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Autore Discussione: GIANNI VATTIMO  (Letto 18670 volte)
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« inserito:: Luglio 26, 2007, 10:40:25 pm »

26/7/2007 (8:26) - TRENT'ANNI FA IL MOVIMENTO

Nouveaux philosophes dopo Marx, Bush
 
Erano belli, giovani e rampanti. Sono rimasti irrilevanti

GIANNI VATTIMO


Ecco un anniversario - trentennale - di cui pochi si sono ricordati, e che ci viene rammentato da un breve articolo su Le Monde del 23 luglio: trent’anni fa, mese più mese meno, esplodeva in Francia e poi nel resto dell’ecumene occidentale la moda dei nouveaux philosophes. Chi erano, e in certi casi ancora, un po’ stancamente, sono: André Glucksmann, Bernard-Henri Lévy, e poi Alain Finkielkraut, Pascal Bruckner, e (ma molto a parte) Christian Jambet, con altri di cui abbiamo dimenticato nomi e opere.

Una scuola? Bah. Piuttosto un gruppo di giovani studiosi variamente legati al mondo dei media; soprattutto il corifeo principale - ma anche filosoficamente più irrilevante - Bernard-Henri Lévy, era già inserito nell’editoria come redattore della casa editrice Grasset. Altro fondamentale tratto comune era l’aver «fatto» il maggio ‘68, un precedente biografico di cui usavano vantarsi in modo anche esagerato, ma che fu un ingrediente decisivo della loro popolarità. Allora come oggi, infatti, essa si spiega con il loro esser divenuti portavoce di un occidentalismo senza riserve - Glucksmann è stato tra i sostenitori di Sarkozy alle recenti elezioni presidenziali francesi - fondato sulla (giusta) rivendicazione del rispetto dei diritti umani (prima nella Russia staliniana; poi nelle varie regioni del mondo dove essi continuano a essere violati, la Cecenia anzitutto; e oggi il mondo islamico; non risulta che si siano mai occupati di Guantanamo); e anche, un po’ come presso i radicali italiani, sulla convinzione che gli Stati Uniti siano un indiscutibile faro di democrazia e che il loro avamposto mediorientale, Israele, debba essere difeso e approvato qualunque cosa faccia (anche contro gli stessi diritti umani che stanno loro tanto a cuore).

Insomma, più che una nuova filosofia, la ripresa di un pensiero liberale largamente fondato sui principi dell’89, sulle idee dell’illuminismo francese, su un repubblicanesimo che non metteva e non mette in discussione l’appartenenza della Francia all’Occidente centrato sugli Stati Uniti e, oggi, la lotta al «terrorismo internazionale». Di recente, Glucksmann ha pubblicato un pamphlet in cui si schiera contro il «nichilismo», e cioè l’odio per la vita, di chiunque non sia allineato con i «buoni» come li pensano Bush e Rumsfeld: di modo che i kamikaze palestinesi o iracheni che si fanno saltare in aria, presumibilmente per mancanza di altre armi efficaci contro i loro invasori, non sono solo dei criminali, ma anche dei nemici del pensiero umano e di ogni possibile convivenza civile.

Del resto, prima delle ultime sparate pseudo-teoriche, Glucksmann era stato anche un partigiano della tesi sulle armi di distruzione di massa in possesso di Saddam Hussein, cioè della bugia su cui Bush e Blair fondarono la loro decisione della guerra se non infinita, certo ancora ben tragicamente in atto.

La filosofia francese più seria - pensiamo a Derrida, a Deleuze, a Lyotard, a Foucault - non ha mai voluto aver niente da spartire con questi intellettuali mediaticamente rampanti e teoricamente vuoti. La loro lotta per i diritti umani, dati gli alleati che fin dall’inizio si è scelti, fa l’impressione di una retorica di pronto impiego e di facile consumo. Dovessimo trovare un parallelo - certo meno filosoficamente motivato, Glucksmann più degli altri ha le carte in regole anche come studioso di filosofia - diremmo che le loro battaglie sono un po’ come l’anticomunismo anacronistico di Berlusconi, che indubbiamente continua a funzionare, ma che non è il massimo in termini di visione del mondo e di progettualità politica. Semmai, quanto a possibili paralleli italiani, ci domandiamo come mai non si sia ancora completamente saldata una alleanza esplicita tra Glucksmann e Giuliano Ferrara; a meno che non si tratti del fatto che il primo è troppo affezionato al proprio retorico sessantottismo, che Ferrara, da sempre più «istituzionale», non ha mai avuto in simpatia.

Ma perché non discutiamo i contenuti «filosofici» della scuola, o quel che è, invece di abbandonarci a queste considerazioni di polemica spicciola? Semplicemente perché di spiccioli, soltanto, si tratta. Con tutto il rispetto per la indubbia buona fede e passione anche filosofica di alcuni di loro, non troviamo nei vecchi-nuovi filosofi, né alle origini né oggi, alcuna tesi filosofica da discutere. Sono ancora oggi interessanti come esempio di quell’abbandono puramente passionale del marxismo e dell’utopia comunista che ha coinvolto anche tanti intellettuali «liberal» italiani, i quali per lo più si descrivono come ex «estremisti» (maoisti, Potere Operaio, Lotta Continua, ecc.) che a un certo punto sono cambiati perché sono «maturati». Senz’altra spiegazione che questa, riduttivamente «biologica» - nemmeno biografica , che implicherebbe già una qualche forma di motivazione razionale. Come nel caso dei nouveaux philosophes, insomma: un puro fatto «stagionale».

da lastampa.it
« Ultima modifica: Ottobre 28, 2008, 07:43:53 pm da Admin » Registrato
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« Risposta #1 inserito:: Luglio 29, 2007, 06:48:26 pm »

Il caso degli omosessuali fermati a Roma dai carabinieri: oggi «kiss in» di protesta al Colosseo

Vattimo: accanimento sui gay, ma io non bacio in pubblico 


ROMA— «Io in pubblico non ho mai baciato nessuno. Però c’è dell’accanimento nell’andare a stanare le coppie con la torcia».

Gianni Vattimo non è di quelli che si nascondono. Già maoista, poi diessino e comunista italiano, ha liquidato la sinistra come «una porcata» e D’Alema come un politico «da rottamare». Attivista di Azione cattolica, nel tempo ha maturato una decisa propensione a bistrattare tutto quello che odora di incenso e clero. Cresciuto eterosessuale, ha fatto il suo outing pubblico nel ’76 con il Fuori di Angelo Pezzana.

Qualche anno fa ha serenamente dichiarato di avere una relazione con un ventenne cubista, nel senso della discoteca. «Battitore libero del pensiero», Vattimo ha il dono dell’anticonformismo e della sincerità, talvolta ai limiti del brutale. È uno, per dire, che si autodefinisce «frocio» e non omosessuale. E per il quale «non basta essere gay per essere intelligenti».

E dunque, professore, ha visto? Gay che si baciano e carabinieri che li portano via come delinquenti. La solita Italia omofoba?
«Le versioni contrastano. Si parla di bacio o di altro. Ame è venuto in mente Clinton: lui sosteneva che il sesso orale non è vero sesso».

Lei crede ai ragazzi o ai carabinieri?
«È tutto molto ambiguo. Certo, se tra i due giovani era in corso un rapporto orale in mezzo alla strada, forse non va proprio bene».

Però?
«C’è qualcosa che non quadra. Le cronache dicono che sono stati illuminati dai fari. Quindi erano al buio, non visibili».

Al buio tutto è lecito?
«Non si può ovviamente rivendicare il diritto di fare sesso sulla pubblica via, ma il concetto di osceno prevede che qualcuno guardi o possa guardare».

