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Autore Discussione: Stefano CECCANTI.  (Letto 5555 volte)
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« inserito:: Ottobre 20, 2007, 12:11:21 am »

La quadratura del cerchio

Stefano Ceccanti


La possibilità di approvare incisive riforme delle istituzioni in questi mesi esiste, ma solo a patto di collegare strettamente l’iniziativa in Parlamento a quella nel Paese con obiettivi chiari e coerenti.

Il Partito Democratico dovrà promuovere, come ha preannunciato Walter Veltroni nel convegno dello scorso 6 ottobre al Cinema Capranica, una campagna di sensibilizzazione sulla necessità di ridurre i poteri di veto che affollano il nostro sistema. Le primarie hanno del resto dimostrato che c’è una forte domanda di semplificazione del sistema politico, come avevano già dimostrato le oltre 800.000 firme per il referendum, oltre ai dati delle ricerche di opinione ricordate nel citato seminario del 6 ottobre da Marco Filippeschi, che danno alle liberalizzazioni politiche, compreso il possibile voto al referendum, livelli di consenso pari all’80%. L’impegno sulle regole deve essere coerente e collegato con quello sul piano dei soggetti. Da questo punto di vista l’astensione alla Camera dell’opposizione rappresenta un dato ambiguo: per un verso segnala la difficoltà di opporsi a una serie di riforme che godono del favore dell’opinione pubblica (Camere più snelle e differenziate, corsia preferenziale per il governo, potere di revoca dei ministri al Presidente del Consiglio e così via), per altro, col richiamo alla maggioranza a produrre una riforma elettorale unitaria, evidenziano l’intento tattico di dividere l’Unione.

Come fare in modo di cogliere la disponibilità evitando la strumentalità? Se si ragiona solo in termine di equilibri dentro il Palazzo la quadratura del cerchio sembra impossibile, soprattutto sulla riforma elettorale. Sembra che ci si debba arrendere a un’alternativa comunque inaccettabile. Da una parte stanno una gamma di sistemi che possono ridurre la frammentazione e realizzare il bipolarismo molto meglio di quello attuale: il sistema francese, quello spagnolo, il vecchio Mattarellum nella versione Senato, per limitarci ai principali. Hanno sistemi che incentivano al bipolarismo, diversi dal premio di maggioranza ma anche più incisivi, o grazie al collegio uninominale o a piccoli collegi plurinominali.

Proprio perché questi sistemi riducono i poteri di veto, i depositari di quei poteri minacciano ritorsioni sul Governo e pertanto favoriscono involontariamente la celebrazione del referendum o volontariamente scenari traumatici di elezioni anticipate. Il Pd non può non farsi carico di mantenere l’impegno preso con gli elettori di governare per la legislatura. Dall’altra parte sta però un sistema, quello tedesco, che viene brandito da alcuni alleati e dall’Udc come un ricatto sul Governo e sulla legislatura: se non ci date quel sistema, che in Italia distruggerebbe sicuramente il bipolarismo, si dice, faremo cadere l’esecutivo.

Ma il Pd non può neanche propter vivendi vitam perdere causam per salvare l’attuale Governo approvare una riforma che renderebbe il prossimo Governo ancora più debole, perché derivante da accordi post-elettorali continuamente rinegoziati e magari produrre subito una democrazia di nuovo bloccata al centro, con un’alleanza innaturale fino a Forza Italia. Per questo, in nome della coerenza del principio della scelta diretta dei cittadini sulla maggioranza e sul Governo e della distinzione tra centro-destra e centrosinistra che non può essere appannata, il ricatto è rifiutato chiaramente anche da ministri dell’attuale esecutivo come Arturo Parisi e Rosy Bindi, che schierandosi per il referendum hanno d’altronde optato per una strada opposta a quella del sistema tedesco.

Non è neanche pensabile di ricorrere allo stratagemma di prendere quel sistema e di inserirvi un obbligo preventivo di alleanze: se non c’è un preciso incentivo bipolarizzante (o il collegio uninominale o il premio o piccoli collegi plurinominali) un partito come l’Udc indicherebbe semplicemente il proprio leader come candidato Premier e o direbbe di andare da solo aspirando al 50 +1% o, se fosse consentito, esprimerebbe una preferenza per una coalizione Pd-Udc-Fi. Stiamo quindi parlando di una correzione che semplicemente non esiste sul piano tecnico. Se poi vogliamo aggiungervi di nuovo un premio o qualcos’altro allora possiamo continuare a chiamarlo tedesco, ma sarebbe un’altra cosa e rientreremo tra i sistemi accettabili. Visto così il quadro sembrerebbe insolubile e tuttavia la campagna di opinione che dovrà promuovere il Pd nel Paese, se ben condotta, potrebbe cambiare i rapporti di forza.

