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Autore Discussione: Fiorenza SARZANINI.  (Letto 194485 volte)
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« Risposta #180 inserito:: Gennaio 26, 2014, 11:30:12 pm »

Dai prof universitari ai dirigenti pubblici
La truffa del doppio lavoro in nero
Consulenze e prestazioni in conflitto con quelle statali: un danno da 8 milioni

ROMA - Professori e ricercatori universitari che accettano consulenze oppure ottengono incarichi in società private. Alti funzionari di enti pubblici che svolgono attività in concorrenza o in conflitto con i compiti assegnati loro dallo Stato. Enti locali, Motorizzazione civile, Agenzia delle Entrate, Asl: sono migliaia i dipendenti con il «doppio lavoro». Dirigenti o semplici impiegati che, spesso in orario d’ufficio, sono altrove e percepiscono compensi «in nero». È uno dei capitoli del rapporto annuale della Guardia di Finanza sugli sprechi della «spesa pubblica» a destare maggior allarme. Perché si tratta di un fenomeno in crescita che drena le casse dell’Erario. Grave, come quello relativo al settore degli appalti che ha ormai raggiunto livelli da record: le gare «truccate» hanno causato nell’ultimo anno un danno economico di oltre un miliardo e 300mila euro.

«Baroni» e doppio lavoro
Sono decine i professori universitari già accusati di aver ottenuto incarichi in collegi sindacali e commissioni collaudi, ma anche consulenze per la realizzazione di progetti per aziende e addirittura docenze in strutture private. Una grave incompatibilità che - secondo le prime stime - ha provocato un danno di circa otto milioni di euro. Ma nuove indagini sono tuttora in corso su un fenomeno che ha dimensioni ben più ampie e non riguarda soltanto questo settore. Su 1.346 verifiche effettuate negli enti pubblici sono stati scoperti ben 1.704 impiegati con un secondo lavoro, nella maggior parte dei casi retribuito «in nero» e le sanzioni amministrative hanno superato i 21 milioni di euro.
Nella lista c’è un dirigente tecnico di svariati Comuni che faceva l’ingegnere per alcune imprese edili percependo oltre 200mila euro, esattamente come un suo collega impiegato in una Regione che però di euro ne ha presi 600mila. E poi un funzionario della Motorizzazione che effettuava perizie per i privati e un dirigente dell’Agenzia delle Entrate che aveva aperto uno studio da commercialista assistendo clienti che spesso avevano bisogno proprio per le contestazione di evasione fiscale, infermieri delle Asl che in realtà lavoravano in cliniche private.

I «cartelli» di imprese
Grave è la situazione per quel che riguarda gli appalti pubblici. Aumentano i controlli e migliorano i risultati ottenuti con interventi di prevenzione, ma il livello di corruzione dei funzionari che gestiscono settori strategici per l’economia del Paese si mantiene su livelli altissimi. Quello dei lavori Pubblici è certamente uno dei settori di maggiore interesse per chi deve garantire la legalità visto che il volume d’affari stimato dall’Autorità di Vigilanza del 2012 è stato di circa 95 miliardi di euro, equivalente al 5,9 per cento del prodotto interno lordo. Ebbene, nell’ultimo anno sono stati arrestati o denunciati «657 soggetti responsabili di turbata libertà degli incanti e frode belle pubbliche forniture». Dato ancora più eclatante emerge dall’attività svolta dai finanzieri su delega della Corte dei Conti perché «i soggetti segnalati alla magistratura contabile sono 1.186 soggetti e i danni erariali connessi a procedure di appalto un miliardo e 300 milioni di euro». L’illecito più grave, secondo quanto emerge dalla relazione, riguarda la costituzione di «cartelli preventivi tra imprese» che riescono in questo modo a pilotare le gare, oltre naturalmente all’erogazione di mazzette a chi deve materialmente gestire le procedure di assegnazione.
«Altre forme di illegalità - sottolineano gli analisti della Finanza - attengono alla materiale esecuzione dei contratti. In tale fase si annidano frodi nelle pubbliche forniture, inadempienze dannose per la regolare erogazione dei servizi pubblici, indebiti abbattimenti dei costi dell’opera tramite il ricorso al lavoro nero e ingiustificati rialzi dei valori delle commesse durante l’esecuzione, volti unicamente a drenare denaro pubblico in misura superiore a quella originariamente stabilita. Una realtà che si somma ai fenomeni di ingerenza della criminalità organizzata che sfociano in condotte violente o in comportamenti più subdoli di condizionamento dei mercati, con il riciclaggio e il reimpiego di cospicue masse di denaro provento di reato».

Da nord a sud, le modalità per truccare le gare mostrano spesso grande creatività. A Brindisi gli investigatori della Finanza hanno scoperto un’organizzazione formata da imprenditori e funzionari di una Asl che si spartivano i lavori riuscendo a eliminare la concorrenza. «Il meccanismo - è specificato nel dossier - consisteva nell’apertura fraudolenta e successiva chiusura delle buste contenenti le offerte economiche delle ditte, da parte dei componenti delle commissioni di seggio, tutte presiedute dal medesimo dirigente dell’Ufficio Tecnico, prima della procedura finale e nella comunicazione alla ditta “amica” delle informazioni acquisite per consentirle di formulare l’offerta più idonea».

Molto più sofisticato il sistema utilizzato a Monza dai titolari di alcune imprese che sono riusciti a ottenere commesse per 260 milioni di euro: la mazzetta veniva pagata «ai funzionari incaricati di redigere i capitolati di appalto dei vari bandi». I requisiti inseriti erano talmente stringenti da far risultare vincitrice sempre la stessa impresa. Un meccanismo simile a quello utilizzato a Milano da un ex dirigente del Comune che ha «venduto» a un imprenditore disposto a versare tangenti quattro appalti relativi ai servizi per la gestione delle «Case vacanza extraurbane», strutture che generalmente vengono utilizzate per l’accoglienza dei bambini durante il periodo estivo.

In questi casi di cattiva gestione dei fondi pubblici rientrano certamente le frodi su risorse nazionali e all’Unione europea, che possono causare gravi danni all’Italia soprattutto per quanto riguarda l’immagine internazionale. Perché anche nel 2013 si conferma altissima l’entità dei finanziamenti ottenuti per realizzare progetti in realtà inesistenti o comunque dal valore molto inferiore rispetto a quello dichiarato. Il bilancio finale parla di «indebite percezioni o richieste di fondi pubblici destinate al sostegno delle imprese pari a un miliardo e 400 milioni di euro».

Di questi, quasi un terzo provengono dall’Ue. «L’attività ispettiva della Guardia di Finanza - è scritto nella relazione annuale - ha consentito di individuare oltre 433 milioni di euro di provvidenze comunitarie indebitamente percepite o richieste riferibili a due settori di contribuzione: le Politiche agricole e i Fondi strutturali, nonché di segnalare all’autorità giudiziaria 793 soggetti per il reato di truffa aggravata ai danni dello Stato».

26 gennaio 2014
© RIPRODUZIONE RISERVATA
FIORENZA SARZANINI

DA - http://www.corriere.it/cronache/14_gennaio_26/dai-prof-universitari-dirigenti-pubblici-truffa-doppio-lavoro-nero-26da2320-865a-11e3-a3e0-a62aec411b64.shtml
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« Risposta #181 inserito:: Marzo 16, 2014, 10:37:09 am »

Retroscena -
Registi del traffico di droga e acquirenti ora sanno dei controlli
L’arresto della dama bianca e la talpa che protegge i vip
Qualcuno ha svelato l’esistenza dell’inchiesta

di Fulvio Bufi Fiorenza Sarzanini

ROMA - C’è l’ombra di una talpa sullo sfondo dell’operazione antidroga che giovedì ha portato all’arresto, all’aeroporto di Fiumicino, di Federica Gagliardi, e al sequestro di 24 chili di cocaina che la bionda accompagnatrice di Berlusconi in alcuni viaggi del 2010, quando era premier, aveva trasportato dal Venezuela. E non una talpa che ha favorito gli investigatori spifferando la dritta giusta, ma che, al contrario, li ha danneggiati rischiando di pregiudicare un’indagine sul traffico internazionale di stupefacenti che sicuramente ha dimensioni vastissime e potrebbe svelare coinvolgimenti altissimi.

Infatti non tutto è andato come avrebbe dovuto, tre giorni fa a Fiumicino. Non come avrebbero preferito in Procura a Napoli, dove l’indagine è condotta dalla Direzione distrettuale antimafia. Quest’ultimo particolare, l’esistenza dell’inchiesta, non sarebbe dovuto diventare di dominio pubblico. Se l’arresto di Federica Gagliardi e il sequestro della droga fossero apparsi casuali (cosa comprensibilissima, visto che la donna trasportava quell’enorme quantitativo in un trolley e in uno zainetto, senza nessun tentativo di occultamento) non avrebbe creato allarme tra i molti - e pare anche molto potenti - che potrebbero essere coinvolti nel giro. Chi aveva investito il suo capitale in quel carico (almeno cinque milioni di euro, che in dollari diventano quasi sette) ci avrebbe rimesso pesantemente, ma nessuno avrebbe avuto la certezza di essere finito nel mirino degli investigatori. E quando chi è indagato non sa di esserlo, è facile che si tradisca, che porti involontariamente gli investigatori sempre più avanti. Al contrario, la consapevolezza di una inchiesta induce alla prudenza, a non usare i telefoni, a interrompere ogni contatto.