E non è il caso?
«Mi pare che ci sia dell’accanimento nell’andare a stanare la gente con le pile. Che male c’è a stoccacciarsi un po’ al buio? Sa quante cose si vedrebbero nelle camere da letto se si aprissero le finestre e si inquadrassero le persone con le torce?»

Però quei due erano in luogo pubblico.
«L’altro giorno sono passato da via Salaria. C’era una signorina, chinata, che offriva il suo sedere nudo ai passanti. Probabilmente lo fa tutte le sere assieme alle colleghe. E non mi pare che intervenga qualcuno. Il concetto di osceno va e viene».

Se fosse stata una coppia etero si sarebbe chiuso un occhio?
«Credo proprio di sì, c’è più indulgenza con gli etero. Detto questo, forse i due addolciscono la cosa e sono andati un po’ oltre. Mala reazione dei carabinieri mi pare eccessiva».

È il frutto di una cultura omofoba?
«Si sa qual è il modo di pensare delle forze dell’ordine. Basta andarsi a rileggere le cronache del G8 diGenova. E guardi che mio padre era un agente. In America sfilano i poliziotti gay. Se l’immagina da noi?».

Ha mai avuto problemi con le forze dell’ordine?
«Quarant’anni fa, a Torino, al parco del Valentino, noto luogo di dragaggio gay. Una sera ero in auto, era la prima volta e avevo un po’ paura. Ho visto un ragazzino, credo un marchettaro, maltrattato dalla polizia. Ho sentito il dovere cristiano di soccorrerlo — guardi un po’ dove si nasconde a volte il dovere cristiano—e sono intervenuto. Mi hanno identificato e mi hanno rimproverato: ma come, anche lei, professore... Però non stavo facendo nulla».

C’è ancora omofobia in Italia?
«La discriminazione si vede da tante cose. Io mi infurio sempre negli alberghi: non perché ami particolarmente il porno, ma nelle pay tv non ci sono mai film omosessuali. Al limite di lesbiche, per voyeur etero.È una discriminazione che grida vendetta. I gay non si devono vedere. E infatti neanche loro si mostrano».

Invece li si accusa spesso di esibizionismo.
«Non vedo gay che si baciano in pubblico da anni. Sanno che la società non lo consente. È una questione legata anche ai Dico: come non si accetta la istituzionalizzazione di un rapporto gay, così non si accetta la loro visibilità. Per questo c’è il Gay Pride, che io non amo anche per ragioni estetiche. Lì si fa dell’esibizionismo a fini di provocazione politica. Finché ci sarà un prete a scandalizzarsi avrà un senso».

Qualcuno torna a rivendicare il senso del pudore.
«Giusto, io preferisco una società dove non si vede tutto. Del resto non ho mai baciato in pubblico nessuno. Neanche quando credevo di essere eterosessuale ».

Ci sarà oggi al bacio collettivo di protesta?
«Sono all’estero. E comunque dovrei trovare qualcuno che voglia baciarmi».

Il «kiss in» sarà al Colosseo. Giovanardi dice che è scandaloso che accada dove c’è la via Crucis e dove c’erano i martiri cristiani.
«Giovanardi vince il premio Nobel per la trombonaggine. Al Colosseo si fa da sempre, ci andai anch’io molti anni fa, non feci nulla perché mi mancava la materia prima. Temo che vicino a quelle mura si praticasse sesso selvaggio anche allora, al tempo dei martiri».

Alessandro Trocino
29 luglio 2007
 
da corriere.it
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« Risposta #2 inserito:: Aprile 10, 2008, 04:03:28 pm »

L'iniziativa dello storico Losurdo e del filosofo torinese

Vattimo, appello contro i monaci tibetani

«Informazione scorretta: non è altro che la versione aggiornata del piano imperialista inglese contro la Cina»


E se i disordini di Lhasa del 14 marzo non fossero stati altro che «un pogrom anticinese»? Una «caccia all'uomo finita con donne, bambini e vecchi dati alle fiamme?» e se la stampa internazionale «quella europea in particolare» fosse impegnata in «una campagna anti-cinese dai connotati razzisti», degna continuazione del vecchio «piano imperialista contro Pechino e della guerra dell'Oppio?». A pensarlo sono due intellettuali di sinistra: il filosofo torinese del pensiero debole Gianni Vattimo e lo storico dell'Università di Urbino Domenico Losurdo, che sulla Cina moderna ha scritto più di un libro. Nel giorno in cui Gordon Brown annuncia il proprio boicottaggio politico delle cerimonie olimpiche, Losurdo si è incollato alla sua posta elettronica per lanciare un appello agli altri intellettuali italiani affinché si riveda l'interpretazione «troppo squilibrata» a favore dei monaci di quanto sta succedendo in questi mesi pre-olimpici dentro i confini del Tibet. Finora l'unico che ha risposto con interesse alla chiamata da Urbino è stato Gianni Vattimo, che ha dato l'ok alla bozza di Losurdo: «Sì, io firmo».

CACCIA ALL'UOMO - A sostegno della loro tesi, finora del tutto minoritaria, i due professori — Losurdo è considerato vicino all'area dell'Ernesto, la minoranza di Rifondazione comunista, Vattimo, già europarlamentare ds, poi passato al partito dei comunisti italiani di Diliberto è ora approdato al marxismo tout court — portano anche foto, reportage di giornalisti stranieri, testimonianze di turisti che erano a Lhasa in quei giorni e «video della tv cinese, censurati in Italia, ma che — spiega Losurdo — sono facilmente scaricabili da internet»: «La stampa europea e quella italiana in particolare hanno accettato la versione dei monaci, e solo qua e là a spizzichi e bocconi si può leggere qualche informazione corretta sulla selvaggia caccia all'uomo di quei giorni in cui la polizia cinese fu chiamata ad intervenire troppo tardi, quando il più era già avvenuto». Riportare dunque all'ordine del giorno anche la vulgata cinese è la missione che i due intellettuali si sono proposti e per la quale sono al lavoro, limando il testo dell'appello da proporre ai loro colleghi, ma anche ai parlamentari e all'opinione pubblica. Una difesa vera e propria della Cina «dall'attacco occidentale»: «Prima l'indipendenza mascherata da autonomia del Tibet — protesta Losurdo — del Grande Tibet, poi della Mongolia interna e infine della Manciuria: non è altro che la versione aggiornata del piano imperialista inglese contro la Cina».

Gianna Fregonara
10 aprile 2008

da corriere.it
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« Risposta #3 inserito:: Luglio 20, 2008, 08:09:12 am »

19/7/2008
 
Meglio Sabina dei moralisti super partes
 
 
 
GIANNI VATTIMO
 
Ma ci saranno davvero due Italie, come suggerisce Ernesto Galli della Loggia sul Corriere della sera del 13 luglio, oppure ce n’è anche un terza che ci costringe a rifare i nostri conti? Le due Italie diverse che Galli distingue e descrive sono, come si può immaginare, quella che, a torto o a ragione, vota Berlusconi e che se ne sente rappresentata; l’altra è quella degli intellettuali di sinistra con il loro corteo di comici, attori, nani e ballerine, politici trombati e nostalgici del comunismo.

Che, manco a dirlo, si sentono sempre i migliori, diversi da quella massa di persone che si lasciano abbindolare dalla propaganda berlusconesca e perdonano al cavaliere i tratti leggermente (?) furfanteschi che marcano la sua carriera, e che in fondo sono tanto «italiani», tanto espressivi delle nostre più profonde caratteristiche nazionali. I moralisti di sinistra si sono da ultimo espressi, si fa per dire, nel triste spettacolo di Piazza Navona (peraltro così unanimemente condannato; dunque non sono poi tanti...), mostrandosi per quello che sono, presuntuosi, antipatici, e fondamentalmente antidemocratici, perché disprezzano la volontà della maggioranza che oggi sostiene questo governo.

