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« inserito:: Dicembre 31, 2008, 12:16:58 pm » |
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22/12/2008 (7:30) - INTERVISTA A ENZO JANNACCI
"Sono pazzo? Certo, ma non scemo"
Jannacci: «Se sono malinconico sembro Claudio Baglioni»
Compie cinquant’anni di carriera “Un pigro che s’ammazza di fatica”
GIANCARLO DOTTO MILANO
Una volta che hai messo piede nella sua casa milanese, non si torna indietro, sei sopra l’ottovolante, dentro una sua canzone. Sei l’Armando, uno che andava a Rogoreto, il barbone che purtava i scarp del tennis. Lascia a casa il grembiulino stirato e fresco di bucato, le tue mappe, la grammatica, il tuo manuale cartesiano. Intervistare Vincenzo Jannacci, detto Enzo, è come scalare il Nanga-Parbat in mutande e tacchi a spillo. E’ una spedizione nell’ignoto, una visita non guidata in un monastero bulgaro, dietro i passi di un monaco farfugliante, che dice e prega, tra sé e fuori di sé, cose incomprensibili.
Puoi prendere tonnellate di appunti, registrare ogni alito, quello che ti ritrovi è solo un gran casino, che è poi il mondo di Jannacci. T’aggrappi qua e là come un naufragato allocco al relitto di due frammenti che sembrano avviare un senso, ma subito tutto frana, in uno sghignazzo un po’ demente, un salto logico, una crasi, un anacoluto. Il segreto è arrendersi, fingersi morto, capire che in questo caso le risposte precedono le domande. Ubriaco dalla nascita senza l’alibi del fiasco, e miope grave, il che lo condanna da sempre a tastare il mondo più che a decifrarlo. «Sono pazzo ma non scemo», dice di sé. Nella stessa casa e nello stesso casino, il figlio Paolo, 36 anni, musicista dei suoi lombi e dunque del suo genio, che il padre chiama «un fenomeno vivente», e la moglie Giuliana. «Scusi che l’ho fatta aspettare... sa la prostata è il nostro problema... la generazione dei coitus interruptus». Enzo Jannacci.
Cinquant’anni di carriera e sono in tanti ancora a chiedersi: da dove è venuto questo qua? «E sono quasi cinquanta di matrimonio con la Giuliana. Un fidanzamento durato quattordici. Non potevo sposarmi, troppo povero. Lei studiava e andava in banca, io facevo qualsiasi lavoro. Mio padre travolto da un autoscuola dell’esercito. Come ex militare si vergognava ad andare in tribunale... Morale, mia madre doveva mantenerlo. Il telefono squillava, “Pronto Jannacci, ci sarebbe…”, e io “...Sì”».
Andava a cantare ovunque. «Nei bar del Ticinese, ovunque, a fare il cantante tocca e fuggi per quattromila lire, il corista, tutto. Il pianista meno, perché facevo fatica a leggere la musica a prima vista. Mi veniva facile scriverla la musica... Il giorno studiavo, la notte suonavo... Poi, un giorno, mi sono rotto i coglioni di tutti quelli che mi dicevano: perché non vai a cantare...».
Si definisce «un medico fantasista». «L’ho scritto pure sulla carta d’identità. Mi piaceva studiare medicina... Sono maturato dai diciassette anni in poi. Prima ero alto un metro e 58 e portavo 43 di piede. Non capivo niente. Imparavo tutto a memoria. Ero talmente piccolo, di altezza e di magritudine, che l’ossigeno non si sviluppava».
Il responsabile della sua più unica che rara storia di musico giullare? «Devo tutto a Gigi Concato, padre di Fabio. Ha cambiato il volto dell’umorismo a Milano. Suonava la fisarmonica, era tutto elegante».
Era già un cavallo pazzo all’epoca. Suonava ogni cosa, dal piano ai bonghi. «Otto anni di pianoforte al Conservatorio, ma mi sono dato alla musica perché mi piaceva il jazz. Sono partito dall’algebra, senza fare l’aritmetica. Non capivo cosa stavo facendo... E poi studiavo come una bestia... Volevo fare il patologo».
Il corpo umano. Un circo dell’orrore o dello stupore? «Una meraviglia. Da chirurgo volevo vedere com’era fatto il corpo. E’ un lavoro spazio-temporale. Sezioni, vai dentro, c’è un fegato, il tessuto connettivo. Dentro si sono le cellule, dentro i mitocondri e dentro ancora un mondo che gira. Inesploso. Inesplorato».
Jannacci da paziente. «Sono un discreto terapeuta per gli altri. Nei miei riguardi sono impaziente. Mi curo da solo. Devo guarire subito e infatti non guarisco mai... Ho la schiena incasinata. Mi sono operato cinque volte. L’ultima per togliere una struttura di titanio che da pirla mi ero fatto mettere per un’ernia del disco che non guariva mai. Sono geniale ma non intelligente...».
Suo padre era un aviatore. «Era nato aviatore senza paracadute, atterrava nei porcili. Son volato anch’io con lui, nel 12 aprile del ‘42, avevo sette anni... Era un militare di carriera che non voleva diventare generale... Non voleva diventare altro che maresciallo. E io ho preso da lui...».