E probabilmente era proprio questo lo scopo di chi ha voluto far trapelare la notizia che l’arresto di Federica Gagliardi era avvenuto nell’ambito di un più vasto lavoro investigativo della Dda napoletana, che ha delegato le indagini alla Guardia di Finanza. Chi possa essere questa talpa è per ora un mistero. Ma non si può escludere che abbia a che fare, direttamente o indirettamente, con la copertura sulla quale la Gagliardi riteneva di poter contare per passare indenne i controlli a Fiumicino. Così come li aveva passati a Caracas al momento dell’imbarco, dove pure qualcuno deve averla aiutata a non far bloccare quelle due borse che a un semplice scanner potevano anche sembrare piene di panetti di esplosivo al plastico, visto come era stata confezionata la cocaina. Non si può invece escludere che i destinatari dell’informazione che la talpa ha veicolato fossero non solo, e non tanto, i clan camorristici che potrebbero essere dietro al traffico di droga, ma i non pochi insospettabili che, a quanto emergerebbe dalle indagini, erano interessati al carico portato in Italia da Federica Gagliardi. Che era molto ben inserita in una «rete» di politici, imprenditori e uomini d’affari, un giro in cui molti potrebbero essere interessati anche alla sua attività di corriere della droga.

Certamente la Gagliardi era stata ingaggiata per questo viaggio da un broker, un mediatore internazionale del traffico di stupefacenti. Gli investigatori ritengono anche di averlo già individuato, e anche lui potrebbe rivelarsi un canale per arrivare ancora più in alto.
Poi bisognerà capire quale sarà l’atteggiamento della donna quando sarà interrogata dai magistrati napoletani. Per ora resta a disposizione dell’autorità giudiziaria di Civitavecchia dove in tempi rapidi (bisogna aspettare solo il deposito delle perizie tecniche che documentino ufficialmente che i panetti sequestrati sono di cocaina) sarà processata per traffico internazionale di droga. Colta in flagranza di reato non potrà che essere condannata. E rischia almeno dieci anni di carcere.

16 marzo 2014 | 09:17
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Da - http://www.corriere.it/cronache/14_marzo_16/arresto-dama-bianca-talpa-che-protegge-vip-ab218098-ace2-11e3-a415-108350ae7b5e.shtml
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« Risposta #182 inserito:: Marzo 16, 2014, 06:20:05 pm »

L’inchiesta

Parioli, una delle prostitute minorenni: trattate come macchine
Lunedì gli interrogatori dei clienti accusati di essere al corrente dell’età delle ragazze.
Il marito della Mussolini rischia il giudizio immediato

di FIORENZA SARZANINI

Adesso Mauro Floriani rischia il giudizio immediato. L’indagine nei confronti del marito dell’onorevole Alessandra Mussolini, che ha ammesso di aver avuto rapporti sessuali a pagamento con una delle due minorenni romane sia pur negando di essere consapevole della sua età, potrebbe chiudersi entro qualche settimana con il processo. Le verifiche sul suo ruolo sono ormai terminate. Come lui, pure altri clienti potrebbero finire entro breve davanti al tribunale. Ma l’inchiesta non è affatto conclusa. Lunedì cominceranno gli interrogatori di almeno una decina di uomini rintracciati attraverso intercettazioni telefoniche e tabulati. Anche loro indagati per sfruttamento della prostituzione per aver frequentato l’appartamento dei Parioli a Roma, dove Angela e Aurora - così si facevano chiamare - prendevano dai 100 ai 300 euro a prestazione. Ragazzine gestite da «sfruttatori» adulti, ma talvolta anche autonome nel rispondere alle richieste di chi le aveva contattate dopo aver letto il loro annuncio «postato» sul sito internet «bakekaincontri».

Il figlio del parlamentare
Il contatto con Floriani è stato diretto con la quindicenne. Lo hanno individuato ascoltando le conversazioni sul cellulare di una delle due ragazze e la prossima settimana anche il figlio di un parlamentare del centrodestra dovrà difendersi dall’accusa infamante di aver sfruttato le minorenni. Esattamente come il vicecapo Dipartimento informatica di Bankitalia Andrea Cividini e tutti gli altri clienti nei confronti dei quali il procuratore aggiungo Maria Monteleone e il sostituto Cristiana Macchiusi ritengono di aver ottenuto elementi «incontrovertibili» circa la loro consapevolezza che si trattasse di «under 18».

Al termine di questa verifica e tenendo conto della difesa, si deciderà se sollecitare per ognuno la trasmissione degli atti al tribunale. L’ipotesi che sembra prendere corpo è quella di non celebrare un unico processo, ma agevolare processi singoli che abbiano dunque anche un clamore mediatico di impatto meno elevato. L’obiettivo rimane infatti quello di proteggere al massimo l’identità delle ragazzine e fare sì che questa vicenda si chiuda per loro prima possibile, in modo da poter tornare a una vita normale. Anche tenendo conto che le due giovani sono tuttora ospitate in strutture «protette», anche se hanno ricominciato a frequentare la scuola.

Le paure delle coetanee
Sono state le stesse ragazzine, interrogate dal giudice il 5 febbraio scorso in sede di incidente probatorio proprio per evitare che debbano poi partecipare a un eventuale dibattimento pubblico, a raccontare di aver chiesto agli sfruttatori di non incontrare ragazzi troppo giovani, «per il fatto che magari li potevamo conoscere. Cioè, tipo di 18, 20 anni no. Questa era l’unica nostra preferenza. Io ai clienti dicevo di avere 18 anni, anche se mi è capitato che qualche cliente mi dicesse, vedendo le forme, “ma sei sicura? Sembri più grande”. Noi più che altro ci mettevamo i tacchi e ci vestivamo più elegante possibile per sembrare più grandi - hanno proseguito -. Quando poi abbiamo visto che ad alcuni clienti non gliene fregava niente, ci vestivamo normali. Ci truccavamo, ma in modo normale. Io mi ero fissata in testa come se avessi proprio 18 anni, dentro di me non avevo più 15 anni, facevo come mi pareva». E poi, parlando di Mirko Ieni, che aveva affittato l’appartamento e organizzava gli incontri: «Ci pressava e ci condizionava, ci trattava un po’ come delle macchine, per lui dovevamo esserci sempre, tutti i giorni, non voleva perdere i soldi, diceva che gli servivano i soldi per varie cose. Perché alla fine noi due eravamo l’unica sua fonte di guadagno».

15 marzo 2014 | 08:06
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Da - http://www.corriere.it/cronache/14_marzo_15/parioliuna-prostitute-minorenni-ci-trattavano-come-macchine-cfe664d2-ac0d-11e3-a415-108350ae7b5e.shtml
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« Risposta #183 inserito:: Marzo 21, 2014, 11:49:43 pm »

Spending review
«Un piano per tagliare 200 commissariati»
La protesta delle forze dell’ordine: sicurezza a rischio.
«Stop al blocco degli stipendi»

Di FIORENZA SARZANINI

ROMA — Esiste un piano segreto «che prevede tagli molto più pesanti di quelli annunciati». La denuncia arriva dal Sap, il sindacato autonomo di polizia, e riguarda almeno 200 commissariati che potrebbero essere chiusi nei prossimi due anni. Rilancia dunque i timori per le «gravi conseguenze in questo settore» causate dalla spending review voluta dal governo. Rischi per la sicurezza confermati dal comandante generale della Guardia di Finanza Saverio Capolupo che nella relazione depositata due giorni fa presso la commissione Finanze del Senato evidenzia le criticità e avverte: «Tra il 2009 e il 2013 sono stati chiusi 72 reparti e risparmiati oltre 15 milioni di euro, ma è necessario mantenere inalterate le potenzialità del dispositivo operativo per corrispondere al meglio alle crescenti istanze di equità della società civile che passano anche attraverso un sempre più efficiente contrasto all’evasione ed elusione fiscale, alle frodi e alle altre forme di criminalità economica e finanziaria».

Mentre la “base” delle forze dell’ordine protesta e chiede anche lo sblocco degli stipendi, i vertici mettono in guardia dalla possibilità che un progetto non articolato di riduzione di mezzi e uomini possa far abbassare il livello di attenzione. Non a caso il generale Capolupo sottolinea i dati ottenuti dalle Fiamme Gialle nel 2013 —«recupero di 55 miliardi di euro di evasione fiscale, sequestri per 4,5 miliardi di danno erariale e rientro di 5 miliardi per gli sprechi nella spesa pubblica» — e ricorda come «il progetto di ottimizzazione delle risorse dovrà servire a migliorare con una tecnologia più avanzata l’attività di contrasto all’immigrazione clandestina e ai traffici illeciti via mare». Del resto nel novembre scorso era stato il capo della polizia Alessandro Pansa a lanciare l’allarme: «Non è pensabile che noi possiamo offrire lo stesso servizio di sicurezza al cittadino che offrivamo qualche anno fa, con 15 mila poliziotti, 15 mila carabinieri e migliaia di finanzieri in meno. E con la riduzione delle risorse. È pacifico che in questo momento noi stiamo offrendo un servizio di sicurezza inferiore al passato».

