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Autore Discussione: GIUSEPPE BERTA  (Letto 10918 volte)
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« inserito:: Gennaio 02, 2009, 10:32:39 am »

2/1/2009
 
Pininfarina il futuro d'uno stile
 
GIUSEPPE BERTA
 
Andrea Pininfarina amava ricordare che il nome della sua famiglia e della sua impresa costituiva uno dei marchi italiani più conosciuti nel mondo, una delle sigle che non hanno bisogno di spiegazioni per essere apprezzati, tanto è immediata l’identificazione con un segno stilistico inconfondibile. Alla celebrità di Pininfarina molto ha concorso, senza dubbio, il sodalizio ormai cinquantennale col marchio Ferrari, un binomio dotato d’una straordinaria efficacia di comunicazione grazie alla combinazione di alta qualità e di immagine che realizza.

Basta forse questo per comprendere l’inevitabile senso di smarrimento e anche di rammarico che ha suscitato il comunicato del 31 dicembre con cui si è data notizia dell’accordo raggiunto fra le banche creditrici e il Gruppo Pininfarina. Ciò che ha colpito, al di là delle procedure tecniche che permetteranno di evitare il regime di amministrazione controllata per l’azienda torinese, è la perdita del ruolo di proprietario e di guida imprenditoriale per la famiglia Pininfarina. L’ingente debito accumulato dal Gruppo negli ultimi anni non consentiva probabilmente soluzioni diverse, ma desta comunque sconcerto che si sia consumato così rapidamente il destino scandito dalla morte improvvisa di Andrea Pininfarina poco più di quattro mesi fa. È stato sufficiente questo breve periodo di tempo perché alle preesistenti difficoltà aziendali si siano assommati gli effetti dirompenti della crisi globale, pregiudicando le prospettive aziendali.

È naturale che, davanti alla notizia del passaggio di consegne deliberato l’altro giorno, ci si chieda se non sia a rischio un’esperienza qualificante dell’industria italiana, capace di accreditarla nel tempo di un prestigio indiscusso, importante anche per il futuro proprio perché centrata sul valore progettuale della produzione. I prossimi mesi chiariranno a quali condizioni e in quale contesto il marchio Pininfarina riuscirà a sopravvivere. Certo, in questo momento lo scenario resta nebuloso giacché le sorti del Gruppo sono affidate alla possibilità di un acquirente che ne rilevi, insieme con l’asset di maggiore consistenza, il centro di progettazione di Cambiano, anche una parte della struttura produttiva.

Non si può dimenticare che la Pininfarina ha sempre tenacemente voluto mantenere la propria natura industriale. Pininfarina è stile, certo, ma anche produzione d’auto. La battaglia combattuta da Andrea Pininfarina per salvare gli impianti produttivi, divenuta strenua nei suoi ultimi mesi di vita, era legata alla scommessa che si potesse conservare la specializzazione manifatturiera. Rinnovandola radicalmente, ma allo scopo di farla sussistere. Di qui il progetto di un’auto elettrica di tipo nuovo, in cui è stato coinvolto Vincent Bolloré. Si vedrà adesso se Bolloré non solo crede sempre in quel progetto, ma se ritiene che esso vada condotto e sviluppato a Torino. Per la nostra industria, e in particolare per il nostro sistema dell’auto, sarebbe un segnale importante: vorrebbe dire lavorare concretamente in direzione di quel ripensamento strategico dell’automobile come prodotto che la crisi attuale sembra sollecitare.

E poi resta naturalmente determinante il nodo del centro di ricerca e di progettazione che la Pininfarina possiede a Cambiano, una delle punte alte del design industriale. È il gioiello dell’azienda, il laboratorio di competenze che Andrea Pininfarina illustrava con orgoglio ai visitatori. Ma il suo valore è in relazione al radicamento industriale: deriva dal rapporto con un universo della produzione esteso e versatile. Ecco perché ne va assolutamente preservata la specificità italiana.

È giusto infine riserbare una considerazione sulla famiglia Pininfarina, nel momento della discesa della sua parabola imprenditoriale. È stata un soggetto di primo piano nel sistema associativo degli industriali italiani, prima con Sergio Pininfarina alla testa della Confindustria e dopo con suo figlio Andrea, che assunse compiti rilevanti in anni più vicini, quelli della presidenza Montezemolo. Priva di una rappresentanza come quella che i Pininfarina avevano garantito, l’Italia economica del Nord Ovest perde di sicuro una voce autorevole, ma ne risente anche il mondo imprenditoriale nel suo complesso.
 
da lastampa.it
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« Risposta #1 inserito:: Maggio 17, 2009, 11:18:10 am »

17/5/2009
 
Il mestiere più difficile
 
 
GIUSEPPE BERTA
 
Le immagini di Gianni Rinaldini spintonato e tirato giù a forza dal palco dal quale avrebbe dovuto parlare hanno impresso una conclusione imprevista e drammatica alla manifestazione dei lavoratori Fiat, ieri a Torino.

Non c’è dubbio che si sia trattato di un gesto preparato e voluto, per dimostrare con la forza dell’esempio il carattere irriducibile di una lotta la cui posta in gioco è identificata con lo stabilimento di Pomigliano d’Arco. La protesta violenta orchestrata dai Cobas contro i vertici sindacali vuole imprimere una radicalizzazione alla tensione che nelle ultime settimane è salita dentro e attorno agli stabilimenti meridionali del Gruppo Fiat. Un clima che aveva già trovato testimonianza nella puntata di giovedì scorso di Annozero, rivelando come la mobilitazione in atto stesse assumendo contorni e tonalità ormai distanti dal discorso sindacale. A questo punto l’azione dei Cobas si rivolge allo stesso modo contro le tre sigle confederali senza distinzione. Se il segretario della Fim-Cisl non ha potuto nemmeno iniziare l’intervento, l’aggressione a Rinaldini ha assunto un’efficacia dimostrativa ancora maggiore: i sindacati ufficiali sono accusati di essere «venduti» semplicemente perché non avanzano l’unica, perentoria richiesta che i Cobas vogliono sentire, cioè la totale intangibilità di ogni impianto produttivo.

La lunga durata della crisi sta ispessendo un malessere che alimenta un’onda populistica, estranea nel suo linguaggio e nei suoi comportamenti alla mediazione sindacale. Di fronte al sommovimento in corso nel sistema mondiale dell’auto, prende corpo una reazione tendente a negare semplicemente ogni cambiamento per lasciare tutto così com’è. Si fa strada un atteggiamento di resistenza, il cui scopo è difendere la realtà esistente, come dicevano provocatoriamente alcuni degli slogan e degli striscioni del corteo torinese di ieri: se Marchionne è davvero un manager bravo, allora lo provi non toccando né una fabbrica né un posto di lavoro. E non è un caso che la protesta investa direttamente i tre sindacati, accusati di aver avallato l’opera fin qui condotta dall’amministratore delegato della Fiat. Potrebbe apparire persino una sorta di minaccia preventiva, quando ancora non è emersa nessuna misura e nessuna decisione nei confronti degli impianti considerati da sempre più a rischio, Pomigliano e Termini Imerese. Non serve che Marchionne ricordi, come ha fatto venerdì scorso, che è prematuro discutere della sorte degli stabilimenti quando non si può ancora sapere la configurazione effettiva del nuovo gruppo automobilistico al quale sta febbrilmente lavorando in queste settimane. La partita tedesca per l’acquisizione della Opel è tutt’altro che conclusa e anche i suoi tempi potranno non essere così rapidi. Ma appunto per questo forme dure di lotta come quelle sperimentate ieri dinanzi al Lingotto valgono proprio a mettere in chiaro la priorità assoluta della salvaguardia degli stabilimenti e dei posti di lavoro, a prescindere da ogni riassetto industriale.

Il denso grumo di timori e preoccupazioni su cui fanno leva i Cobas è alimentato da un’incertezza sullo sbocco della crisi che sembra aumentare invece di diminuire, man mano che i giorni passano. I mezzi d’informazione ricordano continuamente le risorse imponenti che alcune nazioni hanno posto in campo per la loro industria automobilistica. Molti pensano che l’Italia, che non dispone dei capitali pubblici della Germania e della Francia per sostenere le loro imprese, finirà col dover pagare costi sociali più elevati, con una perdita più grave di capacità produttiva e di occupazione. Certo, non ha giovato che gli Stati europei abbiano proceduto in ordine sparso davanti alla crisi, dando l’impressione che ogni comunità nazionale badasse anzitutto a se stessa. Spinta fino in fondo, questa logica porta inevitabilmente a far sì che ogni territorio voglia difendere con le unghie e coi denti le sue fabbriche. Ma così si dimentica che l’organizzazione industriale vive soltanto se opera continue metamorfosi. Stiamo smarrendo l’idea che le fabbriche siano luoghi in cui si opera una trasformazione incessante. Se così non fosse, non si capirebbe come mai Mirafiori abbia potuto compiere l’altroieri i suoi settant’anni.

