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« inserito:: Dicembre 31, 2008, 12:21:03 pm » |
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31/12/2008 (8:34) - INCHIESTA
"Armi nascoste? Così ho ingannato tutto il mondo" Le parole di Saddam nel racconto dell’ultimo carceriere
E. FOLLATH, J. GOETZ, V. WINDFUHR, B. ZAND
Metà dicembre 2003: Saddam Hussein è stato catturato e viene tenuto prigioniero in una cella provvisoria nella zona di massima sicurezza dell’aeroporto di Baghdad. Intanto, nelle stanze del potere di Washington, Casa Bianca, Segreteria di Stato, Cia e Fbi si combattono aspramente sul trattamento da riservare al prigioniero. Sono tutti d’accordo su un aspetto: dev’essere umiliato. Ma come procedere? Saddam è la loro unica carta vincente, un’isola nel mare di notizie catastrofiche, non la si vuole giocare malamente. Alla fine decidono di lasciarlo a Baghdad sotto la custodia americana e di farlo processare da giudici iracheni. Si tratta però di scegliere con particolare cura l’uomo che dovrà interrogarlo in cella.
Si cerca un americano con genitori arabi, leale verso gli Stati Uniti e familiare con la mentalità irachena. Un uomo capace di guadagnarsi la fiducia di Saddam, magari carpirgli qualche segreto. Fbi e Cia, a sorpresa, arrivano allo stesso nome: George L. Piro, patriota americano ma anche cittadino del mondo arabo, conversatore gioviale ma agente spietato, il genero ideale ma anche un latin lover - un cocktail di Pierce Brosnan, Enrique Iglesias e molto, molto James Bond. E’ nato a Beirut, ma ai tempi della guerra civile, quando aveva 12 anni, fugge con la famiglia negli Stati Uniti. A vent’anni si arruola nell’Aviazione militare, poi lavora come poliziotto e, studiando di sera, completa quegli studi che gli aprono le porte dell’Fbi e della Cia.
Subito dopo l’ingresso a Baghdad Piro ha la sua prima occasione per studiare i rapporti in Iraq: raccoglie informazioni e viene istruito su che cosa è «classified» e che cosa no. Lavora in modo così professionale e sensibile che i servizi segreti scelgono proprio lui per affidare il compito più delicato: l’interrogatorio di Saddam. All’epoca Piro aveva appena compiuto 36 anni e ne aveva appena sei di servizio: una carriera davvero folgorante.
Nel gennaio 2004 Piro torna dunque in Iraq. Per sei mesi - fino al processo - visiterà Saddam Hussein in cella quasi ogni giorno. Il prigioniero, dopo i primi giorni di disorientamento, ha recuperato il suo sangue freddo, è tornato a essere il grande manipolatore che cerca di giocare le sue carte, nulla concede, si tiene coperto.
Piro viene preparato alla sua missione da esperti della Cia, che gli mostrano il profilo psicologico di Saddam, sottolineando i suoi punti deboli: è un egomane con una volontà di ferro che, cresciuto senza padre e senza denaro, si è ferocemente aperto la strada verso l’alto. Ha manie di grandezza che si nutrono del suo potere senza limiti e degli onori che gli vengono tributati. Tutto questo l’ha accecato al punto che si considera l’erede del re di Babilonia Nabucodonosor II.
La prima visita di Piro avviene nella cella provvisoria all’aeroporto di Baghdad. Si rivolge al prigioniero con molto rispetto ma lo chiama «Mister Saddam», senza titoli. Lui si presenta come «Mister George». L’ex presidente non gli chiede il rango, capisce da sé che dev’essere alto, certamente un agente con accesso diretto al presidente Bush. Piro rafforza questa impressione dando ordini concisi alle guardie, che eseguono in un battibaleno. «D’ora in poi sono io responsabile per qualunque aspetto della sua vita», gli dice. Sarà lui ad occuparsi di tutto ciò che gli serve, cibo, abiti, generi di conforto.
