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Autore Discussione: Wlodek Goldkorn. Colloquio con David Grossman  (Letto 3040 volte)
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« inserito:: Dicembre 23, 2008, 06:36:48 pm »

All'Inferno con Benigni

di Wlodek Goldkorn


Gli intercettati e i corrotti. Gli ignavi e i bigotti. Il grande comico toscano racconta i gironi danteschi dell'Italia di oggi. Parla della volgarità e della speranza. E spiega perché Silvio Berlusconi ci fa ridere  Faccio una premessa, anzi un preambolo, bella la parola preambolo, c'ha un bel suono. Sono anni che non faccio un'intervista a 'L'espresso', e siccome sono emozionato, propongo di rovesciare le parti. Intervisto io 'L'espresso', e chissà cosa mi raconterebbe 'L'espresso'...

Le raconterebbe l'Italia di oggi, signor Benigni, come fa ogni settimana. Torniamo quindi all'ordine stabilito. Il pretesto per questa intervista è 'Tutto Dante', una serie di dvd tratti dallo spettacolo con cui ha riempito le piazze d'Italia. E allora provi a immaginarsi: Dante risorge oggi.
"Dante non risorge perché anche nella tomba è vivissimo. Anzi, per alcuni è già troppo vivo anche da morto".

E lei lo porta in giro per il mondo.
"Infatti torno dall'estero. Ho fatto uno spettacolo al Palazzo del ghiaccio di Lugano. Tutti con peliccia, sciarpa, berretto. E io con un vestitino estivo. Sembrava l'immagine del lago di Cocito dell'Inferno dantesco. Assomigliavo a uno di quei personaggi della 'Commedia' che hanno commesso peccati tremendi: superbia o tradimento, e che per la pena di contrapasso stanno immersi nel ghiaccio, con il viso rivolto in su. E come per la pena di contrapasso, mi sono ammalato. Mi ha impressionato, non solo a Lugano, anche in altre città, l'entusiasmo degli italiani all'estero. Partivo dicendo: 'In Italia ho un vantaggio: appena dico il nome di Berlusconi, tutti ridono'. Ma già a metà del nome, ecco che a Lugano o in Germania partiva un fragoroso applauso e una risata".

È una maschera della commedia dell'arte, Silvio Berlusconi?
"Di più. Non è una maschera, è la maschera. È spettacolare. Esonda, come si usa ora dire del Tevere. È piovuto troppo Berlusconi nel mondo, e ora sta esondando. Basta dire: 'Berl', e scoppia una incontenibile risata. Io, poveretto dico: 'Perché Dio', e niente. Dico invece 'Berlusconi', ed ecco che va giù la sala. Perché Berlusconi promette. È un nome che promette di divertirci. Con lui tutto finisce in una gran risata. Ho visto che all'estero ridono di più che in Italia. Le cose che arrivano indirettamente sono più belle. Berlusconi gioca di rinterzo".

Parliamo della sua comicità. Lei non porta maschera. Si presenta con la sua nuda faccia. In 'La vita è bella', il film che le è valso l'Oscar, lei è Benigni, non un ebreo. E il lager non è Auschwitz...
"Per ogni comico lo stile è il suo corpo, e il modo con cui si muove, il suo sguardo. Per esempio, questa scemenza che ho appena detto, se mi si potesse vedere, sarebbe un po' più bella".

L'Italia piace al mondo?
"Così come il nostro imperialismo militare del Ventennio è stato il più goffo e ridicolo del mondo, il nostro imperialismo culturale è stato il più lucente di tutti i tempi, e ancora brilla. Nel mondo occidentale tutto ciò che è moderno è stato inventato dagli italiani. Dai bottoni all'architettura, dal bacio alla finanza, dai pantaloni alla musica. Gli ordini angelici e il purgatorio: tutta roba italiana".

Lei ama sottolineare le sue radici...
"Contadine. I miei genitori erano parte della terra, la amavano e la lavoravano. Erano due zolle. E io ne vado orgoglioso".

I ricchi considerano i poveri volgari.
"È questa una considerazione volgare. Cristo ha dato un nome ai poveri: il suo".