Il sindacato ha dinanzi a sé un mestiere molto difficile: deve aiutare a far capire, in un frangente di crisi acuta, che le fabbriche possono vivere solo se si attrezzano per evolvere e cambiare, con gli indispensabili strumenti di sostegno che ciò esige. Altrimenti la loro sorte è segnata.

da lastampa.it
« Ultima modifica: Ottobre 30, 2009, 10:29:16 am da Admin » Registrato
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« Risposta #2 inserito:: Luglio 14, 2009, 06:19:36 pm »

14/7/2009
 
I deboli soffrono di più
 
GIUSEPPE BERTA
 

Da più parti si è detto in questi mesi che l’Italia ha retto meglio di altri Paesi all’urto con la crisi globale. Merito, si è aggiunto, di alcune delle nostre specificità nazionali, che ci differenziano dalla struttura economica predominante nelle grandi realtà occidentali. Un sistema del credito non ancora uniformemente concentrato e legato invece ai circuiti locali, da un lato, e, dall’altro, un mondo della produzione articolato soprattutto in imprese di dimensioni ridotte sono apparsi come elementi capaci di assorbire almeno parzialmente l’onda di piena della crisi. Man mano che la recessione prolunga i suoi effetti nel tempo, tuttavia, questi stessi fattori rischiano di subire un danno crescente. Si avverte il fondato pericolo che i tempi lunghi della crisi aggravino lo stato di difficoltà della nostra economia e facciano emergere dei motivi di fragilità difficili da contrastare.

È questo il senso che si trae dalle parole di preoccupazione pronunciate ieri dal presidente della Consob Lamberto Cardia, tendenti a mettere in risalto la precarietà della situazione dei conti delle imprese minori. Cardia ha parlato del rischio di «asfissia finanziaria» che corrono le «imprese medio-piccole», «trama fondamentale del tessuto imprenditoriale italiano». La minaccia concreta è che la massa di queste imprese si trovi penalizzata dalla mancanza di credito. Ciò finirebbe col colpire indiscriminatamente le aziende di tutti i tipi, le più virtuose - quelle che si sono aperte alla concorrenza internazionale - come le più tradizionali, con una conseguenza di livellamento tale da indebolire complessivamente il nostro mondo della produzione industriale. Come lamenta Cardia, così «si sta interrompendo un processo di ristrutturazione aziendale che negli anni scorsi aveva iniziato a produrre risultati incoraggianti in termini di produttività e competitività internazionale».

Succede spesso che i riconoscimenti giungano postumi. Quando quattro o cinque anni fa era di moda parlare del «declino industriale» dell’Italia, pochi si accorgevano come in realtà i nostri produttori avessero avviato una profonda metamorfosi dell’organizzazione produttiva. L’attenzione era allora troppo focalizzata sui fenomeni di crisi che interessavano le imprese maggiori, coinvolgendo marchi che avevano fatto la storia industriale del nostro Paese. Viceversa, numerose imprese - che uscivano dall’esperienza dei distretti industriali, spesso esempi del capitalismo familiare all’italiana - erano impegnate in un’opera di ammodernamento dei loro prodotti e dei loro processi. Esse hanno preso allora a guardare sempre più fuori dei confini nazionali, con una nuova capacità di presenza in segmenti significativi del mercato mondiale. La «questione dimensionale», sovente indicata come il limite della nostra esperienza industriale, cominciava a non essere più percepita come il problema dirimente dello sviluppo.

La crisi è arrivata come una gelata per i nostri produttori più dinamici. In primo luogo, perché la contrazione del commercio mondiale ha colpito proprio coloro che si erano spinti di più sul versante dell’internazionalizzazione. E poi, perché molte delle imprese che si erano date più da fare per espandersi si sono trovate catturate nella morsa della liquidità insufficiente. Oggi sono in affanno anche aziende che erano additate come i fiori all’occhiello della nostra industria, quelle «multinazionali tascabili» che avevano rappresentato negli ultimi anni la componente più vivace della nostra imprenditorialità. Non è raro ascoltare imprenditori che, posti dinanzi all’urgenza di un aumento di capitale, dicono di non riuscire a raccogliere dall’esterno le risorse finanziarie loro necessarie, nonostante abbiano storie aziendali di successo alle spalle e un indubitabile potenziale di crescita nel futuro.

Nella sua relazione di ieri, Cardia ha rimarcato come, nel clima attuale di incertezza, siano «i soggetti più deboli» a essere «esposti ai rischi maggiori». Sul mercato dei capitali, le grandi imprese riescono ad approvvigionarsi delle risorse occorrenti mediante prestiti obbligazionari che collocano senza gravi difficoltà. Sono gli altri soggetti imprenditoriali che stentano, sebbene - come testimoniano gli operatori bancari - i depositi siano in aumento. È chiaro che, in un frangente di crisi acuta, i risparmiatori tendono ad astenersi da investimenti considerati rischiosi. Proprio per questo, oggi, il nodo della crisi è costituito dagli strumenti per assicurare credito alle imprese. Di qui passa l’innovazione nella gestione della crisi. Quanto prima si riuscirà a ridare credito all’ala marciante della nostra economia, tanto prima si getteranno le condizioni per il rilancio dell’Italia industriale.

da lastampa.it
« Ultima modifica: Luglio 17, 2009, 05:06:35 pm da Admin » Registrato
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« Risposta #3 inserito:: Luglio 17, 2009, 05:07:12 pm »

17/7/2009
 
Una nuova questione meridionale
 

GIUSEPPE BERTA
 
Fra le immagini stereotipate della società italiana a cui dobbiamo rinunciare vi è quella di un Sud con meno risorse delle altre aree del Paese, ma dotato di una popolazione più giovane e numerosa.

I dati dell’ultimo rapporto elaborato dalla Svimez - un’autentica istituzione della cultura meridionalistica, presieduta da Nino Novacco - ci dicono che non è più questa la realtà demografica del Mezzogiorno d’Italia. Oggi nel nostro Sud vivono 20,8 milioni di abitanti che, se non avverrà un’inversione di tendenza, saranno calati a 19,3 milioni tra vent’anni. Saranno allora le classi d’età più anziane a prevalere: andando avanti di questo passo, una persona su tre avrà più di 65 anni; una su dieci supererà gli 80.

Il Sud, ancora più dell’Italia, non è una terra per i giovani. Questi se ne stanno andando, infatti, in numero elevato. Sono circa 300 mila le persone che ogni anno abbandonano il territorio meridionale «per cercare di realizzare le loro aspettative professionali nel resto del Paese», come scrive il Rapporto Svimez. Per circa 120 mila di essi non si tratta della ricerca di un’opportunità momentanea, ma di una scelta definitiva. Sono giovani che non faranno mai più ritorno ai luoghi in cui sono nati; li contraddistingue un’alta scolarizzazione e un desiderio di miglioramento della loro condizione che li spinge al Nord.

Dunque, il nostro Paese non conosce soltanto i flussi migratori di cui riferiscono quotidianamente le cronache, con i risvolti dei problemi di sicurezza che tengono banco nel dibattito politico. È ripreso anche il movimento della popolazione che più di ogni altro ha segnato la storia del secolo scorso, quello che sposta le persone lungo l’asse Sud-Nord. Soltanto che è molto diverso da quello di cui conserviamo ancora una solida memoria collettiva. Le migrazioni odierne non hanno proprio nulla di simile a quelle codificate nell’immagine pubblica, quando - nei decenni Cinquanta e Sessanta - molti lavoratori meridionali affluivano alle città settentrionali e alle loro fabbriche. Ciò che avviene oggi coinvolge i giovani più istruiti del Sud, quelli che vogliono per se stessi gli studi migliori, che hanno voglia di misurarsi con la realtà più avanzata con cui possono entrare in contatto.

Se è lecito accostare l’osservazione personale alle cifre, devo dire che i numeri della Svimez non stupiscono chi, come me, li ha letti al termine di una giornata d’esami trascorsa in un’università milanese, la Bocconi, che è una delle mete preferite dai ragazzi meridionali. Sono tanti quelli che giungono - proprio come annota la Svimez - dalla Puglia, dalla Campania, dalla Sicilia, attratti dalla capacità di richiamo di una grande area metropolitana e dalle sue istituzioni formative. Sono studenti mossi quasi sempre dalla volontà di utilizzare gli strumenti d’analisi di cui si impadroniscono per comprendere il territorio dal quale provengono. Propongono, spesso in modo appassionato, tesi e lavori di approfondimento sui luoghi in cui sono nati, animati da un interesse molto forte e vivace per i problemi locali. Ma sanno bene che non applicheranno i risultati dei loro studi alle loro terre. Esse non concedono loro spazio per affermarsi, per far valere le loro conoscenze, per promuovere il loro talento. Del resto, come potrebbero rassegnarsi a tornare in posti che lasciano loro ben poche speranze? Nel Sud il Pil pro capite è pari al 59% di quello del Centro-Nord: circa 18 mila euro contro oltre 30 mila. Meglio allora, molto meglio, scommettere su se stessi e tentare altrove la propria sorte.