Quattro mesi sono trascorsi e ben più grave è il “taglio” che viene sollecitato. Il progetto già trasmesso a prefetti e questori che per legge devono esprimere il proprio parere prevede la chiusura di 267 presidi con una diminuzione di almeno 40mila uomini in due anni. E potrebbe non essere sufficiente. Secondo il segretario nazionale del Sap Gianni Tonelli «la mannaia si sta per abbattere adesso su circa 200 commissariati cittadini e sullo stop totale alle assunzioni che ci porterà in due anni ad avere 60.000 operatori in meno tra tutte le forze dell’ordine».

Il Viminale smentisce, assicura che «i commissariati a rischio sono soltanto undici». Ma si tratta di una versione che non appare convincente anche perché nella richiesta di parere trasmessa alle prefetture viene evidenziato come «ogni eventuale variante comporta necessariamente una ineludibile rivisitazione dell’intero progetto». Un invito più che esplicito a non esprimere parere contrario tanto che il Sap ha già chiesto di «invalidare la procedura visto che il giudizio espresso è chiaramente non libero».

Anche sulle retribuzioni si è aperta la battaglia. Il blocco degli stipendi deciso nel 2011 ha infatti causato la situazione paradossale per cui «due funzionari di polizia o ufficiali dell’Arma o della Finanza a parità di grado e funzioni svolte posso percepire una busta paga diversa: quello promosso, ma sottoposto a blocco stipendiale, guadagna meno rispetto a quello promosso prima del blocco che svolge la sua stessa funzione». Ma ancor più assurda è la situazione che porta a far guadagnare un sottoposto più del superiore se quest’ultimo, proprio per effetto del blocco, non ha potuto godere degli aumenti previsti in situazioni di normalità. «In questo modo — avvertono i rappresentanti delle forze dell’ordine — viene meno il principio fondamentale per cui il lavoratore ha diritto a una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità della propria attività, ma soprattutto si azzera la meritocrazia con evidenti conseguenze anche sul rendimento operativo».

21 marzo 2014 | 07:40
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Da - http://www.corriere.it/cronache/14_marzo_21/piano-tagliare-200-commissariati-66d16636-b0c2-11e3-b958-9d24e5cd588c.shtml
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« Risposta #184 inserito:: Aprile 02, 2014, 10:36:17 pm »

Accordo sull’abitazione messa a disposizione da Milanese
Inchiesta sulla casa, Tremonti patteggia e versa 40 mila euro
L’ex ministro: «Pago per chiudere il caso»

di FIORENZA SARZANINI

Ha chiesto il patteggiamento per evitare il processo. E l’intesa con il pubblico ministero è stata raggiunta. Giulio Tremonti pagherà 40 mila euro per uscire dall’inchiesta sulla casa di via Campo Marzio a Roma che il suo consigliere politico Marco Milanese gli aveva messo a disposizione. Quattro anni dopo aver abbandonato l’appartamento che gli costò l’accusa di finanziamento illecito, l’ex Ministro dell’Economia sceglie il rito alternativo e sigla con il sostituto procuratore Paolo Ielo l’accordo che dovrà adesso essere ratificato dal giudice. E’ la fine di un caso che certamente ha segnato la sua carriera politica, ma anche la sua storia personale. E, come spiega lui stesso, «è proprio l’aspetto che riguarda la mia famiglia, oltre al rispetto che ho per la magistratura, ad avermi convinto dell’opportunità di pagare la pena pecuniaria e chiudere la vicenda».

L’indagine avviata dai magistrati di Napoli Henry John Woodcock e Vincenzo Piscitelli risale al 2011. Nel mirino ci sono gli affari siglati da Milanese, gli appalti che avrebbe agevolato quando - dopo essersi congedato dalla Guardia di Finanza - andò a lavorare presso il dicastero di via XX settembre, il suo legame con il costruttore Angelo Proietti che si occupò della ristrutturazione dell’appartamento e che - questo il sospetto degli inquirenti - lo avrebbe fatto per avere in cambio lavori e commesse della Sogei, la Società generale di informatica, controllata dall’Economia. Proprio esplorando i suoi contatti si scopre che ha ottenuto in affitto due appartamenti dal «Pio Sodalizio dei Piceni». A che titolo? Proietti viene interrogato e dichiara: «Fui io a far avere a Milanese un piccolo appartamento e poi lui prese anche quello di via Campo Marzio. Poiché doveva essere ristrutturato fissai il costo dei lavori in 200 mila euro e quella cifra riuscii a fargliela scalare dal canone. In realtà la ristrutturazione mi costò circa 50 mila euro, ma la feci a titolo gratuito».

Il contratto di affitto viene siglato nel 2009, ma un anno dopo quella casa viene messa a disposizione di Tremonti. Lui dice di aver accettato l’ospitalità del suo collaboratore, Milanese lo smentisce. Nell’estate 2011, di fronte alla giunta della Camera che doveva pronunciarsi sulla richiesta di arresto inoltrata nei suoi confronti dai magistrati partenopei, quest’ultimo racconta che Tremonti gli ha rimborsato ogni mese 4.000 euro in nero fino all’estate del 2011 quando le polemiche lo convinsero dell’opportunità di andare via. E qui c’è la contraddizione più evidente: se Proietti dice di non aver ricevuto il canone, chi ha intascato il denaro? Possibile che sia stato proprio il consigliere politico? Sospetti che Milanese cerca di sviare un anno fa quando invia una lettera a Tremonti chiedendogli la restituzione della somma versata «sino al mese di aprile 2012 quando ha provveduto al pagamento dell’intero importo».


Accuse, contraccuse, veleni che alla fine hanno persuaso Tremonti - assistito dagli avvocati Grazia Volo e Pier Maria Corso - a cercare l’accordo con la procura, che si dichiara favorevole proprio perché in questo modo dimostra la bontà del proprio impianto. E così sono stati fatti i conti. Per il finanziamento illecito la pena prevista era di 9 mesi più 21 mila euro di multa, che scendono a 6 mesi e 14 mila euro con la concessione delle attenuanti e a 4 mesi e 10 mila euro con lo sconto previsto quando si sceglie il rito alternativo. Calcolando che per ogni giorno bisogna versare 250 euro si raggiungono così i 30 mila da sommare all’ammenda.

2 aprile 2014 | 08:06
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Da - http://www.corriere.it/cronache/14_aprile_02/inchiesta-casa-tremonti-patteggia-versa-40-mila-euro-f974da50-ba2b-11e3-9050-e3afdc8ffa42.shtml
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« Risposta #185 inserito:: Maggio 05, 2014, 11:42:27 pm »

«L’applauso non era contro Aldrovandi» Il Sap chiede scusa a Napolitano
«Siamo stati travisati»: ma il sindacato della polizia è isolato

di FIORENZA SARZANINI

ROMA - Adesso il Sap fa marcia indietro e chiede scusa. Travolto dalle polemiche per quell’applauso agli agenti condannati per aver ucciso Federico Aldrovandi, il segretario del sindacato autonomo di polizia Gianni Tonelli invia una lettera «di ammenda pubblica» al capo dello Stato. Un modo per cercare di abbassare i toni dello scontro, ma soprattutto per tentare di allontanare da sé e dagli iscritti l’accusa di aver «disonorato la divisa», sottolineata anche dal presidente del Consiglio Matteo Renzi. E per questo nel plico spedito al presidente Giorgio Napolitano - che aveva scritto una lettera alla mamma del ragazzo definendo «indegna» la vicenda - inserisce anche «la registrazione di tutto l’evento per dimostrare che l’applauso dura appena 38 secondi», ma soprattutto che «non è in alcun modo riconducibile alla tragica morte del giovane e al dolore della famiglia verso la quale nutriamo sinceri sentimenti di deferente rispetto».

La spaccatura
Sono trascorsi due giorni dalla riunione dei delegati in un hotel di Rimini e la tensione per quanto è accaduto non si è ancora sopita. Soprattutto non è passata l’emozione per il dolore di Patrizia Moretti, la mamma di Federico, che ha mobilitato lo Stato e continua a chiedere che non possa più succedere quello che lei e la sua famiglia hanno dovuto subire. Non a caso gli altri sindacati maggioritari hanno preso le distanze dal Sap e lo stesso hanno fatto il ministro dell’Interno Angelino Alfano e il capo della polizia Alessandro Pansa incontrando la donna mercoledì pomeriggio al Viminale e promettendo modifiche normative che in futuro possano consentire di impedire il rientro in servizio di chi viene condannato per gravi reati.