È in grado di definire la volgarità?
"Volgarità è andare a toccare e stuzzicare le nostre parti più basse per ottenere un facile consenso, un immediato guadagno, un'indebita popolarità. A volte si cede. Basta un momento di debolezza. Chissà se anch'io non ci sono caduto qualche volta".

La tv è volgare?
"A volte le cose sono così plateali che spero che si arrivi all'assuefazione".

Naturalmente non fa i nomi...
"Farli sarebbe volgare davvero".

E allora torniamo al sublime. Dante parla di corpi, di escrementi, di sangue. Oggi è possibile farlo con altrettanta eleganza?
"Dante sente odori, umori, inciampa nei corpi. Usa parole come merda o puttana, perché è convinto che tutto è degno di essere salvato. La poesia può essere fatta con qualsiasi parola. La poesia è corpo, ritmo, finzione, passione. Ogni parola nella 'Commedia' corrisponde a un'emozione. Ed è una lezione di libertà".

Perché?
"Quando siamo in preda alle passioni, siamo liberi, perché nessuno ci può controllare. Dante muore nel primo cerchio perché altrimenti sarebbe rimasto lì, tra i lussoriosi, i due avvinghiati per l'eternità. L'inferno si ferma davanti alle passioni, omaggia l'amore terrestre".

Cosa è successo allora alla lingua italiana? A sentire le intercettazioni ci sono poche passioni e molta volgarità. Nel suo spettacolo c'è un pezzo molto applaudito...
"'Aho, Qui ce ne sono due che vonno fare la televisione, ma non sanno fare un cazzo. Che je fammo fa'? Ma so' bone? Ammazza: una sorca, una fregna. Allora io mi scopo la sorca tu ti scopi la fregna. Je fammo fare un reality, Un due tre sorca, l'Isola della fregna'. Questo dialogo è un capolavoro, un vero girone infernale degli intercettati. Neanche Dante saprebbe scrivere un dialogo così".

Berlusconi in quale girone lo metterebbe?
"Un girone ad personam. Fatto con una legge solo per lui. Confesso, tempo fa volevo fare uno spettacolo in cui Dante mi avrebbe guidato all'inferno. A pensarci bene, a Berlusconi potrei fargli fare il giro di tutti quanti: dei lussuriosi, dei barattieri, dei simoniaci, dei bugiardoni, dei bischeroni. Sta bene dappertutto. È un protagonista".

Perché non ha fatto quello spettacolo?
"Perché sarebbe cabaret. Preferisco la 'Commedia'".

Nel girone degli ignavi chi metterebbe?
"Quel girone sarebbe pieno. L'ignavia è il più grave dei peccati. Gli ignavi sono rifiutati perfino dal demonio. Satana non li vuole perché i dannati, gli assassini direbbero 'io sono meglio di loro'. Quando vediamo gli orrori alla tv, il vero orrore è la nostra indolenza".

Molti politici italiani peccano di ignavia. Anche quelli di sinistra.
"Certo. Ignavi sono anche coloro che salgono sul carro del vincitore, quelli che aspettano di agire per vedere come vanno le cose. Essere ignavi vuole dire vivere senza Dio, perché una volta scelta la strada dell'ignavia, il Dio che è dentro ciascuno di noi non ci guarderà mai più negli occhi. La pena del contrapasso per gli ignavi non a caso è seguire nudi un vessillo stracciato ed essere pungolati dalla mosche. Perché nella vita, loro non sono stati pungolati da niente. Non hanno vissuto".

Lei spesso dissacra il potere.
"Una volta era facile. Oggi s'è dissacrato da solo. Un comico serio deve proteggere i cittadini da chi li governa. È il suo lavoro".

E quando prese Enrico Berlinguer in braccio?
"Volevo sentire il suo corpo. L'ho visto fragile. Volevo far vedere la sua leggerezza in una maniera fisica. Eravamo abituati che il segretario del Partito comunista fosse un padre. Io l'ho voluto ricondurre alla condizione di un bambino".