Perché da parte del primo partito italiano non obbligare a giustificarsi chi non vuole tornare a candidature vicine alle persone, come quelle garantite dai collegi uninominali o dai piccoli collegi plurinominali e/o chi non vuole realizzare processi di aggregazione solo per andare avanti in tanti isolotti autosufficienti ed egoistici chiamandoli partiti? Perché non debbono aver diritto ad elezioni primarie anche gli elettori del centro-destra? Perché l’opposizione deve ambire solo a riconquistare il potere a breve in un sistema che non funziona? Se queste domande e le relative risposte diventassero subito dopo l’apertura della Costituente un patrimonio diffuso, forse alleati ed avversari potrebbero cambiare attitudine. La nostra, pur con tutte le ovvie attenzioni in una materia per sua natura pattizia, non può che essere coerentemente quella del 14 ottobre, massimo di partecipazione e massimo di decisione.


Pubblicato il: 19.10.07
Modificato il: 19.10.07 alle ore 8.50   
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« Ultima modifica: Novembre 05, 2008, 06:37:11 pm da Admin » Registrato
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« Risposta #1 inserito:: Gennaio 05, 2008, 12:15:03 am »

Perché diciamo sistema francese

Stefano Ceccanti


Per il Partito democratico il sistema francese è e resta doverosamente il modello di partenza perché, al di là degli aspetti tecnici, elettorali e costituzionali, esso esprime un principio chiaro: quello delle elezioni in cui si decide direttamente non solo sulla rappresentanza, ma anche sul governo. Riaffermare questo, come ha inteso fare Dario Franceschini, non significa evidentemente fermarsi lì e rifiutare una trattativa.

Trattativa che, essendo aperta ad ampie convergenze, finisce chiaramente per svilupparsi su varie ipotesi diverse da quella e su vari dettagli in cui ciascuna ipotesi può essere declinata. Significa invece ribadire i limiti di accettazione dei risultati della trattativa giacché essa non può portare a dare il proprio consenso a filosofie istituzionali opposte a quella di partenza, in cui le elezioni svolgano il ruolo di decidere solo sui rappresentanti e di risultare simili a un mero sondaggio di opinione sulla scelta dei governi.

Quando il Pd ha dato infatti la propria disponibilità a discutere di sistemi proporzionali senza premio di maggioranza alle coalizioni ha nel contempo ribadito che a fianco di uno sbarramento analogo a quello tedesco, che incentiva in basso alle aggregazioni, occorreva inserire degli elementi disproporzionali tali da incentivare e stabilizzare la nascita e la crescita di partiti a vocazione maggioritaria, aggregando il sistema anche in alto. Nonostante questi limiti ben esplicitati in più occasioni da Veltroni e Franceschini, esistono però delle spinte a tralasciare questo secondo correttivo, a cui si dà spesso erroneamente sponda anche all’interno del Pd, rischiando di scivolare in una china che porterebbe all’adozione pura del modello tedesco, che non è una mediazione per nessuno, ma che per alcuni è la prima scelta e per altri non è semplicemente accettabile.

Ammesso che si possa parlare di impazzimento nel dibattito sulla riforma, o forse meglio di schizofrenia (ma occorrerebbe farlo con cautela perché questi livelli di critica denotano un certo integralismo), essa andrebbe collocata proprio lì, giacché l’aver fondato il Pd come partito a vocazione maggioritaria, stabilmente alternativo al centrodestra, non si concilia con un modello in cui o vi sarebbe la spinta a formare stabilmente grandi coalizioni con larga parte del centrodestra a cominciare dal partito di Berlusconi o si affiderebbero le sorti del governo alle scelte di partiti centristi in grado di rivendersi al miglior offerente in cambio di prezzi pesanti, magari ottenendo Palazzo Chigi con poco più del 5% dei voti. Non a caso le iniziative di aggregazioni centriste, di fronte alla fermezza del vertice del Pd democraticamente eletto contro il sistema tedesco puro, segnano il passo, a dimostrazione che la loro forza non sta nella società, ma in vecchie logiche da ceto politico.