Ma Galli di quale Italia fa parte? Al di là del popolo bue e degli antipatici moralisti di sinistra, che credono di parlare in nome dei veri interessi dei cittadini ma si crogiolano solo nei loro pregiudizi ideologici, non dovremo riconoscere anche una terza categoria, quella che per l’appunto, in nome di una razionalità davvero super partes, giudica e valuta le altre due posizioni e le ammonisce a vincere finalmente i propri difetti? Si badi che non è un problema da poco, anche filosofico.

La democrazia sarà davvero la lotta tra parti e interessi diversi che a un certo punto si accordano per amore di pace e sopravvivenza, oppure dovrà essere sancita da una istanza superiore - Galli della Loggia e affini - che distribuisce colpe e meriti e distingue i «veri» democratici dai democratici spurii? Sembra che qui si finisca ancora una volta nel vicolo cieco della scomunica papale del relativismo, che però non può nascondere le proprie radici autoritarie. Galli, e quelli come lui, ammettono di essere solo interlocutori del (famigerato ormai) «dialogo», oppure si riservano la, moralistica, parte del giudice? Ma se è così, davvero preferiamo Sabina Guzzanti e il suo irresistibile turpiloquio.
 
 
da lastampa.it
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« Risposta #4 inserito:: Agosto 19, 2008, 04:44:01 pm »

19/8/2008
 
La politica messa fuori gioco
 
 
 
 
 
GIANNI VATTIMO
 
Qui non si bestemmia, non si sputa per terra e non si parla di politica». Forse qualcuno dei lettori più anziani ricorda questa scritta appesa alle pareti delle osterie d’Italia durante il ventennio fascista. Non sappiamo se Famiglia Cristiana avesse in mente cose del genere quando ha parlato, di recente, del rischio di ritorno al fascismo che correrebbe la nostra repubblica. Certo, se la scomparsa della politica (non parliamo della bestemmia, poi!) dal dibattito comune è un segno di fascismo ritornante, il giornale cattolico avrebbe le sue ragioni.

Si moltiplicano gli sforzi di dialogo «pacato» tra maggioranza e opposizione, e la cosiddetta «commissione Amato» inventata dal sindaco di Roma per impegnare in una lavoro bipartisan le migliori menti politiche del Paese nella «ricostruzione» di Roma sta già diventando, nella mente di molti, un modello per la politica nazionale.

Chi obietta che questa ansia di mettersi tutti insieme, di «rimboccarsi le maniche» per l’impresa comune di salvare la patria rischia per l’appunto di annegare tutte le differenze, e i diversi legittimi interessi e posizioni ideali, in una marmellata che giova solo ai (al?) detentori del potere viene guardato come un pericoloso guastafeste e infine come un fanatico sovversivo. (Anche questo vocabolo è una chiara marca di fascismo, oppositori non ci sono, solo sovversivi). Eppure non è una caratteristica essenziale della società liberale (Gobetti docet) di essere un luogo di conflitti, sia pur regolati, dalla cui esplicita conciliazione negoziata soltanto deve nascere la politica nazionale?

Non sembra che questo sia il caso delle varie «commissioni Attali» che oggi s’invocano da tutte le parti. Il loro limite, almeno il più evidente, sembra essere quello del voler riciclare a tutti i costi personaggi legati alle maggioranze politiche precedenti, soddisfacendo più che esigenze nazionali il bisogno di «non sparire» che prende tanti di loro (e su cui ha scritto una bella pagina Claudio Magris sul Corriere della sera di qualche giorno fa). Ma ben più grave è l’effetto che tutta questa bipartisanship produce sulla nostra già disastrata opinione pubblica.

Se tutti possono collaborare con tutti, magari in nome di nebulosi progetti di riforme istituzionali (di cui l’elettorato sente un bisogno assai relativo, se solo potesse votare in maniera meno militarizzata per i candidati che preferisce), allora non vale più davvero la pena di discutere e impegnarsi in politica. La casta, anche se fosse più casta e sobria di com’è, finirà per chiudersi sempre di più su se stessa, l’avvicendamento del personale politico assomiglierà sempre di più a una rotazione di amministratori delegati che provengono sempre dallo stesso gruppo ristretto di famiglie, alla faccia degli elettori-piccoli azionisti. Il fascismo, alla fin fine, è stato anche questo.

Stiamo assistendo, fascismo o no, a un gigantesco fenomeno di «neutralizzazione» della politica. Non solo in Italia, a quanto pare, e dunque probabilmente per ragioni non solo legate alle nostre vicende interne. C’entra ovviamente la sempre più netta polarizzazione in atto tra le grandi potenze mondiali; in questo gioco - che ci vede membri dell’Unione Europea, dell’Alleanza Atlantica, del Wto, e di chissà quante altre «reti» internazionali - il peso delle nostre scelte politiche è minimo, e i più realisti tra i nostri politici lo sanno e vi si conformano senza troppi rimorsi.

 
da lastampa.it
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« Risposta #5 inserito:: Agosto 23, 2008, 11:39:16 pm »

23/8/2008
 
Scandalosa università
 
 
 
 
 
GIANNI VATTIMO
 
Sarà, la vicenda del professor Tappero, un segno che l’università (di Torino, nel caso) assume finalmente un volto umano (troppo umano)? Non più le tristi lotte fra cosche accademiche a cui da troppo tempo siamo abituati, ma una franca scelta dettata da una delle passioni più forti dell’uomo come tale? Ti faccio vincere, come ha spiegato la candidata esclusa, se «chini la testa» (alle 12,30, in auto, davanti all’istituto; e non certo per piangere o dormire). Oppure, reazione forse più verosimile: era ora che il Tar intervenisse una buona volta sulle tante porcherie che si consumano nei concorsi universitari di ogni livello. E peccato che si sia mosso solo per ragioni formali, non entrando nel merito delle valutazioni su titoli ed esami, ma comunque sempre avendo sentito odore di scandalo sessuale che motiva quella «grave patologia procedimentale» di cui parla la sentenza di annullamento del concorso.

Chi vive nell’università, purtroppo, non può non riconoscere che questa faccenda è solo una minima parte di ciò che andrebbe perseguito dagli organi (pardon) competenti.

Ma lo sanno i non addetti ai lavori che, secondo i regolamenti più recenti, se un Dipartimento deve bandire un concorso pubblico per ricercatore, definisce i requisiti del soggetto cercato fin nei minimi particolari, ritagliandoli esattamente sul candidato che si vuole far vincere, tanto che nel bando manca solo il nome e cognome? Oppure che decide di limitare il numero dei titoli presentabili (volumi, saggi, ecc.) per non far sfigurare il candidato «destinato» a vincere? E in ogni caso, purché si rispettino le forme - verbali in ordine, firme su ogni pagina, ecc. - le commissioni possono assegnare i punteggi che vogliono, anche contro ogni logica e rispetto dei meriti: articoletti e brevi recensioni valutati come se fossero la Critica della Ragion pura di Kant, per far prevalere il pre-scelto. Certo, le commissioni sono composte da più professori, la loro neutralità dovrebbe essere garantita; ma quel che succede in un concorso condiziona e prepara ciò che accadrà in quelli futuri. Ecco perché, tra l’altro, nessun candidato ingiustamente trattato ricorre mai ai tribunali; il giudizio di merito della commissione è insindacabile; e soprattutto, se metti in piazza le magagne del concorso che ti ha visto sconfitto non avrai mai più la possibilità di partecipare a un altro con qualche speranza di successo. Sembra addirittura che ogni tentativo di migliorare la situazione si risolva in guai peggiori.

