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Autore Discussione: Giuseppe TURANI  (Letto 3410 volte)
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« inserito:: Gennaio 02, 2009, 10:19:40 am »

IL CREPUSCOLO DEGLI IMPRENDITORI

Giuseppe TURANI


E’ possibile che dentro questa crisi l’Italia si stia giocando parecchio del proprio futuro. Non è detto cioè che tutto si risolva con qualche mese di sofferenze, e basta. Alla fine, potremmo anche ritrovarci a aver fatto ancora un passo indietro, come paese. Ecco perché.

Da anni si discute sulla composizione dell'economia italiana, sull'evoluzione da economia manifatturiera a società di servizi, da economia del valore aggiunto ad economia delle rendite. Però a tutt'oggi la spina dorsale dell'economia italiana è costi­tui­ta da quelle migliaia di piccole aziende industriali (il famoso Quarto Capitalismo) che con il loro dinamismo ci consentono di restare nei primi dieci paesi del mondo. E questo avviene nonostante la piovra della pubblica ammi­nistrazione sia diventata gigantesca e abbia attratto, ancora nel 2008, migliaia di persone. L’area non-produttiva, cioè, si è continuamente allargata e è ben noto il livello di inefficienza di tutto quanto è pubblico in Italia: che si tratti di comuni, province, regioni, ministeri od altri carrozzoni, quest'ingros­samento delle fila è sempre più di stampo clientelare e i risultati sono di pura spesa pubblica.

Una prova in più qualora ce ne fosse bisogno: quello che sta succedendo in questi giorni in Alitalia. Gente che ha ricattato per anni il potere pubblico, adesso continua a cercare di ricattare anche a costo di mettere a rischio una cassa integra­zione folle che garantisce sette, otto in alcuni casi nove anni di stipendio garantito all'ottanta percento del livello attuate (tutt'altro che trascurabile sia in assoluto che in relativo) senza dover fare nulla. Una vera pazzia che come sempre il contribuente pagherà in silenzio.

Ma tornando al sistema industriale, a ciò che ci ha consentito e ci consente di permetterci tutti questi lussi (di gettare soldi in imprese sgangherate come quella dell’Alitalia), il punto vero è capire se c' è ancora un futuro, al di là della crisi, per queste migliaia di aziende. Il futuro prossimo, a essere sinceri, non è mai stato cosi nero: ordini crollati, magazzini pieni, clienti che non pagano, banche che non scontano più neanche le fatture dei clienti più affidabili. Alcune aziende temono anche di non riuscire a riaprire in gennaio, dopo le vacanze, allungate pro­prio per consentire ai clienti di riprendere fiato e ricominciare ad ordina­re. Altri sanno che un po’ di inerzia fino a febbraio, marzo forse c'è, ma poi?

La situazione è davvero pesante, come forse non è mai acca­duto.  la cassa integrazione è a livelli record, l'indotto auto è a pezzi, le costruzioni sono bloccate, anche l'export verso la Germania e l'est Europa sta rallentando moltissimo. E perfino il tessile-abbigliamento, che con il trend dal made in Italy ci aveva regalato anni di fatturati in crescita, ora soffre. Anche perché ormai soffrono tutti, persino gli oligarchi dell'Est o dei paesi arabi che fino a pochi giorni fa mandavano le mogli a comprare da noi qualsiasi cosa senza nemmeno badare al prezzo. A Torino si dice che c’è chi è tornato a pensare a una Fiat pubblica, statalizzata, così da “risolvere” la crisi in modo netto. Ma se la Fiat diventasse di una sorta di nuova Iri, che succederebbe, che segnale verrebbe dato al sistema industriale italiano? È un quadro veramente nero.

Talmente nero che, all’estero, i vari Obama ogni giorno aumentano gli stanziamenti. Bush "regala" alle case automo­bilistiche 17 miliardi di dollari per consentire loro di passare i prossimi tre mesi (non trent’anni...). E anche la Cina vede buio al punto di aver varato un piano da trilioni di dollari di aiuti alle imprese.

Tornando all’Italia, stiamo correndo il rischio di lasciarci alle spalle qualcosa di importante. Potremmo ritrovarci, cioè, alla fine della crisi, a aver bruciato un pezzo vitale e dinamico del sistema industriale italiano. Tutti, però, con le autorità governative in prima fila, sembrano pensare che si tratterà solo di tirare la cinghia per qualche mese. Poi tutto tornerà come prima. Ma potrebbe anche non essere così. Dentro questi terremoti aziende costruite nell’arco di decenni possono anche morire.

Ma l’Italia che cosa fa? Tutti, ormai, hanno capito che qui non succede niente. Le misure di sostegno “italiane” sono poca cosa. E allora si spera, come sempre, su quello che stanno facendo gli altri. Si spera, in sostanza, nei piani Obama, Merkel, Sarkozy che dovreb­bero consentire, attraverso il rilancio di quelle econo­mie, una ripresa delle nostre esportazioni. Sarà l'indotto dell'estero a trascinarci ancora una volta? Si spera di sì, visto che da soli non siamo capaci (o in grado) di tirarci fuori dai guai. O l’aiuto arriva da fuori o siamo fritti.