Oggi i capi dei partiti come sono?
"È cambiato tutto. Si è persa una parte, ma si è guadagnato da un'altra. Le nuove generazioni sono meglio. I giovani sono più belli, più colti, più sensibili".

In giro si sente nostalgia di Berlinguer.
"Quando pensiamo al passato, cancelliamo le parti brutte e teniamo in mente solo quelle belle. Ma è un errore. Bisogna guardare in avanti. Dobbiamo vedere il bello di fronte a noi. Altrimenti che vita sarebbe?".

Walter Veltroni è meglio di Berlinguer?
"Berlinguer andava bene. Adesso c'è Veltroni e va bene Veltroni. Non si può mica rifare Berlinguer. E come se io volessi rifare Chaplin".

Perché in Italia spesso i comici fanno i politici e i politici i comici?
"Qui entriamo nella distinzione tra comicità e satira. La satira è mirata. È ad personam. Io preferisco la comicità che parla a tutti e prende di mira tutti".

Lei soffre per lo stato della libertà in Italia?
"Possiamo dire tutto. Io posso dire che Berlusconi fa schifo. Poi magari mi mettono in galera e chiudono 'L'espresso'. Però l'abbiamo detto. Ma io non l'ho detto. È 'L'espresso' che lo ha scritto. Sono stato frainteso".

Visto che siamo liberi. Cosa le viene in mente quando sente la parola Brunetta?
"Mi fa schiantare dal ridere. Quando lo vedo in tv, mi viene la voglia di entrarci dentro e mettermi accanto. È una maschera, per come esprime i concetti, non per l'aspetto fisico. È un testo teatrale".

Mariastella Gelmini?
"È impegnata in una lotta impari. Le facce dei ragazzi sono sacre. Non si può non stare coi ragazzi. Diceva Mark Twain: 'Non ho mai permesso alla scuola di interferire con la mia istruzione'".

Giulio Tremonti?
"Un'immagine, nitida. Non uno da mandare all'inferno".

Lei dice che Dante scrive perché Dio esista e non perché Dio esiste. Il poeta crea il mondo?
"Sì. E la 'Commedia' è il poema dell'incredibile, è audace e moderna. C'è dentro il bipolarismo, il trasformismo. Ah, che bella pena sarebbe quella dei trasformisti, Dante cambierebbe in continuazione quel che appare loro davanti. E quanto sarebbe pieno il girone dei corruttori. Ma niente nomi. Dante l'hanno mandato in esilio perché odiava i trasformisti e gli stolti. Poteva dare un bacio a un lebbroso, non avrebbe mai stretto la mano a un imbecille".

Ci sarebbe il girone dei bigotti?
"Sì. Di coloro che prostituiscono il sacro".

A chi stringerebe Dante la mano a Montecitorio?
"Il parlamento racchiude il 10 per cento del peggio, l'80 per cento di mediocrità. E il 10 per cento del meglio. A quel 10 per cento stringerebbe la mano".

Ultima domanda. Lei va in giro con la 'Commedia' in tutta l'Europa, in America, nei Paesi arabi. Perché Dante è così universale?
"Perché si è occupato di quella cosa di cui non si occupa più nessuno: la vita, il mistero, il perché siamo qua. I fatti del mondo non sono la fine della questione. Oggi è tutto desacralizzato, ma appena entro nell'aldilà si sente una nostalgia, una rimembranza profonda, di un paradiso terrestre. Noi viviamo la notte di Giacobbe perenne. Lottiamo con Dio, e come Giacobbe ne usciamo feriti, toccati. Non si può sfuggire alla 'Commedia' come non si può sfuggire alla propria coscienza. È come chinarsi sull'abisso. E quando guardi l'abisso l'abisso guarda te".

(23 dicembre 2008)
da espresso.repubblica.it
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« Risposta #1 inserito:: Dicembre 31, 2008, 12:01:45 am »

La Gerusalemme liberata

di Wlodek Goldkorn


Una terra divisa. Due popoli contro. Una pace possibile. Da raggiungere con la forza delle parole.

Le riflessioni di un grande scrittore sul conflitto con i palestinesi.

