Admin
Utente non iscritto
|
|
« Risposta #15 inserito:: Luglio 27, 2009, 05:01:44 pm » |
|
Retroscena
I giudici indagano sui mezzi militari e sui mutati impegni in campo
Inchieste partite dopo le ultime vittime
ROMA — Nelle informative arrivate al comando dei carabinieri del Ros di Roma viene definito il «punto debole degli armamenti». E sono gli stessi generali della Difesa a confermare come la «ralla» non sia sufficiente a proteggere il militare addetto alla mitragliatrice sui blindati Lince. Perché chi si trova sulla torretta rimane completamente «scoperto» mentre il mezzo è in movimento, dunque esposto all’attacco del nemico.
È proprio su questo aspetto della missione in Afghanistan che si sta concentrando l’attività dei magistrati - procura penale e militare - dopo la morte del caporalmaggiore Alessandro di Lisio e il ferimento degli altri soldati che in questi ultimi giorni sono finiti sotto attacco.
Dopo la modifica delle regole di ingaggio, con il contingente sempre più spesso coinvolto in vere e proprie battaglie, si deve stabilire se gli equipaggiamenti siano adeguati all’impegno richiesto. Anche perché in vista delle elezioni del prossimo 20 agosto, i servizi di intelligence occidentali sono concordi nel ritenere che il livello di rischio si alzerà ulteriormente e le pattuglie che escono in ricognizione saranno obiettivo privilegiato dei talebani e delle formazioni terroristiche che mirano a ottenere il controllo delle aree. Come hanno dimostrato gli ultimi episodi, i reparti italiani partecipano attivamente al conflitto e quindi è indispensabile garantire loro un dispositivo di sicurezza che tenga conto della modifica della missione. Il pericolo più alto è quello per il «rallista», proprio come ha dimostrato la morte di Di Lisio - rimasto schiacciato dopo il ribaltamento del mezzo blindato e dunque si stanno studiando le possibili modifiche per creare una sorta di calotta protettiva. Ma non viene esclusa l’eventualità di utilizzare anche un altro tipo di carro armato.
Lo Stato maggiore pensa al «Freccia » che esternamente è quasi identico al Lince, però ha una blindatura più potente e soprattutto possiede un apparato tecnologicamente avanzato che lo tiene in contatto costante con gli aerei o con i droni, in modo che i militari possano avere la situazione sempre sotto controllo attraverso i monitor. Il pregio sarebbe quello di garantire maggiore capacità di manovra durante eventuali conflitti e più alta protezione di fronte ad attentati con le micidiali bombe utilizzate dai combattenti afgani.
I magistrati hanno acquisito l’elenco dei mezzi e delle armi a disposizione del contingente e nei prossimi giorni riceveranno le informative sugli ultimi episodi che in Afghanistan hanno coinvolto i soldati italiani. Obiettivo dell’indagine rimane infatti quello di accertare se, sia pur in una situazione di guerra come quella che vede coinvolto il contingente, siano stati omessi comportamenti o disposizioni che avrebbero potuto evitare vittime e feriti. E di verificare in base a quali criteri siano stati modificati i cosiddetti «caveat» - vale a dire i limiti alle regole di ingaggio che ogni Paese pone ai propri soldati che adesso consentono la partecipazione alle azioni di guerra. Missioni di difesa, ma anche di attacco, come confermano i vertici del Comando.
Era stato proprio un comunicato ufficiale dei vertici del contingente italiano a specificare che il caporalmaggiore Di Lisio e i suoi colleghi erano stati impegnati «a eliminare ulteriori sacche di resistenza presenti nell’area di Bala Morghab, 200 chilometri a nord di Herat», considerata «snodo strategico fondamentale». E due giorni fa il comandante Rosario Castellano ha spiegato che «è lecito immaginarsi una escalation di tensione anche in vista delle elezioni», di fatto avvalorando la previsione che proprio ad agosto ci sarà un «picco di atti ostili».
Una situazione di pericolo che anima il dibattito politico e convince i magistrati sulla necessità - come del resto era avvenuto in passato anche durante la missione in Iraq e dopo gli attacchi subiti in Afghanistan - di stabilire se si tratti di attività che rientrano nel mandato affidato ai militari e che rispettano le regole stabilite al momento di finanziare la missione.
Fiorenza Sarzanini
27 luglio 2009 da corriere.it
|
|
|
Registrato
|
|
|
|
Admin
Utente non iscritto
|
|
« Risposta #16 inserito:: Agosto 01, 2009, 04:22:25 pm » |
|
L'INCHIESTA DI BARI
Tarantini «in azione» anche dopo l’avviso dei pm
E spuntano le intercettazioni dell’ex assessore: piano sanitario corretto d’accordo con un’azienda
L’attività di Gianpaolo Tarantini nel settore della sanità barese non si è mai fermata. Anche dopo essersi trasferito a Roma per mettersi di fatto a disposizione del premier Silvio Berlusconi, l’imprenditore pugliese avrebbe continuato a gestire la sua Tecno Hospital, società specializzata nella fornitura di protesi, che negli ultimi anni navigava in acque tutt’altro che tranquille. Mentre reclutava prostitute e ragazze immagine da portare alle feste di palazzo Grazioli e Villa Certosa, facendo la spola tra Bari, Roma, Cortina, Milano e le località di vacanza più esclusive, Tarantini avrebbe trovato il modo e il tempo di curare i propri affari. E questo nonostante abbia più volte assicurato di non aver più alcun ruolo nelle aziende di famiglia.
Nel nuovo avviso di garanzia per corruzione che gli è stato notificato due giorni fa, il pubblico ministero Giuseppe Scelsi gli contesta proprio di aver agito «dal luglio 2008, sino all’attualità », dunque anche dopo aver saputo di essere sotto inchiesta per altri episodi di corruzione, per favoreggiamento della prostituzione e per detenzione di cocaina ai fini di spaccio. E poi il magistrato aggiunge: «In concorso con il fratello Claudio, Tarantini è indagato per essersi accordato con Pasqualino Ciappetta, il quale, in cambio della concessione di beni, regalie o premi, e imponendo l’acquisto dei prodotti forniti dalle ditte di fatto gestite dai fratelli Tarantini (Tecno Hospital di Tattoli, Tgs Service, System Medical, G,S,H,, Global System Hospital), favoriva l’incremento degli affari commerciali riferiti alle citate società». Ciappetta è il primario di neurochirurgia al policlinico di Bari e professore ordinario all’Università.
I metodi utilizzati da Tarantini, erano evidentemente abitudine diffusa in Puglia, almeno a leggere gli atti dell’altra inchiesta che ha portato i carabinieri nelle sedi dei partiti del centrosinistra per acquisire documenti e così verificare se, in cambio di voti e finanziamenti, alcuni assessori abbiano concesso appalti e commesse. Nell’informativa che gli investigatori dell’Arma hanno consegnato il 30 aprile, viene evidenziata l’attività di Alberto Tedesco, responsabile regionale della Sanità per il Partito democratico fino al 6 febbraio scorso quando il governatore Nichi Vendola lo costrinse alle dimissioni proprio per il suo coinvolgimento nell’indagine. E ora approdato al Senato dopo la nomina al parlamento europeo di Paolo De Castro.
Le intercettazioni ambientali e telefoniche disposte nel 2008 rivelano, secondo i carabinieri, «le pressioni che il vertice politico- sanitario esercita sulle Asl per favorire gli imprenditori amici». Una «ristretta élite» di industriali pronti a mettersi a disposizione. Come Diego Rana, titolare tra l’altro di un’azienda specializzata nello smaltimento dei rifiuti sanitari che si dimostra molto legato a Tedesco. Il 30 giugno 2008, durante un incontro «fa rilevare all’assessore alcuni passaggi da inserire all’interno del piano sanitario in maniera da agevolare, in particolare, il trattamento assistenziale convenzionato di strutture sanitarie gestite da privati. La circostanza - si sottolinea nell’informativa - assume particolare importanza in quanto è lo stesso assessore che su sollecitazione dell’imprenditore, richiede a quest’ultimo di apporre le modifiche». E infatti nelle registrazioni si sente Tedesco affermare: «Non c’è bisogno che mi prepari un appuntino. Basta chemi dici gli errori dove stanno».
Quattro mesi fa, durante un interrogatorio come testimone, è stato invece Alessandro Calasso, direttore sanitario della Asl Bari, a raccontare che «Tedesco esercitava pressioni per far rimuovere i direttori dell’area gestione Patrimonio e dell’area Tecnica ritenuti responsabili di frapporre ostacoli all’assegnazione di alcuni lavori alla Ati della famiglia Matarrese e alla Draeger Medical spa».
Fiorenza Sarzanini
01 agosto 2009 da corriere.it
|
|
|
Registrato
|
|
|
|
Admin
Utente non iscritto
|
|
« Risposta #17 inserito:: Settembre 02, 2009, 03:57:34 pm » |
|
IL CASO BOFFO - Il mistero sul documento anonimo spedito ai prelati
Il pm e le telefonate del direttore
Il pm indagò sui tabulati e si convinse che le chiamate erano state fatte dal giornalista
La lettera anonima contro Dino Boffo spedita tre mesi fa ai vescovi italiani riferiva fatti e circostanze che non sono contenuti nel fascicolo del tribunale di Terni. Le carte ricostruiscono la vicenda che ha portato alla condanna per molestie del direttore di Avvenire.