Il primo colloquio verte sull’intera storia della Mesopotamia. Quel giorno non parlano della politica di Saddam, ma della storia dell’Iraq, delle poesie dell’ex dittatore, dei suoi quattro romanzi, dei versi che continua a scrivere in cella. I due uomini si testano a vicenda. Saddam saggia la forza e le possibilità di manovra dell’agente che gli siede davanti, gli chiede ad esempio della carta da scrivere - che ottiene subito - e dei fazzolettini umidi, con cui si deterge continuamente mani e viso. Teme i virus.
Il primo incontro è un successo. Piro ha centrato il suo obiettivo: Saddam è disposto a continuare a parlare con lui, non lo rifiuta. Per giorni e giorni si parlerà delle nuove poesie d’amore che va scrivendo, e di donne. Dell’infermiera che gli ha fatto i prelievi di sangue, Saddam dice che è «carina». Poi aggiunge che in generale trova le americane indipendenti: sono capaci, a differenza delle irachene, «di cavarsela senza uomini».
Nei confronti degli Stati Uniti l’ex dittatore manifesta un odio-amore. Disprezza i politici di Washington, soprattutto i due Bush. Reagan invece è l’eccezione: «Era un uomo d’onore». Ammira però gli americani «normali». Non essendo mai uscito dai confini del Medio Oriente, la conoscenza che ha dell’America è quella che gli viene dai film, in particolare dal «Padrino», il suo preferito. Gli piace Don Corleone, e ci si identifica.
Lentamente, Piro si avvicina all’interrogatorio vero e proprio. Usa i soliti mezzi - niente sonno, rumori continui, freddo estremo, magari anche quell’annegamento simulato che è il «waterboarding»? No: Piro va contro le procedure dell’Fbi perché «con uno come Saddam Hussein uno scenario di paura non porta da nessuna parte». La sua arma segreta è la noia del criminale - e il tempo. E’ Piro che lo controlla. Né a Saddam né alle sue guardie è concesso l’orologio, mentre lui sfoggia un enorme cronometro, che Saddam guarda fisso, ipnotizzato, continuando a chiedere che ora è.
Saddam, il prigioniero disorientato, comincia a simpatizzare con George, l’inquisitore simpatico. E in quelle interminabili sedute si mette a raccontare le sue imprese eroiche e la sua ardimentosa fuga da Baghdad già occupata dagli Americani. Racconta nei dettagli come ha beffato gli americani che gli davano la caccia: ha attraversato a nuoto le impetuose acque del Tigri, con un coltello tra i denti, opponendosi alle correnti che volevano trascinarlo via, poi si è arrampicato per forre e burroni fino al villaggio dove si è nascosto. Tra interrogante e interrogato si va formando un legame di fiducia, quasi di dipendenza. Piro lo sfrutta, ma a un certo punto cambia registro: vuole provocare Saddam, farlo infuriare, portandolo sulle montagne russe delle emozioni.
Così gli mostra le immagini del nuovo governo, i resoconti negativi su di lui, anche il video dell’abbattimento della sua statua nella piazza centrale di Baghdad. «Pensavo che il popolo ti amasse - lo irride -, me lo hai sempre detto, invece guarda come balla sulla tua testa di bronzo staccata dal corpo...». Quando poi aggiunge che forse già quando aveva il potere aveva perso il contatto con la gente, ignorava che cosa pensasse davvero, che cosa succedeva nel Paese, Saddam vede rosso, «i suoi occhi divennero freddi e pieni di odio». «Avevo tutto sotto controllo. Ero io che davo gli ordini», dice. «Anche quello di gassare i curdi?», gli chiede Piro.
Saddam non vuole scendere nei dettagli, dice solo: «Quelle erano le mie indicazioni. Questo dovevano fare i miei uomini, perché io avevo detto loro che l’attacco era necessario. E lo era davvero». Poi si parla dei suoi sosia: non si è mai servito di loro nei discorsi pubblici così spesso come scriveva la stampa occidentale perché, spiega, «non era necessario».