Colloquio con David Grossman 


L'appuntamento è a Gerusalemme, la città natale di David Grossman, in un luogo caro allo scrittore: Mishkenot Shaananim. Qui nell'Ottocento è stato costruito il primo quartiere degli ebrei fuori dalle Mura, come per segnare l'apertura al mondo, l'uscita di una reclusione volontaria perché protettiva. Da un osservatorio (con tanto di turisti in gita) si vedono, a poche centinaia di metri di distanza, le mura in pietra bianca della Città vecchia: la torre di Davide, la Chiesa della Dormizione, il Patriarcato latino, territori di ogni sognata e immaginaria redenzione.

Più lontanto: il muro di cemento armato che divide i palestinesi dagli israeliani e che richiama alla realtà del conflitto. Grossman, 54enne, ha ancora lo sguardo di un ragazzo che non ha mai smesso di sognare, anche contro la realtà. È vestito con un maglione e un paio di vecchi jeans. Nel corso di questa conversazione, i suoi occhi grigio azzurri, curiosi, vivaci, continuamente alla ricerca dello sguardo di chi dialoga con lui, a un certo punto si fanno rossi e si velano di lacrime. La voce si fa bassa, fino al sussurro, e le parole prunciate da lui, il maestro di ogni parola, si diradano, come se ognuna fosse lanciata in aria chiosata, sottolineata, come se chi parla cercasse il modo più trasparente per spiegare a se stesso e per trasmettere ad altri un indicibile dolore, ma anche il modo coraggioso con cui affrontarlo.

Grossman è molto contento per il trionfo italiano (oltre le le 100 mila copie) del suo ultimo romanzo 'A un cerbiatto somiglia il mio amore', edito da Mondadori, un libro che racconta la storia di una madre che fugge per non ricevere la notizia della morte del figlio soldato. Una notizia che invece ha raggiunto Grossman, nell'agosto 2006, alla fine della guerra del Libano. E poi raccomanda di non fermarsi alla prima lettura. "Mentre alla prima il lettore è attratto dalla trama, è alla seconda lettura che scopre le cose importanti: le sfumature della lingua, le emozioni. Riscrivo ogni pagina decine di volte, per ottenere questo scopo".

Signor Grossman, diceva Conrad che scrivere un buon libro è di per sé una buona azione.
"È vero. Viviamo in un mondo dominato dall'alienazione, dall'indifferenza e dalla volgarità. Volgarità nei confronti degli altri e della lingua. In un mondo così scrivere un libro significa investire nei dettagli. C'è qualcosa di materno nella cura che lo scrittore deve avere per mettere al mondo il protagonista della sua storia e nell'attenzione a tutte le sfumature, anche le più piccole, della sua anima, del suo corpo. Quando scrivo un libro mi prendo delle responsabilità. Ecco perché scrivere un buon libro è una buona azione".

Cosa è un buon libro?
"Parlo da lettore. Un libro mi piace quando mi dà la possibilità di riorganizzare la mia anima, mi permette di evocare cose a cui non sarei arrivato senza averlo letto".

Lei è un maestro nel descrivere i sentimenti...
"Non sono uno scrittore sentimentale. Nei miei libri c'è il tentativo di comprendere il senso della vita. Ma è vero che descrivo volentieri le emozioni".

Forse è un segno di tempi. La destra parla di valori, la sinistra evoca emozioni.
"Non è vero. La sinistra ha dei valori forti: l'uguaglianza, il rispetto per tutti gli esseri umani, l'autonomia del pensiero, la consapevolezza che i valori sono prodotto della nostra mente e non sono dati da sacre scritture o da Dio. E poi il valore massimo: il dubbio in tutte le verità. Ma forse il vero problema sta nella lingua. La sinistra in Israele è incapace di rivolgersi al cuore della gente. È troppo snob. Io sono diverso. Quando scrivo articoli o faccio comizi uso il registro sentimentale, perché essere incapaci di descrivere le emozioni, nella nostra realtà, significa essere incapaci di comprendere la situazione. Il conflitto in Medioriente è fatto per il 99 per cento di emozioni".