Un’ultima notazione. L'Europa, la vecchia Europa, per ora si è crogiolata sul vanto di aver "esagerato meno" sulla finanza e pertanto di avere meno debiti. Peccato che in Europa c'è un paese che di debiti ne ha fatti talmente tanti da non poter più fare molto, tanto per i cittadini quanto per le imprese, che poi sono quelle che, se funzionano, fanno ricchi - o almeno fanno lavorare - i cittadini stessi. Si è scritto che a livello di singoli siamo molto poco indebitati per cui soffriremo di meno per la crisi, però abbiamo tanti debiti collettivi (una montagna) per cui alla fine soffriremo, e tanto, tutti. E non per pochi mesi.

da giuseppeturani.repubblica.it
2 gennaio 2009
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« Risposta #1 inserito:: Gennaio 02, 2009, 10:20:38 am »

IL NORD EST E LA CRISI

Giuseppe TURANI
Scritto il 16/12/08 alle 18:28

Per molte piccole e medie imprese del Nord Est e della Brianza il D-Day è già stato segnato in agenda. Si tratta del 31 dicembre. “Tiriamo avanti fino alla fine dell’anno, poi decidiamo che cosa fare: mettiamo tutti in cassa integrazione o, magari, chiudiamo proprio la fabbrica e ci ritiriamo dagli affari. Molti di noi ormai hanno ordini in portafoglio per tre giorni, qualcuno addirittura non ne ha proprio, nemmeno per mezza giornata”.

E’ probabile, insomma, che l’inizio del 2009, gennaio e febbraio, sia una stagione-incubo per la piccola e media impresa delle zone fino all’altro ieri più dinamiche dell’intero paese. Posti, come certi distretti industriali (dal mobile alle sedie alla meccanica), che mai avevano preso in considerazione nemmeno l’ipotesi di una crisi o di un ridimensionamento.

La situazione è ancora incerta e un po’ vaga (fino al 31 dicembre), ma c’è la sensazione che l’esplosione di un certo mondo industriale, se ci sarà, sarà proprio un’esplosione: nel giro di poche settimane potrebbero sparire centinaia e centinaia di aziende. E decine di migliaia di persone rischiano di trovarsi senza un lavoro. Se da queste parti c’è stato un Natale avvelenato, è quello in arrivo.

Dietro a tutto questo, dietro questo dramma sospeso sopra le feste di fine anno come una nube nera, c’è una maturazione lenta, ma progressiva, di un disagio che fino all’ultimo, fino agli ultimi mesi, era sembrato soltanto una normale frenata congiunturale. Tanto è vero che fino a settembre il numero delle aziende manifatturiere italiane risulta addirittura in crescita di ben 35 mila unità. 

All’iniziano, raccontano, hanno cominciato a morire le imprese dell’edilizia. “Ma questo non è stato visto come un segnale di grande allarme – racconta un consulente che gira molto per il Nord Est italiano -. L’edilizia, si sa, è un settore con molti alti e bassi. E dopo tanti anni buoni, un po’ di fiacca era parsa naturale a tutti. Il costo dei mutui era salito, e quindi la frenata ci stava tutta”.

Allo stesso modo era stato sottovalutato un altro elemento che invece avrebbe dovuto far riflettere: il rallentamento tedesco. “Gli ordini in arrivo dalla Germania hanno cominciato a scendere – racconta un banchiere d’affari – già in primavera. Ma anche questo era stato scambiato per una normale frenata congiunturale o per una nuova fase di riorganizzazione dell’industria tedesca. Nessuno qui nel Nord Est aveva dato molta importanza alla cosa”.

D’altra parte il Nord Est è diventato quello che è proprio a rimorchio del gigante tedesco (e del centro Europa in generale) e nel corso degli ultimi decenni i periodi di magra e di buona sorte si sono succeduti regolarmente. Ma tutto questo non ha impedito al Nord Est di conoscere anni con crescita economica del 4-5 per cento, record quasi da Tigri asiatiche. E non ha impedito alle migliaia di piccole e medie imprese della zona di allargare, anno dopo anno, i capannoni, di diventare più forti.

Il successo aveva portato a credere che il successo stesso fosse un modo naturale di essere, di vivere. Certo, si sapeva dell’esistenza anche del suo contrario, l’insuccesso, ma era una cosa che riguardava gli altri, i grandi complessi, la Fiat, la Telecom. Qui no. Sotto i capannoni del Nord Est, nelle piccole e medie imprese più flessibili del mondo, da un paio di decenni almeno c’è sempre stato solo il successo. Ogni anno un po’ più grandi di quello precedente, ogni anno con un po’ più di gente a lavorare, ogni anno più soldi.

Quindi anche il rallentamento che è cominciato nella primavera scorsa è stato scambiato per qualcosa di molto normale. Un qualcosa che presto sarebbe finito alle loro spalle, lasciandosi dietro solo deboli tracce, come una nebbia un po’ sporca, ma niente di più.