Parla poi della sua diffidenza verso tutti, di come suscitasse contese tra i suoi fedelissimi per vedere chi gli era contrario e farlo uccidere. Nemmeno dei suoi figli si fidava, sebbene li avesse designati suoi eredi: «Non possiamo sceglierci i figli». L’unica persona di cui non aveva mai dubitato era sua madre.
Il 28 aprile, giorno del suo compleanno, Piro arriva con un regalo a sorpresa. «Dobbiamo festeggiare noi, sennò in tutto il Paese non c’è nessuno che lo fa», e gli mostra i giornali nei quali non c’è più traccia dell’anniversario. Allora tira fuori dalla tasca un pacco di biscotti e gli dice, mentendo: «Li ha fatti la mia mamma libanese e me li ha spediti perché te li dessi. Li ha fatti secondo un’antica ricetta araba». Ha portato anche un altro regalo: un sacchetto di semi. Vanno insieme nel piccolo giardino che Saddam ha a disposizione per l’ora d’aria, l’ex dittatore scava la terra, li pianta, li ricopre, poi si chiede ad alta voce se riuscirà a vederli germogliare, se la terra è buona. E dice che nemmeno i suoi figli l’hanno mai conosciuto così bene «come lei, Mister George». Il dittatore crudele che ha tenerezze da giardiniere.
A quel punto Saddam passa da un tema tabù all’altro - tutti accuratamente registrati nelle 700 pagine del rapporto segreto di Piro, ovviamente «classified» - e comincia dal suo primo errore tattico: aver ritirato le sue truppe di terra dopo l’invasione del Kuwait. Il secondo era stato non credere all’invasione del 2003, sottovalutando l’effetto degli attentati dell’11 settembre 2001 sugli americani, la politica Usa e «la perfidia di alcuni uomini a Washington», che a lui, il laico, attribuivano legami con Al Qaeda e i fondamentalisti islamici. «Non ho mai avuto contatti con Bin Laden - dice a Piro - Dei fanatici religiosi non ci si può fidare».
Poi arriva il momento di parlare delle armi di distruzione di massa, il motivo ufficiale utilizzato dagli Stati Uniti per la dichiarazione di guerra all’Iraq. Cinque mesi dopo il primo interrogatorio arriva il crollo. Saddam ogni giorno scrive una poesia, che mostra tutto fiero all’agente. Quello lo loda e, mentendo, gli dice che «è una grande opera letteraria». Lo liscia, gli chiede se, con quelle capacità, non si scrivesse da solo anche i discorsi ufficiali. Non tutti, risponde Saddam. Ma è lusingato. E le armi? lo incalza allora. «Erano solo parole. Erano un trucco per ingannare il mondo». E racconta, asciutto, che la maggior parte delle sue armi di distruzione di massa erano state rimosse già negli Anni 90 dagli ispettori dell’Onu e le poche rimaste le aveva fatte distruggere lui stesso. Allora perché mettere a rischio il destino dell’Iraq e la propria vita? Secondo Piro, «Saddam era convinto di poter tenere a distanza il nemico iraniano solo facendogli credere che poteva distruggerlo. In questo modo contava di conservare anche il suo potere». Dunque, Saddam temeva Teheran, non Washington - almeno non lo temette, finché non vide arrivare i suoi aerei e le sue truppe.
Il primo luglio 2004, dopo sei mesi di incontri quasi quotidiani, Piro conduce Saddam in tribunale, per consegnare il suo destino giuridico, almeno formalmente, in mani irachene. L’agente Fbi si congeda. Prima dell’ultimo incontro compra, nel sukh di Baghdad, per sei dollari al pezzo, due sigari Cohiba, la marca preferita dell’iracheno. Li fumano insieme nella cella. Poi si dicono addio alla maniera araba: baciandosi le due guance.
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