Prendete la vicenda degli assegni di ricerca «cofinanziati»; che sono a carico per la metà, per esempio, della Regione o di altri enti pubblici, e per l’altra metà del Dipartimento o di altri enti privati che vogliano partecipare. I Dipartimenti di rado hanno fondi da mettere a disposizione. Bisogna cercare altri enti o privati che paghino. Chi trova questi mecenati? Nelle facoltà umanistiche - dove è difficile che un’impresa decida d’investire soldi - il giovane studioso candidato in pectore si cerca lo sponsor (potrebbe anche essere uno zio che fa un prestito), il quale si propone al Dipartimento che deve indire il pubblico concorso. Anche con tutte le cautele (vedi sopra) nel redigere il bando necessario, può darsi che il concorso lo vinca uno studioso diverso da quello pre-sponsorizzato. Lo sponsor-zio può allora decidere di non versare i soldi promessi, creando una quantità di problemi legali. Volete che una commissione, sia pure neutrale e democraticamente eletta, si esponga a questo esito? Farà vincere il candidato sponsorizzato. Eccetera. Altro che «servizi schifosi» prestati, in auto o anche in Istituto, al boss. La distruzione dell’università pubblica non passa solo, o principalmente, di qui. E non si vede chi riuscirà fermare lo sfascio.
 
 
da lastampa.it
« Ultima modifica: Ottobre 14, 2008, 11:40:04 am da Admin » Registrato
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« Risposta #6 inserito:: Ottobre 13, 2008, 05:01:06 pm »

13/10/2008 (11:57) - FILOSOFI

Vattimo, domani ultima lezione all'Università di Torino
 
Dopo 44 anni di insegnamento si congeda da colleghi e studenti

TORINO


Lezione di congedo del filosofo Gianni Vattimo, che a 72 anni chiude la sua lunga carriera di insegnamento, iniziata 44 anni fa. Vattimo, che si laureò nel 1959, dal 1964 è stato professore all’Università di Torino, dove è stato anche preside della Facoltà di Lettere e Filosofia. Domani, martedì 14 ottobre, presso l’aula magna del Rettorato, in via Po, il teorico del «pensiero debole» terrà l’ultima lezione pubblica davanti a colleghi e studenti, chiudendo così oltre un quarantennio di vita accademica che ha fatto di Vattimo uno dei filosofi italiani di maggior fama internazionale.

Per due ore, Vattimo parlerà sul tema «La verità e l’evento: dal dialogo al conflitto», ripercorrendo la sua elaborazione filosofica e politica, che si è proposta il rinnovamento della società in senso pluralista e libertario pur non disdegnando l’accoglienza di quei valori storici propri della cattolicità tradizionale (soprattutto il senso della «pietas») sintentizzandoli in forza di un pensiero che si pone come debole, in contrapposizione alle distinzioni etiche intransigenti e dogmatiche.

Gianni Vattimo nasce a Torino il 4 gennaio 1936 dove compie anche gran parte della sua formazione culturale. Nel 1959 si laurea in filosofia con Luigi Pareyson la cui influenza manterrà un ruolo importante nello sviluppo del pensiero di Vattimo. Durante i suoi studi passa periodi all’estero e in particolare a Heidelberg dove si specializza con Karl Loewith e Hans Georg Gadamer, di cui ha introdotto il pensiero in Italia. Dalla metà degli anni Sessanta insegna stabilmente all’università degli studi di Torino e presso numerose università straniere in qualità di visiting professor. Accanto all’attività scientifica Vattimo è stato editorialista per importanti quotidiani italiani come «La Repubblica» e «La Stampa» e negli ultimi anni ha svolto attività politica diventando parlamentare europeo dal 1999 al 2004.

Le opere di Gianni Vattimo sono discusse in Italia e all’estero, in particolare per l’interpretazione originale dell’ontologia ermeneutica che il filosofo torinese ha chiamato pensiero debole. Questa impostazione teorica, che ha le sue radici nello studio di Nietzsche e Heidegger, fa di Vattimo un importante pensatore della postmodernità che suggerisce una concezione non dogmatica della verità con forti implicazioni etico-politiche. Secondo Vattimo infatti il pensiero debole è la chiave per la democratizzazione della società e la diffusione del pluralismo.

Negli anni Cinquanta, insieme a Furio Colombo e Umberto Eco, ha lavorato ai programmi culturali della Rai-Tv, conducendo tra l’altro il programma settimanale politico-informativo «Orizzonte». È membro dei comitati scientifici di varie riviste italiane e straniere; è socio corrispondente dell’Accademia delle Scienze di Torino. Ha diretto la «Rivista di Estetica». Ha ricevuto lauree honoris causa da numerose università del mondo. È Grande ufficiale al merito della Repubblica italiana (1997). Attualmente è vicepresidente dell’Academìa de la Latinidade.

Le opere principali di Gianni Vattimo sono: Il concetto di fare in Aristotele (1961); Essere, storia e linguaggio in Heidegger (1963); Ipotesi su Nietzsche (1967); Poesia e ontologia (1968); Schleiermacher, filosofo dell’interpretazione 1968; Introduzione a Heidegger (1971); Il soggetto e la maschera (1974); Le avventure della differenza (1980); Al di là del soggetto (1981); Il pensiero debole (1983) (scritto con A. Rovatti); La fine della modernità (1985); Introduzione a Nietzsche (1985); La società trasparente (1989); Etica dell’interpretazione (1989); Filosofia al presente (1990); Oltre l’interpretazione (1994); Credere di credere (1996).

da lastampa.it
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« Risposta #7 inserito:: Ottobre 14, 2008, 10:18:50 am »

2008-10-14 09:11

VATTIMO: LA VERITA' E' NEL CONFLITTO, NON NEL DIALOGO

di Barbara Beccaria


TORINO - Oggi sarà l'ultimo giorno dietro la cattedra per il filosofo Gianni Vattimo che terrà la sua ultima lezione nell'Aula Magna del Rettorato dell'Università di Torino dal titolo "La verità e l'evento: dal dialogo al conflitto". Va in pensione, dopo 44 anni di ruolo.

Per l'ateneo torinese, per i suoi studenti e per i ricercatori che si sono formati con lui, ragionando dell'attualità del filosofo tedesco Heidegger, il suo pensatore di riferimento e del "pensiero debole", un concetto coniato da lui ed esportato nel mondo, quello di oggi sarà un addio non indolore. Vattimo é un'icona dell'Università di Torino che lo ha tra l'altro visto tante volte in prima fila nella battaglie più di sinistra, non ultima quella nata intorno alla decisione della Fiera del Libro di Torino dell'anno scorso di invitare ufficialmente Israele. Inutile dirsi che lui si era schierato dalla parte dei palestinesi, non certo contro gli ebrei, ma per dire, come sempre, che i più deboli, i più poveri hanno sempre ragione.

 E che la "ragion di stato", quella che aveva portato, secondo lui, il governo italiano, tramite la Fiera, a festeggiare i 60 anni di Israele, fa ormai sempre più acqua. Un atteggiamento che anima anche il cuore dell' intervento in Aula Magna. "Oggi si parla tanto di dialogo - ha detto Vattimo - un concetto in bocca a tutti i potenti, in realtà nessuno fa niente davvero per cercare di dialogare con l'altro, con il nemico. Anche Bush ha detto di aver attaccato l'Iraq perché voleva il dialogo".

