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Autore Discussione: GIUSEPPE BERTA  (Letto 10804 volte)
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« Risposta #15 inserito:: Novembre 06, 2009, 09:40:25 am »

6/11/2009

Il risveglio di Detroit
   
GIUSEPPE BERTA


Le grandi crisi hanno sempre andamenti imprevedibili. L’attuale non fa eccezione, come dimostra il caso dell’industria dell’auto, che questa settimana ha dominato di nuovo la scena economica. Nell’autunno dell’anno passato, il settore automobilistico aveva offerto una rappresentazione visiva altamente drammatica dell’urto della crisi e delle sue conseguenze sulla produzione attraverso la caduta verticale del sistema di Detroit. Ancora nella primavera scorsa, la capacità di sopravvivere delle tre case storiche Usa sembrava messa in discussione. Negli ultimi giorni, in rapida sequenza, la Ford - che non s’è avvalsa degli aiuti finanziari del governo - ha annunciato il ritorno al profitto; la General Motors, con uno scatto d’orgoglio, ha dichiarato la propria intenzione di mantenere la Opel nel suo perimetro di gruppo, senza temere le violente reazioni tedesche; mercoledì, infine, Sergio Marchionne ha mobilitato la nuova squadra manageriale che oggi guida la Chrysler allo scopo di provare dinanzi agli investitori e al pubblico in generale che ci sono le idee e le risorse per il rilancio della casa di Auburn Hills, oggi partner della Fiat.

Tre eventi che provano la capacità di reazione dell’industria dell’auto Usa, da più parti data frettolosamente per spacciata nei momenti più acuti della crisi. Contro l’opinione di chi aveva stilato una prognosi fatale per Detroit, le direttrici strategiche imboccate da Ford, Gm e Chrysler rivelano la densa accumulazione di capacità, competenze, visione progettuale incorporate in un modello industriale che è stato egemone nel mondo per un secolo. Non ha avuto torto Marchionne, dunque, a sostenere che una simile esperienza produttiva e gestionale non poteva essere cancellata da una catena di pur vistosi errori di conduzione manageriale come quelli che sono stati compiuti nell’ultimo decennio. Resta un nucleo vitale che lo shock della crisi sta facendo riaffiorare. L’espressione, tante volte ripetuta in questi mesi, di «distruzione creatrice», per significare che una profonda recessione consuma risorse, mentre ne rigenera altre, fa trasparire il suo nocciolo di verità, adattandosi bene alla svolta che sta vivendo ora Detroit. Certo, sottintende l’esistenza di un’organizzazione sociale ed economica disposta a sopportare i costi di una flessibilità totale, in grado di accettare traumi e lacerazioni ingenti, pur di rimettere in moto in fretta il motore dello sviluppo.

Le case americane sono impegnate nel tentativo di ridefinire la loro presenza in un sistema dell’auto che sta mutando su scala globale. Devono ripensare se stesse radicalmente, ridefinendo le loro tipologie di prodotto, le loro strutture produttive e distributive, i loro meccanismi di costo, sapendo che dovranno operare in un mercato alquanto più difficile rispetto a prima. La partita più dura la giocheranno Marchionne e la Chrysler. Dalla determinazione con cui il nuovo management ha condotto il lungo roadshow di presentazione dei programmi si comprende come sia intensa la volontà di ricostituire un clima di fiducia attorno ai marchi Chrysler. L’idea-forza è che ormai i destini di Fiat e Chrysler siano inscindibilmente intrecciati, come ha detto Marchionne, e che si stia profilando un nuovo gruppo dell’auto dotato di un respiro effettivamente globale. Ciò implica un salto di qualità operativo che non si misura soltanto sul raggiungimento dei volumi di produzione indicati come traguardo per il futuro, ma sulla scommessa di conseguire un ruolo di protagonista nel nuovo assetto mondiale dell’auto.