Poi, a un certo punto, in autunno, i segnali hanno cominciato a  moltiplicarsi. “Gli ordini – raccontano i banchieri del posto – sono scesi ben al di sotto delle normali oscillazioni congiunturali. E, soprattutto, si è visto che non si salvava niente. In crisi le scarpe, in crisi le sedie, i mobili, persino certa meccanica che era sempre andata molto bene. A quel punto i più attenti hanno avvertito che qualcosa non andava per il verso giusto, che forse si era davvero a una svolta diversa dalle altre”.

L’episodio che ha fatto scattare gli allarmi, però, non è arrivato dalla Germania (cuore della crisi del Nord Est in quanto maggior cliente delle fabbriche locali), ma dalla lontanissima Cina.

“Molti di noi – racconta un piccolo imprenditore – ormai da anni fanno fare dei componenti dai cinesi. La roba viene prodotta là, su nostre istruzioni, e poi ce la mandano con i containers. Di solito, per risparmiare sui costi di trasporto, prima di far partire il container si aspetta di riempirlo ben bene, anche con le produzioni destinate a altre aziende della zona. Di solito ci vogliono un paio di giorni perché il container sia pieno, poi parte. Da ottobre in avanti, invece, abbiamo visto che ci volevano anche dieci, quindici giorni. I cinesi ci hanno spiegato che non avevano ordini, che erano diminuiti, e che quindi gli occorreva più tempo per completare il carico”.

E allora si è capito che la crisi non riguardava solo il mercato degli scarponi o delle rondelle, ma che cominciava a diventare generale.

E la crisi è diventata rapidamente, nell’arco di poche settimane, una specie di epidemia. Ha colpito non solo quelli che erano (e sono) sub-fornitori di importanti aziende tedesche, ma anche quelli che erano diventati più maturi e che si erano messi a esportare in proprio. E tutto un mondo di certezze ha cominciato a sgretolarsi.

“Le faccio un esempio - racconta un banchiere d’affari –. Fino a non molto tempo fa qui erano tutti invidiosi della Geox di Polegato. Grande azienda, grandi fatturati, espansione continua, grandi successi. Poi si è visto che questa corsa si è fermata, di colpo. Come mai? Si è capito che la Geox si era piazzata su un mercato di sub-lusso, quasi economico, che è stato il primo a sentire i colpi della crisi dei consumi. Chi nella zona di Verona fa scarpe di lusso per il mercato francese, ancora se la tira. Ma quelli che, come la Geox, stanno più vicini al consumatore non abbiente, se la stanno passando male. In qualche caso molto male”. Insomma, si è scoperto che esiste il mercato, che esistono i consumatori e che non sono tutti uguali.

“Stare male” oggi vuol dire rapporti acidi con le banche (non è il caso della Geox, che è molto solida), portafogli-ordini ormai vuoti, acquirenti che non pagano, concessionari e rappresentanti che dalla sera alla mattina scompaiono. Insomma, un rituale fino a pochi giorni fa quasi sconosciuto da queste parti (tanto nel Nord Est quanto in Brianza), ma che tutti hanno imparato a conoscere molto in fretta.

Molti, da ottobre a oggi, sono andati avanti sperando prima nelle campagne natalizie e poi nei nuovi ordini per l’anno nuovo, la nuova stagione. Ma molti hanno visto che non è arrivato assolutamente niente. I nuovi campionari con i prodotti per il 2009 sono andati in giro, ma sono rimasti senza risposte. “Forse  - commenta qualcuno più esasperato degli altri – li hanno gettati direttamente nel cestino della carta straccia”.

E un certo numero di aziende ha capito che ormai la fine è vicina. In un certo senso si tratta proprio di quelle più dinamiche, che oggi rischiano di pagare prima e più di tutte. Sono quelle che invece di riempirsi di Bot e di utili hanno puntato sulla crescita continua a che quindi hanno messo tutto quello che avevano nei capannoni e nelle macchine. Adesso, le macchine si stanno per fermare, dai capannoni non esce niente e le banche sono davanti alla porta a richiedere indietro i loro soldi.

Stanno per pagare caro la crisi anche i più svegli (in apparenza). Si tratta di quelli, e da queste parti sono parecchi, che i soldi “nuovi” li hanno messi nel grande circuito finanziario internazionale. Tipo derivati di Lehman Brothers o di Merill Lynch. Fino a agosto giravano sulle loro Mercedes e al ristorante raccontavano dei loro favolosi guadagni (“senza fabbriche e senza sindacati, caro mio”). Adesso tempestano i consulenti finanziari per sentire “se per caso non possiamo recuperare qualcosa”.

Ma hanno poche speranze. Molti dovranno liquidare i capannoni, per portare a casa qualche soldo, e chiudere la partita. E, forse, non si salva nemmeno la Mercedes.

Insomma, anche da queste parti, anche nell’Italia super dinamica degli anni Ottanta e Novanta, l’Eldorado sembra finito, sfumato, scomparso. E non si sa se tornerà.

da giuseppeturani.repubblica.it
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