Detto più brutalmente per ciò che riguarda noi: non abbiamo fatto nascere il Pd per fargli svolgere la funzione della sinistra di un pentapartito rinnovato, per limitare le sue ambizioni di crescita al di sotto del 30% dei voti, delegando il compito di farsi assicurare l’accesso al governo alla possibile bontà di un alleato centrista (peraltro niente affatto scontata) o, sperando nella alta probabilità statistica di un’elezione senza vincitori, ad un’intesa post-elettorale stabile con Berlusconi.

È da rilevare peraltro che il dialogo si è aperto col Popolo delle Libertà in questa fase, con la convergenza sui correttivi maggioritari, mira proprio ad assicurare stabilmente l’alternatività tra i due partiti, ovvia solo in un sistema in cui le elezioni designano chiaramente un vincitore. Il Pd ha dimostrato senso di responsabilità, anche nei confronti delle comuni responsabilità di governo, spiegando le ragioni della sua prima scelta e le possibili seconde scelte accettabili, a cui volendo se ne possono aggiungere altre, accomunate dal principio per cui le elezioni siano decisive per la guida del Governo.

Tra queste può rientrare anche un perfezionamento del sistema derivante dai quesiti referendari, che risponda alla critica dell’assegnazione di un premio alla lista di maggioranza relativa in un unico turno di voto. Una critica che, comunque, lo dico in una dovuta parentesi, non potrebbe certo condurre all’inammissibilità dei quesiti referendari dato che la Corte in materia elettorale si è sempre pronunciata solo rispetto all’immediata applicabilità dei quesiti e, in ogni caso, la Costituzione è perfettamente compatibile anche con sistemi elettorali fortemente disproporzionali; Costantino Mortati si poneva invece nei primi anni 70 il problema opposto, se cioè sistemi troppo proporzionali non finissero per contraddire gli impegni solenni della Prima Parte della Carta, impedendo decisioni necessarie allo sviluppo dei diritti. Recependo però la parte di verità di quella critica mal formulata, si potrebbe pensare, in modo analogo a quello utilizzato in Francia per i livelli diversi da quello nazionale, a un secondo turno eventuale tra le prime due liste del primo turno, con la possibilità di fonderle con liste uscite di scena.

In ogni caso il Pd non può certo accettare, anche per dignità oltre che per credibilità, di arrendersi unilateralmente a chi ha sostenuto il sistema tedesco puro come prima scelta e che fin qui non si è mosso. Che strano sistema politico sarebbe quello in cui se il Pd, il primo partito per forza parlamentare, ribadisse la propria prima scelta ma accettasse anche mediazioni esso sarebbe irresponsabile, metterebbe addirittura in pericolo il governo, mentre chi si limitasse a ripetere, con molti meno consensi, «o tedesco o niente» dovrebbe essere pienamente esaudito?

Anche per evitare queste logiche anomale, per fortuna, le oltre 800.000 firme referendarie costituiscono una seria polizza di assicurazione.

Pubblicato il: 04.01.08
Modificato il: 04.01.08 alle ore 9.03   
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« Risposta #2 inserito:: Febbraio 06, 2008, 11:28:40 pm »

Pd, perché da soli

Stefano Ceccanti


Sin dallo scorso ottobre il Partito democratico ha affermato, parlando di «vocazione maggioritaria», una logica fortemente contraddittoria rispetto a quella del Porcellum, che incentiva invece l’aggregazione di tutte le sigle possibili, trattando il programma di governo come una variabile dipendente. Il termine «vocazione maggioritaria» si riallaccia alla strategia del Labour Party che decise di cercare in proprio di convincere gli elettori, con una grande svolta politico-culturale, senza perseguire la scorciatoia di accordi di desistenza a scacchiera coi Liberali in funzione anti-conservatrice. Non si deve sommare ciò che non è omogeneo perché si può vincere, ma poi non si governa e quindi la vittoria è fatalmente effimera, condannata ad essere smentita al turno seguente, quando i propri elettori si saranno spazientiti e gli altri mobilitati.