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« Risposta #16 inserito:: Dicembre 07, 2009, 07:47:05 pm »

5/12/2009

Il terziario nella morsa della crisi
   
GIUSEPPE BERTA


L’Italia vive la crisi globale stando da «molti mesi in apnea», scrive il Censis nel suo ultimo Rapporto. Bada soprattutto a riprodurre le basi, al punto da meritarsi la definizione di «società replicante», per «quel suo particolarissimo sviluppo processuale e incrementale» che è il suo «modo di sfuggire all’esistente». Il Censis non rinuncia a guardare all’evoluzione della società nella maniera che gli è congeniale, per sottolinearvi un’attitudine molecolare a metabolizzare il cambiamento, in grado di attutire la forza d’urto degli elementi più traumatici. Ma questa volta, accanto alle grandi continuità, indica la novità della crisi nella «dura, complicata ristrutturazione del settore terziario (la prima nella storia dell’Italia moderna)».

Il grande e variegato arcipelago del terziario non è più la massa gelatinosa capace di assorbire i contraccolpi più violenti del rovescio economico. Al contrario, il vasto invaso che risulta dalla combinazione e dalla sovrapposizione dei molti terziari dei servizi, dell’intermediazione, dei commerci è il territorio più soggetto alla morsa della recessione, quello che offre il fianco a effetti profondi di caduta economica, colpendo lavoratori e mestieri che non hanno un sistema di tutela, affondando imprese e attività, talvolta improvvisate, che non hanno mezzi per reggere a tempi così difficili. Di fronte all’offensiva della crisi, non ci si può più rifugiare nell’espediente di inventare servizi indistinti, a bassa produttività ed efficacia, che il Censis definisce «qualcosisti», per rimarcarne l’inadeguatezza e la precarietà.

Ora, se è il terziario il fronte più esposto, dove occorre intervenire per elevarne le forme d’impresa, la produttività e la qualità professionale, si comprende perché con la crisi la «leadership dello sviluppo» torni a essere caricata sulle spalle del sistema delle imprese industriali. Ad onta del minor peso sul prodotto interno lordo, l’industria resta la parte più moderna di un Paese che deve alla manifattura se resta agganciato all’economia internazionale. Ma forse il Censis pecca un po’ d’ottimismo quando sembra dare per scontato che alla fine sarà ancora l’industria il pezzo d’Italia a cavarsela meglio. Chi vive oggi la realtà delle fabbriche del Nord, a Torino come nel Nord Est, sa bene quanto sarà difficile resistere a lungo, se i numeri del 2010 saranno quelli che si prevedono, tali da mettere seriamente alla prova la continuità delle imprese e dell’occupazione.

Per questo, probabilmente, nel mondo delle rappresentanze di categoria balza all’evidenza la spinta a tornare alla «difesa in presa diretta» degli interessi reali, dopo anni trascorsi sulla ribalta politica e mediatica. Le assemblee e i luoghi d’incontro dell’imprenditorialità diffusa sono pervasi da una richiesta d’intervento che non può essere evasa dai discorsi generali sulla natura della crisi e della possibile ripresa. Si annida qui un potenziale focolaio di contrasto con la politica che non può essere trascurato.

da lastampa.it
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« Risposta #17 inserito:: Dicembre 14, 2009, 10:15:15 am »

14/12/2009

Auto, vince chi va sui nuovi mercati
   
GIUSEPPE BERTA


Qual è oggi il primo produttore di automobili al mondo? Fino a poco tempo fa la risposta sarebbe stata scontata, perché avrebbe indicato senza incertezze nella Toyota l’impresa leader nel settore dell’auto, in virtù del primato che la casa giapponese aveva strappato alla General Motors. Quel risultato, quando venne conseguito meno di due anni fa, era sembrato il coronamento del successo di un modello industriale basato su un’ininterrotta capacità di miglioramento, il cosiddetto kaizen, che assicurava livelli sempre crescenti di qualità. Oggi, scrive l’«Economist», non solo quel modello è appannato e l’astro della Toyota non brilla più, ma la stessa supremazia giapponese è insidiata da vicino dall’ascesa della Volkswagen, ormai prossima ai volumi di produzione realizzati dalla casa di Nagoya.