Ma le stesse carte non entrano mai nei dettagli della vita privata di Dino Boffo. Tanto che non chiariscono nemmeno per quale motivo, con telefonate effettuate per quasi cinque mesi, avrebbe ingiuriato una ragazza che poi presentò denuncia ai carabinieri. Documentano però la certezza, da parte di chi indagava, che fosse proprio lui l’autore di quelle chiamate e non — come adesso sostiene lo stesso Boffo — un suo collaboratore. L’esame dei contatti avvenuti subito prima e subito dopo le chiamate piene di insulti ricevute dalla donna avrebbe consentito di verificare che gli interlocutori avevano parlato personalmente con Boffo; dunque — hanno concluso gli inquirenti — in quei frangenti era lui ad utilizzare il cellulare. La storia risale all’agosto del 2001. Le telefonate ingiuriose vanno avanti fino al gennaio 2002.
Nel suo esposto la ragazza precisa gli orari, racconta il contenuto, sottolinea come l’anonimo interlocutore faccia riferimento anche ai rapporti sessuali che la donna ha con il fidanzato. Viene acquisito il suo tabulato, si ricava il numero del chiamante. Si scopre così che il cellulare è intestato alla società che edita il quotidiano della Cei. Le ulteriori verifiche consentono di scoprire che l’apparecchio è stato concesso in uso al direttore. Boffo viene convocato al palazzo di Giustizia della città umbra per fornire chiarimenti. Non può negare che il telefono sia effettivamente suo, ma spiega di lasciarlo spesso incustodito. «E dunque — evidenzia — quelle telefonate può averle fatte chiunque». Una tesi che però non convince appieno i pubblici ministeri. Anche perché lui stesso ammette di conoscere la ragazza. «Ci siamo incontrati in occasione di un evento pubblico organizzato dalla Curia», afferma. E poi chiarisce che il tramite sarebbe stato il vescovo di Terni, monsignor Paglia. Si decide così di interrogare le persone che il giornalista ha contattato a ridosso delle chiamate fatte alla ragazza. Si tratta di quattro o cinque testimoni. Tra loro c’è il titolare di una libreria e soprattutto uno dei segretari della Cei che con Boffo ha contatti assidui. Nessuno ricorda di aver mai parlato su quell’utenza con qualcuno che non fosse il direttore di Avvenire.
Quindi i magistrati si convincono che possa essere lui l’autore delle molestie. L’iscrizione nel registro degli indagati, come risulta dagli atti processuali, avviene il 14 ottobre 2003. Sei mesi dopo, esattamente l’8 aprile 2004, il pubblico ministero chiede «l’emissione di un decreto di condanna». C’è un solo reato contestato, quello di molestie, per il quale si procede d’ufficio. L'accusa di ingiurie è infatti caduta perché la ragazza ha deciso di ritirare la querela. Nel fascicolo non vengono specificati i motivi di questa scelta. I giudici ne prendono atto, Boffo non si oppone al decreto e paga l’ammenda di 516 euro che certifica la sua condanna.
Qui finisce la storia ricostruita dalle carte processuali. Ma proprio da qui comincia il mistero sul documento anonimo spedito ai vescovi e poi raccontato venerdì scorso da Il Giornale che l’aveva invece presentato come un atto giudiziario. La circostanza che si tratti di un appunto ufficiale, sia pur «riservato», sembra smentita dall’esame dello scritto che contiene numerosi errori di ortografia e di battitura. E anche circostanze false. Non è vero che «Boffo è stato querelato da una signora di Terni»: la denuncia era contro ignoti. Non è vero che «a seguito di intercettazioni telefoniche disposte dall’Autorità giudiziaria si è constatato il reato»: per le molestie non è possibile disporre il controllo delle conversazioni. Viene poi specificato che «Boffo ha tacitato la parte offesa con un notevole risarcimento finanziario», ma è una circostanza che non risulta agli atti. Quanto alle inclinazioni sessuali dell’indagato, nel fascicolo non se ne fa mai cenno.
Fiorenza Sarzanini 02 settembre 2009© RIPRODUZIONE RISERVATA da corriere.it
|
|
|
Registrato
|
|
|
|
Admin
Utente non iscritto
|
|
« Risposta #18 inserito:: Settembre 10, 2009, 11:00:33 am » |
|
L'INCHIESTA DI BARI - LE CARTE
L’estate di Tarantini: «Droga e affari nella mia villa»
I verbali: in Sardegna con cocaina nella cassaforte
BARI — Le feste in Sardegna, la cocaina per gli ospiti, i rapporti con Sabina Began e con Eva Cavalli, le liti al Billionaire. Ma anche i contatti con Finmeccanica per cercare di chiudere alcuni affari legati al settore sanitario. C’è pure questo nei verbali di Gianpaolo Tarantini, l’imprenditore pugliese che ha ammesso di aver reclutato una trentina di donne da portare nelle residenze del premier Silvio Berlusconi. Ragazze italiane e straniere, «alcune disponibili ad avere rapporti sessuali», che venivano retribuite con 1.000 euro. Il 28 luglio scorso l’uomo — indagato per corruzione, favoreggiamento della prostituzione e cessione di stupefacenti — viene convocato nella caserma della Guardia di Finanza di Bari. Il pubblico ministero e gli investigatori gli contestano quanto emerge dalle telefonate intercettate nell’estate del 2008, quella che fu poi segnata dall’incontro tra Tarantini e il premier avvenuto durante una cena a Villa Certosa. Un ruolo chiave lo gioca Massimo Verdoscia, l’uomo che presentò Patrizia D’Addario a Tarantini, arrestato agli inizi dello scorso agosto pure lui perché avrebbe ceduto droga ad amici e conoscenti.
La coca in cassaforte Il verbale comincia proprio dalla scelta della casa a Porto Cervo: «Nel giugno insieme a mia moglie ed a Massimo Verdoscia e famiglia decidemmo di prendere in affitto una villa in Sardegna per un importo di circa 70.000,00 euro, che pagammo io, per un importo maggiore, e Massimo Verdoscia. Prima di andare in Sardegna, io, Massimo Verdoscia e Alessandro Mannarini (anche lui iscritto nel registro degli indagati per cessione di droga, ndr ) decidemmo di acquistare un quantitativo di circa 50-70 grammi di cocaina ed un quantitativo più ridotto di 'MD' (una droga sintetica simile all’ecstasy, ndr ). Lo stupefacente fu acquistato alla fine di giugno in circostanze diverse da me, da Verdoscia e da Mannarini, ognuno con proprie disponibilità finanziarie. Lo stupefacente fu trasportato in Sardegna in unica soluzione da Alessandro Mannarini, a bordo dell’autovettura con la quale si mosse da casa mia in quanto dormiva in una dependance della stessa, ma una volta giunta in Sardegna fu suddivisa tra me, Verdoscia e Mannarini. Io tenni per me la parte più rilevante conservandola nella cassaforte della mia camera da letto. Acquistai la mia parte di stupefacente da due o tre persone, se non ricordo male tale Nico e tale Onofrio, mentre ricordo che Verdoscia l’acquistò da tale Stefano. Ho acquistato stupefacenti anche in passato ma da altre persone. Ricordo di averla acquistata, sempre insieme a Verdoscia e Mannarini, in occasione di un viaggio a Montecarlo per assistere ad un gran premio automobilistico nella primavera del 2008. Ricordo che in occasione di una festa al club Gorgeous di Bari per il festeggiamento dei 30 anni di mia moglie ho ceduto gratuitamente cocaina ad alcuni invitati. Anche in occasione di una festa fatta a casa mia, nella primavera 2008, ricordo di aver offerto gratuitamente sostanze stupefacenti».
Le dosi alla Began I contatti di Tarantini con Sabina Began, soprannominata «l’Ape regina» per essere una delle «favorite» del premier, emergono dalle conversazioni registrate dai finanzieri. Lui nega però di essere il suo pusher. E dichiara: «Non ricordo di aver portato sostanze stupefacenti in occasione del concerto della star Madonna tenutosi a Roma allo stadio Olimpico nel settembre 2008, dove mi accompagnai con persone, tra le quali la signora Benetton, che non hanno nulla a che fare con la droga. Sia Massimo Verdoscia che Alessandro Mannarini erano a conoscenza che la droga fosse custodita nella cassaforte. Ebbi anche una discussione con Mannarini in quanto riscontrai una mancanza di sostanza stupefacente che avevo lasciato in cassaforte. Non ricordo a chi ho ceduto lo stupefacente in Sardegna, ogni tanto ne portavo con me piccole quantità. Personalmente non credo di aver ceduto dello stupefacente a Sabina Beganovic, mentre sono sicuro che le sia stato ceduto sia da Verdoscia che da Mannarini. Le cessioni da me operate nel tempo non sono state finalizzate a coltivare relazioni professionali ma operate al fine di tenere alto il sistema delle mia relazioni personali innanzitutto nella città di Bari. Posso escludere che dalla cessione gratuita delle sostanze stupefacenti siano da me derivati vantaggi sia patrimoniali che professionali. Voglio precisare che durante il mio soggiorno in Sardegna nell’estate 2008 ho ceduto più volte sostanze stupefacenti a Francesca Lana. Non ricordo di aver ceduto dello stupefacente a tale Victoria. Non ricordo di aver ceduto o offerto sostanze stupefacenti a Maria Teresa De Nicolò».