Per Vattimo "bisogna rilanciare il conflitto, in luogo di un dialogo-panacea che non serve a nessuno, bisogna avere il coraggio di stare da una parte, sperando che sia quella giusta. Ed io ora, so di stare dalla parte dei poveri e di chi non ha voce". Ancora una volta Vattimo, passato negli anni scorsi dal Pd al Pdci (poi abbandonato perché "troppo poco di sinistra") si schiera. "La lezione che ho preparato, l'ultima in questo ateneo che ho amato molto - ha aggiunto - sarà così una sorta di nuova Internazionale che finirà con il recupero di Marx. Ma un Marx molto scomodo, genuino, che i politici di oggi faticano a considerare perché troppo 'illuminato'".

L'addio non sarà privo di commozione, anche per un "freddo" come lui: "Brunetta permettendo io ho passato giorni e nottate in questa Università - ha detto - e l'unica cosa che mi sento di dire, è che adesso avrò più tempo per andare in giro per il mondo, nelle università e nei posti dove mi chiamano, per esempio partirò per le Canarie, poi sarò a Baltimora a fine mese". "Sono il classico 'cervello in fuga' - ha ancora scherzato il filosofo - d'altronde in questo paese l'Università pubblica sta morendo. La vogliono trasformare in un'impresa che fa profitti, imitando le università americane che mirano al denaro e non certo al bene collettivo. Anche le loro borse di studio sono un investimento economico perché mirate a quegli studenti capaci di inventare progetti, prodotti vincenti, che fanno fare soldi. Insomma, la cultura, il senso civile di una scuola è un'altra cosa". 


da ansa.it
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« Risposta #8 inserito:: Ottobre 28, 2008, 07:44:24 pm »

Il filosofo auspica che il decreto sia ritirato e invita gli studenti a non mollare

«Il '68 un sogno che potrebbe rinascere»

Vattimo: «Credevo che il mio ateneo fosse una schifezza fino a quando non ho visto ciò che propone la Gelmini»
 

 
TORINO - «È un vero peccato che il '68 non sia continuato, è stato un grande sogno che adesso abbiamo la possibilità di riprendere». Mentre si prepara a tenere una lectio magistralis in Piazza Vittorio, aderendo così all'iniziativa delle lezioni universitarie all'aperto che sono diventate un po' il simbolo della protesta contro la riforma Gelmini, il filosofo torinese Gianni Vattimo ci tiene a dire la sua sulle manifestazioni che in questi giorni agitano il mondo della scuola dell'università. «Credevo che la mia università fosse una schifezza - ha ironizzato Vattimo prima del suo intervento - finchè non ho visto quella che si profila».

«PROVVEDIMENTO CHE FA SPAVENTO» - In particolare il filosofo torinese, docente fino a qualche settimana fa dell'ateneo Subalpino, critica il taglio dei fondi alla ricerca e «la speranza folle di salvare l'università mettendola al servizio delle forze produttive». «Preso nel suo complesso - ha osservato - il provvedimento fa spavento solo a pensarci. Dicono che diciamo solo dei no, ma come si fa a proporre delle modifiche in meglio di qualcosa così terrificante?». Per Vattimo «c'è un atteggiamento nei confronti della scuola e dell'università spaventoso perchè puramente economico». Vattimo auspica quindi che il decreto sia ritirato o modificato e invita gli studenti a non mollare aggiungendo: «Io fondamentalmente vorrei lottare perché questo governo se ne andasse e comunque ritengo che valga veramente la pena di lottare per la scuola che è la base di un vero sviluppo sociale. Il '68 - ha concluso - è un vero peccato che non sia continuato, ora c'è la possibilità che riprenda».


28 ottobre 2008

da corriere.it
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« Risposta #9 inserito:: Dicembre 20, 2008, 12:08:06 pm »

20/12/2008
 
Ma a me Walter piace
 
GIANNI VATTIMO
 

Sarà che lo stare all’opposizione fa bene a una forza politica (contrariamente al vecchio adagio andreottiano); o forse è per la «persecuzione» giudiziaria di cui è vittima in questi ultimi tempi. Fatto sta che ho seguito per gran parte della giornata, grazie a Radio Radicale, il dibattito alla direzione del Pd.

E ho ricavato un’impressione di gran lunga migliore di quanto mi sarei aspettato, ho avuto persino la tentazione di pentirmi di tutto il male che ne pensavo e, in parte, ancora ne penso.

Anzitutto, il livello e la densità del discorso di Veltroni, uno dei migliori che abbia mai fatto dopo il Lingotto, giustamente mirato sia alla situazione del partito sia al quadro politico generale, con indicazioni e proposte (persino qualcosa come il salario di cittadinanza, e una fiscalità più dura per chi supera certi livelli di guadagno) molto lontane dai fumi della «bella politica» e del kennedismo edificante a cui per un po’ ci aveva abituati. E dopo Veltroni, gli interventi che si sono succeduti, per lo più alla stessa altezza. Con la vera e propria commozione che si è avvertita nelle parole della (crediamo giovane) esponente siciliana che ha parlato per prima dopo il segretario: questo partito è come la mia casa, soprattutto non lasciate che si dissolva nelle liti interne o per i colpi degli avversari...

Il mito del partito liquido
E poi Reichlin, che con la lunga esperienza di chi ha attraversato tanti periodi bui della storia italiana ha un po’ riassunto quella che era la consapevolezza diffusa dell’incombente minaccia di possibili (ulteriori) sviluppi autoritari nella situazione del Paese.

Insomma, dopo le tante chiacchiere sulla questione morale (serissima, certo, ma evocata sempre solo per dire che i partiti sono tutti uguali, par criminalis condicio) e le dispute televisive su chi vuole o no il dialogo, un susseguirsi di discorsi che hanno mostrato la sussistenza di una sorta di «zoccolo duro» di esponenti politici che continuano a prendere sul serio la loro attività e che appaiono impegnati nello sforzo di interpretare al meglio le domande del Paese.

L’appello che ci pare di aver sentito di più, e che non va interpretato, crediamo, come una pura e semplice espressione di autoreferenzialità, è quello al rinnovamento della vita del partito. Veltroni ha parlato dei «circoli» (una volta si chiamavano sezioni, attenzione a non adottare troppo la terminologia di Dell’Utri), che dovrebbero funzionare in una meno evanescente vita di periferia, come luogo di formazione di coscienza e competenza politica, capace anche di scoraggiare ed espellere chi cerca solo un’opportunità di carriera e facile guadagno. Niente più mito del partito liquido, e forse questo è l’aspetto più significativo di una certa opposizione a Veltroni e al suo americanismo.

Il pericolo di imitare la destra
Si può sospettare addirittura che l’idea del partito liquido sia stata insufflata nella sinistra da un berlusconismo che intanto si è andato strutturando sempre più rigidamente, lasciando che gli avversari lo imitassero nei suoi tratti più effimeri (e per giunta, con meno soldi da spendere in iniziative pubblicitarie).