Bisogna aver il coraggio di dare i nomi alle cose?
"Sì. Dare i nomi significa ribellarsi agli stereotipi e alle manipolazioni di tutte quelle strutture che incatenano la lingua. Ed è questo il ruolo dello scrittore: dare nomi nuovi a una realtà conosciuta.Tutte le storie esistenti sono già state narrate. Ma ecco che arriva lo scrittore e dà le sue parole, le sue metafore, mette insieme due parole che erano separate. E dal momento che lo fa, la realtà, che gli era estranea diventa sua. C'è qualcosa di erotico in questa operazione. In ebraico, per 'indicare il nome' si dice 'penetrare il nome'. È come fare all'amore con una donna che lo fa per la prima volta. Pentrando la parola, finisci per conoscerla dal suo interno, nel suo intimo. E questa azione ti mette dentro il mondo. È un modo per assumersi la responsabilità diretta per il mondo. Faccio un esempio: la genesi de 'Il vento giallo' (il libro sui palestinesi in cui aveva previsto la prima intifada nel 1987, ndr). L'ho scritto perché nel romanzo 'Vedi alla voce amore' ho definito le parole 'responsabilità' e 'decisione'".

Racconti.
"Quando mi hanno proposto di scrivere 'Il vento giallo', ero nel mezzo della scrittura di un romanzo. Mi mancavano due settimane per terminarlo. Sapevo che dicendo di sì a 'Il vento giallo' quel romanzo l'avrei perso. E così è successo. Ma in Un rabbino al Muro del Piantoquel periodo facevo il giornalista alla radio di Stato. Presentavo, ogni mattina alle 7, il notiziario. Usavo la lingua del governo, che consisteva nel non chiamare le cose con i loro nomi. Si diceva: 'È stato ucciso un giovane locale', per non dire 'noi israeliani abbiamo ucciso un bambino palestinese'. Ogni volta che provavo a ribellarmi, mi minacciavano di licenziamento (e alla fine mi hanno licenziato). Scrivendo 'Il vento giallo', ho riscoperto le vere parole, e così ho contribuito a cambiare la realtà".

E oggi?
"C'è un'atmosfera di rassegnazione. C'è un vuoto di leadership e di significato. Questo vuoto fa sì che molti israeliani non vanno più a votare, perché pensano che 'tutti sono corrotti'. Questo vuoto ha creato un distacco tra la vita della gente e la loro coscienza, e ci sono forze che ne aprofittano, perpetuando così il loro potere".

Che fare?
"Usare bene le parole".

Ne 'Il sorriso dell'agnello', il soldato Uri, incontra nei territori occupati il palestinese Hilmi. Hilmi gli racconta delle storie...
"E il dialogo tra i due cambia la loro realtà. Quando ti esponi alle parole dell'altro, capisci che l'altro non è un demone, e che tu potresti essere come lui se le circostanze della vita fossero state diverse".

Ha pubblicato 'Il sorriso dell'agnello' nel 1983. In Israele centinaia di migliaia di persone erano scese in piazza contro il governo Begin. Lei invece si è messo a fare un romanzo...
"È stato il primo romanzo sull'occupazione. L'ho scritto perché ho fatto da soldato, un anno prima, la guerra in Libano".

Perché ha imparato l'arabo?
"Avevo 13 anni. Dovevo scegliere al liceo tra il francese e l'arabo. Mamma voleva che scegliessi il francese, 'la lingua della cultura'. E allora le ho portato un atlante e le ho fatto vedere che Parigi non era neanche sulla stessa pagina di Israele. Amo l'arabo. E quando l'ho imparato, ho cominciato a capire meglio l'ebraico".

Riesce a vedere Israele con occhi arabi?
"È fondamentale. Nel conflitto tra noi e i palestinesi, ciascuno dà stura al peggio di sé: alla brutalità, alla bestialità, all'ipocrisia. Pensiamo che una volta terminato il conflitto, torneremo a essere buoni, onesti. Ma non è così. Quando ti vedi con gli occhi del nemico, capisci quanto il male abbia finito per corromperti. Rabin aveva capito quanto eravamo diventati una società malata, cinica e violenta. Rabin voleva la pace, per guarirci dal male".