Il malore di Eva Dalle intercettazioni emerge che la moglie dello stilista Cavalli si sarebbe sentita male proprio durante una delle feste organizzate in Sardegna. Così Tarantini cerca di dimostrare la propria estraneità alla vicenda: «Non corrisponde al vero il fatto che io abbia versato lo stupefacente 'MD' nel bicchiere di Eva Duringer a sua insaputa. Ammetto di averne parlato con tale Pietrino ma escludo dal tenore della conversazione possa evincersi una qualsiasi mia eventuale ammissione. Posso aggiungere che scherzosamente la stessa Eva Cavalli mi chiese, qualche tempo dopo, se io le avessi versato qualche sostanza stupefacente nel suo bicchiere. Ma io le risposi che non mi sarei mai permesso di fare un gesto simile». Movimentate da liti e ubriacature sembrano essere anche le serate che la compagnia legata a Tarantini trascorre nei locali della Costa Smeralda. «Escludo che nella notte tra l’8 e il 9 agosto 2008 la discussione avuta con Tommaso Buti nei bagni del Billionaire sia riconducibile alla sua opposizione al ché io entrassi nel bagno con Nena Rustic e tale Paola al fine di far uso di stupefacente. La ragione della discussione che ebbi con Tommaso Buti era riconducibile al fatto che stava maltrattando la Nena ed io sono intervenuto per difenderla».
La riunione con Finmeccanica Il giorno precedente, esattamente il 27 luglio scorso, Tarantini viene interrogato su una riunione avvenuta presso l’Hotel de Russie a Roma a fine gennaio 2009. E racconta: «Conosco Enrico Intini da circa un anno in quanto mi è stato presentato dall’avvocato Salvatore Castellaneta e dal signor Roberto De Santis, in occasione della realizzazione di un progetto per la tracciabilità del sangue mostratomi da un mio amico tale Pino e per il quale cercavo finanziatori. Con Intini avevo un contratto di collaborazione che venne formalizzato in seguito ed in forza del quale, essendo venuto a conoscenza delle difficoltà incontrate dallo stesso Intini in relazione ad una procedura di gara per le pulizie dell’Asl di Bari, presi l’iniziativa di organizzare un incontro a Roma con l’avvocato Lea Cosentino (direttore generale della stessa Asl, ndr ). Io ero venuto a conoscenza che Enrico Intini non avrebbe mai vinto da solo quella gara e lo stesso Intini ebbe a lamentarsene con me. Io a quel punto gli dissi che la Cosentino non gli avrebbe mai fatto vincere una gara da solo e che avrebbe comunque avuto grosse possibilità se fossero stati fatti tre lotti. Questo io dissi anche perché ne avevo parlato con Lea Cosentino. Fu per queste ragioni che organizzai l’incontro di Roma del 21 gennaio 2009. Io sapevo che a quell’incontro avrebbero partecipato, oltre alla Cosentino, anche Rino Metrangolo, dirigente di Finmeccanica e Cosimo Catalano, titolare della società della Supernova, entrambi interessati alla stessa gara. In particolare era a conoscenza della circostanza che quella gara seguiva altra di uguale contenuto ma annullata perché il bando era errato. Avevo in particolare appreso che il precedente bando era stato annullato o era in fase di annullamento in quanto l’importo indicato a base di gara era calcolato su un numero di ausiliari ormai eccedente a causa dell’internalizzazione di ausiliari operato nel frattempo».
La gara in tre lotti «L’occasione fu propizia — continua Tarantini — per sostituire al principio del lotto unico l’idea di tre lotti, come io personalmente suggerii a Lea Cosentino e a Antonio Colella, dirigente dell’area patrimonio dell’Asl di Bari. In tal modo avremmo potuto assicurare a Catalano, ad Intini ed a Metrangolo di gareggiare vincendo ciascuno un lotto. La gara in tre lotti, a quanto mi consta, non si è mai tenuta e nulla è avvenuto dopo quell’incontro a Roma. Lea Cosentino era interessata all’ipotesi dei tre lotti in quanto in tal modo, come lei mi disse, avrebbe smesso di subire le scelte altrui ed avrebbe potuto al contrario concorrere a definire l’individuazione dei vincitori della gara. Io stesso invitai all’incontro Metrangolo, in quanto dirigente di Finmeccanica interessato a partecipare alla gara, mentre fu Lea Cosentino a far intervenire alla riunione Cosimo Catalano, anch’esso direttamente interessato. Nel caso in cui questo progetto di lottizzazione della gara fosse andato in porto, io avrei percepito circa il quattro per cento dell’importo aggiudicato da Intini e circa il quattro per cento da Catalano. Non avevo ancora parlato di compensi con Metrangolo. Quando Enrico Intini giunse alla riunione al De Russie, prospettò l’eventualità di un ricorso come mera provocazione in quanto Intini era già d’accordo con me sulla suddivisione in tre lotti della gara ma intervenne parlando di un suo ricorso perché si vide in difficoltà trovando in quella riunione persone che non si aspettava di trovare». Angela Balenzano Fiorenza Sarzanini
Angela Balenzano Fiorenza Sarzanini
10 settembre 2009 © RIPRODUZIONE RISERVATA
da corriere.it
|
|
|
Registrato
|
|
|
|
Admin
Utente non iscritto
|
|
« Risposta #19 inserito:: Settembre 13, 2009, 12:14:29 pm » |
|
A CENA E IN BARCA
«Quel weekend a Ponza tra cena e barca a vela»
Un imprenditore racconta un week end a Ponza. L'ex premier: incrociato, mai conosciuto
di Fiorenza Sarzanini
Una cena in un ristorante di Ponza e poi una traversata da Ventotene a Gaeta durante la quale si sono trovati sulla stessa barca. È questo l’incontro che ha spinto Gianpaolo Tarantini a lanciare avvertimenti a Massimo D’Alema che aveva detto di non averlo «mai conosciuto». «Farebbe bene a ricordarsi chi sono», era stata l’intimazione. Ma la tesi dell’ex ministro degli Esteri non cambia, «perché ci siamo incrociati, siamo stati presentati, ma certo questo non vuol dire che ci conosciamo». È una vicenda che ha contorni confusi, perché confusi e talvolta contraddittori sono i ricordi degli stessi protagonisti. Anche su quando è avvenuta. A sentire D’Alema bisogna tornare all’estate del 2007. Ma forse è il 2006, come invece sostiene Francesco Maldarizzi, l’imprenditore barese diventato il trait d’union fra i due.
Perché era lui il proprietario della barca che effettuò il trasferimento dall’isola alla terraferma. E perché la sera precedente era uno degli invitati al ristorante «Il Tramonto » «per l’evento organizzato dalle autorità locali in onore di quello che allora era un ministro, stava alla Farnesina», come dice adesso che gli viene chiesto di rammentare i dettagli. Lo stesso anno, 2006, viene confermato da Ivan Altieri, il proprietario del locale che di quella serata sembra avere ricordi nitidi: «Come potrei dimenticarla, visto che ad un altro tavolo sedeva l’attuale sindaco di Roma Gianni Alemanno? Loro nemmeno si salutarono, ma io pensai che se fosse arrivato Bruno Vespa avremmo potuto fare Porta a Porta » .
Il ristoratore sottolinea di non aver riconosciuto altri personaggi famosi. Si sa che allo stesso tavolo di D’Alema sedevano numerosi velisti, compreso Paolo Poletti, all’epoca capo di Stato Maggiore della Guardia di Finanza e attuale vicedirettore dell’Aisi, il servizio segreto interno. Anche Roberto De Santis, l’imprenditore amico di D’Alema che conosceva bene Tarantini, aveva scelto l’isola come meta per il fine settimana da trascorrere in barca. E anche lui sarebbe stato uno dei partecipanti alla serata. Sono buoni conoscenti D’Alema e Maldarizzi, che in Puglia possiede numerose concessionarie di auto e dal 2008 ha aperto attività anche in Toscana. «Ci telefonammo — racconta — e ci accordammo per vederci alla cena. In barca con me c’erano Gianpaolo Tarantini e sua moglie, mentre D’Alema era su Ikarus con sua moglie». Come mai invitò Tarantini? «Siamo amici e poiché io avevo preso la barca in affitto lui venne a Ponza con l’intenzione di acquistarla. Era mio ospite e dunque venne con me anche al ristorante». Il «Tramonto» è un locale in montagna, famoso per il panorama mozzafiato che guarda a Palmarola. «C’erano almeno venti persone — spiega Maldarizzi — forse addirittura trenta. Noi eravamo da un lato del tavolo, D’Alema a quello opposto. C’erano il sindaco, il vicesindaco, altre personalità. Io non riuscii a scambiare con D’Alema neanche una parola e dunque mi sento di escludere che possa avere parlato con Tarantini».