Non stiamo quindi parlando di una sorta di testimonianza impotente, di una forma di integralismo settario, ma esattamente del contrario, di una strategia consapevole del rischio, quando sarebbe invece l’insistere sulla routine ad essere condannata dai cittadini. Per farla finita con la logica sbagliata sarebbe stato meglio per tutti un sistema elettorale diverso che portasse a vincitori chiari, ma omogenei, come il sistema francese. Non si può però, in mancanza di una riforma, smentire se stessi: lo esclude l’etica della responsabilità che impone di anticipare sul piano dei comportamenti ciò che si vorrebbe sul piano delle regole.

Non si può negare l’evidenza: sul piano nazionale, pur con un ottimo Presidente del Consiglio e un’eccellente squadra, la litigiosità della coalizione ne ha determinato la caduta e reso impossibile una ripetizione. Non possono essere recuperati coloro che hanno determinato la fine di quell’esperienza, parti moderate dell’alleanza, ma è altresì necessario segnalare che il modo con cui la sinistra arcobaleno ha affrontato il rapporto con l’Onu, con la Nato, con la politica estera e militare in un mondo post-bipolare insicuro, non è stato e non è all’altezza con una collocazione di Governo.

Ci sono state anche altre aree problematiche, ma lì dei compromessi sono più facilmente possibili, e questo spiega e legittima la prosecuzione possibile dell’alleanza negli enti locali e nelle regioni, ma sull’affidabilità internazionale i margini sono minimi: la missione in Afghanistan, votata all’unanimità dall’Onu, o si rifinanzia oppure no. Dal momento che le elezioni non hanno solo la finalità di trasformare i voti in parlamentari, ma anche di fare una scelta per il Governo è giusto essere trasparenti: ammesso che si possa vincere (ma ci si può riuscire solo se gli elettori non hanno già potuto vedere l’inganno), insieme non potremmo governare. Né si può affermare che si tradisce il bipolarismo se non si accoglie tutto ciò che si muove alla sinistra del centro: Zapatero per le elezioni del 9 marzo, per ragioni analoghe, non ha certo presentato un programma comune con Izquierda Unida.

Da varie parti viene proposta un’obiezione pratica: com’è possibile vincere alla Camera e persino al Senato nelle Regioni «rosse» se il Pd sta sì e no al 30% mentre la «gioiosa macchina da guerra» del centrodestra parte sopra il 50%? Non basta certo la replica, pur vera, che replicando l’Unione, si potrebbe al massimo puntare a consolidare il solo elettorato di appartenenza giacché quello di opinione, se è realmente tale, l’opinione se l’è già formata in senso negativo e al massimo potremmo contare sulla sua clemenza con un’astensione dal voto. Credo che si possa accettare la sfida con una triplice convinzione.

In primo luogo è sbagliato partire dai risultati del Senato della volta scorsa dove sciaguratamente fu fatta la scelta di andare separatamente tra Ds e Margherita, perdendo vari punti percentuali rispetto alla Camera, dove andammo uniti con l’Ulivo, che è il vero elemento di comparazione omogeneo. Già questo dovrebbe far capire come le Regioni «rosse», dove quello scarto fu maggiore della media, non siano a serio rischio.

In secondo luogo credo che esista, al confine con la Sinistra arcobaleno, un’area quantitativamente significativa di elettori, pur non enorme, pari a qualche punto percentuale, che è disposta a votare la proposta che più sembri in grado di essere credibilmente alternativa al centrodestra. Un’area che ragiona in termini di «voto utile», non testimoniale.

In terzo luogo si tratta di scommettere sulla consistenza quantitativa e qualitativa di un’area di elettori di centro, quantitativamente ben più ampia, in grado di spostarsi sulla base delle proposte programmatiche. Proposte che non consistono solo nella loro enunciazione, ma soprattutto nella credibilità per tradurle in pratica e da questo punto di vista non c’è dubbio che, a parità di altri fattori, il Pd sia molto più credibile di un caravanserraglio da Casini a Bossi passando per Storace. E dove peraltro, nel migliore dei casi in termini di voti e seggi al Senato per il centrodestra, sia Casini sia Bossi sarebbero ciascuno determinante. Nelle elezioni politiche questa ampia disponibilità a cambiare che vale doppio (perché sono voti che si sottraggono agli uni e al tempo stesso si aggiungono agli altri) si è manifestata in forma minima perché mai è stata tentata un’offerta rivoluzionaria, di cambio radicale di schema come farebbe ora il Pd, ma tutti l’abbiamo vista nelle elezioni sugli altri livelli. Il centrodestra è riuscito a vincere a Bologna e il centrosinistra Trieste. So bene che il voto politico è più rigido, ma bisogna scommettere sulla capacità di discernimento degli elettori che in questo caso, prima che essere tra centrosinistra e centrodestra, sarebbe tra omogeneità e confusione.