A parte la questione della forma-partito, il pericolo di un’«imitazione» della destra, che non abbiamo sentito evocare nel dibattito odierno, è forse quello su cui il Pd dovrebbe riflettere di più, anche per venire a capo della domanda che, soprattutto dopo le elezioni abruzzesi, è diventata decisiva: il partito ha perso voti per colpa di Di Pietro, che avrebbe allontanato da Veltroni gli elettori moderati; oppure ha limitato il peso della sconfitta proprio perché Di Pietro ha fermato una altrimenti inesorabile emorragia di elettori di sinistra? Ma, si risponde, Di Pietro non è di sinistra, dunque sarebbe giusto che il Pd se ne distaccasse nettamente. E però: in nome di che, forse della propria autentica ispirazione di sinistra? Nonostante l’apprezzamento per il discorso di oggi di Veltroni, nutriamo su questo i più fieri dubbi.

da lastampa.it
« Ultima modifica: Gennaio 09, 2009, 01:19:34 pm da Admin » Registrato
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« Risposta #10 inserito:: Gennaio 09, 2009, 01:19:58 pm »

9/1/2009
 
Ancora e sempre Fidel
 
GIANNI VATTIMO
 

Cinquant’anni dalla rivoluzione cubana. La stampa «indipendente» mi ripete che la rivoluzione è fallita, ma io non ci credo. Come molti intellettuali «vintage», anch’io ho attraversato disciplinatamente almeno le prime due fasi della parabola castrista: l’entusiasmo per la rivoluzione vittoriosa, il Che e le canzoni dei barbudos, il progetto di un allargamento del movimento fuori dai confini di Cuba; persino l’accettazione rassegnata della caduta dell’isola nella sfera d’influenza sovietica - perché non si poteva fare altro. Poi, certo anche a partire dalla dipendenza verso Mosca, la crescente delusione per le promesse non mantenute: povertà, limitazioni severe delle libertà politiche e civili; con le storie di persecuzione di scrittori e intellettuali gay, che mi vengono ancora puntualmente rinfacciate con sempre meno verosimiglianza. Oggi, a quanto pare, non «si può» decentemente professarsi castrista nel mondo della cultura predominante; è quasi una caduta grave come dubitare del diritto di Israele di affamare e poi bombardare Gaza, o porre troppe domande sull’11 settembre...

Io mi trovo però nella (minoritaria) condizione di un intellettuale italiano che non ha solo percorso le prime due fasi della parabola dell’immagine del castrismo, ma che ne ha vissuto di recente una terza, che si potrebbe chiamare la sintesi dialettica delle prime due. Sono stato a Cuba, ho potuto incontrare faccia a faccia Fidel, non più solo per speculum et in aenigmate (ho raccontato l’incontro su questo giornale nell’aprile 2003, non senza suscitare un fiera, e per me molto onorevole, reazione del Miami Herald). Ma soprattutto ho visto molti cubani, certo non oppositori del regime ma nemmeno privilegiati o personaggi ufficiali. Gente che crede ancora nella rivoluzione, e sopporta i tanti disagi quotidiani, anzitutto perché ricorda, personalmente o per memorie ricevute, che cos’era Cuba ai tempi di Batista; ed è convinta che le difficoltà economiche dipendono dal fatto che l’isola è in guerra ed è soggetta a un permanente assedio statunitense (oltre che alle minacce degli attentati). Di recente, poi, è nata nei cubani una nuova fierezza: la resistenza di Castro al gigante nordamericano è diventata fonte d’ispirazione per le tante trasformazioni politiche che hanno cominciato a fiorire nel resto dell’America Latina. E, a proposito di benessere: Michael Moore ha mostrato e documentato che un cittadino cubano può contare su un’assistenza medica gratuita di un livello che negli Usa è riservato solo a un piccolo gruppo di ricchi.

Ma, si dice sempre: la libertà, i gay in carcere, la stampa di regime, gli scaffali dei supermercati vuoti? Sui gay, almeno, la signora Mariela Castro, figlia di Raul, che dirige un modernissimo istituto di sessuologia, spiega che le ondate omofobiche, analoghe a quelle contro cui si rivoltarono i gay di New York con la battaglia dello Stonewall (ed era New York; ma la provincia americana, cioè tutto il resto degli Usa?) dipesero nei primi tempi della rivoluzione dalle «democratiche» decisioni dei capi locali del partito castrista, omofobi più o meno come tutta la società cubana e degli altri Paesi latino-americani (oggi peraltro molto più avanti di noi italo-vaticani). E più tardi dalla stretta securitaria e dal clima di guerra.

La rivoluzione castrista, nel quadro della nuova America Latina che si è delineato negli ultimi anni - anche, ma non solo, per merito di Chavez e del suo petrolio - non è affatto una (altra) speranza fallita, a dimostrazione che ha sempre ancora ragione il nostro «democratico» capitalismo. Semmai, certo, mostra che nel mondo tardo-moderno la rivoluzione in un solo Paese, che non sia un intero continente o quasi, come la Cina, non ha probabilità di successo: non potremmo mai pensare nemmeno a una rivoluzione classica, come quella francese, nel mondo odierno delle multinazionali, economiche o politiche che siano. Ma quando parliamo di America Latina (e non di Europa, ahimè) è proprio un continente quello a cui pensiamo.
 
da lastampa.it
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« Risposta #11 inserito:: Febbraio 11, 2009, 02:19:26 pm »

11/2/2009
 
Il potere che spegne la carità
 
GIANNI VATTIMO
 

Ma chi ha esercitato un po’ di carità cristiana nei confronti di Eluana Englaro? I fedeli che si riunivano nelle chiese e nelle piazze per scongiurare l’«assassinio», o il padre che, sostenuto da precise pronunce giudiziarie, voleva aiutarla a interrompere la sofferenza inutile della quale era prigioniera? È vero, non c’era un documento scritto di suo pugno in cui lei esprimesse il desiderio d’esser lasciata morire. Anche perché in Italia di testamento biologico non si è mai potuto discutere davvero, per responsabilità precipua di quella Chiesa che diceva di voler difendere la sua vita. Ma in mancanza del documento, i tutori «naturali», la famiglia, meritavano d’essere ascoltati. Non avevano certo nessun interesse a lasciarla morire, a meno che non si consideri interesse il desiderio di non vederla più soffrire e di non lasciarla ridursi a una larva. (E a meno di condividere l’osceno sospetto che il padre volesse liberarsi di un ingombrante fardello). Perché tenerla in vita a tutti i costi? Il diritto alla vita non può essere puramente diritto alla sopravvivenza biologica: respiro, processi digestivi, funzioni vegetative. Scienza e coscienza dei medici che la seguivano da 17 anni concordavano che non ci fosse speranza di recupero, dunque sopravvivere non poteva avere il senso di attesa di una guarigione. Non è comunque vita vegetativa quella di cui parla la tradizione cristiana o anche il buon senso umano. Propter vitam vivendi perdere causas? Pur di sopravvivere, rinunciare alle ragioni stesse della vita? I martiri cristiani accettavano la morte per non rinnegare la fede. Peccavano contro la vita? E i grandi suicidi della tradizione classica che preferivano la morte alla schiavitù sarebbero da condannare? Anche chi crede che la vita sia «un dono di Dio» non può non pensare che si tratta di accettarlo e gestirlo in piena libertà.