Anche su questo c’è contraddizione, Altieri fornisce una versione diversa: «Erano una ventina, ma escludo che ci fossero sindaco e vicesindaco. Non era sicuramente una cena ufficiale. Io fui chiamato da un mio amico che fa l’assicuratore per la prenotazione del tavolo e quando arrivarono capii che erano tutti appassionati di vela. Era una grande tavolata al termine di una giornata trascorsa in mare». Il giorno dopo c’è il nuovo incontro. «D’Alema doveva lasciare Ikarus al cugino che stava a Ventotene — ricorda Maldarizzi — e così mi chiese un passaggio fino a Gaeta dove io avrei dovuto restituire la mia barca. Gli proposi di stare insieme per fare il bagno o per il pranzo, ma lui rifiutò. Del resto chi conosce D’Alema sa bene che lui è un velista vero, vive il mare e preferisce non avere troppe persone intorno». L’appuntamento viene così fissato per la fine della giornata. «Salì a bordo con la famiglia e con gli uomini della scorta», afferma l’imprenditore. A questo punto il ricordo di Maldarizzi si fa vago, a tratti confuso: «In barca c’erano almeno dodici persone, sinceramente non ricordo se D’Alema e Tarantini possano essersi scambiati qualche parola. Ma se così è stato, di certo si è trattato di un contatto del tutto casuale. Massimo è fatto così, non dà mai troppa confidenza alle persone. La traversata sarà durata una quarantina di minuti, non ci sarebbe stato neanche il tempo di approfondire la conversazione. E poi c’erano tutti gli addetti alla sicurezza. Quando siamo arrivati in porto abbiamo avuto il tempo per un saluto e poi sono partiti».
L’obiettivo di Tarantini appare ormai evidente: accreditarsi come buon conoscente dei politici di destra e sinistra per dimostrare che anche nel suo rapporto con il presidente del Consiglio, per conto del quale ha ammesso di aver reclutato trenta ragazze «alcune anche a pagamento per incontri sessuali», non c’era nulla di illecito. E mettere sullo stesso piano situazioni che appaiono molto differenti. Il tentativo di patteggiare la pena e chiudere con il minimo danno l’inchiesta avviata dai magistrati di Bari non è riuscito perché la Procura si è opposta alla sua istanza. L’imprenditore accusato di corruzione, favoreggiamento della prostituzione, cessione di stupefacenti avrebbe così deciso di alzare la posta. Tanto che a qualche amico avrebbe già confidato: «Se mi arrestano sono pronto a trascinarmi dietro svariate persone».
13 settembre 2009 da corriere.it
|
|
|
Registrato
|
|
|
|
Admin
Utente non iscritto
|
|
« Risposta #20 inserito:: Settembre 14, 2009, 05:43:10 pm » |
|
Il personaggio
Bari, la rete di amici trasversali del «mondo Tarantini»
Così il giovane barese ha creato il suo «sistema».
Verso un nuovo interrogatorio
Donne bellissime, amici dalla vita spericolata. Ma soprattutto manager e imprenditori, personaggi che come lui inseguivano affari e successo. E che avrebbe utilizzato per cercare di arrivare ai politici. È una rete trasversale quella tessuta in questi ultimi anni da Gianpaolo Tarantini, il titolare della società Tecnohospital che la fama l’ha raggiunta quando si è scoperto che procacciava ragazze a pagamento per le feste di Silvio Berlusconi.
Sono le carte processuali a dimostrare come il giovane barese fosse riuscito ad avere accesso al potere di destra e di sinistra, con una disinvoltura che adesso spaventa chi ha avuto a che fare con lui. Perché Tarantini ha fatto intendere ai magistrati di voler collaborare pur di chiudere in fretta la vicenda giudiziaria e così tentare di togliere il premier dall’imbarazzo di vedere le sue intercettazioni telefoniche rese pubbliche. I quattro verbali riempiti alla fine di luglio non hanno però convinto i pubblici ministeri e dunque è presumibile che nei prossimi giorni possa esserci un nuovo interrogatorio, questa volta concentrato sugli incarichi e i favori che sarebbe riuscito a ottenere proprio grazie ai suoi rapporti con i potenti.
Aveva capito Tarantini che la strada per il successo passa per gli amici giusti. E forse per questo frequentava Francesco Maldarizzi, che in Puglia è conosciuto per la sua catena di concessionarie d’auto. Ricco certamente, ma anche ben introdotto. Basti pensare che in un fine settimana trascorso a Ponza riuscì a farlo sedere a tavola con l’allora ministro degli Esteri Massimo D’Alema, con il capo di Stato maggiore della Guardia di Finanza Paolo Poletti, con il capo di gabinetto della Farnesina Giuseppe Fortunato, poi volato a Mosca per occupare un posto di comando in Finmeccanica. Non male per uno che all’epoca aveva poco più di trent’anni e un’azienda specializzata nelle protesi ortopediche.
Certo, nella sua città «Gianpy», come lo chiamano gli intimi, aveva frequentazioni di rilievo. Con Tato Greco, rampollo della famiglia Matarrese poi diventato uno dei più accaniti sostenitori di Raffaele Fitto, condividevano serate, vacanze e aspirazioni. Lo stesso Fitto era sicuramente tra le persone che ha sempre potuto considerare più vicine. Lui, come Sabina Began che non fa l’imprenditrice ma era la «preferita» del premier e dunque rappresentava un gancio prezioso per chi sognava il salto di qualità, il trasferimento a Roma, gli affari internazionali.
Forse per questo si era legato a Roberto De Santis, l’imprenditore amico di D’Alema che lo accompagnò da Guido Bertolaso dopo che Berlusconi gli aveva procurato un appuntamento. Oppure a Enrico Intini, che con De Santis è in stretti rapporti tanto da aver gestito con lui svariati affari. Per presentare un buon biglietto da visita, Tarantini organizzò nel gennaio scorso una riunione in un albergo della capitale per pianificare la strategia che avrebbe consentito loro di vincere un appalto per le pulizie della Asl di Bari. Ospite d’onore era Lea Cosentino, che di quella Asl è il direttore generale. Lei accettò l’invito, evidentemente incurante dell’inopportunità di discutere in maniera informale le gare che riguardavano il suo ufficio.
Adesso anche Cosentino è sotto inchiesta, proprio per la gestione allegra della Asl. Era stato il governatore Nichi Vendola a nominarla. E a giugno, quando il suo coinvolgimento nelle indagini è stato formalizzato, ne ha disposto la rimozione. La manager ha poi ammesso pubblicamente di essere buona amica di Tarantini, di aver partecipato alle sue feste, di averlo incontrato anche in Sardegna durante l’estate del 2008, famosa perché è stato allora che il sogno di Tarantini di conoscere Berlusconi è divenuto realtà. Altri, rimasti nell’ombra, potrebbero adesso essere costretti a uscire allo scoperto. Trascinati in questa vicenda dallo stesso Tarantini che, per convincere i magistrati ad accettare il patteggiamento e chiudere così il conto, potrebbe decidere di rivelare tutti i componenti della rete che aveva tessuto.
Fiorenza Sarzanini 14 settembre 2009© RIPRODUZIONE RISERVATA da corriere.it
|
|
|
Registrato
|
|
|
|
Admin
Utente non iscritto
|
|
« Risposta #21 inserito:: Settembre 16, 2009, 10:50:29 pm » |
|
Il presidente della Camera si sfoga con i suoi
L’ex capo di An e le carte: nulla da temere
L'inchiesta del '99 che coinvolge l'allora collaboratore Proietti Cosimi: il mio nome non può esserci
Gianfranco Fini aveva intuito tre mesi fa che prima o poi Il Giornale avrebbe potuto occuparsi di lui. Perché una parte del «fascicolo a luci rosse» di cui ha parlato adesso Vittorio Feltri era già stato pubblicato nel giugno scorso. In quel momento direttore era Mario Giordano e si decise di replicare così alle rivelazioni di Patrizia D’Addario sul premier Silvio Berlusconi. «Le escort di D'Alema», titolava in prima pagina, ma poi non si faceva alcun cenno all'ex ministro degli Esteri. Si dava invece conto di un'inchiesta che nel 1999 aveva consentito di scoprire festini organizzati da alcuni suoi amici e collaboratori con ragazze reclutate da Rita Farnitano, intraprendente signora che in cambio sperava di ottenere appalti e incarichi per la sua società di consulenza. Nei loro verbali — pubblicati dal quotidiano — era chiaramente spiegato che a introdurre nel mondo della politica e dell'imprenditoria l'avvenente maitresse era stato Francesco Cosimi Proietti, che di Fini era all'epoca il segretario, ma soprattutto uno dei «fedelissimi».
Nelle ultime ore lo sgomento del presidente della Camera per quello che ha definito «un attacco intimidatorio di inaudita violenza» si è trasformato in rabbia feroce. E allora ha scelto di reagire «in maniera durissima» con una denuncia penale contro Feltri «perché io non ho mai avuto frequentazioni di questo tipo o incontri che possano imbarazzarmi e dunque non ho paura che questo fascicolo sia acquisito e reso pubblico». Lo ha detto ai suoi collaboratori, lo ha ripetuto al suo avvocato Giulia Bongiorno, invitandola a scegliere la strada più efficace da percorrere: «Scatenati perché io ho la coscienza pulita e questa storia voglio portarla fino in fondo. Non ci può essere il mio nome in quelle carte processuali. Se qualcuno lo tirerà fuori, avrà veicolato una polpetta avvelenata».