Infine, alcuni di coloro che pur in linea generale sono disponibili ad accettare questa sfida, anche consigliati da tecnici estrosi, capaci di aggirare la legge elettorale che richiede sia alla Camera sia al Senato un programma di governo e un candidato Premier con alleanze in entrambi i casi nazionali, suggeriscono dei temperamenti a questa strategia chiara e netta. C’è ad esempio chi immagina di dividersi alla Camera e di unirsi al Senato (il rovescio dell’Ulivo del 2006), ma qualcuno dovrebbe rinunciare al candidato Premier al Senato e dovremmo forse depositare programmi diversi per le due Camere, se uno dei due non rinuncia al suo. C’è poi chi vorrebbe liste ad hoc in qualche Regione dove scomparirebbero sia il Pd sia la sinistra arcobaleno sia i veri candidati Premier. Chi pensa a questi espedienti trascura che la «vocazione maggioritaria» è come una nuova nascita. Non si può essere incinti a metà: o si sceglie il rischio o la routine, non si possono fare scelte costituenti a Camere o Regioni alterne.

Pubblicato il: 06.02.08
Modificato il: 06.02.08 alle ore 19.04   
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« Risposta #3 inserito:: Febbraio 26, 2008, 02:49:16 pm »

Più diritti per tutti

Stefano Ceccanti


La scelta di andare da soli o, meglio, liberi, era già stato un bell’anticipo di programma.

Le idee ben articolate che si trovano nel testo sono coerenti con quella scelta che ha terremotato la campagna e che ha anche semplificato la sua redazione: niente più frasi di compromesso che spostano in avanti le scelte reali o di resa a veti di alleati.

È per questo, come eravamo stati i primi a fare quella scelta, che siamo stati anche i primi a presentare il programma, battendo non solo il Pdl (che al momento è più una lista elettorale che un partito vero e proprio), ma anche gli altri partiti identitari, di sinistra, di centro e di destra. Quale idea forte vuole trasmettere il programma è presto detto: quello di una politica che si rialza e corre, che aiuta il Paese a crescere anziché soffocarlo in una spirale di veti. In effetti i lunghi anni di una transizione strabica, in cui il frutto positivo del bipolarismo si è accompagnato al male della frammentazione, tranne alcuni momenti forti, in particolare il primo biennio del Governo Prodi I, hanno trasmesso al Paese l’immagine di una politica strutturalmente incapace di decidere, come chiusa in un sepolcro di autoreferenzialità. Una politica come Lazzaro, in attesa di essere richiamata alla vita, alla propria dignità. I primi commenti si sono in gran parte incentrati soprattutto sulle novità in ambito economico-sociale.

Qui mi limito, su questi aspetti, a segnalare un’importantissima novità culturale. La disciplina dei conflitti di interesse è inserita al punto 8, quello delle «imprese più forti, per competere meglio» dove si afferma: «I conflitti di interesse vanno rimossi nella nuova logica dell’intervento pubblico: li elimina uno Stato che fa meno gestione diretta, concentrandosi su leggi antitrust». Vedremo se altri programmi saranno in grado di affermare in modo così netto una logica pienamente liberaldemocratica, ispirata alla libera concorrenza, senza cadere in una difesa dei propri interessi ed equilibri o, all’opposto, in una logica meramente antiberlusconiana. Mi soffermo poi su altre due questioni, quella istituzionale e quella relativa all’espansione dei diritti civili.