Intendiamoci: la soglia per essere i primi al mondo si è parecchio abbassata rispetto all’epoca dell’egemonia della Gm. Adesso la partita si gioca attorno a volumi pari a circa 7 milioni di vetture all’anno, laddove un decennio addietro la Gm ne produceva da sola oltre 12 milioni. Ma la crisi globale ha picchiato duro sull’industria dell’auto e, soprattutto, ha rimescolato completamente le carte, mettendo in questione tutti gli standard del passato. Gli effetti della recessione si sono combinati con quelli del cambiamento della concorrenza, dando così luogo a uno scenario assolutamente inedito, con cui ogni casa produttrice deve misurarsi, per sopravvivere ancor prima che per aggiudicarsi il primato sulle altre.

La crisi ha stravolto i lineamenti di un settore che è fra i più globalizzati. Ha cambiato gli assetti dell’industria dell’auto che parevano consolidati o sul punto di diventarlo e ha riaperto tutti i giochi. Così è successo che la Toyota ha, sì, scalzato dalla posizione più alta la Gm, ma soltanto per ritrovarsi con un bilancio, l’ultimo, che è il più negativo della sua storia. La sua gamma d’offerta appare invecchiata ai consumatori, mentre la sua conclamata qualità è in caduta, tanto numerose sono le vetture che sono state ritirate per porre rimedio a gravi difetti di fabbricazione.

La Toyota paga la rincorsa che ha compiuto per vincere su Detroit, quando ha visto a portata di mano la supremazia. Ha ampliato la massa della propria produzione, ma al prezzo di oscurare i criteri di qualità che l’avevano resa apprezzata. Le perdite finanziarie hanno cominciato ad assommarsi alla riduzione delle quote di mercato, coll’esito paradossale di incrinare l’immagine e il prestigio aziendali proprio quando la Toyota diventava il produttore più importante.

Adesso sente sul collo il fiato della Volkswagen, che si è assicurata il 19,9% della Suzuki. È un’alleanza strategica perché la Suzuki Maruti controlla da sola il 40% di uno dei principali mercati emergenti, l’India. Con questa mossa, la casa tedesca mostra l’intenzione di radicarsi sempre più nei nuovi mercati, quelli dove la domanda d’auto continua a espandersi. Sicché, se la Toyota non riuscirà a correggere presto il suo corso, rischia di finire rapidamente scavalcata.

Quanto sta avvenendo nel sistema dell’auto dimostra come non esistano più vantaggi consolidati e la realtà economica sia in incessante movimento. Sono davvero lontanissimi i tempi della vecchia General Motors, che per settant’anni ha dominato ininterrottamente sui mercati. Non ci sono più egemonie stabili e le opportunità per le imprese sono grandi come i rischi.

Intanto è visibile lo spostamento della dinamica concorrenziale verso le economie emergenti, a conferma della tendenza che fa delle vetture a costo contenuto e a basso consumo una carta competitiva fondamentale. Ciò conferma anche, inevitabilmente, il crescente rilievo della capacità produttiva dell’automotive localizzata nelle parti del mondo di recente industrializzazione. E dà sostanza ulteriore alle parole pronunciate venerdì sera da Sergio Marchionne al Lingotto, che ha invitato a considerare in tutte le sue implicazioni la riorganizzazione gigantesca in atto nell’industria automobilistica. Una notevole opportunità per la Fiat, come si è constatato in questi mesi, ma che impone comportamenti determinati e coerenti.

da lastampa.it
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« Risposta #18 inserito:: Dicembre 21, 2009, 10:41:57 am »

21/12/2009

Un piano industriale Ue per sopravvivere al 2010
   
GIUSEPPE BERTA

Può essere consolatorio chiudere il 2009 pensando che la fase acuta della crisi globale sia archiviata. E certo gli indicatori economici segnalano valori più positivi per l’anno prossimo, quando il Pil dovrebbe ricominciare a crescere in molti Paesi, Italia inclusa (anche se da noi l'incremento sarà tenue, giacché le previsioni oscillano attorno a un modesto 1%). Il problema vero è costituito dal rischio di precarietà che grava sulla ripresa e che preoccupa numerosi operatori, incerti sulle prospettive offerte da un mondo economico trasformato in profondità dalla grande recessione di quest'anno. Le incertezze sono pesanti, in particolare, per quella parte del sistema delle imprese che ha scommesso sull'export e sull'espansione dei mercati internazionali. Sono le aziende che hanno fin qui rappresentato la punta di lancia della modernità italiana e hanno avuto il merito di tenere agganciato il Paese alla dinamica della globalizzazione. Sono state loro a pagare un prezzo alto, quando la recessione ha investito in pieno un comparto che aveva dimostrato di voler giocare fino in fondo la carta del cambiamento.