L'indagine avviata dalla squadra mobile di Roma e gestita dalla Procura della capitale si è chiusa nel 2000 con un patteggiamento a un anno di pena di Rita Farnitano che si è vista derubricare l’iniziale accusa di corruzione in sfruttamento della prostituzione. Agli atti sono rimasti i racconti dei protagonisti, ma soprattutto l'informativa della polizia che dava conto delle confidenze di una «fonte» secondo la quale la stessa Farnitano avrebbe «assoldato una certa Marina per un incontro sessuale retribuito con 800 mila lire, all’interno di un ufficio della Camera dei Deputati con un personaggio molto importante». La relazione investigativa pubblicata dava conto anche dell’esito dell’appuntamento: «Al termine del rapporto sessuale l'uomo riferiva alla ragazza che era rimasto molto soddisfatto e che, tramite il suo segretario, se lei era disponibile si sarebbero nuovamente incontrati».
Il filone Woodcock Nel 2006 la stessa persona finisce sotto accusa nello scandalo che interessò anche Vittorio Emanuele. A fare il nome di Proietti Cosimi come lo sponsor della signora sono stati gli altri uomini che partecipavano alle feste e poi si appartavano con le ragazze. Prima Vincenzo Morichini, amministratore del consorzio di agenzie Ina-Assitalia di Roma, noto per essere uno dei proprietari di Ikarus, la barca che condivide con D'Alema che a verbale dettò: «Me la presentò il mio amico Proietti». Poi Roberto De Santis, imprenditore leccese, anche lui in legami stretti con l'esponente del Pd: «Ho conosciuto la signora a una cena dove ero stato invitato da Morichini. Oltre a noi erano presenti tale Checchino e tre amiche di Rita». «Checchino»: è stato questo nome — pubblicato tre mesi fa — a mettere Fini in guardia. Perché è vero che i rapporti li aveva interrotti nel 2006, quando il segretario nel frattempo diventato parlamentare è finito nell’inchiesta avviata dal pubblico ministero di Potenza, Henry John Woodcock, sugli affari del principe Vittorio Emanuele di Savoia. Ma dopo l'articolo di Feltri i collaboratori del presidente della Camera hanno cercato di scoprire se dieci anni fa — durante queste sue allegre frequentazioni — Proietti potesse aver speso il nome di Fini sia con la maitresse, sia con gli altri imprenditori che partecipavano agli incontri. Oppure se questo nome possa averlo fatto la stessa Farnitano, o ancora se sia citato in una delle intercettazioni telefoniche captate all’epoca.
«Se ciò è successo — ha tuonato ieri il presidente — io sono vittima, perché ero totalmente all’oscuro dei legami che Proietti aveva con questa donna, di quello che facevano. Vediamolo questo fascicolo. Sono anni che vengo sottoposto ad attacchi, se qualcosa di imbarazzante esisteva l'avrebbero già tirato fuori. In ogni caso è il metodo scelto da Feltri che voglio combattere e per questo voglio discuterne in tribunale. È inaccettabile che si tenti di estorcere una posizione o addirittura il consenso politico minacciando di tirare fuori dossier imbarazzanti. Io non ho nulla di cui imbarazzarmi e dunque presento una querela perché sia chiaro che le allusioni e il linguaggio intimidatorio non mi spaventano».
Si aspetta Fini che qualche documento sarà pubblicato, ma è pronto a rispondere, «perché quanto è accaduto nel 2006 ha segnato l’anno della svolta nella mia vita privata, mi ha fatto capire chi avessi intorno». La scelta di interrompere i rapporti con Proietti arrivò quando si scoprì che aveva fatto favori al principe Savoia, ma anche per la gestione delle società che condivideva con la moglie di Fini, Daniela. E quell’indagine portò alla luce anche l’attività di Salvatore Sottile, il portavoce accusato di aver avuto incontri sessuali con attrici e soubrette negli uffici di Palazzo Chigi e della Farnesina. Un colpo fortissimo per l’immagine del «capo», che decise così di fare piazza pulita tra i suoi collaboratori e da allora ha poi mostrato di aver preso una nuova rotta politica. «Le mie posizioni danno fastidio — ha chiesto ieri a chi gli è stato accanto per tutto il giorno –? Non saranno i ricatti di Feltri a farmi cambiare idea».
Fiorenza Sarzanini 16 settembre 2009© RIPRODUZIONE RISERVATA da corriere.it
|
|
|
Registrato
|
|
|
|
Admin
Utente non iscritto
|
|
« Risposta #22 inserito:: Settembre 19, 2009, 10:33:43 am » |
|
Le carte: Gli effetti dei cocktail di alcol e droga su cinque donne
Quella maxi-partita di cocaina e i malori delle ragazze in Sardegna
Per gli investigatori nella villa affittata nel 2008 c’erano grosse quantità di stupefacenti
DA UNO DEI NOSTRI INVIATI
BARI — Alla fine si torna sempre a quella vacanza in Sardegna nell’estate del 2008. Si ricomincia a indagare su quella girandola di feste, incontri, nuove conoscenze che per Gianpaolo Tarantini — imprenditore pugliese all’epoca già inserito nei giri che contano — significò realizzare il sogno di una vita: diventare amico del premier Silvio Berlusconi. E si scopre che alcune circostanze raccontate sarebbero false, mentre altre sono state invece tenute nascoste. Perché nella villa presa in affitto a Porto Rotondo c’era un gran via vai di belle donne e ben cinque di loro si sarebbero sentite male dopo essere state stordite con un cocktail di alcol e droga. Ma soprattutto perché nella cassaforte dove Tarantini ha ammesso di aver custodito la cocaina ci sarebbero stati ben più dei 70 grammi di cui ha parlato. «Visto il tenore di vita della compagnia — ha sottolineato un investigatore — quel quantitativo poteva bastare appena per un giorno » .
MEZZO MILIONE - E’ costato oltre 500.000 euro il soggiorno in Costa Smeralda pagato da Tarantini e organizzato da Alessandro Mannarini, in quel periodo uno dei suoi collaboratori più fidati. I conti sono stati fatti proprio da quest’ultimo davanti ai magistrati che lo hanno interrogato qualche giorno fa. Anche lui è indagato per cessione di droga, il suo avvocato Marco Vignola esclude che stia collaborando. «Si difende — spiega — e chiarisce gli aspetti che lo riguardano, vicende che inevitabilmente coinvolgono anche Tarantini » .
LA VILLA - Circa 70.000 euro costava la villa di Capriccioli, 2.000 euro all’ora l’uso di un aereo privato per gli spostamenti dalla Puglia alla Sardegna. Furono acquistate quattro auto di grossa cilindrata, si decise di affittare gommoni e moto d’acqua. Fu comprata una cucina e gli arredi per rendere la dimora lussuosa e confortevole. Si decise di ingaggiare quattro domestici filippini. Furono bloccate per tutta l’estate stanze all’hotel Cala di Volpe e al Capriccioli per essere certi di poter offrire ospitalità agli amici. E soprattutto si convenne di avere sempre a disposizione cocaina ed ecstasy. Nel suo interrogatorio alla fine di luglio Tarantini ha negato di aver sciolto stupefacente nel bicchiere di Eva Cavalli che poi ebbe un malore. La circostanza è stata smentita anche dalla diretta interessata, ma emergerebbe dalle intercettazioni telefoniche.
CINQUE CASI DI ABUSO - In realtà sono cinque le donne che avrebbero avuto seri problemi per l’abuso di droga. E due di loro hanno presentato un esposto a Tempio Pausania. Le denunce sono state acquisite dalla procura di Bari che in questi giorni ha chiesto spiegazioni proprio a Mannarini. In una conversazione captata il 2 luglio 2008, la moglie di Massimiliano Verdoscia (ancora agli arresti domiciliari per la cessione degli stupefacenti) parla con la moglie di Tarantini. E le intima: «Devi dire a tuo marito di smetterla con quella cosa nei bicchieri... Tu lo sai che Babu (domestico alle sue dipendenze) stamattina ha fatto il commento, dice che una ragazza è svenuta nel giardino e Babu l’ha presa e ha detto: 'signora, ma che ha messo qualcosa nel bicchiere di Mannarini?'. Ti rendi conto? Devi dire a Gianpaolo che la deve finire, che quella è una storia pericolosa... » . Mannarini ha negato di essere il fornitore della droga: «Mi occupai del trasferimento dei bagagli in almeno quattro viaggi Bari-Olbia effettuati in auto, ma non fui io a preparare le valigie e non so che cosa contenessero. E’ possibile che ci fossero stupefacenti». Tarantini afferma invece che fu proprio l’amico a fare da «corriere » e poi aggiunge: «L’avevamo comprata a Bari e ce la dividemmo dopo essere arrivati». Ma — è questa l’accusa della Procura — «mente sul quantitativo e anche sui fornitori».
I TIMORI PER LA VITA - Il sospetto dei pubblici ministeri è che l’imprenditore sia riuscito a ottenere una grossa «partita» grazie a conoscenze di malavitosi baresi e dunque anche a queste sue frequentazioni si riferisse quando ha manifestato «timori per la mia vita e per la mia famiglia». Il provvedimento eseguito ieri riguarda la droga ma è possibile che già dopo l’udienza di convalida arrivino nuove contestazioni. Sibillino sul punto è apparso il procuratore Antonio Laudati: «Il fermo è stato compiuto in relazione a una prospettazione di spaccio, ma le indagini che seguiranno immediatamente dopo il fermo riguarderanno tutte le posizioni processuali di Tarantini ».