Sulle istituzioni quasi tutto era già stato chiarito nei mesi scorsi e andava semplicemente ribadito, a partire dall’opzione fondamentale di «un bipolarismo fondato su grandi partiti a vocazione maggioritaria». La politica può rialzarsi e correre anche in Italia solo con gli standard di tutta Europa: uno snello Governo di legislatura con corsia preferenziale sulle proprie proposte, una sola Camera che prevale nelle leggi, il divieto di costruire gruppi parlamentari non corrispondenti a forze che si siano già presentate col proprio nome e simbolo, un quadro aggiornato di garanzie e contrappesi. Sul nodo del sistema elettorale il testo ribadisce che lo strumento privilegiato, anche per rispondere ai referendum che sono semplicemente rinviati e che pendono di nuovo positivamente anche sulla prossima legislatura, sarebbe il collegio uninominale a doppio turno di tipo francese. Non vi è una stretta necessità di associarvi anche l’elezione del Presidente perché l’evoluzione di questi mesi, in cui tutte le principali forze politiche nazionali hanno rimarcato con forza la scelta di un proprio candidato Premier, dimostra che in realtà vi è già una bipolarizzazione nazionale su leaders Presidenti del Consiglio.

Anche in Italia, come quasi ovunque in Europa, sembra bastare un’unica competizione, un’unica scheda, per scegliere bene deputato e Governo. Trattandosi di regole, su cui l’intesa con le forze più rappresentative è necessaria senza forzature unilaterali, «il PD è disponibile anche ad esaminare ipotesi di sistemi elettorali diversi, a condizione che possano corrispondere alla medesima finalità», cioè quella di chiudere la transizione fondandola sui grandi partiti a vocazione maggioritaria, senza quindi concessioni a restaurazioni proporzionalistiche più o meno aggiornate. Per ciò che concerne i diritti il programma adotta un approccio al tempo stesso efficace e pragmatico: non ne fa un capitolo a parte perché non li concepisce al di fuori di una visione complessiva della crescita del Paese e perché un elenco ulteriore di diritti rispetto a quello, pur aperto, della Costituzione, avrebbe un senso prevalentemente ideologico. Li segnala però con precisione, avendo cura di tutelare tutti i principi in gioco, nei punti in cui ciò appare più coerente con l’effettiva tutela della persona. Per limitarci ad alcuni esempi, rispetto alle questioni potenzialmente più conflittuali, fanno parte di esigenze di giustizia fin qui disconosciute sia il testamento biologico la cui funzione è di «prevenire l’accanimento terapeutico» sia il riconoscimento «dei diritti, prerogative e facoltà delle persone stabilmente conviventi indipendentemente dal loro orientamento sessuale», come si era cercato di fare da parte dei ministri Pollastrini e Bindi con l’equilibrato compromesso che aveva portato ai Dico e rispetto al quale non sono comunque apparse finora proposte più condivise e convincenti.

Rientra nello Stato sociale e nella tutela della salute l’impegno ad attuare la 194 «anche alla luce delle nuove possibilità offerte dalla scienza, in tutte le sue parti» (allusione evidente sia per un verso alle possibilità di auto alle nascite premature sia alla Ru-486 che può e deve essere inserita nel rispetto formale e sostanziale della 194): quanto più si eviteranno polemiche ideologiche tanto più sarà possibile lavorare insieme per la prevenzione, con l’obiettivo condiviso di «un’ulteriore riduzione del numero degli aborti». Questo si richiede ad una politica non ideologica, tipica dei grandi partiti a vocazione maggioritaria: non di scegliere unilateralmente un unico principio o interesse, come se in una decisione politica se ne dovesse considerare uno e uno solo, in un gioco a somma zero, ma di equilibrarli, con ragionevolezza e ponderazione. Altre realtà sociali, culturali, confessionali possono, e talora debbono, rappresentare ottiche più parziali, esporre le proprie motivazioni in un modo più assertivo anche per lanciare messaggi di riconoscimento e di carattere educativo ai propri aderenti e nella società, ma la politica che vuol fare alzare e camminare un Paese ha un dovere in più, quello di costruire ponti, sapendo per questo di non poter accontentare tutti. I ponti culturali su cui il Paese può correre.

Pubblicato il: 26.02.08
Modificato il: 26.02.08 alle ore 12.01   
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« Risposta #4 inserito:: Aprile 12, 2008, 12:43:51 am »

Ci mancava il voto opposto

Stefano Ceccanti


L’editoriale del professor Sartori sul Corriere di ieri, al di là di qualche ragionamento periferico sulle liste minori che comunque non sono in una prospettiva di governo, propone di fatto un modo di votare originale: alla Camera per Berlusconi e al Senato per Veltroni.

