo, perché la maggioranza dei palestinesi, che tanto hanno imparato dalla democrazia israeliana, mai si sarebbero piegati alle regole dei bacchettoni estremisti di Hamas, pronti a sacrificare tutto, per conto proprio o per conto terzi, all'appartenenza religiosa e a strategie che non erano nell'interesse del loro popolo.

Se si vuole, è questa la novità più dirompente che affiora dalle macerie di Gaza, e che Abu Mazen, pur costretto a ricorrere in pubblico a formule verbali ambigue, ha saputo cogliere. Nel suo pensiero moderato e profondamente laico ormai si identificano gli arabi palestinesi della Cisgiordania, che hanno imparato sulla propria pelle le lezioni della storia. Penso agli impiegati, ai commercianti, agli artigiani che, in un conflitto così delicato e particolare, non hanno mai rinunciato a cercare un accordo con quello che una sterile e pericolosa propaganda descrive come il nemico.

Se così non fosse, la Cisgiordania sarebbe in fiamme, pronta a sostenere le pulsioni e le sfide di una «terza intifada», probabilmente suicida ben più della «seconda». Cioè la seconda intifada condotta dall'ormai logoro Arafat. Ma non è soltanto dal mondo palestinese che giunge la novità. L'onda del realismo si allunga all'Egitto di Mubarak, stanco di Hamas dopo aver cercato ostinatamente di convincerlo alla ragionevolezza, e timoroso che il contagio possa riaccendere la rivolta della Jama'a Islamiya, l'ala più estrema del fanatismo egiziano. E si allunga anche alla Giordania del saggio re Abdallah, che, pur guidando un popolo che per la sua maggioranza è di origine palestinese, non ha mai ascoltato le sirene del furore islamico. Ecco perché, dalle ceneri di una guerra onestamente inevitabile, può scaturire davvero una nuova speranza.

09 gennaio 2009
da corriere.it
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Admin
Utente non iscritto
« Risposta #1 inserito:: Gennaio 10, 2009, 06:30:16 pm »

«Israele e Hamas credono che la guerra sia un videogame...»

di Alberto Crespi


«Il mondo si divide fra chi odia la violenza e gli ‘altri’, quelli a cui non fa né caldo né freddo. Il problema è che nel mio paese gli ‘altri’ sono la stragrande maggioranza».
Il «mio» paese in questione è Israele. Da lì viene Ari Folman, regista del film (Valzer con Bashir) che dovete assolutamente vedere da domani in poi. Lo distribuisce la Lucky Red di Andrea Occhipinti (21 copie «mirate», sperando di allargarsi grazie al passaparola) ed è uno dei grandi film del 2008: era in concorso a Cannes e avrebbe meritato di vincere. È anche uno dei titoli che contenderanno a Gomorra l’Oscar per il miglior film straniero, e diciamolo da subito: se vincerà, non facciamo i soliti italioti bifolchi, ma alziamoci e applaudiamo, perché Valzer con Bashir è altrettanto forte, bello e importante del capolavoro di Matteo Garrone. È il film con il quale Ari Folman, giovane soldatino dell’esercito israeliano nel 1982, mette in pubblico la cattiva coscienza di Israele sulle stragi nei campi palestinesi di Sabra e Chatila, compiute nel settembre di quell’anno dai falangisti cristiani di Gemayel (è lui, il Bashir del titolo). L’esercito israeliano non entrò nei campi se non a strage compiuta, ma era lì fuori, a poche centinaia di metri, per «coprire» i cristiani che facevano il lavoro sporco. Fra i soldati di leva c’era Folman, che anni dopo ripercorre quella tragica memoria andando a intervistare altri che, come lui, c’erano.