Fiorenza Sarzanini 19 settembre 2009© RIPRODUZIONE RISERVATA da corriere.it
|
|
|
Registrato
|
|
|
|
Admin
Utente non iscritto
|
|
« Risposta #23 inserito:: Settembre 22, 2009, 11:02:42 am » |
|
INCHIESTA DI BARI
Tarantini, spunta un sms di minacce
Messaggio anonimo a una delle ragazze interrogate per le feste: stai attenta
BARI - C’è un sms che prova, secondo la Procura di Bari, le intimidazioni e le pressioni subite da almeno una delle ragazze interrogate sulle feste organizzate nelle residenze del premier Silvio Berlusconi. È arrivato la scorsa settimana sul suo telefonino, prima del suo ingresso nella caserma della Guardia di Finanza. Ed ha una conclusione eloquente: «Stai attenta». È stato inviato da un numero fisso di Roma – 0667…. – e adesso si sta cercando di risalire al mittente, visto che si tratta della derivazione di un centralino.
L’episodio è raccontato nell’informativa che gli investigatori hanno consegnato ai pubblici ministeri la scorsa settimana per ricostruire gli indizi relativi al pericolo di fuga e di inquinamento delle prove contestati a Gianpaolo Tarantini. Nella relazione si specifica che l’utenza «non è riconducibile all’indagato », ma quel messaggio viene inserito in un quadro più generale di tentativi di condizionare le indagini al quale, sostiene l’accusa, lo stesso Tarantini non è estraneo. Anche perché chi lo ha scritto, evidenziano gli investigatori, «era informato che la testimone doveva essere interrogata ».
L’imprenditore nega con decisione di aver mai tentato di depistare le indagini e anche ieri, nel corso dell’udienza di convalida del fermo, ha ribadito di aver «collaborato sempre in maniera leale con l’autorità giudiziaria». In realtà alle donne ascoltate nei giorni scorsi è stato chiesto più volte se avessero subito avvertimenti o minacce prima di rispondere alle domande sui rapporti con Tarantini, ma soprattutto su quanto avveniva durante le feste e le cene organizzate nelle residenze presidenziali. Intimidazioni che sembrano emergere, talvolta in forma velata, in alcune conversazioni intercettate.
Tarantini, dicono i pubblici ministeri, voleva intimidire gli altri indagati e i testimoni per alleggerire la propria posizione. La sua intenzione, nella convinzione dell’accusa, è quella di «ridurre al minimo il danno per sé», ma anche per gli altri personaggi coinvolti nella vicenda, anche se non indagati. Le contestazioni su questo punto riguardano contatti con giornalisti ai quali avrebbe promesso interviste con l’intenzione di lanciare invece messaggi precisi ad alcuni suoi interlocutori sul comportamento da tenere in futuro. E con personaggi inseriti in altri ambienti, che avrebbero potuto esercitare condizionamenti riguardo allo svolgimento dell’inchiesta. Proprio in questo contesto elencano le dichiarazioni pubbliche rilasciate la scorsa settimana. «Ho risposto ad alcune domande — si è difeso l’imprenditore —, ma non avevo alcuna intenzione di essere intimidatorio, tanto che ho presentato un esposto proprio perché ritengo che la pubblicazione dei verbali mettesse in pericolo me e la mia famiglia».
Il gip gli ha creduto ed è questo, adesso, a preoccupare la Procura riguardo alla tenuta dell’inchiesta. La scelta del presidente del tribunale di affidare la decisione sulla convalida del fermo allo stesso giudice che un mese fa aveva già firmato l’ordinanza di custodia cautelare nei confronti di Massimo Verdoscia (indagato insieme a Tarantini per cessione di droga) aveva rassicurato i pubblici ministeri, convinti che la conoscenza degli atti processuali da parte del gip avrebbe consentito loro di ottenere ragione. Così non è stato e questo verdetto pesa adesso sulle scelte future. Perché dovrà essere compiuta una rilettura dei tre fascicoli (stupefacenti, prostituzione, corruzione nella sanità) e bisognerà disporre nuove verifiche prima di decidere le mosse da compiere in futuro.
Gli approfondimenti si concentreranno pure sulla disponibilità patrimoniale dell’indagato in Italia e all’estero, sviluppando alcune tracce che secondo gli inquirenti già provano la sua volontà di «sottrarsi allo svolgimento del processo». Nel provvedimento di fermo venivano citati il viaggio in Tunisia effettuato agli inizi di giugno e quello in Austria ad agosto, paventando la possibilità che proprio in Tunisia «l’indagato potrebbe creare una base». Ieri Tarantini ha dichiarato che tutti i suoi spostamenti «sono sempre stati comunicato alla polizia giudiziaria, alla quale ho anche consegnato le fatture di alberghi e ristoranti proprio per dimostrare la mia permanenza in quei luoghi».
Il gip ha ritenuto che fosse in buona fede e dunque l’obiettivo dei pubblici ministeri è ora dimostrare che la «rete» tessuta in questi anni è pronta a proteggerlo nel modo più efficace possibile, anche per evitare conseguenze sugli altri personaggi con i quali aveva rapporti.
Fiorenza Sarzanini 22 settembre 2009© RIPRODUZIONE RISERVATA da corriere.it
|
|
|
Registrato
|
|
|
|
Admin
Utente non iscritto
|
|
« Risposta #24 inserito:: Ottobre 05, 2009, 06:31:15 pm » |
|
Li aveva inviati la protezione civile
I due messaggi di «allerta» da Roma che potevano salvare Messina
Destinatari: la Regione e poi la Prefettura e i Comuni. Ma nessuno ha evacuato le zone a rischio
ROMA - C’è una catena di errori, omissioni e ritardi dietro la tragedia di Messina. Ci sono le responsabilità di chi sarebbe dovuto intervenire per far fronte a due avvisi di emergenza che invece sembrano non essere stati tenuti nella giusta considerazione e, da parte di alcuni enti, addirittura ignorati. Perché in caso di allerta massima deve essere avviata una procedura standard, invece qualcosa non ha funzionato. E dunque non sarà difficile per chi indaga stabilire l’identità di chi doveva far scattare il piano, visto che i ruoli sono individuati in una direttiva firmata nel febbraio del 2004 dal presidente del Consiglio che all’epoca era Silvio Berlusconi. E non basterà, come ha fatto ieri lo stesso premier, affermare che «la precipitazione è stata più intensa del previsto», perché le disposizioni individuano gli strumenti da adottare anche a fronte di eventi eccezionali come questo. È il 30 settembre quando il Dipartimento della protezione civile dirama da Roma un «avviso di condizioni meteorologiche avverse».
Non è il solito allarme meteorologico, ma un bollettino che impone agli esperti di prendere contromisure particolari. E infatti l’ufficio stampa decide di evidenziarlo con un comunicato che viene diramato poco dopo. «Dal primo pomeriggio di domani giovedì 1˚ ottobre 2009 e per le successive 24/36 ore — è scritto nel documento inviato ai responsabili della protezione civile regionale e ai prefetti della Sicilia, del Lazio e della Toscana — si prevedono precipitazioni sparse a prevalente carattere di rovescio o temporale anche di forte intensità, su Lazio e sulla Sicilia. I fenomeni saranno accompagnati da forti raffiche di vento e attività elettrica». La direttiva approvata cinque anni fa parla chiaro e stabilisce che sia il Centro Funzionale a valutare gli scenari di rischio. In Sicilia questa struttura non è operativa e dunque i suoi compiti sono affidati alla Regione. «Tocca a loro — chiarisce l’ingegner Paola Pagliara, responsabile del servizio idrogeologico del Dipartimento della Protezione Civile — diramare gli avvisi da inviare alle prefetture e agli enti locali, in questo caso i Comuni».
Un obbligo reso ancor più pressante il giorno successivo, poche ore prima del disastro. Poco prima delle 15 del 1˚ ottobre viene diramato un nuovo notam che evidenzia le «condizioni avverse» e torna a inserire la Sicilia nelle zone dove sono previsti «temporali anche di forte intensità», ma soprattutto a sottolineare l’arrivo di «venti forti con raffiche di burrasca, dai quadranti occidentali». In situazioni del genere la catena di intervento parte dal presidente del Consiglio Regionale e arriva fino ai sindaci perché sono le strutture presenti sul territorio a dover conoscere quali siano le aree maggiormente esposte al pericolo di fronte a eventi meteorologici di particolare intensità. Non a caso un intero capitolo della direttiva è dedicato al rischio frane. Il documento riconosce «la difficoltosa prevedibilità di questo tipo di fenomeno» e per questo «impone di dedicare la massima attenzione sia alle fasi che precedono e accompagnano l’evento, tra le quali è da intendersi la previsione delle situazioni locali oltre a quelle generali, sia a quelle che è necessario protrarre anche dopo la fine dell’evento stesso. Gli scenari di rischio e la loro evoluzione nel tempo reale dovranno quindi, e per quanto possibile, essere formulati anche sulla base di specifiche e dettagliate osservazioni effettuate sul campo, le quali potranno essere opportunamente affidate e organizzate anche nell’ambito dei piani comunali d’emergenza». Linguaggio burocratico che però evidenzia quanto doveva essere fatto: esaminare la situazione nei paesi che si trovano sotto la montagna e, di fronte al salire dell’intensità del temporale, valutare pure l’ipotesi di evacuare quelle abitazioni costruite dove più alto era il rischio di smottamento del terreno. Nulla di tutto questo, almeno a quanto risulta sino ad ora, è stato fatto. E quindi bisognerà stabilire chi — tra Regione, protezione civile locale, prefettura e Comuni — abbia lasciato cadere l’allarme decidendo che non era il caso di intervenire nonostante la doppia segnalazione di rischio.