Dopo il voto utile e quello disgiunto siamo ora arrivati al voto opposto, forse con un eccesso di fantasia. Nonostante le motivazioni di protesta colllegate al ragionamento e la obiettiva stanchezza di parte dell’opinione pubblica per lo scontro frontale che fa desiderare ad alcuni un pareggio ecumenico, le conseguenze, se tali voti fossero decisivi, sarebbero facilmente intuibili e non credo molto positive. Dato che nel contesto italiano, stanti le distanze tra Pd e Pdl e la situazione complessiva del sistema dei partiti, la Grande Coalizione è del tutto improponibile, si andrebbe evidentemente a un Governo tecnico di breve durata per la riforma elettorale e qualche limitato ritocco alla Costituzione, a cominciare dal doppio rapporto fiduciario di Camera e Senato che quel risultato dimostrerebbe essere una spada di Damocle in caduta sui giocatori. E’ bene quindi che coloro che sono astrattamente disponibili a seguire i consigli del professor Sartori sappiano che il loro comportamento li riconvocherebbe alle urne entro il 2009 per nuove elezioni politiche. In pratica si finirebbe per riportare le lancette dell’orologio al momento del tentativo di formare il Governo Marini, con un’importantissima differenza: che allora c’era stato un Governo scelto dagli elettori, quello di Prodi, che aveva comunque iniziato la legislatura e ci si rassegnava ad un Governo tecnico di breve durata per risparmiare agli elettori il rischio di un’elezione senza un risultato chiaro.

Qui invece si vorrebbe deliberatamente produrre un risultato contraddittorio per iniziare una legislatura proprio con un Governo tecnico e con l’esito preventivato di tornare al voto dopo un anno. Non vedo in tutto ciò un colpo dato alla casta, ma un colpo che i cittadini darebbero a loro stessi soprattutto perché esiste un’alternativa migliore, il successo del Pd in entrambe le Camere. Poniamoci infatti, spogliandoci della nostra parzialità, dal punto di vista di un elettore incerto, a priori non classificabile in nessuno dei due grandi partiti e supponiamo che sia un elettore ben informato, che sa che occorre un Governo politico forte, capace coi propri consensi di affrontare gravi problemi, ma che nel contempo è cosciente che una parte di essi si potranno solo risolvere una volta rinnovate le istituzioni in modo condiviso tra tutti principali soggetti, dai regolamenti parlamentari, alle leggi elettorali, ad alcuni aspetti della Costituzione. Mentre un Governo tecnico avrebbe una scarsa legittimazione per affrontare i problemi ordinari, anche perché sarebbe limitato a un anno, e al massimo riuscirebbe a intervenire sul piano istituzionale, il Governo Veltroni riuscirebbe a fare entrambe le cose.

Avrebbe avuto i voti su un chiaro mandato di legislatura e, non avendo al proprio interno piccoli gruppi con poteri di veto strutturalmente ostili alle riforme che se sono efficaci mirano proprio a smantellare i veti, come è invece accaduto con l’Unione, sarebbe anche in grado di avviare riforme condivise. A sua volta, invece, un nuovo Governo Berlusconi riuscirebbe forse ad attuare parte del suo programma immediato (che per noi, da una posizione di parte, è comunque negativo), ma non certo a promuovere le riforme perché le posizioni estremistiche della Lega su aspetti quali il federalismo fiscale e forse anche la legge elettorale metterebbero un veto interno alla maggioranza o bloccando tutto o riproponendo una forzatura di parte come accadde con quella bocciata nel referendum del 2006.

In altri termini l’elettore incerto, agnostico tra centro-destra e centro-sinistra, se dà un voto coerente per un governo Veltroni dà una spinta risolvere sia la governabilità immediata sia quella futura, se invece fa una delle altre due opzioni risolve forse solo uno dei due problemi. Col voto opposto porta al Governo tecnico che fa forse qualche riforma ma che non ha un programma chiaro sul presente, se vota coerentemente per Berlusconi sceglie un modo di garantire la governabilità immediata ma non si assicura le riforme necessarie per quella futura. Non vale la pena allora con un voto coerente a Veltroni, sia alla Camera sia al Senato, di votare uno e prendere due anziché seguire Sartori che fa votare due e prendere, forse, uno?

Pubblicato il: 11.04.08
Modificato il: 11.04.08 alle ore 15.24   
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