Nulla più di questa perdita del «capitale umano», rappresentato dall’intelligenza e dalle competenze di migliaia e migliaia di giovani, testimonia del declino del Mezzogiorno, che assiste all’allontanamento progressivo delle sue energie più vitali. La crisi del Sud si riflette, ancor prima che nel peggioramento degli indicatori economici, nel venir meno di una visione dello sviluppo. Sulle prospettive di crescita della società meridionale è calata da anni una cortina di silenzio.

Ciò dipende anche dal fatto che la «questione settentrionale» ha soppiantato da tempo, nell’agenda politica italiana, la «questione meridionale», una volta uno dei cardini del discorso politico del nostro Paese. C’è da chiedersi, tuttavia, quanto a lungo potrà reggere un rapporto così squilibrato con una parte d’Italia che sta scontando la consunzione e lo spreco delle sue fondamentali risorse sociali.
 
da lastampa.it
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« Risposta #4 inserito:: Luglio 31, 2009, 11:43:54 pm »

31/7/2009
 
Meno poveri per uscire dalla crisi
 

GIUSEPPE BERTA
 
I dati diffusi dall’Istat sulla povertà in Italia sono destinati a rinfocolare la controversia che si è aperta sul divario crescente fra il Centro-Nord e il Sud. Gli indici che sono stati elaborati per il 2008 non si discostano nella sostanza dei valori degli ultimi anni. Ma mettono impietosamente in rilievo come il fenomeno della povertà - che riguarda 8 milioni di persone nel nostro Paese - si concentri e si acutizzi nella parte meridionale del Paese. Osserva l’Istat che l’incidenza della povertà nel Mezzogiorno è quasi cinque volte superiore a quella che si registra nel resto d’Italia. Si parla in questo caso di povertà relativa, ma quando si passa a quella assoluta e si considerano i parametri elaborati dall’Istat diventa ancora più visibile la distanza fra le varie aree territoriali. È da considerarsi povero a tutti gli effetti l’adulto in età compresa fra i 18 e i 59 anni che vive da solo spendendo meno di 750 euro mensili in un’area metropolitana settentrionale. Questa cifra viene rivista in basso, a 674 euro, se si tratta di una persona domiciliata in un piccolo comune del Nord. Per un abitante di un piccolo centro del Sud il valore scende a 502 euro al mese. Sono numeri che rispecchiano le realtà di maggior disagio e rivelano come siano profonde le disparità di condizioni e di reddito che segmentano la penisola. Ma sono le rilevazioni statistiche relative agli indici della povertà relativa a far riflettere di più. Per l’Istat nel 2008 si è collocato sotto la soglia di povertà un nucleo familiare composto da due persone la cui spesa mensile sia risultata inferiore al valore medio per individuo di 1.000 euro. Se la percentuale di coloro che si collocano al di sotto di questo discrimine sul totale della popolazione è contenuta nel Nord (4,9%) e nel Centro (6,7%), essa si impenna al 23,8% quando si prende in esame il Sud.

La fotografia dell’Istat ritrae l’Italia dell’anno scorso, in una fase in cui il Paese non era ancora stato investito dall’onda d’urto della crisi. Dovremo aspettare l’elaborazione dei dati del 2009 per conoscere il grado con cui la recessione globale si è ripercossa sulla condizione dei poveri. Certo, c’è da attendersi che queste cifre non renderanno più facile il percorso della Finanziaria nel prossimo autunno, dopo che il voto sul Dpef ha mostrato la disaffezione di settori della maggioranza verso i tentativi di controllo della spesa pubblica operati dal ministro Tremonti. Non è questo tuttavia il nodo più importante che pongono in evidenza le rilevazioni dell’Istat. Esse mettono a fuoco due elementi di criticità importanti, che non possono essere sottovalutati. Il primo è costituito dalla staticità dell’area sociale della povertà. Si conferma ancora una volta il blocco dei processi di mobilità che caratterizza la nostra società. Dalla condizione di povertà è difficilissimo uscire, e non soltanto perché essere poveri dipende sempre più da fattori quali un livello carente di istruzione. Ci sono delle radici territoriali della povertà che non possono essere scalfite all’interno di assetti sociali congelati, dove le vie di fuga individuali possono configurarsi soltanto con l’abbandono del luogo in cui si è nati. Ma, di nuovo, la carta della mobilità territoriale è oggi accessibile ai giovani in possesso di un titolo di studio spendibile in altre parti del Paese.

Il secondo fattore critico è rappresentato dal fatto che la mappa della povertà disegna una domanda interna statica o in declino, dunque un handicap consistente per le nostre possibilità di rilancio economico. La contrazione dei consumi sta già facendo sentire i suoi effetti sul prolungamento della crisi, su alcune sue manifestazioni specifiche che appaiono connesse alla particolarità del modello Italia. Per questo, sarebbe tempo di pensare a logiche di intervento nella politica sociale e fiscale che non siano solo contingenti, ma si aprano alla prospettiva di rendere meno permanente e stringente la morsa della povertà.
 
da lastampa.it
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« Risposta #5 inserito:: Agosto 07, 2009, 11:45:36 am »

7/8/2009
 
Non abbiamo toccato il fondo
 
GIUSEPPE BERTA
 
I numeri diffusi ieri dall’Istat sulla nostra produzione industriale hanno l’effetto di una gelata sulle aspettative che, pur timidamente, erano state adombrate sull’andamento della crisi e sulle sue ripercussioni per l’economia italiana.

Le cifre ci dicono non soltanto che l’urto della crisi globale sulle attività produttive non si è attenuato, ma che non possiamo ancora prevedere il momento in cui sarà possibile cogliere i segnali della ripresa.

Per la verità, i cauti cenni di ottimismo non erano stati sottoscritti né dagli operatori economici né dai sindacati, che in questi giorni avevano già anticipato la necessità di prepararsi a un nuovo periodo di difficoltà al rientro dalle ferie. Ora le stime dell’Istat confermano come non si sia fin qui arrestata la caduta produttiva, che riguarda praticamente tutti i settori.

Di fatto, è difficile individuare componenti del sistema industriale che non registrino un peggioramento significativo anche rispetto ai valori, di per sé deludenti, riscontrati negli ultimi mesi. La flessione si rivela meno grave nel settore della produzione dei beni di consumo, che segna un meno 9% nel giugno di quest’anno rispetto al giugno 2008 (ma se si considera l’intero primo semestre 2009 rispetto al primo semestre dell’anno scorso la perdita sale al 9,8%). La profondità della recessione in atto è tuttavia testimoniata soprattutto dai livelli di regresso toccati dalla produzione dei beni durevoli (-26% rispetto al giugno 2008) e dei beni strumentali (-26,8%). Ciò mostra come l’aspetto più preoccupante della crisi stia in un ristagno degli investimenti che, quanto più si prolungherà, tanto più allontanerà e renderà incerte le prospettive della ripresa. Settori come la metallurgia e la produzione degli autoveicoli raggiungono picchi negativi superiori al 30%, nonostante l’ampliamento delle quote di mercato conseguito dai marchi Fiat e Lancia.

Quali conseguenze trarre dai dati Istat? La prima, naturalmente, è che nessun indicatore dell’economia reale ci può indurre a credere che la crisi sia avviata verso un superamento spontaneo, magari al seguito dello spiraglio di crescita di recente preconizzato per fine anno dal presidente Obama. È possibile e sicuramente auspicabile che i tempi della ripresa Usa siano più celeri di quanto si era temuto, ma un miglioramento economico al di là dell’Atlantico non è destinato a riverberarsi immediatamente sulle condizioni delle nostre imprese. Le quali mai come adesso devono essere accompagnate e sostenute in un cammino che consenta loro di sopravvivere, in attesa di poter cogliere il soffio del vento della ripresa internazionale quando si manifesterà.

Per adesso dobbiamo sapere che chi sta soffrendo di più è la parte maggiormente dinamica del nostro sistema industriale, quella che, dopo aver esplorato le strade della globalizzazione, paga gli effetti della contrazione del commercio mondiale. Nei mesi a venire serviranno nuove azioni sia sul fronte degli ammortizzatori sociali che su quello del credito, dando corso pratico all’intesa stabilita fra la Confindustria e l’Associazione Bancaria Italiana.

