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« Risposta #1 inserito:: Dicembre 31, 2008, 12:01:45 am » |
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La Gerusalemme liberata
di Wlodek Goldkorn
Una terra divisa. Due popoli contro. Una pace possibile. Da raggiungere con la forza delle parole.
Le riflessioni di un grande scrittore sul conflitto con i palestinesi.
Colloquio con David Grossman
L'appuntamento è a Gerusalemme, la città natale di David Grossman, in un luogo caro allo scrittore: Mishkenot Shaananim. Qui nell'Ottocento è stato costruito il primo quartiere degli ebrei fuori dalle Mura, come per segnare l'apertura al mondo, l'uscita di una reclusione volontaria perché protettiva. Da un osservatorio (con tanto di turisti in gita) si vedono, a poche centinaia di metri di distanza, le mura in pietra bianca della Città vecchia: la torre di Davide, la Chiesa della Dormizione, il Patriarcato latino, territori di ogni sognata e immaginaria redenzione.
Più lontanto: il muro di cemento armato che divide i palestinesi dagli israeliani e che richiama alla realtà del conflitto. Grossman, 54enne, ha ancora lo sguardo di un ragazzo che non ha mai smesso di sognare, anche contro la realtà. È vestito con un maglione e un paio di vecchi jeans. Nel corso di questa conversazione, i suoi occhi grigio azzurri, curiosi, vivaci, continuamente alla ricerca dello sguardo di chi dialoga con lui, a un certo punto si fanno rossi e si velano di lacrime. La voce si fa bassa, fino al sussurro, e le parole prunciate da lui, il maestro di ogni parola, si diradano, come se ognuna fosse lanciata in aria chiosata, sottolineata, come se chi parla cercasse il modo più trasparente per spiegare a se stesso e per trasmettere ad altri un indicibile dolore, ma anche il modo coraggioso con cui affrontarlo.
Grossman è molto contento per il trionfo italiano (oltre le le 100 mila copie) del suo ultimo romanzo 'A un cerbiatto somiglia il mio amore', edito da Mondadori, un libro che racconta la storia di una madre che fugge per non ricevere la notizia della morte del figlio soldato. Una notizia che invece ha raggiunto Grossman, nell'agosto 2006, alla fine della guerra del Libano. E poi raccomanda di non fermarsi alla prima lettura. "Mentre alla prima il lettore è attratto dalla trama, è alla seconda lettura che scopre le cose importanti: le sfumature della lingua, le emozioni. Riscrivo ogni pagina decine di volte, per ottenere questo scopo".
Signor Grossman, diceva Conrad che scrivere un buon libro è di per sé una buona azione. "È vero. Viviamo in un mondo dominato dall'alienazione, dall'indifferenza e dalla volgarità. Volgarità nei confronti degli altri e della lingua. In un mondo così scrivere un libro significa investire nei dettagli. C'è qualcosa di materno nella cura che lo scrittore deve avere per mettere al mondo il protagonista della sua storia e nell'attenzione a tutte le sfumature, anche le più piccole, della sua anima, del suo corpo. Quando scrivo un libro mi prendo delle responsabilità. Ecco perché scrivere un buon libro è una buona azione".
Cosa è un buon libro? "Parlo da lettore. Un libro mi piace quando mi dà la possibilità di riorganizzare la mia anima, mi permette di evocare cose a cui non sarei arrivato senza averlo letto".
Lei è un maestro nel descrivere i sentimenti... "Non sono uno scrittore sentimentale. Nei miei libri c'è il tentativo di comprendere il senso della vita. Ma è vero che descrivo volentieri le emozioni".
Forse è un segno di tempi. La destra parla di valori, la sinistra evoca emozioni. "Non è vero. La sinistra ha dei valori forti: l'uguaglianza, il rispetto per tutti gli esseri umani, l'autonomia del pensiero, la consapevolezza che i valori sono prodotto della nostra mente e non sono dati da sacre scritture o da Dio. E poi il valore massimo: il dubbio in tutte le verità. Ma forse il vero problema sta nella lingua. La sinistra in Israele è incapace di rivolgersi al cuore della gente. È troppo snob. Io sono diverso. Quando scrivo articoli o faccio comizi uso il registro sentimentale, perché essere incapaci di descrivere le emozioni, nella nostra realtà, significa essere incapaci di comprendere la situazione. Il conflitto in Medioriente è fatto per il 99 per cento di emozioni".