Ieri è intervenuto nuovamente sul caso il segretario della Silp-Cgil Daniele Tissone per ribadire che «una cosa è difendere i diritti dei lavoratori in relazione agli strumenti dati dalla nostra Costituzione, dallo sblocco contrattuale al ripristino degli automatismi individuali, altra cosa è una deriva corporativa che non rende giustizia alle migliaia di donne e uomini in divisa che con sacrificio svolgono correttamente il proprio dovere». Mentre Felice Romano del Siulp e Lorena La Spina dell’Associazione Funzionari pur negando «una spaccatura all’interno della polizia perché quanto accaduto a Rimini va ascritto solo alle persone presenti», ripetono che «l’istituzione è e resta sana, efficiente e sempre pronta a servire il Paese».

«Travisate le nostre azioni»
Di fronte a un isolamento evidente, i vertici del Sap hanno deciso di rivolgersi direttamente a Napolitano per chiedere una «riabilitazione» perché, scrive Tonelli, «la sua autorevole e perentoria censura rappresenta per la mia persona un marchio di infamia e un fardello di vergogna e sofferenza dai quali non riuscirò mai ad affrancarmi». In realtà nella missiva il segretario del Sap sostiene che «le nostre azioni sono state artatamente travisate» e spiega che «l’applauso incriminato si è sviluppato spontaneamente al termine della presentazione di una campagna di “verità e giustizia” in favore di tutti i colleghi che tutti i giorni sulle strade con dedizione, professionalità e mal corrisposti, chiedono solamente di poter tutelare i diritti dei cittadini, la legalità, la pacifica convivenza e l’ordine costituzionale».
Nei prossimi giorni il problema legato ai procedimenti disciplinari nei confronti dei poliziotti condannati con sentenza definitiva sarà nuovamente affrontato dal prefetto Pansa che si è impegnato affinché si arrivi a una modifica del regolamento di disciplina. In particolare per quanto riguarda i reati di natura colposa, di fronte ai quali non è possibile al momento adottare alcun provvedimento relativo al licenziamento. L’intenzione espressa dal capo della polizia al momento dell’insediamento era quella di individuare alcuni comportamenti gravi che fossero puniti con il massimo della sanzione. Un’iniziativa che comunque dovrebbe rientrare in una revisione più generale delle regole relative ai cortei e dunque anche alle modifiche di legge che consentano di poter intervenire in maniera più incisiva contro i manifestanti violenti.

3 maggio 2014 | 06:50
© RIPRODUZIONE RISERVATA

Da - http://www.corriere.it/cronache/14_maggio_03/applauso-non-era-contro-aldrovandi-sap-chiede-scusa-napolitano-22106358-d27d-11e3-8ae9-e79ccd3c38b8.shtml
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« Risposta #186 inserito:: Maggio 05, 2014, 11:57:37 pm »

Il caso di Daniele Bosio

Ambasciatore arrestato per pedofilia, i bambini: «Ci ha aiutato a lavarci»
Chiuso in una cella di 30 mq con altre 80 persone, il diplomatico ha mobilitato parenti, amici, associazioni benefiche per cercare di dimostrare di «essere innocente

di FIORENZA SARZANINI

ROMA - Ha mobilitato parenti, amici, associazioni benefiche per cercare di dimostrare di «essere innocente». E ha tentato di ottenere ascolto anche alla Farnesina. Ma la posizione del Ministero degli Esteri è ferma: rispetto delle decisioni dei giudici locali. E dunque la sorte di Daniele Bosio, l’ambasciatore del Turkmenistan arrestato il 5 aprile scorso a Binyan nelle Filippine con l’accusa di violazione della legge che tutela i minori e poi sospeso dall’incarico, resta legata al provvedimento che sarà preso nei prossimi giorni dal presidente della Corte. Il nodo da sciogliere rimane al momento legato alla sede processuale. Soltanto dopo aver risolto questo problema si arriverà alla formalizzazione delle accuse e all’eventuale rinvio a giudizio.

Le pressioni sui giudici
I tempi non saranno brevi. Finora ci sono state due udienze e all’ultima, il 30 aprile scorso, Lily Flordelis, 56 anni, responsabile dell’organizzazione «Bahay Tuluyan Foundation» che si occupa di tutela dell’infanzia, ha depositato un’istanza per far trasferire l’inchiesta a Manila. Motivo: pressioni forti esercitate sui giudici e sui testimoni. Fu proprio lei, insieme alla vicedirettrice della Ong, a presentare denuncia contro Bosio dopo averlo sorpreso in una piscina del resort «Splash Island» con tre bambini di 9, 10 e 12 anni. E adesso chiede al ministro della Giustizia di voler «tutelare» la genuinità del processo. In una lettera trasmessa il 12 aprile ha affermato: «Ci sono le basi per credere che ci sia parzialità di giudizio da parte del Procuratore Capo Agripino Baybay III, ragioni che non possono essere svelate qui per ragioni di sicurezza» facendo poi riferimento a «pressioni esercitate anche dal pool di legali». Un’accusa respinta dall’avvocato italiano Elisabetta Busuito che per questo aveva chiesto alla Farnesina di intervenire.

«Ho fatto il bene dei bambini»
La prima fase d’indagine è conclusa. La polizia ha interrogato le due donne dell’associazione e i tre minori. I verbali dei bimbi sono stati pubblicati qualche giorno fa sul blog del giornalista Pio D’Emilia. Hanno confermato di essere stati avvicinati dal diplomatico «mentre facevamo l’elemosina e ci ha chiesto se volevamo divertirci un po’» e di essere stati portati «prima da McDonald’s a mangiare e poi nella sua casa perché eravamo sporchi... Ci ha detto di fare una doccia perché eravamo troppo sporchi per andare in giro. Ci ha aiutato a lavarci».

Bosio ha sempre giurato di essere «innocente», attraverso familiari e difensori continua a ripetere di aver sempre fatto «il bene dei bambini come testimoniano centinaia di persone che porterò davanti al giudice quando mi sarà concessa la possibilità di difendermi». E secondo l’avvocato Busuito «la prova che non c’è stato alcun abuso è la testimonianza degli stessi bambini quando hanno negato di aver subito violenza».

In una cella da 30 metri quadri con 80 persone
In realtà la legge filippina punisce chiunque si accompagni a minori e tra le contestazioni che hanno portato all’arresto dell’ambasciatore c’è anche quella di non aver chiesto alcun permesso ai genitori per portare via i bambini. Anche perché i giudici filippini non hanno ritenuto convincente la giustificazione di Bosio sulla sua volontà di «far divertire i bambini portandoli al parco».

A poche ore dalla cattura Bosio era stato liberato, sia pur con l’obbligo di rimanere a Binyan. Provvedimento revocato il giorno dopo, quando è stato trasferito nel carcere locale. L’avvocato conferma che si trova «in una cella da 30 metri quadri con altre 80 persone, dove non ci sono letti né servizi igienici sufficienti». «Non ci sarà alcun trattamento di favore», aveva assicurato il capo della polizia. E adesso si attende la decisione del giudice sulla sede processuale.

3 maggio 2014 | 07:28
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Da - http://www.corriere.it/cronache/14_maggio_03/diplomatico-arrestato-filippine-battaglia-processo-0176ff5a-d280-11e3-8ae9-e79ccd3c38b8.shtml
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« Risposta #187 inserito:: Maggio 12, 2014, 04:58:02 pm »

Migliaia di fascicoli su politici e favori
L’archivio di Scajola sotto sequestro
Per i pm il politico è «socialmente pericoloso»
S’indaga su movimenti bancari per milioni di euro


Di Giovanni Bianconi e Fiorenza Sarzanini

Decine di raccoglitori catalogati per nome e per argomento. Documenti riservati, veri e propri dossier che l’ex ministro dell’Interno Claudio Scajola custodiva nei propri studi di Roma e Imperia oltre che a Villa Ninnina, la lussuosa dimora ligure a Diano Calderina. È l’archivio messo sotto sequestro dagli investigatori della Dia per ordine dei pubblici ministeri di Reggio Calabria. Non è l’unico. In una cantina della segretaria di Amedeo Matacena, Maria Grazia Fiordelisi, sono state trovate migliaia di carte che dovranno essere adesso analizzate. Materiale prezioso per l’inchiesta che ha portato in carcere Scajola e tutte le persone che negli ultimi mesi hanno protetto e agevolato - secondo l’accusa - la latitanza di Matacena, l’ex deputato di Forza Italia condannato a cinque anni di pena per complicità con la ‘ndrangheta. Le verifiche si concentrano poi sulle movimentazioni bancarie, per ricostruire i flussi finanziari che avrebbero consentito a Scajola e agli altri di mettere in sistema il «programma criminoso», come lo hanno definito i magistrati motivando la scelta di indagarli anche per concorso esterno in associazione mafiosa. In particolare emergono alcuni trasferimenti di denaro, considerati sospetti, effettuati da Chiara Rizzo, la moglie dell’ex parlamentare riparato a Dubai.