Rendersi conto della situazione di pesantezza che sta vivendo la nostra industria è indispensabile per calcolare con senso di realismo i costi da sopportare. E non si tratta soltanto dei costi vivi degli ammortizzatori sociali e delle inevitabili misure di sostegno: vi sono da mettere nel computo anche quelli che si stanno abbattendo e si abbatteranno ancora, nel prossimo autunno, su una struttura industriale fatta di una miriade di aziende di dimensioni piccole e piccolissime, drammaticamente esposte alla crisi e alla sua lunga durata. Non può essere sottovalutato il prezzo che verrà pagato dai ranghi dell’imprenditoria minore e da quelli dei lavoratori.

Le elaborazioni dell’Istat hanno dunque anche il valore di un richiamo a chi ha la responsabilità di gestire la crisi. Essa va affrontata, da un lato, senza indulgere a pensare che la moneta dell’ottimismo serva a contrastarla e, dall’altro, senza sottovalutare il vasto e non sempre visibile serbatoio di risorse che un sistema economico capace di grande adattamento e di flessibilità come quello dell’Italia possiede.

da lastampa.it
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« Risposta #6 inserito:: Agosto 17, 2009, 12:08:29 pm »

17/8/2009
 
Non consumeremo mai più come prima
 
 
GIUSEPPE BERTA
 
Giusto un anno fa, ai primi dell’agosto 2008, i giornali commentavano la fiammata dell’inflazione che aveva toccato l’economia europea. I prezzi registravano allora un aumento intorno al 4%, un’impennata imprevista che ebbe l’effetto di suscitare la reazione delle autorità monetarie. In realtà, quella punta dell’inflazione era destinata a esaurirsi presto, non essendo altro che una sorta di febbre, annuncio della malattia che corrodeva ormai tutte le fibre del sistema economico e che si sarebbe manifestata in tutta la sua gravità nell’autunno.

Un anno dopo, la situazione che abbiamo di fronte è rovesciata: a indurre timore non è più il pericolo dell’inflazione, quanto il suo contrario, la deflazione, giacché i prezzi nell’area dell’euro viaggiano a un valore medio annuo di meno 0,7% su base annua (-0,1% per l’Italia). Si tratta di un quadro meno imprevisto dell’inflazione improvvisa dell’estate 2008, ma più difficile da affrontare, in un certo senso, perché all’aumento dei prezzi siamo abituati, alla loro riduzione, pur minima, e alla loro stasi, no. Che cosa significa una tendenza alla deflazione per i nostri tentativi di imboccare una via d’uscita dalla crisi?

La scadenza di Ferragosto è probabilmente prematura per trarre un’indicazione circa l’andamento dei consumi durante questa estate. Non sappiamo quanto fondata sia la stima che già si avanza da qualche parte di una diminuzione del 20% della spesa per le vacanze. Certo è che tutti si attendono cifre in flessione. Intanto, negli ultimi giorni, ci sono giunti altri indicatori, dai dati sull’indebitamento delle famiglie a quello sull’utilizzo delle carte di credito, che ci confermano un orientamento al contenimento dei consumi.

La svolta imposta dalla crisi
Nulla di nuovo per l’Italia, dove una frenata dei consumi è in atto da tempo. Ma i segnali che arrivano vanno tutti nella stessa direzione e fanno presagire che questa situazione si prolungherà nel tempo. D’altronde, nel resto del mondo occidentale, soprattutto nei paesi dove predominava il modello economico americano (come il Regno Unito), la caduta dei consumi è ancora più brusca. Almeno da noi, la propensione al risparmio è ben altrimenti solida, come testimonia la diffusa riluttanza - anche se può avere un sentore un po’ arcaico - a servirsi del «denaro di plastica» (abbiamo scoperto che per la maggioranza le carte di credito emesse dalle banche rimangono inutilizzate).

Forse è questo il segno più importante della svolta che la crisi globale in corso ormai da due anni sta imprimendo alle economie. La portata e la radicalità delle crisi si misurano sull’ampiezza e la durata delle conseguenze che impongono. E quella che viviamo sta cambiando il tono delle nostre società. Dobbiamo prepararci a un’epoca in cui la dinamica dei consumi sarà alquanto più fredda di quella del recente passato. In cui non ci sarà più l’effetto combinato del boom edilizio e della leva finanziaria ad accelerare il ritmo del processo di crescita. A meno che, naturalmente, le economie emergenti, in primis quelle asiatiche, non rivelino una forza insospettata, configurandosi come il nuovo motore del sistema mondiale.

Problemi inediti
Le famiglie italiane hanno iniziato da un po’ a adattare le loro strategie molecolari al nuovo quadro di riferimento. La loro capacità di assorbire gli elementi caratterizzanti delle tendenze economiche per realizzare degli aggiustamenti è una qualità sperimentata. Il compito più difficile starà dinanzi alle nostre imprese, chiamate a intraprendere anch’esse un’azione per riposizionarsi strategicamente nei mercati internazionali. Esse hanno dimostrato doti eccellenti quando sono riuscite a sviluppare l’export e a rinnovare la loro presenza nel commercio mondiale. Ma l’allineamento generale verso nuovi modelli di consumo solleva problemi inediti: se da un lato sembra avvantaggiare, per esempio, la nostra produzione automobilistica, orientata verso vetture che hanno costi e consumi contenuti, dall’altro penalizza gli operatori che si sono indirizzati verso la gamma più alta dei prodotti del loro settore. Non dimentichiamo poi che le nostre imprese hanno dimensioni ridotte e questo cambiamento presuppone un’alta mobilitazione spontanea di un numero elevato di imprenditori. Per giunta, nella cornice di un Paese che le crisi fanno diventare ancor più conservatore, piuttosto di sollecitarlo all’innovazione e al mutamento. Ecco perché quest’anno attendiamo con un’ansia speciale la ripresa delle attività.
 
da lastampa.it
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« Risposta #7 inserito:: Agosto 25, 2009, 07:46:38 pm »

25/8/2009


Riformare le relazioni industriali
   
GIUSEPPE BERTA

Come avviene spesso nell’imminenza della ripresa, ci sono segnali di movimento sulla scena sindacale. Ma quest’anno i problemi delle relazioni fra confederazioni del lavoro, governo e imprese assumono un rilievo diverso, caricandosi di interrogativi. Anzitutto, restano da fronteggiare le conseguenze della crisi, di cui non sappiamo ancora misurare per intero l’estensione. Se è fondato quanto scrive l’Economist nel suo ultimo fascicolo, mentre Francia e Germania stanno cominciando a vedere la fine della recessione, Italia e Spagna arrancano ancora nel mezzo dei loro guai. Dunque, stando così le cose, è probabile che nell’immediato futuro continueremo a parlare molto di ammortizzatori sociali, per lenire gli effetti di una crisi che sta mettendo a dura prova la capacità di resistenza di un sistema industriale vasto e frammentato.

Ma l’estate ha portato alla ribalta altre questioni irrisolte, innescando una discussione sui differenziali di reddito e salariali. In un primo momento, abbiamo sentito invocare la necessità di distinguere i livelli salariali in base al costo della vita che caratterizza le varie aree del Paese e soprattutto il Nord dal Mezzogiorno.

In un secondo tempo, la Banca d’Italia ha illustrato con i suoi dati che questa differenza nelle retribuzioni private già esiste. Non di meno, le polemiche di agosto sono servite a riaccendere il confronto intorno ai criteri che dovrebbero regolare la contrattazione collettiva. Si tratterebbe, a questo punto, di dare seguito - come chiede il ministro del lavoro Maurizio Sacconi - all’accordo siglato all’inizio dell’anno con Cisl e Uil per concedere spazio più ampio alla negoziazione di secondo livello, cioè decentrata, quella che i sindacati conducono direttamente con le imprese, per legare di più l’andamento delle remunerazioni dei lavoratori alla performance delle aziende. Un accordo, questo, che ha incontrato fin qui l’opposizione della Cgil, la confederazione meno disponibile ad accogliere l’idea di ridurre lo spazio del contratto nazionale di lavoro.

Nell’intervista a Guglielmo Epifani che La Stampa pubblica oggi, la resistenza finora dimostrata dal maggiore sindacato verso la negoziazione aziendale sembra attenuarsi sensibilmente, in linea con altre prese di posizioni che erano già venute dall’interno della Cgil. Resta, naturalmente, la difesa di principio del contratto nazionale, ma temperata da un’apertura in direzione di più cospicui margini negoziali da esercitarsi nella periferia del sistema sindacale, così da situarsi di più alle radici del rapporto tra i lavoratori e le imprese. Nel frattempo, occorre non dimenticare che, per il rinnovo dell’accordo di categoria dei metalmeccanici, la Fim-Cisl e la Uilm, da una parte, e la Fiom-Cgil, dall’altra, hanno già presentato piattaforme separate. Respinte, la prima come la seconda, dalla Federmeccanica, che le ha giudicate non adeguate allo stato delle imprese.