Fiorenza Sarzanini 05 ottobre 2009© RIPRODUZIONE RISERVATA
|
|
|
Registrato
|
|
|
|
Admin
Utente non iscritto
|
|
« Risposta #25 inserito:: Ottobre 23, 2009, 09:46:59 am » |
|
Lui: «non mi hanno estorto soldi»
Nel video un incontro privato del governatore del Lazio
L'indagine nata per caso: da intercettazioni si scopre che qualcuno cerca di vendere a una società il filmato
ROMA - Sono stati arrestati per un’estorsione da 80.000 euro al presidente della Regione Lazio, Piero Marrazzo. Soldi che sarebbero stati versati in quattro tranche per evitare la diffusione di un video che ritraeva l’esponente del Partito democratico in momenti intimi. Sono quattro i carabinieri finiti in carcere. Sottufficiali in servizio presso la Compagnia Trionfale di Roma accusati di estorsione, ma anche di altri reati, compreso lo spaccio di sostanze stupefacenti. A catturarli sono stati giovedì mattina i loro colleghi del Ros, il raggruppamento operativo speciale, che appena poche ore prima avevano interrogato lo stesso Marrazzo. Il governatore non aveva infatti presentato alcuna denuncia, dunque dopo aver ascoltato la sua versione si è deciso di far scattare l’operazione.
L’indagine nasce casualmente, nell’ambito di accertamenti che riguardavano una vicenda completamente diversa. Circa sei mesi fa, ascoltando alcune conversazioni intercettate, gli investigatori scoprono che qualcuno sta cercando di vendere a una società di produzioni televisive di Milano un filmato che ritrae Marrazzo insieme ad un’altra persona in atteggiamenti privati. Si decide così di attivare nuovi controlli e si scopre che chi ha in mano la videocassetta è riuscito ad arrivare anche al governatore per ricattarlo. I colloqui captati sui telefoni degli indagati consentono di stabilire che il video è stato girato nel corso di un’irruzione effettuata nell’abitazione di questa persona che Marrazzo avrebbe già incontrato in precedenza e con la quale si stava intrattenendo. Le richieste di denaro cominciano dopo poco, con la minaccia esplicita di diffondere le immagini compromettenti. Ed è proprio a questo punto che, secondo l’accusa, sarebbe stata presa la decisione di pagare, ma non è chiaro se i versamenti siano avvenuti direttamente o attraverso intermediari. Così come non si sa se sin dall’inizio fossero state pretese diverse tranche o se invece gli estorsori abbiano deciso di approfittare della situazione pretendendo sempre più soldi. Resta il fatto che in sei mesi sarebbero riusciti a ottenere 80.000 euro ed è probabile che avrebbero continuato la loro attività illecita se il Ros non fosse intervenuto per fermarli.
Durante l’interrogatorio avvenuto mercoledì Marrazzo avrebbe spiegato di non avere avuto alcuna percezione che i ricattatori erano carabinieri. Del resto sembra che gli stessi investigatori del Ros abbiano capito di avere a che fare con colleghi soltanto quando le verifiche erano ormai in fase avanzata. Durante i tentativi di vendere il filmato i quattro non hanno mai fatto cenno al proprio ruolo all’interno dell’Arma, cercando anzi di mascherarsi utilizzando telefoni privati e nascondendo in ogni modo la propria identità. Già tre anni fa - indagando su un’attività di spionaggio messa in piedi dai collaboratori dell’allora presidente della Regione Francesco Storace che volevano screditare gli avversari nella corsa per il governatore - un investigatore privato confessò che era stato messo in piedi un complotto «per distruggere Marrazzo non solo sul terreno politico, ma anche su quello privato» e chiarì che il proposito era stato abbandonato soltanto perché «non ci siamo fidati delle persone che avevamo ingaggiato».
Possibile che anche i quattro carabinieri facciano parte di un complotto? Le verifiche svolte finora avrebbero escluso l’esistenza di mandanti, ma soltanto quando cominceranno gli interrogatori degli arrestati si potrà comprendere meglio in quale ambito si siano mossi. Il governatore avrebbe infatti frequentato diverse volte quell’abitazione dove è stato poi filmato e dunque non si può escludere che i carabinieri lo abbiano saputo attraverso una «soffiata». Del resto i sottufficiali sono entrati nell’appartamento vestiti «in borghese», utilizzando uno stratagemma, e così sarebbero riusciti a sorprendere il presidente Marrazzo. Secondo i primi accertamenti i militari del Trionfale avevano messo in piedi una vera e propria associazione per delinquere che, oltre all’estorsione di Marrazzo, avrebbe compiuto altri gravissimi reati come la detenzione e lo spaccio di stupefacenti. Non è chiaro da dove provenisse la droga, ma non è escluso che siano riusciti a procurarsela proprio nell’ambito della loro attività illecita legata a questa storia.
Fiorenza Sarzanini
23 ottobre 2009© RIPRODUZIONE RISERVATA da corriere.it
|
|
|
Registrato
|
|
|
|
Admin
Utente non iscritto
|
|
« Risposta #26 inserito:: Ottobre 25, 2009, 04:18:11 pm » |
|
IL CASO LAZIO
Marrazzo, si cerca altro video
I ricattatori gli avrebbero chiesto anche un trasferimento.
Forse altre vittime. Le immagini sequestrate a «Chi»
ROMA - «Mi sono venuti sotto altre volte». È questa frase, pronunciata da Piero Marrazzo al termine dell’interrogatorio del 21 ottobre scorso, a svelare quanto forti fossero le pressioni esercitate dai carabinieri che lo ricattavano. Dopo l’irruzione nella casa di via Gradoli avvenuta agli inizi di luglio, li incontrò altre volte. Volevano soldi, ma chiedevano anche favori. In particolare pretendevano un suo intervento affinché uno di loro ottenesse il trasferimento dalla caserma di via Trionfale. In mano avevano i suoi tre assegni per un totale di 20.000 euro e il video che lo ritraeva insieme ad un transessuale. Ma forse avevano anche altro. Le indagini si concentrano sulla possibilità che esista un secondo filmato dove il governatore della Regione Lazio è ripreso in un’occasione diversa e con lui ci sono due transessuali.
Altri ricatti Adesso le indagini dovranno verificare perché, mentre trattavano con il governatore, i carabinieri poi arrestati abbiano tentato in ogni modo di vendere le immagini a giornali e televisioni. Se il loro obiettivo era quello di tenerlo sotto scacco, dovevano essere consapevoli che la pubblicazione — anche parziale — avrebbe fatto svanire la possibilità di ottenere da lui nuovi vantaggi. E dunque non si può escludere che si fossero messi al servizio di qualcuno e stessero eseguendo nuove disposizioni, anche con la speranza di ricavare maggiori guadagni. Max Scarfone — il fotografo noto per aver ritratto il portavoce del governo Prodi Silvio Sircana mentre si avvicina con l’auto ad un transessuale — li conosceva bene, tanto da aiutarli a prendere contatti con «testate giornalistiche ed agenzie » . Durante l’interrogatorio ha evidenziato «i loro innumerevoli contatti negli ambienti criminali della città», ma soprattutto «le rilevanti risorse patrimoniali che hanno a disposizione ». Gli stipendi dei sottufficiali dell’Arma si aggirano sui 1.500 euro al mese. Da dove arrivavano gli altri soldi? L’ipotesi esplorata dagli inquirenti è che altri ricatti possano essere stati portati avanti, altri clienti minacciati. Almeno due militari arrestati hanno ammesso di avere buoni confidenti nell’ambiente dei transessuali di quella zona. Persone disposte a fornire la «soffiata» giusta pur di poter continuare a svolgere le proprie attività illecite come lo sfruttamento e lo spaccio di droga. Dunque a segnalare la partecipazione di personaggi pubblici a incontri e festini. Ed è proprio questa certezza investigativa ad avvalorare l’ipotesi che ci siano vittime di altri ricatti. Del resto l’eventualità di finire nei guai non sembrava spaventarli: il carabiniere scelto Carlo Tagliente era già finito sotto stretta osservazione dei suoi superiori per alcune violazioni disciplinari, sospettato pure di essere un consumatore di stupefacenti.