Piccolo dettaglio: il film è un cartoon, realizzato da Folman in collaborazione con il disegnatore David Polonsky (esce anche un libro a fumetti, in questi giorni: stesso titolo del film, edizioni Rizzoli Lizard). Ma le persone intervistate, e «ridisegnate», sono vere: Valzer con Bashir è un curiosissimo esperimento di documentario a cartoni, con ricostruzioni belliche e parentesi oniriche di grande fascino, e solo per questo - per il suo valore squisitamente filmico - andrebbe assolutamente visto.
Folman ieri era a Roma per l’uscita del film. Causa maltempo, era completamente afono, ma non era un mutismo diplomatico: sia pure con fatica, ha parlato, eccome! Statelo a sentire: «Nel 2006, quando è iniziata la seconda guerra in Libano contro Hezbollah, il nostro film era in lavorazione. Qualcuno mi disse: peccato non sia pronto, sarebbe attualissimo. Risposi con una battuta: basta avere fiducia nei nostri leader e questo film sarà sempre attuale. Purtroppo avevo ragione. Sono qua con voi, e a Gaza c’è la guerra... e nessuno fa nulla di serio per fermarla. Io sono ferocemente critico con il nostro governo e sono altrettanto critico con Hamas. Sono tutti ciechi, non vedono le sofferenze della gente, non rispettano la vita. Per loro è un videogame: giocano alla guerra come io gioco a scacchi, fanno la contabilità delle vittime, da una parte e dall’altra».

Che strano paese dev’essere Israele. È il paese che bombarda Gaza ed è il paese che candida Valzer con Bashir agli Oscar - e Valzer con Bashir è un film dove uno degli intervistati, il reporter televisivo Ron Ben Yishai, racconta il suo arrivo a Sabra e Chatila a strage finita, alle 5 del mattino: «Vidi uscire dai campi donne e bambini, sotto il controllo dei militari israeliani che ogni tanto, senza alcun motivo, sparavano colpi in aria. Davanti a tutti c’era un bimbo palestinese con le mani alzate. Mi venne in mente la celebre foto del bambino ebreo con le mani in alto, nel Ghetto di Varsavia» (di recente si è scoperto che quel bimbo si chiama Tsvi Nussbaum e vive negli Usa, ndr).

È un paragone che a molti ebrei suonerà blasfemo, ma a farlo è un giornalista ebreo, e Folman lo ha messo nel film. A Cannes, quando gli chiesero se Valzer con Bashir potesse avere problemi di censura in Israele, Folman rispose quasi ridendo: «Ma che razza di idea avete, voi europei, di Israele? Israele è un paese democratico. Governato da incapaci, ma democratico». Oggi, anche in questo, può dire di aver avuto ragione: «Il film è stato accolto benissimo in patria e io ora sono il “cocco” dell’establishment. Sapete perché? In Israele i poteri forti dividono il mondo fra “noi” e “loro”, fra chi è con noi e chi è contro di noi. Essendo un ex soldato, io sono “uno di noi”. E poi, non sottovalutate un aspetto: non avete idea di quanta gente, qui in Europa, mi abbia confessato di aver appreso dal mio film che a compiere le stragi di Sabra e Chatila furono i falangisti cristiani, e non gli israeliani. La gente non sa, o non ricorda. E il fatto che il film stabilisca questa verità, pur denunciando le connivenze di Sharon - che era ministro della difesa - e del governo di allora, è sufficiente perché lo amino».

Il film si conclude con «15 secondi 15» di filmati d’epoca: cadaveri, donne che piangono. «È una scelta ideologica, non artistica. Volevo che nessuno potesse uscire dal cinema dicendo: che bel film, un bel cartone, belle immagini, belle musiche! Volevo fosse chiaro a tutti che è una storia vera. E se anche un solo spettatore, visto il film, tornasse a casa e cercasse Sabra e Chatila su Google, sarei felice: vorrebbe dire che ho fatto bene il mio lavoro».
C’è un’altra persona, nel mondo, che tutti speriamo faccia bene il suo lavoro: «Sono entusiasta di Obama. La sua storia ha dell’incredibile. Obama è un grande, paragonato non solo a quel coglione che stava alla Casa Bianca prima di lui (Folman usa la parola inglese «jerk», ogni altra traduzione sarebbe edulcorata, ndr), ma a qualunque altro politico. La cosa pazzesca è che piace agli israeliani e piace ai palestinesi! E poi, un fumatore incallito alla Casa Bianca, ve ne rendete conto?».«Il mondo si divide fra chi odia la violenza e gli ‘altri’, quelli a cui non fa né caldo né freddo. Il problema è che nel mio paese gli ‘altri’ sono la stragrande maggioranza».


08 gennaio 2009
da unita.it
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