È probabile che chi non abbia un occhio esercitato alle cronache sindacali rischi di rimanere sconcertato dinanzi al quadro che presenta oggi la contrattazione collettiva in Italia. È attuale una simile discussione quando le preoccupazioni per la crisi e per la salvaguardia dei posti di lavoro sono il tema predominante? Il fatto è che la svolta nelle tendenze contrattuali arriva tardi, non soltanto sancita da un’intesa che ha accentuato le divisioni fra le confederazioni, ma quando il clima economico è nella sua fase peggiore. A dire la verità, di una contrattazione decentrata, più in sintonia col mutamento delle imprese, ci sarebbe stato bisogno soprattutto negli ultimi anni, quando la nostra produzione industriale stava subendo un importante processo di riorganizzazione, che è passato complessivamente sotto traccia. E tuttavia anche oggi, nel passaggio buio della crisi, serve una capacità di accompagnamento dell’organizzazione aziendale da parte delle rappresentanze sindacali, così da contribuire a un riassetto che rivelerà il proprio potenziale quando occorrerà essere in grado di cogliere il soffio della ripresa. Non sempre ci rendiamo conto del grado in cui si è trasformata e dovrà trasformarsi ancora la nostra industria. Un uso accorto degli strumenti della contrattazione collettiva può favorire questo mutamento, difendendo nel contempo gli interessi dei lavoratori e quelli delle imprese. A condizione di adottare un atteggiamento di grande pragmatismo e duttilità, condizione sine qua non perché gli esperimenti di decentramento negoziale abbiano successo e si radichino nel comportamento sindacale. A quarant’anni esatti dall’«autunno caldo» del 1969, potrebbe iniziare da lì quell’opera di revisione dell’edificio delle nostre relazioni industriali di cui si avverte pur confusamente la necessità.

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« Risposta #8 inserito:: Settembre 08, 2009, 06:54:49 pm »

8/9/2009

Il federalismo di Tremonti
   
GIUSEPPE BERTA


Saranno rimasti delusi quanti si aspettavano ieri da Giulio Tremonti, intervenuto a un dibattito nell’aula magna dell’Università Bocconi sulla «Lezione dalla crisi», un nuovo capitolo della veemente polemica che da tempo lo oppone agli economisti (o meglio lo oppone in primo luogo a un gruppo di eminenti commentatori economici italiani, autori di una lettera aperta in cui rifiutano il suo ruvido invito al silenzio).

Il Ministro dell’economia ha tenuto invece un tono pacato e sorvegliatissimo, in armonia con l’ambiente accademico nel quale parlava. Senza per questo rinunciare in nulla alle idee che ha già avuto modo di esporre in tante occasioni e che sostanzialmente imputano all’opinione prevalente fra gli economisti nell’ultimo decennio di aver fornito una base ideologica a una globalizzazione rapida quanto disordinata, capace di spazzare via, insieme, regole e confini nazionali.

Ieri Tremonti ha scelto di riformulare il suo atto d’accusa contro gli economisti muovendo da una questione di metodo. Con un accenno alla biografia di Isaac Newton (un soggetto caro all’economista Keynes, che ne aveva recuperato le carte segrete), ha detto che la scienza incorre in una colpa d’arroganza quando pretende di definire leggi applicabili indistintamente a ogni realtà. Successe così al fisico Newton che, racconta Tremonti, si trasformò, almeno in una fase della sua vita, da scienziato in alchimista, alla ricerca della pietra filosofale, per convertire i metalli in oro. Ed è capitato più di recente agli economisti, che hanno esaltato, attraverso lo sviluppo della globalizzazione, le potenzialità illimitate del mercato, trasformandolo così da categoria dell’economia reale in un feticcio ideologico. Guai dunque, ha concluso Tremonti, ad assolutizzare una forma di sapere sopra tutte le altre, dimenticandosi che le scienze sociali non posseggono i requisiti per identificare leggi universali e, soprattutto, non possono coltivare la presunzione di dettare norme e comportamenti alle altre attività umane, come la politica. Con una punta di civetteria, però, Tremonti non ha voluto assegnare un primato alla politica, dichiarandosi semmai disposto a riconoscere una forma di supremazia alla filosofia.

Dal confronto con uno sparring partner in fondo congeniale come Enrico Letta, il più incline nel fronte di centrosinistra a mantenere vivo il dialogo col ministro, è emersa la visione della società italiana che sorregge la linea di politica economica di Tremonti. C’è qualcosa secondo lui, nella rappresentazione degli economisti, che impedisce la comprensione profonda dei problemi italiani: il nostro Paese non si lascia ridurre a quella media degli indicatori a cui ricorre frequentemente la scienza economica. A causa del grave squilibrio che la caratterizza, con la frattura fra Nord e Sud («la questione meridionale è il nostro vero problema», ha sostenuto Tremonti, che pure passa per uno dei politici più graditi alla Lega), l’Italia reale non può essere spiegata con le medie delle statistiche. C’è infatti una parte del Paese che si colloca al di sopra degli indicatori medi europei per produttività e capacità di crescita e un’altra parte che si situa invece costantemente al di sotto.

La soluzione su cui Tremonti ha più insistito per affrontare questo divario è costituita dal federalismo fiscale, che ha portato a simbolo degli impulsi riformatori del governo e additato come un necessario terreno di dialogo e di convergenza con l’opposizione. Ma la sua resta una prospettiva generale, che non entra nel merito del modo in cui il funzionamento concreto del federalismo può aumentare il grado di autonomia effettiva della società meridionale. Dalle sue parole sembrerebbe che il carattere virtuoso del federalismo stia nell’introduzione di un principio di maggiore responsabilità nell’azione amministrativa. Soltanto il futuro potrà dirci se la svolta federalistica sia conciliabile con quel debito pubblico che la crisi sta ulteriormente gonfiando.

da lastampa.it
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« Risposta #9 inserito:: Settembre 22, 2009, 11:55:01 pm »

22/9/2009

La lezione del rapporto Pirelli
   
GIUSEPPE BERTA


Nella storia d’Italia è ricorrente l’accusa alle élite economiche di sottrarsi al confronto politico aperto. Con frequenza periodica esse sono state attaccate per aver preferito la manovra occulta e le intese trasversali alla disponibilità a misurarsi esplicitamente sui grandi temi del Paese, nell’intento di assicurarsi posizioni di rendita, al riparo dei conflitti palesi e della competizione di partito. Di qui deriverebbe la tendenza dei ceti dirigenti dell’economia a garantirsi dei margini di influenza e di vantaggio, senza preoccuparsi di doversi costituire le basi di consenso di cui invece necessita ogni azione politica.

In realtà, a guardare bene dentro la nostra storia, sono visibili momenti importanti in cui le élite economiche hanno deciso di affrontare direttamente il nodo del rapporto con la politica e le istituzioni allo scopo di indirizzare lo sviluppo italiano. La più significativa di queste occasioni si è verificata giusto quarant’anni fa, alla fine del decennio sessanta, quando l’élite imprenditoriale stabilì che era tempo di una profonda riforma della Confindustria, per fare di essa un soggetto capace di interagire col governo e le altre forze economiche e sociali, a cominciare dal sindacato, per imprimere un nuovo corso dell’economia italiana.

Cade dunque in un frangente propizio l’iniziativa del Gruppo Giovani Imprenditori di Torino per ricordare, col convegno che si terrà oggi presso l’Unione Industriale, il Rapporto Pirelli, il tentativo più ambizioso di impostare una nuova stagione nelle relazioni fra le rappresentanze degli interessi e le istituzioni.

Il Rapporto Pirelli, diffuso nel febbraio 1970, è stato consegnato alla memoria col nome prestigioso dell’imprenditore che presiedette la commissione incaricata della stesura di un documento destinato a modernizzare la Confindustria.
Le sue origini tuttavia stanno a Torino: risalgono alle inquietudini dei giovani imprenditori d’allora, capeggiati da Enrico Salza, oggi al vertice di Intesa-SanPaolo, che ritenevano inadeguata la linea d’azione della Confindustria di Angelo Costa. Costa aveva pilotato con grande sapienza gli imprenditori italiani all’atto della nascita della Repubblica, ma negli Anni Sessanta il suo tempo migliore era passato. Avversava l’economia mista e la programmazione economica ed era per una chiusura intransigente dinanzi alle pressioni del sindacato. Da ciò la disaffezione dei giovani, che avrebbero desiderato un’impostazione più in linea coi tempi e soprattutto di maggiore attenzione al mondo esterno, davanti a cui Costa si mostrava molto riluttante. Poi, un giorno, Salza, per sbloccare la situazione, pensò di parlarne a Gianni Agnelli, che da poco aveva preso su di sé la presidenza della Fiat.