Stando alle cifre dell'«Economist», la flessione della produzione industriale nel nostro Paese in autunno è stata lievemente superiore alla media europea. La Germania, che dispone di un apparato produttivo imponente, ma meno leggero e flessibile del nostro, ha registrato del resto una perdita ancora maggiore: è il destino delle nazioni che mantengono un solido nucleo industriale quello di risentire di più dei colpi di una crisi dalle forti ripercussioni sul commercio internazionale. Per l'industria, tuttavia, i guai non finiranno col 2009. Nell’anno che verrà, si trascinerà dietro tutte le questioni negative che ha accumulato in quello che sta per finire, sapendo per giunta che lo sbocco finale della crisi resta problematico. Per capire appieno la portata degli interrogativi che stanno di fronte alle nostre imprese industriali, conviene spostare lo sguardo dai valori macroeconomici a ciò che avviene nei terminali del sistema produttivo, nelle aree che sono sede di importanti concentrazioni di imprese, quelle che conoscono il volto autentico della crisi.

Oggi, per esempio, a Torino, nella consueta conferenza stampa di fine anno, il presidente dell’Unione Industriale Gianfranco Carbonato fornirà una lettura dei dati congiunturali e delle aspettative delle imprese, che non lasciano troppo spazio agli ottimismi di maniera. Dovrà confermare come l'andamento della produzione, dell’occupazione, degli ordini, degli investimenti e del ricorso alla cassa integrazione per il prossimo trimestre non si discosterà di molto, nella sostanza, da quello dei mesi finali del 2009. Ciò significa che, pur superato il momento dell’emergenza, bisogna prepararsi a navigare in acque basse e piene di insidie.

Ci si dovrà muovere in un mondo che viaggia a due velocità, a ritmi sostenuti in Cina, India e in alcune realtà emergenti e a un passo alquanto trattenuto in quell’Occidente che era un tempo il motore dello sviluppo.

Per le nostre imprese esportatrici la nuova situazione implica la necessità di dover orientare le loro attività in direzione dell'Asia, in primo luogo, e di mercati in cui però è molto difficile penetrare. Esse scontano in partenza un handicap implicito nelle loro dimensioni e nel fatto che l'Italia non dispone di strutture tali da poter accompagnare con efficacia e autorevolezza le sue aziende intenzionate a operare in contesti istituzionali e culturali dove non valgono i sistemi di valore e le regole comportamentali del capitalismo occidentale.

Contrariamente a quanto alcuni avevano improvvidamente diagnosticato al manifestarsi della crisi, la sua conseguenza non è stata affatto di bloccare il processo di globalizzazione. Se non l'ha arrestato, l'ha trasformato, assegnando il ruolo di protagoniste ad aree del mondo diverse da quelle dove si è affermato lo sviluppo economico moderno. L'Italia era entrata definitivamente nell’economia internazionale sulla scia dell’egemonia americana del secondo dopoguerra, quando erano gli Usa a dettare i criteri e gli standard di comportamento. Adesso le tocca d'imparare i nuovi linguaggi che si parlano nel nuovo assetto mondiale, dovendo contare su forze e risorse limitate. Abbiamo dunque la sicurezza che, da questo punto di vista, anche il 2010 sarà un anno duro. Per affrontarlo, però, non basta averne la consapevolezza. I nostri produttori potranno farlo se non verranno lasciati soli. Se l'Unione Europea accennerà finalmente a voler metter in campo qualcosa di simile a una politica industriale.

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