Scajola «socialmente pericoloso»
Nella loro richiesta di cattura gli inquirenti - il procuratore di Reggio Calabria Federico Cafiero De Raho, il sostituto Giuseppe Lombardo e il pm nazionale antimafia Francesco Curcio - evidenziano come le risultanze investigative «costituiscono uno spaccato di drammatica portata, in grado di enfatizzare la gravità “politica” del comportamento penalmente rilevante consumato da Scajola, il cui disvalore aumenta a dismisura proprio nel momento in cui lo si mette in correlazione al delitto di concorso esterno in associazione di tipo mafioso posto in essere da Matacena, da considerare la manifestazione socio-criminale più pericolosa per uno Stato di diritto che un ex parlamentare ed ex ministro dell’Interno dovrebbe avversare con tutte le sue forze e che, invece, consapevolmente sostiene, agevola, rafforza».

Al momento di sollecitare l’arresto preventivo chiedono che sia disposto il trasferimento in carcere per due motivi: «Da un lato l’obiettiva gravità dei fatti reato e dall’altro la evidente pericolosità sociale dei prevenuti, quali risultano dall’estremo allarme riconnesso a condotte delittuose poste in essere in modo programmato». Tutto questo, aggiungono, «non solo è essenziale alla conservazione ed al rafforzamento della capacità di intimidazione che deriva dal vincolo associativo che caratterizza l’organizzazione di tipo mafioso a favore della quale il contributo consapevole di Matacena è stato prestato, ma si pone come ineludibile passaggio al fine di evitare o, comunque, arginare l’espansione in ambiti imprenditoriali e politici delle consorterie criminali di tipo mafioso, potenzialmente in grado di condizionare in modo irreversibile tali ambiti decisionali ed operativi». E concludono: «Tale giudizio negativo, che si riflette inevitabilmente in termini di concretezza e specificità anche sulla valutazione del pericolo di reiterazione di analoghe condotte delittuose, risulta rafforzato dalla capacità criminosa degli indagati».

Le carte riservate
Sono migliaia i documenti che Scajola conservava seguendo un metodo che gli investigatori definiscono «maniacale». Riguardano politici, imprenditori, personaggi con i quali ha avuto a che fare nel corso della sua lunga e intensa attività. Ma anche affari, viaggi, richieste di interventi, raccomandazioni. Qualche settimana fa, nell’ambito di un’inchiesta che riguarda il porto d’Imperia, i magistrati della Procura locale gli avevano sequestrato materiale riservato risalente all’epoca in cui era ministro dell’Interno. Comprese alcune relazioni su Marco Biagi. In quell’occasione si trattò di una ricerca mirata. Giovedì scorso, invece, gli inquirenti calabresi hanno deciso di portare via l’intero archivio, alla ricerca di ogni elemento utile a sostenere l’accusa più grave. Non solo lì.

Quando sono arrivati nell’abitazione sanremese della segretaria di Matacena, Maria Grazia Fiordelisi, gli agenti della Dia hanno scoperto che la donna aveva la disponibilità anche di una cantina. E in esecuzione dell’ordine dei magistrati che prevedeva la verifica «delle pertinenze e dei locali annessi a tutti gli immobili», alla ricerca degli indizi necessari a «ricostruire la genesi e la natura dei rapporti tra i soggetti sottoposti a indagini», hanno deciso di controllarla. Senza immaginare di poter trovare tanto materiale. Nello scantinato c’erano infatti - pure in questo caso classificati in faldoni - molti documenti relativi all’attività dell’ex parlamentare condannato.

Movimenti per milioni di euro
Un intero capitolo della richiesta d’arresto è dedicato ai «riscontri economico-finanziari» che i pubblici ministeri ritengono di aver trovato all’ipotesi accusatoria. Sono elencate decine di movimentazioni bancarie che ora gli indagati saranno chiamati a chiarire. In particolare sui conti di Chiara Rizzo risultano trasferimenti di denaro di vari importi. Alcuni molto consistenti, come quello del 15 luglio 2009 per 952.000 euro; oppure quello da 270.000 euro effettuato nel 2010 attraverso la Compagnie Monegasque de Banque - Principato di Monaco, Paese nel quale la signora Matacena ha spostato la residenza.

Sotto osservazione è finito pure il patrimonio della madre del condannato, anch’essa indagata nell’inchiesta calabrese e ora agli arresti domiciliari, con particolare attenzione agli spostamenti di soldi tra l’Italia e l’estero.

12 maggio 2014 | 08:25
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DA - http://www.corriere.it/cronache/14_maggio_12/migliaia-fascicoli-politici-favori-l-archivio-scajola-sotto-sequestro-ba0da292-d999-11e3-8b8a-dcb35a431922.shtml
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« Risposta #188 inserito:: Maggio 22, 2014, 05:42:50 pm »

Il caso
Fascicoli su Tangentopoli e le Br nell’archivio segreto di Scajola
Una lettera smentisce la versione dell’ex ministro sulle minacce a Biagi


Di FIORENZA SARZANINI

Documenti classificati, atti riservati, appunti manoscritti sulle vicende che hanno segnato il suo incarico di ministro dell’Interno, ma anche la storia giudiziaria degli ultimi anni da Tangentopoli ai più recenti attentati firmati dalle Brigate Rosse. Tra le centinaia di carte trovate dalla Guardia di Finanza nell’archivio di Claudio Scajola, affidato al suo segretario Luciano Zocchi e a uno 007 del servizio segreto militare, c’erano anche scritti che svelerebbero un ruolo ben diverso da quello finora emerso nelle indagini sulla mancata scorta al professor Marco Biagi.

Nel fascicolo trasmesso dalla Procura di Roma ai colleghi di Bologna ci sarebbe infatti la lettera di un politico vicino allo stesso Biagi, spedita al Viminale pochi giorni prima dell’attentato delle Brigate Rosse del 19 marzo 2002 per caldeggiare l’assegnazione del dispositivo di protezione evidenziando la serietà della minaccia. La missiva risulterebbe «vistata» da Scajola che invece ha sempre sostenuto di non essere mai stato informato del reale pericolo per il giuslavorista bolognese. Non solo.

Nell’archivio erano conservate due cartelline riguardanti le vicende giudiziarie di Alberto Grotti, l’ex presidente dell’Eni finito in carcere per le tangenti Enimont nel 1993. E tanto basta per comprendere come la scoperta di faldoni e cartelline, buste di carta e di plastica che il segretario e l’agente segreto hanno custodito nei loro appartamenti, apra nuovi e inediti scenari investigativi.
I finanzieri ci sono arrivati per caso, nel corso delle verifiche sul ruolo avuto dallo stesso Zocchi nella disputa per l’eredità lasciata del marchese Gerini ai Salesiani. Il 9 luglio 2013, durante una perquisizione nel suo appartamento, trovano numerosi raccoglitori con i documenti dell’ex ministro e un «quaderno rosso» dove è annotato l’elenco delle altre carte portate a casa dello 007. Zocchi racconta di avergli chiesto aiuto «perché era una persona che conoscevo bene, un poliziotto che avevo fatto assumere al Sismi di Pollari e io a casa non avevo spazio per tenerli».

Una versione che non appare affatto credibile per gli inquirenti. Anche perché lo stesso Zocchi aggiunge: «Al momento delle dimissioni dal Viminale sono state le segretarie a fare gli scatoloni mandando le carte alla sede di Forza Italia. Poi io sono stato chiamato dal responsabile organizzativo Alessandro Graziani e ho deciso di mandarli a prendere». Scajola si dimise da ministro dell’Interno nel maggio del 2002 dopo aver definito Marco Biagi «un rompicoglioni» e dunque gli scatoloni dovrebbero contenere atti fino a quella data. Tra i documenti affidati al segretario e allo 007 ce ne sono svariati che hanno invece una data successiva, alcuni risalgono addirittura al 2012. Quanto basta per dimostrare che in realtà la raccolta è stata alimentata in tutti questi anni, ma anche per far sorgere nuovi e più inquietanti dubbi.

Il 9 luglio 2013 i finanzieri vanno subito a casa dello 007 e quando arrivano, lui consegna alcune buste «contenenti documenti» tutti numerati, alcuni con un codice alfanumerico. Poi specifica: «Le borse che vi ho consegnato mi sono state date dal signor Zocchi di recente, ma non ricordo precisamente il giorno, il quale a titolo di cortesia mi ha chiesto di custodirle in attesa di un suo trasferimento ad altro domicilio. Le buste, a quanto detto dal signor Zocchi, contengono suoi effetti o carte personali di cui non conosco la fattispecie, provenienza e contenuto. Le buste sono imballate e sigil-late così come mi sono state consegnate».
L’ipotesi è che in realtà il materiale sia stato visionato da entrambi e adesso si sta cercando di scoprire se anche altri ne fossero a conoscenza, soprattutto si vuole sapere se possa essere stato utilizzato a fini illeciti.

