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Autore Discussione: DIEGO NOVELLI* Dal carcere alla "Casa di custodia"  (Letto 2266 volte)
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« inserito:: Dicembre 30, 2008, 10:08:56 am »

30/12/2008
 
Dal carcere alla "Casa di custodia"
 
 
 
 
 
DIEGO NOVELLI*
 
L’intervista con l’avvocato Niccolò Ghedini sulla Stampa di ieri («Carceri meno dure in attesa di giudizio») mi induce a ricordare che negli Anni 80 un gruppo di operatori sociali del Comune di Torino con volontari della San Vincenzo, operanti nella casa circondariale, presentarono uno studio che consentiva in 6-7 mesi di alleggerire di circa 300 unità la popolazione delle carceri torinesi. Una commissione insediata dal Comune, formata da architetti, sociologi, giuristi e operatori sociali metteva a punto un progetto esecutivo sia per la parte edilizia, sia per le modifiche riguardanti i codici, con dettagliato esame dei costi di realizzazione e di gestione. Si trattava di realizzare in città dieci Case di custodia (una per circoscrizione) con 30-40 posti letto. La scelta degli edifici riguardava case pubbliche e private da ristrutturare o già costruite ma ancora sfitte o invendute. Con poche modifiche interne si realizzavano camere (due-tre letti) e servizi collettivi (mensa, palestra, sala di svago, servizi igienici, cucina).

Le misure di sicurezza erano minori che in un normale carcere, con una drastica riduzione dei costi. Anche per il personale di servizio (o di custodia) il numero veniva ridottissimo rispetto all’attuale rapporto agenti-detenuti, utilizzando cooperative del volontariato. Nel progetto, elaborato da avvocati e magistrati, venivano individuati i «clienti» di queste nuove «Case di custodia per detenuti a rischio attenuato»: in attesa di giudizio per reati minori o a fine pena, con comportamenti durante la detenzione rassicuranti secondo i giudici di sorveglianza. In questo modo si eliminava la piaga della promiscuità, che vede un cittadino incappato in un guaio giudiziario di lieve entità stipato in una cella di mafiosi o d’incalliti criminali. Questo progetto venne dal Comune presentato al ministero della Giustizia, raccogliendo il consenso entusiastico dei ministri Martinazzoli e Vassalli, e il sostegno del direttore degli Istituti di prevenzione e pena dell’epoca, Niccolò Amato.

Scaduta l’amministrazione comunale di sinistra non se ne fece più niente. Parecchi anni dopo, durante una visita a Torino, a seguito di un incendio nel nuovo carcere delle Vallette sovraffollato (morirono alcune donne), il ministro della Giustizia Biondi si dichiarò d’accordo per rispolverare quel progetto, impegno che ribadì alla Camera. L’ultima volta che ho sentito parlare della proposta delle «Case di custodia per reati a rischio attenuato» in termini positivi fu tre anni fa durante un convegno a Roma, che trattava delle condizioni disumane delle carceri italiane. Era presente il sottosegretario alla Giustizia Manconi del governo Prodi. Poi tutto tacque.

Salta fuori Alfano con la proposta della «messa in prova», che eviterebbe il carcere per reati che prevedono una pena sino a 4 anni. Il professor Grosso ne ha scritto su La Stampa invitando il ministro (bloccato da Lega e An) a soprassedere. Alfano in più parla di revisione della legge Gozzini perché troppo «premiale» per i detenuti. Non sa che grazie alla Gozzini non ci sono più state rivolte nelle carceri negli ultimi 20 anni. Questa legge ha un effetto deterrente sulla popolazione carceraria perché in casi di disordini saltano i permessi e le licenze. Le carceri non possono essere considerate terra di nessuno, avulsa dalla città. Anche i sindaci, che hanno avuto un’ora di celebrità con bizzarre misure di sicurezza concesse dal ministro Maroni, non possono dimenticare che dietro i muraglioni delle carceri vivono delle persone, che se anche hanno sbagliato, non possono essere considerate peggio degli animali. La cultura di rinchiudere chi sgarra e di buttar via la chiave non appartiene a una società civile.

* già sindaco di Torino
 
da lastampa.it
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