Ma se Eluana avesse scritto quel testamento biologico che ancora non esiste nelle nostre leggi, avremmo potuto da cristiani rispettare la sua scelta? Per quel che si è visto in questi giorni, la Chiesa non ammetterebbe mai che qualcuno possa chiedere d’esser lasciato morire, con la sospensione di cibo e idratazione - che, si è scoperto adesso in Vaticano e dintorni, non sono terapie (che il paziente può rifiutare), ma forme di assistenza elementare alla vita. Sono in gioco valori «indisponibili», questioni di principio. Proprio quelle che hanno preteso di legittimare, nei secoli, i tanti delitti ecclesiastici contro la carità: i roghi di streghe, eretici, liberi pensatori. Davvero non si può ammettere che una persona decida se la propria vita è ancora degna di essere vissuta o no? Se si pone questa semplice domanda, si vede come dietro la questione di principio (la vita è un bene indisponibile) si nasconda una pura questione di potere, e specificamente di potere ecclesiastico: nessuno di noi è in grado di conoscere il proprio «vero» bene, solo la Chiesa lo può. E il potere, la storia insegna, si conserva con la forza e il timore. Non è affatto inverosimile che la Chiesa, consapevole di non dominare più le coscienze con il timore dell’Inferno anticipa quelle pene al momento del morire. Oggi che la scienza-tecnica può prolungare la sopravvivenza vegetativa all’infinito, temiamo molto più dell’Inferno l’essere tenuti in vita in uno stato larvale, magari anche con dolore e sofferenza, almeno psicologica (il dolore è sempre «redentivo», e «nessuna lacrima va perduta», dice il Papa). È su questo terrore che la Chiesa non vuole perdere il suo dominio. Anche quelli fra noi che, come me, sono convinti della necessità dell’esistenza della Chiesa per trasmettere il Vangelo, non si sentono più di accettare per questo lo scandalo delle questioni di principio invocate per puro scopo di potere. Forse è vero che «se vuol distruggere qualcuno, Dio prima lo fa impazzire»? Cercare d’esser caritatevoli con Eluana e con tutti quelli che vogliono poter decidere sulla propria vita è anche un modo di aiutare la Chiesa a non distruggersi per delirio di onnipotenza.
 
da lastampa.it
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« Risposta #12 inserito:: Marzo 10, 2009, 09:32:44 am »

10/3/2009
 
Due popoli e un piano Marshall
 
 
GIANNI VATTIMO
 
L’idea di un piano Marshall per la ricostruzione di Gaza, a cui anche l’Italia si è impegnata a contribuire con una somma non indifferente, è da salutare con estremo favore. A Gaza manca tutto, dopo l’operazione «Piombo fuso» con cui l’esercito israeliano ha prodotto i danni che tutti conosciamo attraverso impressionanti documentari. Che comprendono anche indizi piuttosto pesanti sull’uso da parte israeliana di bombe al fosforo, vietate dalle convenzioni internazionali. E non si tratta solo di ricostruire ciò che prima c’era, giacché già da mesi la Striscia di Gaza era diventata una prigione a cielo aperto dove, anche senza i bombardamenti, si moriva di morte «naturale» per la mancanza dei beni di prima necessità. Molti osservatori fuori di Israele hanno stigmatizzato per lo meno l’eccesso di legittima difesa da parte dello Stato ebraico; senza contestare il suo diritto di reagire al continuo lancio di missili sulle città al confine (missili che peraltro hanno fatto un numero di vittime assai limitato), è parso a molti, anche amici di Israele, che la rappresaglia superasse ogni limite accettabile. E sebbene durante i bombardamenti il ministro Tzipi Livni avesse negato che a Gaza ci fosse una situazione di emergenza umanitaria, oggi gli Stati «donatori» hanno riconosciuto che una tale emergenza esiste, e vi hanno risposto con l’idea benemerita del piano Marshall. Che hanno legato in qualche modo alla condizione di un rapido ristabilimento della pace nella zona. Una pace da costruire attraverso negoziati. Negoziati tra chi? Al tavolo delle trattative dovrebbero sedere, oltre forse al rappresentante piuttosto umbratile ed evanescente del famoso «quartetto», Tony Blair, i rappresentanti di Egitto, Israele e Autorità nazionale palestinese. Non però Hamas, che è il governo democraticamente eletto dai cittadini di Gaza. Se le cose andranno così, è difficile che il piano Marshall produca quegli effetti di pace che i «donatori» giustamente si propongono.

Quello che accadrà sarà solo la ripetizione di uno scenario già visto: Israele, in nome del diritto all’autodifesa, distrugge case e infrastrutture dove vivono i «terroristi» palestinesi; Unione Europea, Stati Uniti e altri donatori intervengono per finanziare la ricostruzione. Fino a quando? Non solo a Israele non si chiede di partecipare alla riparazione dei danni. Lo si mette anche in posizione di condizionare l’uso delle risorse donate per la ricostruzione - merci e materiali dovranno passare per i valichi su cui vigilano Egitto e Israele -; e senza trattare con Hamas, solo governo legittimo di Gaza, che Israele non vuol riconoscere perché lo considera fatto di terroristi.

Ci sentiamo ripetere che finalmente con la presidenza Obama si faranno passi avanti verso la soluzione dei «due popoli due Stati» e dunque che i soldi del piano Marshall saranno finalmente ben spesi. Ma come si può credere ancora a questa «soluzione», se la logica in cui si muove è del tutto coloniale? Si riuniscono al Cairo i soggetti interessati, salvo proprio quello con cui si dovrebbe trattare per arrivare alla pacificazione. Non è questione di riconoscere dei diritti (quelli di Hamas, nel caso), ma di domandarsi se un tale modo di procedere avrà gli effetti sperati. A giudicare da come le cose sono andate fino a oggi, pare proprio di no. I due Stati che si costituissero con questo metodo finirebbero per essere in perenne guerra tra di loro, che avrebbero bisogno di una presenza internazionale di interposizione fino alla fine dei secoli. L’unico vantaggio sarebbe forse che i combattenti palestinesi potrebbero finalmente avere una divisa, e non più considerarsi terroristi, come è stato finora in mancanza di uno Stato. Ma non sarebbe certo un grande guadagno. Almeno, non è per questo che possiamo sentirci impegnati a partecipare al piano Marshall per Gaza, pur augurandoci, contro ogni verosimiglianza, che abbia successo.
 
da lastampa.it
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« Risposta #13 inserito:: Marzo 30, 2009, 09:30:38 am »

30/3/2009 (8:32) - COLLOQUIO

Vattimo: viva i giustizialisti Corro con Tonino Di Pietro
 
Gianni Vattimo ha accettato la proposta di Di Pietro
 
"A destra moralmente repellenti, il Pd è una P-Dc". Il filosofo candidato Idv alle europee


JACOPO IACOBONI


Gianni Vattimo, il filosofo italiano più conosciuto nel mondo, «orgogliosamente comunista», si candida alle europee. Ma con Antonio Di Pietro. L’evento lo mette di buon umore, il professore sorride. È seduto nel salotto della sua casa torinese e sta leggendo La Stampa, la pagina a fumetti dedicata nella sezione culturale alla Tav. «Sì, ci siamo visti con Di Pietro, ci starò. Bisogna solo definire se corro nel nord ovest o anche altrove. Sa, mi candido ma mi piacerebbe anche essere eletto...». La notizia si fa pretesto, si discute del momento attuale dell’Italia, del giustizialismo, dell’età berlusconiana, della destra, della fine della sinistra, della laicità perduta. Su ognuno di questi titoli Vattimo articola riflessioni che sicuramente non possono essere tacciate di scarsa franchezza. «Diranno che vado con i giustizialisti? Ma questo è il loro lato buono! L’Italia dei Valori è l’unica opposizione verosimile che esiste oggi. Sì, io resto comunista, ho tantissimi amici nelle formazioni che si dicono comuniste, ma questa legge del quattro per cento li costringe ad alleanze innaturali, forse comunque infruttuose. Rischio di essere l’ultimo comunista al Parlamento europeo».