Questi, allora impegnato a dare una svolta manageriale alla Fiat, non soltanto lo incoraggiò, ma gli dette il proprio avallo in Confindustria. Da lì trasse spunto la Commissione Pirelli, che raccolse l’apporto dei migliori industriali della generazione dei quarantenni (dagli stessi Pirelli e Agnelli fino a Roberto Olivetti), tutti accomunati dalla convinzione che la società italiana fosse a un passaggio determinante e che le istanze di modernizzazione dovessero prevalere, nell’impresa come
all’esterno.

A rileggere il Rapporto Pirelli non ci vuole molto ad accorgersi che alcune delle idee-guida che sarebbero riemerse nei decenni successivi trovano lì il loro incunabolo. A iniziare dalla politica della concertazione, che ancora non aveva trovato un nome e una definizione, ma che era già contenuta nel suo nucleo in quel documento. Il Rapporto Pirelli ipotizzava infatti un costante scambio triangolare fra le rappresentanze dell’impresa e del lavoro e gli organi della politica economica. Sosteneva inoltre il principio dell’autonomia dell’associazione imprenditoriale e delle rappresentanze di interesse, che agivano però in uno schema di relazioni interdipendenti, volto a raggiungere obiettivi di crescita a vantaggio dell’intera società.

Eppure, le idee del Rapporto Pirelli ebbero poco ascolto, nonostante dovessero essere di fatto riprese, nella loro sostanza, nei decenni successivi. In un certo senso, esse pagarono il prezzo di giungere, al medesimo tempo, in ritardo e in anticipo. In ritardo sul clima sociale italiano, in cui ormai, all’indomani dell’Autunno Caldo, non si voleva sentir parlare di politica dei redditi o di compatibilità economiche, proprio quando il movimento della conflittualità nelle fabbriche cresceva a spirale su se stesso. Ma anche in anticipo, perché il linguaggio di quel documento delineava orizzonti e scenari con cui la politica avrebbe fatto i conti soltanto dagli Anni Ottanta in avanti.

Rivisitato alla distanza, il Rapporto Pirelli resta la testimonianza di un’élite economica che si affacciava alle proprie responsabilità con un atteggiamento di lungimiranza e con un rispetto rigoroso delle competenze istituzionali.
Vale ancora la pena di soffermarsi a leggerlo per ricordare che il ruolo proprio delle élite resta irrinunciabile per una grande nazione moderna.

da lastampa.it
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« Risposta #10 inserito:: Ottobre 02, 2009, 05:29:53 pm »

1/10/2009

Fazioni in lotta
   
GIUSEPPE BERTA


Un anno fa, in quell’ottobre 2008 in cui si sono forse vissute le giornate più cupe della crisi globale, le grandi banche di tutto il mondo erano parse sull’orlo di un collasso.

Un collasso che poteva non risparmiare nessuno, mentre i loro vertici erano scossi al punto di rendere improbabile ogni scommessa sulla loro continuità. Rispetto a quel passaggio cruciale, oggi viviamo in una situazione che all’apparenza risulta assestata, tant’è che i governi possono rivendicare i loro meriti per il sostegno concesso alle banche, rivendicando nel medesimo tempo prerogative di controllo sull’attività finanziaria.

È quanto ha fatto, per esempio, martedì scorso il premier inglese Gordon Brown che, parlando al congresso laburista, ha difeso la necessità dell’intervento sulle banche che rischiavano il crollo, a cominciare dalla Northern Rock, per sostenere subito dopo che «la finanza deve sempre essere al servizio della gente e dell’industria, non al loro comando». Parole, nella sostanza, analoghe a quelle pronunciate ieri da Tremonti, che ancora una volta ha tenuto a ricordare come le banche non debbano imporsi sulla politica, ma far rientrare la loro azione in un disegno a favore dello sviluppo nazionale e delle imprese.

Anche il nostro ministro dell'Economia ha valorizzato l’operato del governo italiano, ricordando che i cosiddetti «Tremonti bond» sono valsi a iniettare elementi di fiducia e di stabilità di cui il sistema bancario si è potuto giovare. Soltanto che le due banche più importanti d’Italia, UniCredit e Intesa Sanpaolo, all’atto di varare le loro strategie di ricapitalizzazione, hanno rifiutato entrambe i Tremonti bond, non giudicandoli convenienti e provvedendo ad approvvigionarsi di capitali in altro modo. Una decisione che ha suscitato la reazione irritata del ministro, che ha visto in quel rifiuto una prova ulteriore del desiderio delle banche di rimarcare la loro autonomia, con accenti così forti da lasciar intravedere la voglia di sottrarsi al confronto col governo e coi suoi indirizzi di politica economica. Non a caso, Tremonti ha contrapposto al comportamento dei due colossi bancari quello di altri due istituti di credito, Bpm e Credito Valtellinese, che invece i bond governativi li hanno accettati di buon grado.

È fin troppo facile, tuttavia, notare la disparità di dimensioni fra banche che hanno un raggio operativo assai diverso. È chiaro dunque che, nel ragionamento di Tremonti, le banche «virtuose» sono quelle che dispongono di un forte radicamento locale e che perciò si dislocano lungo quella via verso il federalismo in cui il ministro indica da tempo la soluzione dei problemi italiani.

In realtà, questo giudizio non specifica perché ricusare i Tremonti bond dovrebbe equivalere alla volontà di ripristinare il primato della finanza e a disconoscere il ruolo di servizio che le banche devono assolvere nei confronti dell’economia reale e del mondo della produzione. UniCredit e Intesa Sanpaolo non possono essere poste sul banco degli accusati a priori, soltanto perché hanno scelto di ricorrere al mercato invece che al supporto governativo; per giudicarli bisognerà valutare le loro pratiche effettive nei prossimi tempi.

Tremonti e, insieme con lui, la classe politica di tutto il mondo che esige dagli operatori bancari una condotta improntata alla responsabilità hanno ragione a invocare il principio secondo cui la finanza deve essere al servizio dello sviluppo. Il nodo però, assai difficile da sciogliere, è come ciò possa avvenire. Come si è visto, il ministro dell’Economia insiste sull’impronta federalista e torna a parlare della «banca del Sud», capace d’essere d’aiuto al territorio perché farà restare il risparmio accumulato dalla società meridionale entro i suoi confini. Un obiettivo, questo, che presuppone il ripristino di un ordine preciso fra i soggetti dell’economia e un ruolo di governo capace di far rispettare i compiti di ciascuno. Come avvenne all’indomani della Grande Crisi del ‘29, quando si delimitarono le funzioni di banche e istituzioni economiche.

Ma nel mondo d’oggi non si vede chi possa far valere un simile ordinamento, ammesso e non concesso che l’avessimo individuato con sicurezza. Il pericolo è che, in assenza di un’autorità ordinatrice, inizi una sorda lotta di fazione e una stagione di manovre per decidere chi deve comandare all’interno delle banche.

da lastampa.it
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« Risposta #11 inserito:: Ottobre 02, 2009, 05:47:55 pm »

28/9/2009

Europa senza sinistra
   
GIUSEPPE BERTA


Queste elezioni resteranno probabilmente uno spartiacque per la socialdemocrazia tedesca, che per la prima volta scende al di sotto del 25 per cento.

In realtà, si potrebbe sostenere che l’esito elettorale non costituisce una débâcle assoluta per la sinistra della Germania, poiché sommando i voti di Spd, Linke e Verdi si ottiene, se gli exit poll saranno confermati, una cifra non troppo distante da quella conquistata da cristiano-democratici e liberali. Ma non è così che vanno letti i risultati: ciò che rivelano è il venir meno della capacità maggioritaria dei socialdemocratici, la perdita della loro funzione di cardine centrale della sinistra tedesca. Da queste elezioni, l’immagine e il ruolo della socialdemocrazia escono appannati e compromessi come non mai e diventa difficile ipotizzare la via che la Spd potrà percorrere, per tentare di recuperare lo spazio politico che ora le è sfuggito.

Con la crisi globale si è di fatto chiuso un ciclo della socialdemocrazia europea, di cui la Spd ha rappresentato un asse fondamentale. Gli anni in cui Gerhard Schröder era alla guida della Germania come cancelliere e prometteva una stagione di stabilità e di crescita economica sono definitivamente archiviati. Era quella l’epoca in cui i socialdemocratici al governo pensavano di pilotare la trasformazione della società da un «nuovo centro», capace di andare oltre i confini politici del passato e di ottenere un consenso sempre più largo e interclassista. Ai tempi in cui il richiamo del New Labour di Tony Blair era vincente, verso la fine del decennio Novanta, era risuonata una forte nota di sintonia tra laburisti inglesi e socialdemocratici tedeschi, uniti nel teorizzare un superamento delle tradizionali barriere sociali che avevano fino ad allora segmentato l’elettorato. Per un buon tratto, i due maggiori partiti di derivazione socialista dell’Europa avevano scommesso sulla possibilità di gestire i frutti buoni della globalizzazione, raffigurandosi come i soggetti in grado di accelerare un processo di sviluppo economico tale da poter generalizzare i suoi effetti di ricchezza all’intera società. Il capitalismo non era più descritto come una forza economica da imbrigliare e disciplinare, ma come l’agente di un progresso materiale che poteva essere esteso a tutti. Di qui il rilievo posto sulle misure di flessibilità del mercato del lavoro, secondo un’angolatura che mirava in primo luogo a rafforzare le dotazioni individuali dei lavoratori in luogo della tutela collettiva esercitata attraverso la mediazione sindacale.