Bisogna aver il coraggio di dare i nomi alle cose? "Sì. Dare i nomi significa ribellarsi agli stereotipi e alle manipolazioni di tutte quelle strutture che incatenano la lingua. Ed è questo il ruolo dello scrittore: dare nomi nuovi a una realtà conosciuta.Tutte le storie esistenti sono già state narrate. Ma ecco che arriva lo scrittore e dà le sue parole, le sue metafore, mette insieme due parole che erano separate. E dal momento che lo fa, la realtà, che gli era estranea diventa sua. C'è qualcosa di erotico in questa operazione. In ebraico, per 'indicare il nome' si dice 'penetrare il nome'. È come fare all'amore con una donna che lo fa per la prima volta. Pentrando la parola, finisci per conoscerla dal suo interno, nel suo intimo. E questa azione ti mette dentro il mondo. È un modo per assumersi la responsabilità diretta per il mondo. Faccio un esempio: la genesi de 'Il vento giallo' (il libro sui palestinesi in cui aveva previsto la prima intifada nel 1987, ndr). L'ho scritto perché nel romanzo 'Vedi alla voce amore' ho definito le parole 'responsabilità' e 'decisione'".
Racconti. "Quando mi hanno proposto di scrivere 'Il vento giallo', ero nel mezzo della scrittura di un romanzo. Mi mancavano due settimane per terminarlo. Sapevo che dicendo di sì a 'Il vento giallo' quel romanzo l'avrei perso. E così è successo. Ma in Un rabbino al Muro del Piantoquel periodo facevo il giornalista alla radio di Stato. Presentavo, ogni mattina alle 7, il notiziario. Usavo la lingua del governo, che consisteva nel non chiamare le cose con i loro nomi. Si diceva: 'È stato ucciso un giovane locale', per non dire 'noi israeliani abbiamo ucciso un bambino palestinese'. Ogni volta che provavo a ribellarmi, mi minacciavano di licenziamento (e alla fine mi hanno licenziato). Scrivendo 'Il vento giallo', ho riscoperto le vere parole, e così ho contribuito a cambiare la realtà".
E oggi? "C'è un'atmosfera di rassegnazione. C'è un vuoto di leadership e di significato. Questo vuoto fa sì che molti israeliani non vanno più a votare, perché pensano che 'tutti sono corrotti'. Questo vuoto ha creato un distacco tra la vita della gente e la loro coscienza, e ci sono forze che ne aprofittano, perpetuando così il loro potere".
Che fare? "Usare bene le parole".
Ne 'Il sorriso dell'agnello', il soldato Uri, incontra nei territori occupati il palestinese Hilmi. Hilmi gli racconta delle storie... "E il dialogo tra i due cambia la loro realtà. Quando ti esponi alle parole dell'altro, capisci che l'altro non è un demone, e che tu potresti essere come lui se le circostanze della vita fossero state diverse".
Ha pubblicato 'Il sorriso dell'agnello' nel 1983. In Israele centinaia di migliaia di persone erano scese in piazza contro il governo Begin. Lei invece si è messo a fare un romanzo... "È stato il primo romanzo sull'occupazione. L'ho scritto perché ho fatto da soldato, un anno prima, la guerra in Libano".
Perché ha imparato l'arabo? "Avevo 13 anni. Dovevo scegliere al liceo tra il francese e l'arabo. Mamma voleva che scegliessi il francese, 'la lingua della cultura'. E allora le ho portato un atlante e le ho fatto vedere che Parigi non era neanche sulla stessa pagina di Israele. Amo l'arabo. E quando l'ho imparato, ho cominciato a capire meglio l'ebraico".
Riesce a vedere Israele con occhi arabi? "È fondamentale. Nel conflitto tra noi e i palestinesi, ciascuno dà stura al peggio di sé: alla brutalità, alla bestialità, all'ipocrisia. Pensiamo che una volta terminato il conflitto, torneremo a essere buoni, onesti. Ma non è così. Quando ti vedi con gli occhi del nemico, capisci quanto il male abbia finito per corromperti. Rabin aveva capito quanto eravamo diventati una società malata, cinica e violenta. Rabin voleva la pace, per guarirci dal male".