21 maggio 2014 | 07:11
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Da - http://www.corriere.it/cronache/14_maggio_21/fascicoli-tangentopoli-br-nell-archivio-segreto-scajola-68a7a6fc-e0a4-11e3-90e5-e001228dc18c.shtml
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« Risposta #189 inserito:: Maggio 31, 2014, 10:29:25 pm »

L’amicizia
«Fiori, pranzi, biglietti per Sanremo»
Scajola ossessionato da lady Matacena
L’ex segretaria: «Se lei veniva a pranzare in ufficio, lui mi chiamava per dirmi quando potevo rientrare a riordinare»
di Fiorenza Sarzanini fsarzanini@corriere.it

ROMA - Fiori spediti sulle navi dove trascorreva le vacanze, segretarie e poliziotti della scorta sempre pronti a soddisfare esigenze e richieste, controlli e pedinamenti quando aveva la sensazione «che ci fosse qualcuno che si prendeva un po’ cura di lei, come faceva lui». Era una vera e propria ossessione quella che Claudio Scajola aveva per Chiara Rizzo, la moglie di Amedeo Matacena. Le attenzioni quasi maniacali e la gelosia a tratti morbosa, già svelate dai colloqui intercettati, vengono adesso confermate dalla segreteria dell’ex ministro, Roberta Sacco, anche lei arrestata con l’accusa di aver fatto parte della «rete» che favoriva la latitanza dell’ex parlamentare di Forza Italia - fuggito a Dubai dopo la condanna definitiva a 5 anni per concorso esterno in associazione mafiosa - e scarcerata per un errore di procedura. È il verbale di interrogatorio, ma soprattutto il memoriale consegnato dalla donna ai pubblici ministeri di Reggio Calabria, a rivelare come Scajola si fosse messo totalmente a disposizione della signora Rizzo tanto che la sua collaboratrice confessa che l’ex ministro «mi ha sempre chiesto riservatezza circa i loro incontri o contatti, in particolare nei confronti della sua famiglia» e di avergli «fatto presente che gli incontri con la Rizzo di cui ero a conoscenza e complice mi creavano disagio verso sua moglie che conosco da anni, ma la mia esternazione non ha prodotto alcun esito».

La crociera e i pranzi
Sacco racconta che negli ultimi due anni «i contatti tra Scajola e la Rizzo erano periodici, a volte lei veniva in ufficio per pranzare con lui. Le disposizioni impartite da Scajola consistevano nell’allestire il pranzo dopodiché potevo lasciare l’ufficio e tornavo a riordinare all’orario concordato con l’onorevole oppure lui mi telefonava per dirmi che potevo rientrare in ufficio». Ma «dalla fine della scorsa estate» il rapporto sembra allentarsi.

Scrive la segretaria: «In corrispondenza di una crociera che la signora Rizzo ha effettuato con amici e di cui sono al corrente perché Scajola mi aveva chiesto di trovare un modo per far avere dei fiori sia in nave sia in un hotel dove faceva scalo, Scajola ha iniziato a parlarmi delle sue preoccupazioni circa l’amicizia con la signora Rizzo, in pratica pensava che potesse esserci qualcuno che si prendeva un po’ cura di lei come faceva lui. Questo è associato al fatto che dopo la vacanza la signora “sfuggiva” e non riuscivano più a vedersi e a concordare gli incontri come facevano prima. Lui era dispiaciuto per questa situazione e tendeva a voler sapere ogni spostamento di lei per poterne verificare la sincerità».

Pedinamenti e controlli

È in questo momento che la gelosia sembra avere il sopravvento. Racconta Sacco: «Ho appreso che in un’occasione Scajola chiese alla sua segretaria romana, Vincenza Maccarone, di pedinare la Rizzo per verificare se la stessa avesse un appuntamento con Francesco Bellavista Caltagirone. Ciò è avvenuto dopo la crociera della Rizzo nel mese di agosto 2013». Non è l’unica volta: la stessa Sacco viene coinvolta in questi controlli, come lei stessa racconta ai magistrati.

Il 12 febbraio scorso gli investigatori della Dia pedinano la Rizzo per scoprire chi sia «l’Orco» di cui Scajola parla in alcune intercettazioni. E la sorprendono all’aeroporto di Fiumicino in compagnia dell’ingegner Bellavista Caltagirone. Il giorno prima la Rizzo era scesa dall’aereo privato che doveva portarla a Roma inventando una scusa con Scajola e l’ex ministro aveva il sospetto che dovesse incontrare un altro uomo. Per questo decise di attivare il suo «servizio segreto» fatto di poliziotti come Michele Quero e segretarie. Sacco lo dice senza esitazioni: «Confermo che Scajola mi incaricava di verificare gli spostamenti della Rizzo. In un’occasione attraverso Quero: ricordo mi disse di verificare se a bordo dell’aereo vi fosse Bellavista Caltagirone che sospettava intrattenesse una relazione con la Rizzo. Per questo motivo mi disse di verificare, tramite altro personale di scorta, la targa della Porsche Cayenne della Rizzo».

La consegna del regalo
Viaggi da Imperia a Montecarlo oppure a Ventimiglia andata e ritorno, piccole commissioni relative alle auto da riparare, ricerca di operai per i lavori di ristrutturazione da effettuare nell’appartamento monegasco: ogni esigenza della Rizzo veniva soddisfatta da Scajola incaricando la fidata segretaria di provvedere. Anche quando si trattava di acquistare i regali.

Ricorda Sacco: «Nel mese di febbraio Scajola mi ha chiesto di raggiungere la signora Rizzo a Sanremo, presso un centro medico dove aveva appuntamento con il figlio, per consegnarle un sacchetto contenente due biglietti per il Festival di Sanremo che era in corso quella stessa settimana. Era un presente di Scajola per il suo compleanno».

31 maggio 2014 | 06:59
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Da - http://www.corriere.it/cronache/14_maggio_31/fiori-pranzi-biglietti-sanremo-l-ossessione-scajola-lady-matacena-e75e3c40-e87e-11e3-8609-4be902cb54ea.shtml
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« Risposta #190 inserito:: Giugno 14, 2014, 10:25:37 pm »

L’ordinanza

Posti barca e donne ai finanzieri
Il «sistema» per aggiustare i controlli
L’inchiesta di Napoli e la Finanza, ecco il sistema delle tangenti


Di FIORENZA SARZANINI

DALLA NOSTRA INVIATA NAPOLI - Ci sono imprenditori che collaborano, ma a parlare sono soprattutto ufficiali e sottufficiali. Uomini della Guardia di Finanza che accusano i loro superiori di aver preso tangenti. E svelano al procuratore aggiunto Vincenzo Piscitelli e al sostituto Henry John Woodcock l’esistenza di un «sistema» di corruzione che ha già fatto finire in carcere il colonnello Fabio Massimo Mendella, mentre sono indagati il comandante in seconda Vito Bardi e il suo predecessore Emilio Spaziante, tuttora agli arresti per lo scandalo del Mose di Venezia. Non sono gli unici. Ci sono nomi ancora coperti, componenti di quella «rete» che avrebbe preteso soldi, vacanze, favori e forse, ma su questo i controlli sono tuttora in corso, appuntamenti con alcune escort.

Testimoni contro Bardi
È l’ordine di perquisizione notificato ieri al generale a svelare gli elementi raccolti dai pubblici ministeri facendo emergere un quadro di testimonianze incrociate: «Dalle indagini finora svolte è emerso lo stretto legame di ordine personale intercorso tra il colonnello Mendella, percettore di somme illecitamente richieste asseritamente per sé ed altri, ed il generale Vito Bardi, attuale comandante in seconda della Guardia di Finanza. Diverse fonti testimoniali - di cui si omette allo stato il riferimento nominativo per ragioni di cautela processuale, potendo le stesse in ragione del ruolo rivestito da Bardi essere oggetto di iniziative inquinanti - hanno riferito sia dei rapporti di stretta vicinanza tra Mendella e Bardi, sia dei rapporti di familiarità di quest’ultimo con imprenditori partenopei (e non) a loro volta oggetto delle presenti e più ampie investigazioni. Tali ultime circostanze sono state riferite anche da appartenenti alla stessa Guardia di Finanza collocati ad alti livelli gerarchici sentiti come persone informate (di cui parimenti si omette il riferimento nominativo allo stato per le medesime ragioni in precedenza esposte). Altri soggetti hanno riferito di rapporti ispirati a richieste di favori di rilievo economico riguardanti Bardi, oggetto delle presenti investigazioni».

Le caserme in affitto
Tra gli imprenditori interrogati c’è Achille D’Avanzo, in passato legato al generale Nicolò Pollari e poi molto vicino a Bardi. Sono soprattutto due le circostanze emerse dagli accertamenti affidati agli investigatori della Digos. Il primo riguarda l’affitto della caserma di Napoli dove ha sede il Comando provinciale delle Fiamme Gialle e altri stabili che l’immobiliarista avrebbe concesso proprio ai finanzieri. I canoni vengono fissati dall’Ufficio tecnico erariale, ma per questo caso si è deciso di fare un’eccezione. E dunque Bardi avrebbe stabilito di concedere all’amico il massimo possibile ottenendo una contropartita che sarebbe già stata svelata e sulla quale sarebbero tuttora in corso le verifiche. Ma a destare sospetto è anche la decisione presa dallo stesso D’Avanzo di spostare la sede di una delle sue società da Napoli a Roma proprio in seguito al trasferimento di Mendella nella capitale. Esattamente come accaduto per la «Gotha spa» dei fratelli Pizzicato che collaborano con i magistrati e hanno raccontato di aver ricevuto il suggerimento proprio dal colonnello. I difensori dell’imprenditore mettono le mani avanti sostenendo che «le società del gruppo hanno sede nella capitale sin dal 2004».