La Spd si è spinta meno in questa direzione rispetto al New Labour che, sebbene ancora al governo nel Regno Unito, appare travagliato da una crisi e da un’incertezza politiche ancora più profonde. Ma nel corso degli ultimi dieci anni la Spd ha sbiadito la propria identità storica senza riuscire a darsene una nuova. Ha creato disaffezione e disorientamento nel suo elettorato di riferimento, senza acquistare consensi in altri bacini sociali. La crisi economica che ha colpito duramente la Germania come tutto il mondo sviluppato ha messo ancor più in rilievo la fragilità e la contraddittorietà dell’ottimismo del recente passato. Le diseguaglianze sociali sono cresciute al pari della precarietà delle prospettive economiche, anche delle grandi imprese, come dimostra la tortuosa gestione del caso Opel.

Sulla disaffezione degli elettori socialdemocratici ha fatto leva la campagna delle altre componenti della sinistra tedesca, a cominciare dalla Linke, una formazione politica controversa nata dall’accostamento di due distinte anime della sinistra radicale, quella che a Ovest fa capo a Oskar Lafontaine, l’antagonista della svolta moderata della Spd, e a Est ai residui della tradizione comunista. C’è da credere che la Spd non avrà la vita facile, sottoposta alla pressione incalzante della Linke, tutt’altro che riluttante a ricorrere a slogan demagogici, come si è visto dalla propaganda elettorale.

La sconfitta dei socialdemocratici tedeschi è l’ultimo e più grave campanello d’allarme per la sinistra europea. Dinanzi alla crisi globale essa è stata afasica, come può esserlo una forza tradita da un corso degli avvenimenti che non ha saputo presagire né correggere con l’autorevolezza delle proprie posizioni.

Per la Spd come per i socialisti francesi e, in un assai probabile domani, per i laburisti inglesi si prospetta una lunga fase d’opposizione, a cui i partiti della sinistra non potranno scampare fino a quando non avranno messo a punto una visione inedita e originale della loro funzione di governo entro società che presentano lineamenti confusi e frastagliati. È all’interno di questa cornice problematica che attende di essere declinata una nuova politica dell’eguaglianza e dell’inclusione sociale.

da lastampa.it
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« Risposta #12 inserito:: Ottobre 20, 2009, 04:43:11 pm »

20/10/2009

Non tutto dipende dal mercato
   
GIUSEPPE BERTA


La variabilità del posto di lavoro, l’incertezza, la mutabilità per alcuni sono un valore in sé, per me onestamente no». Con questa affermazione recisa, pronunciata al termine di un convegno della Banca Popolare di Milano, ieri il ministro dell’Economia ha aggiunto un nuovo, importante tassello alla filosofia economica che va proponendo un giorno dopo l’altro, nei suoi commenti a margine della crisi globale. Per Giulio Tremonti la crisi ha rappresentato l’occasione per mettere ancora meglio a fuoco una visione del processo economico fondata sulla necessità di ripristinare un ordine che era andato smarrito nel periodo più intenso della globalizzazione, quello compreso tra la fine del Novecento e i primi anni del nuovo secolo.

La critica del «mercatismo» - che Tremonti ha imputato spesso anche alla sinistra italiana, vittima di una sorta di condiscendenza passiva al dogma dell’assoluta libertà economica - era per lui soltanto l’introduzione a un discorso centrato sull’urgenza di restituire un principio di senso all’economia, precipitata dal liberismo in uno stato caotico. Conoscevamo fin qui il Tremonti censore dell’abbattimento rapido e incondizionato delle frontiere economiche, di una globalizzazione finanziaria spinta all’estremo, delle banche accusate di sordità nei confronti delle esigenze dell’economia reale; nelle ultime settimane abbiamo imparato a conoscere anche il difensore dei piccoli produttori che si sentono soverchiati dalla mancanza di credito e oggi l’interprete della convinzione di quanti sono persuasi che il posto fisso «sia la base su cui organizzare il progetto di vita» delle persone e delle loro famiglie. Un punto di vista che si contrappone a quello dei tanti che avevano teorizzato, nell’ante-crisi, la fine dell’impiego a vita, indicando nella flessibilità e nello spostamento rapido da un’occupazione all’altra il paradigma del modo di lavorare dei nostri tempi.

A Tremonti preme soprattutto ricordare come sia plausibile e desiderabile un sistema economico in cui il mercato non costituisce né il centro né il metro di misura esclusivo di tutte le relazioni e le attività. Quando mette in opposizione il lavoro stabile e - perché no? - l’impiego a vita, magari all’interno di una piccola organizzazione, a una flessibilità illimitata, destinata a scadere inevitabilmente nella precarietà, sa di evocare un contrasto radicato nel senso comune delle persone, specie in una fase di crisi come quella che stiamo ancora attraversando. In realtà, chi sta pagando di più i costi della crisi sono i lavoratori non garantiti rintracciabili soprattutto dentro il mondo composito ed eterogeneo del terziario, assai meno nell’industria, dove le garanzie occupazionali permangono forti. Forse si potrebbe anche chiedere al ministro dell’Economia se non si poteva trovare qualche elemento di tutela per coloro che si sono trovati a essere investiti dall’onda della crisi senza riparo. Ma l’impressione è che l’intento di Tremonti, con l’uscita di ieri, fosse di portare argomenti ulteriori a favore di una politica che sappia reintrodurre un principio di ordine e di gerarchia nella vita economica.

In questa luce va letta l’esortazione del ministro a tornare allo spirito originario della Costituzione, un invito che suona sicuramente singolare nel momento in cui, dal governo, giunge semmai una sollecitazione un po’ ruvida a trasformarla e ad aggiornarla. Tremonti arriva invece a sostenere che dal confronto sviluppatosi dopo la guerra fra le culture politiche dei cattolici, dei comunisti e dei liberali è uscito un compromesso felice, codificato in princìpi sanciti dai costituenti, ma poi disapplicati. Per esempio, là dove si dice che la Repubblica tutela e regola il risparmio e identifica nel «credito una realtà che favorisce l’accesso alla proprietà, all’azionariato popolare».

Insomma, la lezione dei padri della Costituzione sarebbe stata tradita perché l’impulso verso la partecipazione e l’azionariato popolare nell’industria è rimasto sulla carta. Al suo posto, si è creato un sistema che «ha sfavorito i titoli di proprietà e favorito quelli del debito». Così sono state le banche a essere agevolate, col risultato che hanno finito per controllare l’industria, mentre ai tempi della Costituente le si sarebbe volute ancelle della produzione e dell’economia reale.

A leggerlo bene, il discorso di Tremonti punta ancora una volta in direzione delle grandi banche, che vorrebbe ricondurre sotto l’autorità politica, per impedire che si accaparrino un ruolo troppo vasto e incontrollato. Di qui una riscoperta delle peculiarità della storia d’Italia che riporta alla Costituente e, chissà forse, prima ancora, agli Anni Trenta e alla ben ordinata dislocazione delle funzioni economiche decisa da Alberto Beneduce quando fondò l’Iri.

da lastampa.it
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« Risposta #13 inserito:: Ottobre 27, 2009, 07:03:05 pm »

27/10/2009

Priorità per essere competitivi
   
GIUSEPPE BERTA


Il partito del rigore contro quello della spesa: è davvero questo il senso della commedia (o dello psicodramma) che si recita in questi giorni sullo sfondo di Palazzo Chigi? Se fosse così, ci troveremmo davanti alla riedizione di un contrasto che tante volte ha agitato i governi dell'Italia repubblicana: si potrebbe risalire ai tempi, ormai lontani, in cui toccava a Ugo La Malfa richiamare i suoi colleghi dell’esecutivo al rispetto dei vincoli e delle compatibilità economiche e finanziarie.

Ma si potrebbero ricordare anche le battaglie intraprese (e perse) da Nino Andreatta, quand’era ministro del Tesoro nei primi Anni Ottanta, perché non si sfondassero i «tetti» del debito pubblico. Quei tentativi di contenimento non ebbero successo e da allora ci portiamo appresso un gravame di oneri finanziari che ancora ci sovrasta e che erode, oltre ai margini di bilancio, la stessa autonomia della nostra politica economica.