I suoi concerti, un happening continuo. «Sono abituati... Lo sanno che da qualche parte ricomincio sempre. Faccio quelle pause, pam, vado su altri campi, pam, e quindi? La gente capisce... qualcuno ride, qualcuno s’incazza...E’ quella pratica di reggere la scena che, poverina, non aveva Lina Volonghi».
La Volonghi non reggeva la scena? «Lina è morta d’infarto. Aveva consumato tutta la sua capacità di reagire a questa disperazione di andare in scena. Io invece non so nemmeno cosa sia... La pausa fatta bene crea consenso, fa ridere oppure o fa pensare».
Che succede quando v’incontrate lei e Celentano, i campioni della pausa? «Lui inventò questa cosa delle pause perché non seguiva la musica, si dimenticava quando doveva rientrare, era tutto in mano all’orchestra. Solo che la gente se ne accorge e lo fischia. E’ successo quando doveva cantare “La guerra di Piero” nell’omaggio a De Andrè. Non riusciva neanche a leggere... A me non capita. La mia roccia è Dario Fo. Mi voleva bene. Mi dava forza, mi diceva: hai fatto quella pausa lì che nemmeno io sarei stato capace...».
Azzardo. Jannacci sta a Fo come Celentano a Jannacci. «Un po’ sì. Adriano è uno capace. Ma di persona non va. Senza rete, son dolori. Ha il terrore di attraversare una folla impietosa. Non è Vasco Rossi».
Un pigro che si ammazza di fatica. Una vita che somiglia al caos. Non si è negato nulla. Il teatro e il cinema. «Il cinema mi è piaciuto di più vederlo che farlo. Sul set si diverte solo il regista, neanche tanto. Le attrici s’innamorano del regista o del direttore della fotografia... ma anche del chirurgo plastico. S’innamorano di chi le fa belle...».
E’ stato sul set da attore e da musicista con i più grandi. «Quelli del cinema sono i grandi osservatori del mondo. Ferreri, Monicelli, Risi, Tognazzi, Mastroianni, Sordi. Vittorio Gassman meno...».
Non le piaceva Gassman? «Bravo a fare Shakespeare, ma troppo sarcastico. Si accaniva perché era più grosso, più alto, più bello... Era sempre un poco aguzzino... Mi diceva Jack Lemmon: il mio maestro è Alberto Sordi... Una volta a Vittorio gli ho tirato un bacile».
Iconoclasta... «Lui non mi conosceva bene, non mi conoscevo nemmeno io... Gli lavavo i piedi, da copione dell’Udienza. Finito, lui afferra il bacile e me lo tira addosso. “Ma sei scemo?”. Pam... Ho preso il bacile e glielo ritiro indietro... Voleva fare il di più con me... Era già il Gassman celebre che da ubriaco cercava la rissa in via Veneto. Il figlio Alessandro, bravissimo, è un po’ come lui... Sono quelli che per far ridere, trattano male la gente dall’alto in basso...».
I comici di oggi. «Il massimo è Diego Abatantuono, Diegolone come lo chiamava Beppe Viola. L’ho visto nascere. Sembrava Cassius Clay, era bellissimo, uno giusto. Il più bravo di tutti, un fenomeno... Dopo di lui Pozzetto. Renato era un genio... “Nebbia in Val Padana, calmi gli altri mari” è suo».
Lei e Giorgio Gaber, i due corsari. Più fratelli che amici. «Mi manca questo suo vocione. Gli piaceva fare il vocione basso. “Fatemi fumare!”, diceva. Mi manca più il Gaber persona che il signor G».
Pensieri molesti a 73 anni? «Mi ritrovo quasi sempre di buonumore. Mi sa che produco molta serotonina. Ho rischiato la depressione tanti anni fa... Quando sono malinconico sembro Claudio Baglioni, che per me è il più bravo di tutti... E’ un poeta nato, che consuma note, armonie, comunica cose di una bellezza straordinaria... Non lo sa neanche lui questo... In dieci parole sue trovi sei atmosfere poetiche. Questo modo di armonizzare che si mischia con la voce».
Più bravo di Vasco Rossi? «Vasco è stratosferico. Ultimamente non canta più. Prende le note fondamentali e parla dove c’è questo suono. Sembra che lo mangi e invece...».
Il più interessante? «Paolo Conte. Tutte le sere, prima di andare a letto, canticchio: “Quanta strada nei miei sandali, quanta ne avrà fatta Bartali...”. Lui è un genio, azzecca tutto e basta... Quando restiamo bloccati nell’ascensore glielo dico e lui: “Ma tu hai scritto Vincenzina”. Meno male che ho scritto Vincenzina sennò mi ammazzerei...».
Amico di Luigi Tenco e di Mia Martini. «Tenco girava in valigetta con un libro di Pavese e un revolver automatico... Mia Martini arrivava a Sanremo per cantare “Gli uomini”. “Enzo, mi manca l’amore”, mi disse. Non l’ho più vista».
Siete rimasti in pochi della sua generazione. «Non c’è vita o morte, solo varietà o monotonia».
da lastampa.it
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