Uno dei temi principali del suo ultimo ultimo romanzo è la paura. Cosa è la paura? E cosa vuol dire convivere ogni giorno con la paura?
"Molto spesso la paura è una reazione a ciò che immaginiamo o alla nostra memoria, e non alla realtà vera. E la potenza della memoria ingrandisce la paura. La saggezza è quindi saper distinguere tra la paura vera e quella immaginaria. Non è facile farlo, dal momento che la paura immaginaria è l'estremizzazione di quella vera, specie per un popolo che ha subito la Shoah".

Qual è lo spazio della Shoah, nel linguaggio pubblico?
"E la cassa di risonanza di tutte le parole. La Shoah è codificata nei nostri geni. Il sospetto, l'angoscia passano da una generazione all'altra. E ci sono ancora nel mondo interi gruppi di persone convinte che l'universo sarebbe un posto migliore senza la nostra esistenza (basti pensare all'Iran). Noi siamo così piccoli che non possiamo permetterci nessun errore, e forse proprio per questo facciamo tanti errori. Si dice sempre che gli ebrei non sono a casa da nessuna parte del mondo. Chissà, forse vale anche per il Medioriente. E allora, io spero che in condizioni di pace cominceremo a vivere e smetteremo di investire tutte le nostre energie in pura sopravvivenza. Così potremo cominciare a stare nel mondo. E forse cambierà l'atteggiamento del mondo nei nostri confronti".

Ne 'A un cerbiatto somiglia il mio amore', Avram, un soldato, supera la paura della morte inventando storie per la radio. Inventare storie libera dalla paura e cambia il mondo?
"Sì, e in modo radicale. Avram è solo nel suo bunker nel 1973, accerchiato dagli egiziani. E manda con la radio di campo la sua storia, una storia intima, al mondo. Avram, inventando e raccontando la sua storia intima non è più vittima. Vorrei che fosse sempre possibile imprimere un nostro tocco intimo sul mondo. Quando sei capace di inventare e di creare non sei vittima, né delle circostanze, né di un pensiero fisso. Quando crei sei libero. Lo sono anche ora, nella mia situazione e lo ero quando continuavo a scrivevere 'A un cerbiatto somiglia il mio amore', dopo ciò che mi è successo".

La morte di suo fglio Uri nella guerra in Libano.
"In una situazione del genere c'è la tentazione di scegliere di non vivere, di perdere la sensazione di essere utile, di perdere la capacità di stupirsi. Io invece ho scelto la vita. L'ho pouto fare perché la creazione, la scrittura me lo hanno permesso".

Orah, la protagonista del libro, si rifuta di attendere Ofer il figlio guerriero a casa.
"Orah rifiuta il sistema che ha bisogno di una madre che aspetti in casa la notizia. Si rifugia nel pensiero magico. E so dalla mia esperienza che in momenti così il pensiero magico è molto presente. Ho conosciuto una donna che in una situazione analoga ha nascosto il numero civico della casa, perché non la trovassero".

Orah e Avram camminano in Galilea su un sentiero che va verso Gerusalemme. Cos'è Gerusalemme per lei?
"Una città che ha una sua dimensione spirituale e mitica. Ma quattromila anni di cultura e di religione non hanno insegnato niente. La gente continua a vivere nell'idiozia dell'odio e della divisione. Vorrei che la soluzione di pace fosse all'altezza del significato spirituale di questa città, vorrei qui delle istituzioni universali, dell'Onu: Unesco, Unicef. Ma poi, ho molti sospetti nei confronti della spiritualità. Amo Gerusalemme perché è una città terrena. Qui pomiciavo con le ragazzine, qui mi piace passeggiare per certi wadi".

Con la pace ci sarà un confine. La città sarà divisa, non potrà più andare ad est.
"Per non imporre ad altri la mia presenza, non ci vado. Con il confine potrò andarci col passaporto, da ospite gradito".

(30 dicembre 2008)
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