Tuttavia, ciò che smuove oggi le acque del governo, rendendo turbolenta la sua navigazione, non è tanto il conflitto periodico che si crea tra chi vorrebbe allargare i cordoni della spesa e chi al contrario li vorrebbe stringere, anche se è così che preferisce descrivere la situazione Umberto Bossi: «Tremonti è una garanzia perché frena gli spendaccioni». Il leader della Lega Nord, disposto a una difesa a oltranza del ministro dell’Economia, vorrebbe che gli si desse un ruolo di preminenza nel governo, elevandolo a quel rango di vicepremier che gli permetterebbe di rintuzzare da una posizione di forza le richieste e le pressioni degli altri ministri. Il sostegno incondizionato che la Lega accorda a un Tremonti non disposto a negoziare alcunché con gli altri suoi colleghi di governo potrebbe persino apparire una stravaganza per un partito che fin qui si è fatto forte del suo legame col mondo delle piccole e piccolissime imprese, dell’artigianato, delle partite Iva. Le parti si sono dunque rovesciate?

In realtà, le cose non stanno precisamente come le rappresenta Bossi. È vero che Tremonti si muove su una rotta di collisione con quei ministri (da Scajola alla Gelmini) che chiedono più risorse per i loro dicasteri. Ma è probabile che la tensione più evidente, agli occhi dell’opinione pubblica, non sia con loro, quanto con la condizione enfatizzata ieri da Emma Marcegaglia che, parlando agli imprenditori di Biella, ha sottolineato i dati più impressionanti di una crisi economica da cui il nostro Paese è tutt’altro che uscito. La presidente di Confindustria ha citato una caduta del Pil del 5,8%, del 25% dell’export, degli investimenti del 13%, con una contrazione della produzione che andrebbe, a seconda delle imprese e dei settori, dal 27 fino al 40 e al 50%. È a questa platea di imprenditori che il ministro dell’Economia deve dare risposta prima che ai membri del governo. A Biella, come in tanti altri centri industriali del Nord, si sono succedute in queste settimane le assemblee di imprenditori che paventano gli effetti distruttivi della crisi sulle loro imprese. E, per giunta, sentono delle intenzioni di Germania e Francia di innalzare la competitività internazionale dei loro prodotti attraverso la riduzione del carico fiscale sulle imprese.

Ora, Tremonti ha certamente ragione quando rammenta come sia esiguo il crinale che l’Italia deve percorrere, destreggiandosi fra i marosi della crisi, da un lato, e fra i moniti della Unione Europea dall’altro. Il ministro dell’Economia sa fin troppo bene che il nostro Paese l’anno prossimo dovrà rinnovare i titoli di Stato che giungono alla scadenza per un valore di circa 100 miliardi di euro. Ed è perfettamente consapevole del fatto che i livelli del fabbisogno italiano rischiano di farci pagare dei rendimenti più elevati rispetto ai Bund tedeschi. Per giunta, Tremonti ha frequentato in queste settimane le associazioni imprenditoriali e ha percepito, in particolare, le frustrazioni e le richieste dei «piccoli», che sentono il morso della crisi.

Proprio per questo non ci si può arrestare alle dichiarazioni di principio. Affermare, come si è fatto al termine della riunione dei coordinatori del Pdl, che occorre conciliare rigore e sviluppo è un mero esercizio retorico. Il governo non può certo trascurare il condizionamento dei vincoli finanziari che pesano ormai da decenni sull’Italia. Ma d’altra parte ha il dovere di indicare una prospettiva credibile per la ripresa della nostra economia, che parta da un’analisi e da una conoscenza puntuali dei caratteri del nostro sistema economico e imprenditoriale. Ciò significa rinunciare definitivamente a promettere tutto a tutti, gli sgravi fiscali e l’attuazione integrale delle grandi opere, dal Ponte sullo Stretto di Messina in poi, annunciando nel contempo che le prestazioni previdenziali non saranno toccate. Significa invece adottare finalmente una severa gerarchia di priorità, che liberi le risorse per quei settori e per quelle attività senza le quali l’Italia non potrà mantenere le posizioni che ha acquisito nell’economia internazionale.

da lastampa.it
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« Risposta #14 inserito:: Ottobre 30, 2009, 10:29:49 am »

30/10/2009

Mi-To, prove di megalopoli
   
GIUSEPPE BERTA


Il momento in cui Mi-To, l’ipotesi di integrazione fra Torino e Milano che da anni è tema di confronto, passerà finalmente alla prova dei fatti è ormai prossimo. A metà di dicembre il collegamento ferroviario veloce fra le due città sarà in funzione e davvero, nel volgere di un’ora, ci si potrà spostare dai portici di via Roma alla galleria di piazza Duomo.

Inutile aggiungere che le attese riposte negli effetti virtuosi dell’alta velocità sono molto elevate. In vista della sua realizzazione sono stati sostenuti costi ingenti e sopportati disagi gravi.

Chi abbia la possibilità di gettare uno sguardo dall’alto sul nuovo tracciato ferroviario che costeggia l’autostrada vedrà sotto di sé un’immensa colata di cemento, come un solco che divide la pianura. Per ogni chilometro di binario c’è un cavalcavia, a testimonianza della proliferazione di microinteressi e attività collaterali che la costruzione di una grande opera è destinata a suscitare in Italia. Quanto ai disagi, ne hanno patiti ormai di infiniti gli utenti delle ferrovie come coloro che da tempo immemorabile sono costretti a convivere con progetti come il passante ferroviario di Torino (ne sanno qualcosa, per esempio, quelli che sono costretti all’avventura autentica costituita dall’attraversamento di piazza Statuto da una parte all’altra…).

Eppure, lo stravolgimento di ogni preventivo di costo e persino i ritardi innumerevoli dei treni, le loro cancellazioni, le piccole e meno piccole vessazioni quotidiane cui sono stati sottoposti i viaggiatori, saranno dimenticati presto, se l’alta velocità dimostrerà di adempiere alle sue promesse. Sul piano dei trasporti, ciò non significa soltanto rapidità e frequenza dei collegamenti della linea veloce, ma anche un miglioramento complessivo dell’offerta ferroviaria per i convogli in corsa sulla linea storica, quella che serve i pendolari fra le stazioni dislocate lungo l’asse Torino-Milano. Guai infatti se dovesse prevalere l’idea che il colossale investimento dell’alta velocità sia stato affrontato soltanto per dare agio all’élite degli utenti dei treni veloci, senza conseguenze positive sulla condizione, spesso penosa, di chi si deve servire del cosiddetto trasporto regionale.

Il rinnovamento dell’offerta ferroviaria è la chiave di volta di una politica della mobilità che dovrebbe imprimere una nuova spinta all’integrazione dei grandi poli del Nord-Ovest. Se le conseguenze dell’alta velocità saranno quelle che ci aspettiamo, cambierà persino il nostro modo di sentirsi cittadini. Nel senso che diverremo partecipi di un ventaglio assai più ricco di opportunità per il fatto di poter usufruire allo stesso tempo di ciò che di meglio Torino e Milano hanno da offrire. Migliore capacità di spostamento significa migliori possibilità di lavoro. Ma significa altresì poter combinare i vantaggi che offre il lavoro in un luogo e la residenza in un altro. Significa considerarsi cittadini di una megalopoli dai confini fluidi che, aumentando gli scambi e i contatti fra le persone, moltiplica le loro occasioni di vita, di impiego, di comunicazione, di informazione e formazione. Se ciò avverrà, se la distanza che separa Torino e Milano si ridurrà nei dati concreti e soprattutto nell’esperienza delle persone, avremo messo in moto un volano di sviluppo in grado di moltiplicare le risorse a nostra disposizione.

Ma nel porre a fuoco i vantaggi virtuali indotti dai treni veloci, non si possono trascurare i sospetti, le diffidenze e le resistenze che Mi-To continua a generare. Sarebbe sbagliato passare sotto silenzio le opinioni che si ascoltano sovente presso il pubblico già oggi in perenne transito tra le due città. Un pubblico che non di rado guarda con occhio critico alle intese fra Torino e Milano, denunciandone le asimmetrie e le contraddizioni.

L’integrazione del Nord-Ovest andrà avanti soltanto se Milano mostrerà di credere nella prospettiva di una megalopoli che non consiste semplicemente nell’ampliamento dei confini ambrosiani. La Milano di oggi è una grande città che conserva intatta la sua forza economica, ma relativamente povera di visione e di respiro progettuale, con una consapevolezza appannata del proprio ruolo nel rilancio della società settentrionale. Se Torino ha il difetto di interrogarsi fin troppo su se stessa e sui caratteri del suo mutamento, il capoluogo lombardo soffre semmai di quello opposto. Col rischio di affidarsi, nella costruzione delle alleanze fra città, al semplice rapporto di forze, che va a suo favore. Ma la megalopoli del Nord-Ovest non si crea così, quando occorre pensare a nuove frontiere amministrative per un’area vasta e complessa. Si crea piuttosto su una scommessa condivisa per realizzare una realtà inedita e più ricca per tutti.

da lastampa.it
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