Il posto barca
Al fascicolo di inchiesta è stato allegato il verbale dell’imprenditore Mauro Velocci, già coinvolto insieme ad Angelo Capriotti nell’inchiesta sugli appalti all’estero gestiti dal faccendiere Valter Lavitola. Il 23 luglio scorso l’uomo viene interrogato da Woodcock e dichiara: «Mi chiedete se Capriotti mi abbia mai riferito di rapporti con ufficiali della Guardia di Finanza e di eventuali richieste avanzate da questi ultimi. Posso dire che intorno al 2006 Capriotti mi mandò negli uffici del generale Bardi per consegnargli un esposto denuncia. Ricordo che io e Capriotti andammo una prima volta insieme dal generale Bardi nel suo ufficio di Napoli e poi Capriotti mi mandò da solo sempre negli uffici del Comando regionale. In questa occasione prese una copia del mio esposto e mi disse che avrebbe seguito lui direttamente la vicenda, tuttavia non abbiamo saputo più nulla. Credo un anno dopo Capriotti mi disse che il generale Bardi gli aveva fatto delle richieste “strane” ovvero richieste di utilità, se non sbaglio riferite all’acquisto o alla locazione di un posto barca ad Ostia».

La «donna che ti vuole»
L’8 marzo scorso viene intercettata una telefonata tra Mendella e un amico avvocato, Marco Campora. Il colonnello dovrebbe aver appreso di avere i telefoni sotto controllo e dunque usa il legale come tramite per incontrare il commercialista Pietro De Riu. Per questo i pubblici ministeri vogliono adesso accertare se l’incontro con la donna sia effettivamente avvenuto o se invece fosse una «finta» per mascherare invece un appuntamento.
Mendella : ué Marco! Ti chiamo dopo
Campora : no, no Fabio! Perché ti stavano aspettando
Mendella : ma chi?
Campora : no là ... quella ragazza che ti volevo presentare a piazza dei Martiri là, quindi ti aspetto un quarto d’ora
Mendella : no e non ce la faccio a venire. Oggi non ce la faccio
Campora : eh ... ma scusa questo ti ... cioè qua sta figa qua, ti sta aspettando Fabio
Mendella : non ce la faccio!
Campora : ... una figura di merda. Sta amica di Cristiana qua devi
Mendella : ma non ce la faccio dai, sto al Vomero!
Campora : e devi venire per forza, che cazzo! Cioè
Mendella : dai, non ce la posso fare. C’ho pure ... adesso è arrivata pure Catia
Campora : eh no e Fabio dai, vieni, vieni! Fammi sta cortesia perché ... vieni, vieni capisci... Perché questo mò ti vo ... ti voleva sc.. mò, qua ... se ti dico vieni è perché devi venire, insomma, capito? Sennò mica ti dicevo cazzate ... hai capito?

13 giugno 2014 | 07:16
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Da - http://www.corriere.it/cronache/14_giugno_13/posti-barca-donne-finanzieri-sistema-aggiustare-controlli-4be678a0-f2b9-11e3-9109-f9f25fcc02f9.shtml
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« Risposta #191 inserito:: Giugno 16, 2014, 07:15:45 pm »

INCHIESTA DELLA PROCURA DI NAPOLI

Gdf, indagato per corruzione il comandante in seconda Bardi
L’inchiesta della Procura di Napoli ha portato anche all’arresto del comandante di Livorno Mendella per presunte verifiche fiscali «pilotate» nel capoluogo partenopeo

di FIORENZA SARZANINI

Indagato per corruzione il generale Vito Bardi, comandante in seconda della Guardia di Finanza. Si tratta dell’ultimo sviluppo dell’inchiesta che ha portato - nella mattinata di mercoledì- anche all’arresto del colonnello Fabio Massimo Mendella, comandante della Guardia di Finanza di Livorno accusato di aver percepito un milione di euro per «pilotare» verifiche fiscali favorendo alcune società di imprenditori «amici» quando era in servizio a Napoli.

Perquisizione
Bardi è sospettato di aver ricevuto parte di quella somma oltre ad alcuni regali e favori. Nell’ambito dell’inchiesta i pm di Napoli Piscitelli e Woodcock hanno disposto una perquisizione degli uffici di Bardinella sede del Comando generale della Gdf in viale XXI Aprile a Roma.

L’inchiesta
Il colonnello Mendella -comandante provinciale della guardia di finanza di Livorno - è finito in carcere insieme a un commercialista napoletano Pietro de Riu. I reati ipotizzati dalla Procura di Napoli sono concorso in concussione per induzione e rivelazione del segreto d’ufficio. In particolare De Riu avrebbe incassato per conto di Mendella, responsabile del settore verifiche del Comando provinciale di Napoli dal 2006 al 2012, oltre un milione di euro per evitare verifiche ed accertamenti fiscali.

11 giugno 2014 | 14:21
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Da - http://www.corriere.it/cronache/14_giugno_11/corruzione-gfd-perquisisce-ufficio-comandante-seconda-bardi-3c835cf6-f161-11e3-affc-25db802dc057.shtml
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« Risposta #192 inserito:: Giugno 16, 2014, 07:21:34 pm »

Stragi del mare, l’Italia ormai è sola Un’emergenza da affrontare senza Ue

Di FIORENZA SARZANINI

L’ora di arrendersi adesso è davvero arrivata. Di fronte a questi nuovi morti in mare, di fronte ai volti sconvolti e agli occhi terrorizzati di chi invece ce l’ha fatta, è il momento di fermarsi davvero. Perché l’Italia deve prendere atto di essere ormai isolata, addirittura presa in giro dalle autorità europee che continuano a promettere aiuti e interventi, che assicurano appoggio e investimenti finanziari. Non è successo fino ad ora e non succederà in futuro. Quel che accade in quel tratto di mare che ci separa dal Nord Africa è un affare di cui nessuno vuole più occuparsi.
È inutile credere che alla fine ci sarà una collaborazione, illudersi sulla realizzazione di un piano d’intervento internazionale. I migranti in fuga dalla guerra e dalla povertà che seguono la rotta verso la Sicilia sono evidentemente «merce umana» per i trafficanti e «vuoti a perdere» per gli Stati europei e per il governo dell’Unione. Dunque spetta a Roma affrontare la situazione, prima che l’emergenza diventi davvero difficile da gestire. Prima d’assistere durante l’estate a un’invasione o, peggio, a un naufragio dopo l’altro. L’operazione «Mare Nostrum», che tante vite ha finora consentito di salvare, sta infatti creando un effetto paradosso. I trafficanti e gli stessi migranti ormai sanno che basta lanciare un Sos per essere soccorsi. E dunque intraprendono il viaggio anche in condizioni proibitive, soprattutto utilizzando sempre più spesso mezzi di fortuna. Piccole imbarcazioni che non sono naturalmente adatte ad affrontare la traversata. Le riempiono di persone e le fanno partire.

Ecco perché bisogna fermarsi e ripensare il piano d’intervento, discutendo nuovi compiti e diversi obiettivi della missione umanitaria. Soltanto così l’Italia potrà garantire accoglienza e assistenza ai profughi, potrà provvedere a una sistemazione degna per le donne e i bambini che continuano a giungere sulle nostre coste e poi non hanno alcuna speranza di un futuro. «Mare Nostrum» era stata approvata come misura tampone in attesa che l’Europa varasse un progetto articolato. Poiché questo non è accaduto, l’Italia deve agire da sola e scegliere una strada che consenta di affrontare il problema in maniera strutturata. Ma deve farlo in via d’urgenza. Prima che sia troppo tardi e la conta dei morti diventi addirittura più pesante.

15 giugno 2014 | 15:18
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Da - http://www.corriere.it/cronache/14_giugno_15/stragi-mare-l-italia-ormai-sola-un-emergenza-affrontare-senza-ue-a75c1538-f48e-11e3-8a74-87b3e3738f4b.shtml
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« Risposta #193 inserito:: Giugno 21, 2014, 10:43:07 am »

L’omicidio di Yara e la fuga di notizie
Botta e risposta Alfano-Procura Non è l’ora delle liti

La notizia dell’arresto era sul sito del Corriere prima della nota del Viminale

Di FIORENZA SARZANINI

Dalla scomparsa di Yara Gambirasio sono trascorsi quasi quattro anni, oltre tre da quando il suo corpo martoriato è stato trovato nel campo di Chignolo d’Isola. Un periodo lunghissimo vissuto nella ricerca affannosa dell’assassino, nella paura che un pericoloso omicida girasse libero e indisturbato, nell’angoscia che l’indagine potesse finire in nulla. E adesso che una pista vera è stata imboccata, appare quasi stucchevole la polemica tra il procuratore di Bergamo Francesco Dettori e il ministro dell’Interno Angelino Alfano.