Uno dei temi principali del suo ultimo ultimo romanzo è la paura. Cosa è la paura? E cosa vuol dire convivere ogni giorno con la paura? "Molto spesso la paura è una reazione a ciò che immaginiamo o alla nostra memoria, e non alla realtà vera. E la potenza della memoria ingrandisce la paura. La saggezza è quindi saper distinguere tra la paura vera e quella immaginaria. Non è facile farlo, dal momento che la paura immaginaria è l'estremizzazione di quella vera, specie per un popolo che ha subito la Shoah".
Qual è lo spazio della Shoah, nel linguaggio pubblico? "E la cassa di risonanza di tutte le parole. La Shoah è codificata nei nostri geni. Il sospetto, l'angoscia passano da una generazione all'altra. E ci sono ancora nel mondo interi gruppi di persone convinte che l'universo sarebbe un posto migliore senza la nostra esistenza (basti pensare all'Iran). Noi siamo così piccoli che non possiamo permetterci nessun errore, e forse proprio per questo facciamo tanti errori. Si dice sempre che gli ebrei non sono a casa da nessuna parte del mondo. Chissà, forse vale anche per il Medioriente. E allora, io spero che in condizioni di pace cominceremo a vivere e smetteremo di investire tutte le nostre energie in pura sopravvivenza. Così potremo cominciare a stare nel mondo. E forse cambierà l'atteggiamento del mondo nei nostri confronti".
Ne 'A un cerbiatto somiglia il mio amore', Avram, un soldato, supera la paura della morte inventando storie per la radio. Inventare storie libera dalla paura e cambia il mondo? "Sì, e in modo radicale. Avram è solo nel suo bunker nel 1973, accerchiato dagli egiziani. E manda con la radio di campo la sua storia, una storia intima, al mondo. Avram, inventando e raccontando la sua storia intima non è più vittima. Vorrei che fosse sempre possibile imprimere un nostro tocco intimo sul mondo. Quando sei capace di inventare e di creare non sei vittima, né delle circostanze, né di un pensiero fisso. Quando crei sei libero. Lo sono anche ora, nella mia situazione e lo ero quando continuavo a scrivevere 'A un cerbiatto somiglia il mio amore', dopo ciò che mi è successo".
La morte di suo fglio Uri nella guerra in Libano. "In una situazione del genere c'è la tentazione di scegliere di non vivere, di perdere la sensazione di essere utile, di perdere la capacità di stupirsi. Io invece ho scelto la vita. L'ho pouto fare perché la creazione, la scrittura me lo hanno permesso".
Orah, la protagonista del libro, si rifuta di attendere Ofer il figlio guerriero a casa. "Orah rifiuta il sistema che ha bisogno di una madre che aspetti in casa la notizia. Si rifugia nel pensiero magico. E so dalla mia esperienza che in momenti così il pensiero magico è molto presente. Ho conosciuto una donna che in una situazione analoga ha nascosto il numero civico della casa, perché non la trovassero".
Orah e Avram camminano in Galilea su un sentiero che va verso Gerusalemme. Cos'è Gerusalemme per lei? "Una città che ha una sua dimensione spirituale e mitica. Ma quattromila anni di cultura e di religione non hanno insegnato niente. La gente continua a vivere nell'idiozia dell'odio e della divisione. Vorrei che la soluzione di pace fosse all'altezza del significato spirituale di questa città, vorrei qui delle istituzioni universali, dell'Onu: Unesco, Unicef. Ma poi, ho molti sospetti nei confronti della spiritualità. Amo Gerusalemme perché è una città terrena. Qui pomiciavo con le ragazzine, qui mi piace passeggiare per certi wadi".
Con la pace ci sarà un confine. La città sarà divisa, non potrà più andare ad est. "Per non imporre ad altri la mia presenza, non ci vado. Con il confine potrò andarci col passaporto, da ospite gradito".
(30 dicembre 2008) da espresso.repubblica.it
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