Come si sia arrivati a tanto, lo spiega con un insieme di osservazioni. La prima è che Tonino se l’è andato a cercare. Con piglio abbastanza spregiudicato. Tra il raffinato intellettuale e il contadino in trattore e canottiera pare esser nato un feeling che può esser narrato sotto il sempiterno titolo: intellettuali e popolo. «Poi vede, lui si dice analfabeta ma non è affatto così bestia come dicono. E avevo già deciso di votarlo. Tra l’altro, in alcune formazioni che avrei potuto votare, per esempio quella di Claudio Fava, corrono uomini come Bobo Craxi...». Tra l’inventore del pensiero debole e il patrono della sintassi debole, en passant alfiere del giustizialismo, si potrebbe immaginare un qualche fossato, perlomeno nei riferimenti culturali. Ma non è detto. «Io su moltissime cose sono d’accordo con Di Pietro, per esempio è l’unico a coltivare un antiberlusconismo adamantino. Anche il cosiddetto carattere giustizialista del suo partito, in un Paese in cui il premier ha tutti i tratti dell’incompatibilità - altrove sarebbe stato persino ineleggibile - mi pare un pregio». Ci sarebbe l’ostacolo del populismo, cosa c’entra tutto questo con un comunista? «Questo rilievo lo posso anche capire, Vattimo va con l’antipolitica. Però nello stesso tempo ci è stato detto per anni che, per combattere Berlusconi, occorreva condividerne qualcuno dei tratti, o no? La verità sa qual è? Che io ho una posizione da Cln, anche nel Cln si erano messi insieme comunisti, liberali, democristiani perché avevano un compito comune: battere un fascismo; con tutte le ovvie differenze tra il fascismo e la situazione di oggi».

Sul principale partito di opposizione inutile far conto, ragiona il filosofo. «Il Pd è il realtà il Pdc, una democrazia cristiana peggiore, nessuna concorrenza con il centrodestra su leggi come il testamento biologico, totale accettazione delle pretese della Chiesa». Anche il suo compagno di studi di gioventù Umberto Eco, che il loro comune amico Edoardo Sanguineti da ragazzo sfotteva col soprannome di «cardinale», mostra sempre più insofferenza per la scarsa laicità dei democratici? «Io non parlo da un po’ di queste cose con Eco, credo che lui sia ormai un ex cattolico, anche se ha scritto un libro col cardinal Martini, e se oggi è diventato anticlericale fa solo quello che deve. Io no, sono da sempre un cristiano antipapista! Rimpiango quasi che non ci siano stati i cosacchi a San Pietro, adesso è tardi». E sulla Chiesa avrebbe una ricetta severa: «L’unico modo per salvarla sarebbe sovvertirne le attuali gerarchie. Il Papa sul preservativo ha detto delle baggianate, come posso riconoscerne poi la vocazione al dialogo? Il discorso teologico sulle leggi naturali è fatto solo per imporre quelle leggi a chi non crede». La conversazione transita sugli ultimi, inattesi baluardi di laicità. Sul Fini elogiato da Eugenio Scalfari. Vattimo osserva: «Non avrei mai pensato che Fini fosse l’ultima speranza per la sinistra. Io questo congresso del Pdl l’avevo considerato una pagliacciata, probabilmente sbagliando. Mi vergogno un po’ a dirlo, ma quando vedo uomini come Gasparri mi chiedo se appartengano all’umano, anche se so che è sbagliato, poco caritatevole e poco democratico. Però non voglio rinunciare - perciò ho scelto Di Pietro - alla differenza morale tra destra e sinistra, tra quelli di qua e quelli di là, che continuo a trovare moralmente repellenti». Ci sarebbe il problema che, è considerazione diffusa a sinistra, Di Pietro è di destra. «Ma sa, la destra fascista non esiste più; magari esistono picchiatori di destra, ma ce ne sono anche nell’estrema sinistra. Quanto alla destra conservatrice, onesta, lei l’ha sentita, al congresso del Pdl? Io no. Non ho ascoltato alcun discorso onesto, per esempio, sulla crisi. L’unico che ne ha parlato, ed è infatti il migliore tra loro, è stato Giulio Tremonti, però che vuole, poi anche lui è un amico delle banche...»

da lastampa.it
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« Risposta #14 inserito:: Maggio 17, 2009, 12:11:46 am »

16/5/2009

La verità come arma
   
GIANNI VATTIMO


Ciò che ha scandalizzò gli elettori americani nell’affare Lewinski-Clinton, e prima, quel che provocò le dimissioni di Nixon per il Watergate non furono tanto le malefatte di cui i due presidenti si erano resi colpevoli. Clinton aveva tenuto una condotta «inappropriata» con la stagista (allora non si chiamavano ancora veline), ma erano fatti suoi e della sua signora; Nixon aveva «spiato» il quartier generale degli avversari democratici, ma non sembra fossero stati rubati segreti tanto decisivi per la vittoria dell’uno o dell’altro candidato.

No, quel che costituiva una macchia intollerabile per l’immagine dei due presidenti era che avessero mentito ai concittadini. Merita di ricordarlo oggi, in Italia ma non solo, quando sembra che la sopravvivenza di un governo dipenda dal fatto che il suo massimo esponete si sia reso colpevole o no di comportamenti «inappropriati» nei confronti di una minorenne o appena maggiorenne. Se di questo si trattasse, avrebbero ragione coloro che si rifiutano di scendere a un così basso livello della polemica politica.

Ciarpame, come è stato definito il tutto, non è solo il tema delle passioni private d’un esponente governativo, ma il fatto stesso di interessarsene, violando il limite della privacy e della decenza. Non possiamo però considerare inessenziale, e parte dello stesso ciarpame, stabilire se le notizie che abbiamo della vicenda siano esatte o manipolate nell’interesse d’una delle parti in causa. Sapere se un’alta autorità governativa ha frequentazioni non conformi alla morale dei più è assai meno importante che stabilire se ci menta o no. Non è questione da lasciare alla privacy, diventa un fatto di enorme rilevanza politica.

Ma, osserverà qualche mente politica molto europea e disincantata, solo un pubblico ingenuo e di tradizioni puritane come quello americano può pensare che i politici (e i detentori di potere economico o spirituale) non debbano mentire. Andiamo, persino Kant pensava che fosse legittimo mentire in nome di una causa superiore: per salvare lo Stato, la pace, l’ordine sociale. Davvero la verità è un valore così assoluto da diventare il criterio per la stessa legittimità delle istituzioni? Nella Morte a Venezia di Mann le autorità tengono nascosta la gravità dell’epidemia che fa strage per evitare la fuga dei villeggianti e la rovina del turismo.

Tutti accettiamo come una triste necessità l’esigenza di non creare panico, e danni maggiori, in caso d’imminenti catastrofi naturali che non abbiamo il potere di evitare. La famosa distinzione di Max Weber tra etica della convinzione e etica della responsabilità vale anche in casi come questi. Paradossalmente, può essere un affare di convinzione morale personale il dovere di dire in ogni caso la verità; ma è altrettanto legittima una convinzione morale che antepone il bene comune al dovere di dire il vero. Però, anche per un convinto assertore di quest’ultima posizione, e tanto più in quanto si preoccupa del bene comune, diventa un dovere prevalente quello di dire il vero se la legge dello Stato glielo impone.

Ha poco senso, dunque, rimproverare a qualcuno di mentire, come se il dovere di dire la verità fosse un dovere assoluto precedente ogni legge positiva. Solo se viola qualche legge sancita e perciò necessariamente condivisa dai membri della comunità (l’ignoranza della legge non è ammessa) la menzogna esce dalla sfera della «convinzione» e entra in quella della «responsabilità», anche giudiziaria. Non valore naturale assoluto, la verità è piuttosto un’arma. Persino per il Vangelo: «La verità vi farà liberi».

Ma appunto quella che serve a chi non è libero per diventarlo. Mostrare (veracemente?) che il potente è un bugiardo è un modo di prendere sul serio la verità molto più che andare tra gli scioperanti a insegnare la tavola pitagorica o le leggi di Newton. Senza questa consapevolezza, davvero solo ciarpame.

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