Ha sbagliato il titolare del Viminale a diramare un comunicato sul fermo di Massimo Giuseppe Bossetti mentre l’uomo era ancora nella caserma dei carabinieri del comando provinciale di Bergamo. Ha commesso un errore grave parlando di «assassino» senza preoccuparsi di avere alcuna cautela riguardo alla presunzione d’innocenza che invece vale fino al terzo grado di giudizio. Ma anche il capo dei pubblici ministeri sembra aver preso un abbaglio. Il sito Internet del Corriere della Sera ha dato la notizia del fermo di un uomo accusato del delitto prima della nota del Viminale. Dunque non è vero che la Procura aveva stabilito di agire nel massimo riserbo come ha dichiarato pubblicamente l’alto magistrato, oppure se l’aveva deciso non è comunque riuscita a custodire il segreto.

Accade spesso, succede quasi sempre riguardo a vicende che hanno un simile impatto sui cittadini e dunque una grande risonanza mediatica. E dunque non è di questo che bisogna continuare a stupirsi. C’è una famiglia che da tempo attende di conoscere la verità, aspetta di poter guardare negli occhi la persona che in una sera d’autunno portò via la loro figlia e sorella, le usò violenza e poi, dopo averla ferita gravemente, la abbandonò in un prato. Il papà e la mamma di Yara hanno sempre mostrato grande compostezza e dignità, hanno scelto la strada del silenzio e della discrezione così mostrando estrema fiducia nelle istituzioni. Senza mai smettere di sperare di poter avere giustizia. È la loro esigenza che adesso bisogna soddisfare. Ed è necessario farlo senza alimentare inutili e sterili diatribe che rischiano soltanto di inquinare un’indagine delicatissima che coinvolge tante altre persone e rischia di distruggere moltissime vite. Il lavoro degli investigatori e degli inquirenti è ancora lungo e ricco di insidie. Bisogna procedere un passo dopo l’altro analizzando ogni elemento, valutando ogni mossa. Sarebbe auspicabile che si pensi soltanto a questo, lasciando il resto - soprattutto la politica e i suoi protagonisti - fuori da tutto.

18 giugno 2014 | 09:20
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Da - http://bergamo.corriere.it/notizie/opinioni/14_giugno_18/botta-risposta-alfano-procura-non-l-ora-liti-14145dc2-f6b8-11e3-a606-b69b7fae23a1.shtml
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« Risposta #194 inserito:: Giugno 22, 2014, 05:44:52 pm »

L’interrogatorio di Bossetti
«Non ero a Brembate per Yara Incontravo solo mio fratello»
Ma Fabio lo smentisce. La moglie chiede di vederlo

Di Fiorenza Sarzanini Giuliana Ubbiali
DAI NOSTRI INVIATI

BERGAMO - «È vero, andavo a Brembate, ma io Yara non la conosco. Ci andavo spesso perché lì abita mio fratello e c’è il mio commercialista. Ma avete sbagliato, l’assassino non sono io». Giovedì 19 giugno, ore 9.30. Nel carcere di Bergamo Massimo Giuseppe Bossetti racconta la sua verità. Parla per un’ora, nega di essere «Ignoto 1», l’uomo che ha lasciato una traccia di DNA sugli slip della vittima. Fornisce una versione dei fatti che i carabinieri del Ros e i poliziotti dello Sco stanno adesso verificando. Però non convince il giudice Ezia Maccora che quella stessa sera firma un’ordinanza di custodia cautelare per omicidio aggravato dai motivi di crudeltà e dalla minorata difesa della vittima che aveva soltanto 13 anni. Anche perché sia il fratello, sia il professionista hanno in parte smentito il suo racconto. Il momento più drammatico è quello dell’inizio. Il gip gli comunica ufficialmente l’esito delle verifiche sulla paternità: «Lei risulta figlio di Giuseppe Benedetto Guerinoni». Nell’aula cala il gelo. Lui rimane immobile, sgrana gli occhi. Guarda il suo avvocato Silvia Gazzetti quasi a cercare conforto. E poi dichiara: «Sono cresciuto sapendo di essere il figlio di Ester Arzuffi e Giovanni Bossetti. Soltanto ieri, leggendo un giornale qui in carcere ho scoperto che Giovanni non è mio padre. Voglio dire che per me mio padre è lui». E aggiunge: «Quando venne fuori la storia di Guerinoni chiesi a mia madre se lo conosceva». Si capisce che è disperato, ma più volte ripete di essere innocente: «Non ho ucciso Yara. Non avrei mai potuto fare un gesto simile. Non sono capace di fare del male a nessuno, ho figli della sua stessa età». Non contesta l’esito degli esami sul Dna. «Ma non so spiegare perché l’abbiate trovato sugli slip della ragazzina». Due giorni fa sua moglie Marita Comi ha chiesto di poterlo vedere. Lui è in isolamento e adesso sarà il pubblico ministero Letizia Ruggeri a dover decidere se autorizzare il colloquio.

Le visite a Brembate
Il giudice gli chiede di ricostruire che cosa ha fatto la sera di venerdì 26 novembre 2010, quando Yara è scomparsa. «Sono passati quattro anni, però ricordo i miei movimenti di quel giorno perché sono un tipo metodico. Ho una vita normale, mi dedico al lavoro e alla famiglia e quindi ho delle abitudini ripetitive. Esco la mattina presto per andare al cantiere, mangio velocemente mentre sono al lavoro, poi il pomeriggio torno a casa, mi faccio una doccia e sto con i miei figli. Dopo cena mi addormento sul divano per la stanchezza. La sera esco raramente, sempre in compagnia di mia moglie e dei miei figli. Adoro mia moglie. La domenica di solito sto con i miei parenti. Sono molto legato ai miei genitori». Poi aggiunge: «Ricordo che cosa feci quella sera perché passando di fronte al centro sportivo vidi furgoni con grosse parabole e ne fui attratto. Era il 26, o forse il 27 novembre». La circostanza è falsa perché la sparizione di Yara fu denunciata dal padre la mattina del 27 e le televisioni arrivarono non prima del giorno successivo, la domenica. Si arriva così alla sua presenza frequente nella zona dove abita Yara, nei pressi della Città dello Sport dove la ragazzina andava a fare ginnastica. E lui si giustifica: «Vado a Brembate da mio fratello Fabio e dal mio commercialista». Entrambi vengono interrogati. Fabio Bossetti spiega che «con mio fratello ci vediamo di rado perché lui è un tipo solitario. Veniva pochissime volte, io non sono mai andato a casa sua». Cauto anche il commercialista: «Sarà venuto una volta al mese, quando mi portava le fatture da registrare».

Il percorso e i negozi
«In quel periodo lavoravo in un cantiere di Palazzago con mio cognato, stavamo costruendo una palazzina. Passavo da Brembate Sopra per tornare a casa, a Mapello. Talvolta mi fermavo per un caffè o una birra. Oppure all’edicola perché lì compravo le figurine per mio figlio. E poi andavo dal benzinaio». Le verifiche effettuate in queste ore dagli investigatori riguardano eventuali percorsi alternativi che sono più veloci e più brevi per verificare se possa essere passato anche altrove. Un controllo che viene fatto anche analizzando i filmati delle telecamere sequestrati al momento della scomparsa della ragazzina. Certamente Bossetti andava «almeno due volte alla settimana» al centro estetico «Oltremare», come ha ricordato la proprietaria per fare la «doccia» abbronzante. Nel novembre 2010 il negozio si trovava di fronte alla villetta dei Gambirasio. Lui nega una simile frequenza: «Tengo al mio aspetto fisico, ma non è vero che ci stavo così spesso, anche perché io lavoro all’aria aperta e il sole lo prendo anche così».

Il cellulare «muto»
Il giudice gli contesta che dopo l’ultima telefonata alle 17.45 del 26 novembre 2010 il suo telefono cellulare sia rimasto muto fino alle 7 della mattina successiva. Lui dichiara: «Da qualche settimana il cellulare non funzionava bene, la batteria non reggeva e infatti poi l’ho cambiato. Quella sera posso averlo spento e messo in carica per riaccenderlo la mattina successiva prima di andare al lavoro. del resto a casa ho il telefono fisso». In queste ore si stanno effettuando nuovi controlli sui tabulati perché secondo le prime verifiche in altri giorni di quello stesso periodo il cellulare ha registrato «traffico» anche nelle ore serali.
Quando gli viene chiesto se abbia mai conosciuto la famiglia Gambirasio, Bossetti è netto: «Non ho mai visto Yara. Ho incontrato sua padre al cantiere di Palazzago dopo la scomparsa della ragazzina. Se fosse successo a mia figlia io non avrei avuto la forza di continuare a lavorare». Nega di aver mai visitato «siti internet pedopornografici», mentre dice che è «molto appassionato ai casi di cronaca nera e li leggo sul computer. Mentre come giornale leggo “L’Eco di Bergamo”, mia suocera è abbonata». Sono cinque i computer che gli sono stati sequestrati, compreso un tablet. E adesso bisognerà verificare che cosa ci sia in tutti gli hard disk.

22 giugno 2014 | 08:40
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Da - http://bergamo.corriere.it/notizie/cronaca/14_giugno_22/non-ero-brembate-yara-incontravo-solo-mio-fratello-b43f09e8-f9d6-11e3-88df-379dc8923ae4.shtml
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