«Sembrava in trance» Intorno a Marrazzo erano riusciti a stringere una tenaglia. Lo tenevano sotto pressione e intanto trattavano la vendita del filmato. Mostravano un video di un minuto e mezzo, certamente parte di un film molto più lungo. Una sorta di «promo» per catturare l’interesse dei possibili acquirenti prima di consegnare tutto il «girato » che potrebbe durare addirittura quindici o venti minuti. Questo almeno sospettano gli investigatori del Ros dopo aver ascoltato le intercettazioni telefoniche e ambientali dei loro colleghi che forniscono dettagli ai propri interlocutori. La scorsa settimana ne hanno sequestrato una copia nella redazione di «Chi», il settimanale della Mondadori diretto da Alfonso Signorini, e questo vuol dire che la trattativa era già in una fase avanzata. Agli inizi di settembre «Oggi» aveva invece visionato le immagini, ma non le aveva ritenute interessanti.
Era stato proprio Scarfone a contattare l’inviato Giangavino Sulas. «Mi diedero appuntamento in piazza Mazzini — conferma il giornalista — e lì, oltre al fotografo, trovai un certo Antonio che mi disse subito di essere un carabiniere. Dopo un lungo giro in macchina mi portarono in un appartamento nella zona nord dove c’era un altro uomo che negò invece di appartenere all’Arma. Mi fecero vedere il filmato che era di pessima qualità e con l’audio abbassato. Era stato certamente girato con un telefonino. Indugiava sui particolari, si chiudeva con un’inquadratura della targa dell’auto di servizio del presidente, una Lancia K. Ma la cosa che mi colpì fu proprio Marrazzo che si appoggiava allo stipite di una porta e sembrava quasi in trance. Era robaccia e d’accordo con il mio direttore comunicammo di non essere interessati » . Il presidente della Regione, ed ex conduttore di «Mi manda Raitre», ha raccontato durante il suo interrogatorio di essere stato minacciato dai due carabinieri che fecero irruzione nell’appartamento «perché volevano i soldi». Ha ammesso di aver staccato i tre assegni per paura dell’arresto, visto che nella stanza c’erano strisce di cocaina. Ha anche aggiunto che «la droga era sparita dopo che loro uscirono dalla casa», così facendo presumere che se la siano portata via. Ma potrebbe aver omesso alcuni dettagli di quell’episodio e di quanto è avvenuto nei giorni successivi sulle richieste ricevute.
Fiorenza Sarzanini 25 ottobre 2009
|
|
|
Registrato
|
|
|
|
Admin
Utente non iscritto
|
|
« Risposta #27 inserito:: Ottobre 26, 2009, 09:43:15 am » |
|
Il retroscena dell'inchiesta
Marrazzo avvertito da Berlusconi: a Milano hanno un video contro di te
Venne offerto alla Mondadori.
Il governatore cercò di acquistarlo da un’agenzia
ROMA — Tre giorni prima dell’arresto dei carabinieri della Compagnia Trionfale, Silvio Berlusconi ha avvisato Piero Marrazzo che alla Mondadori era stato offerto il video che lo ritraeva in compagnia di un transessuale. E il governatore del Lazio ha contattato l’agenzia fotografica Photo Masi per cercare di recuperare quel filmato. È l’ultimo, clamoroso, retroscena che emerge dall’indagine sul ricatto al presidente della Regione. Rivela infatti come lo stesso Marrazzo — proprio come era avvenuto a luglio quando fu sorpreso nell’appartamento romano di via Gradoli — abbia deciso di non presentare alcuna denuncia, cercando invece di chiudere personalmente la partita. Comincia tutto la scorsa settimana quando l’agenzia Photo Masi di Milano contatta il settimanale Chi e offre il video.
LA CHIAMATA DA ARCORE - Racconta il direttore Alfonso Signorini: «Me l’ha offerto la titolare Carmen Masi e io l’ho preso in visione. Mi disse che il prezzo era di 200.000 euro trattabili. Ho spiegato subito che non mi interessava, però — come spesso avviene per vicende così delicate — ho detto che ne avrei parlato con i vertici dell’azienda. Ho subito informato la presidente Marina Berlusconi e l’amministratore delegato Maurizio Costa, con i quali abbiamo concordato di rifiutare la proposta». È a questo punto che, presumibilmente, la stessa Marina Berlusconi avvisa il padre di quanto sta accadendo. Lunedì scorso il presidente del Consiglio visiona le immagini. Poi chiama Marrazzo. Lo confermano ambienti vicini al capo del governo e lo stesso Marrazzo — quando ormai la vicenda è diventata pubblica — lo racconta ad alcuni amici, anche se non specifica a tutti chi sia l’interlocutore che lo ha messo in guardia. Durante la telefonata Berlusconi lo informa che il video è nella mani della Mondadori, gli assicura che la sua azienda non è interessata all’acquisto e gli fornisce i contatti della Photo Masi in modo da cercare un accordo direttamente con loro. L’obiettivo del capo del governo appare chiaro: smarcare il suo gruppo editoriale da eventuali accuse di aver gestito il filmato a fini politici, ma anche mostrare all’opposizione la sua volontà di non sfruttare uno scandalo sessuale. Una mossa che arriva al termine di trattative con altri quotidiani a lui vicini che avevano comunque ritenuto il filmato «non pubblicabile », come ha sottolineato il direttore di Libero , Maurizio Belpietro, quando ha raccontato di averlo visionato.
L'INTERMEDIARIO - In ogni caso il governatore capisce che si è aperta una via d’uscita, probabilmente è convinto di potersi così sottrarre al ricatto dei carabinieri. Telefona alla titolare della società e prende un appuntamento per il mercoledì successivo. L’accordo prevede che sia un suo intermediario ad andare a Milano. È il «metodo Corona», con la vittima che tenta di far sparire dal mercato materiale compromettente. Carmen Masi avverte Max Scarfone, il fotografo che ha avuto il video dai militari del Trionfale e ha incaricato lei di occuparsi della vendita. Gli prenota via Internet un biglietto ferroviario per farlo andare nel capoluogo lombardo e assistere all’incontro. Gli investigatori del Ros capiscono che devono intervenire perché la trattativa è nella fase finale, dunque il filmato rischia di essere distrutto con l’eliminazione della prova dell’estorsione. Alle 23 di martedì scorso bloccano Scarfone alla stazione e lo portano in caserma per l’interrogatorio. Il fotografo conferma quanto già emerge dalle intercettazioni telefoniche. All’alba viene perquisita la Photo Masi e sequestrata una copia del video. Alle 18 la stessa squadra del Ros entra nella redazione di Chi per prendere la seconda copia. L’appuntamento con il governatore viene immediatamente annullato.
LO STUPORE DEI PM - Il giorno dopo Marrazzo è convocato in Procura. «Credevo che i magistrati dovessero parlarmi di qualche indagine legata agli appalti», racconterà poi ai collaboratori. E i pubblici ministeri gli comunicano di aver scoperto il ricatto dei carabinieri, lo interrogano come parte lesa. Lui racconta l’irruzione, spiega di aver consegnato gli assegni, ammette anche che nella casa del transessuale c’era cocaina. Ma nulla dice di quanto lui ha tentato di fare per cercare di bloccare la pubblicazione del video. Di fronte ai magistrati si mostra anzi stupito che ci sia per le conseguenze. A questo punto c’è una sorta di «patto tra gentiluomini» come lo definiscono negli ambienti giudiziari. Si decide che, quando la notizia sarà pubblica con l’arresto dei 4 carabinieri, lui dovrà dire che si tratta di una «vicenda privata» e nessun altro fornirà dettagli. E invece, di fronte al clamore, Marrazzo reagisce in maniera diversa. Parla di una «bufala», addirittura ipotizza che quel filmato sia «un falso» lasciando così intendere che all’interno dell’Arma sia stato ordito un complotto ai suoi danni. Una linea di difesa incomprensibile, visto che lui stesso ha appena ammesso tutto davanti ai magistrati, che alla fine lo costringe alla resa. E adesso i magistrati stanno verificando se quanto è stato scoperto finora — uso dell’auto di servizio, droga nell’appartamento del trans — possa far cambiare la sua posizione giudiziaria.
Fiorenza Sarzanini
26 ottobre 2009© RIPRODUZIONE RISERVATA da corriere.it
|
|
|
Registrato
|
|
|
|
Admin
Utente non iscritto
|
|
« Risposta #28 inserito:: Ottobre 27, 2009, 06:59:45 pm » |
|
Il retroscena
Così il governatore trattò per avere il video
Avrebbe cercato di comprare le immagini: «Vi manderò il mio legale. So che avete qualcosa che mi riguarda»
ROMA — «Manderò un legale per firmare il contratto». Così, lunedì scorso, Piero Marrazzo aveva chiuso la telefonata con la titolare dell’agenzia Photomasi che aveva in esclusiva il suo filmato insieme ad un transessuale. L’appuntamento era stato fissato per le 20 di mercoledì nello studio dell’avvocato milanese Marco Eller Vainicher da una persona che il giorno dopo aveva telefonato a nome di Marrazzo per confermare. A bloccare tutto è stato il blitz dei carabinieri del Ros che hanno deciso di intervenire per evitare la distruzione della prova del reato commesso dai loro colleghi, accusati di aver ricattato lo stesso Marrazzo.
Quello stesso mercoledì il presidente della Regione Lazio è stato convocato dai pm romani. Ha raccontato di essere stato avvisato da Silvio Berlusconi dell’esistenza del filmato, ma nulla ha detto dei suoi tentativi di farlo sparire dalla circolazione, omettendo anche il nome della persona che ha confermato per suo conto l’appuntamento. Che cosa voleva nascondere? Aveva sollecitato altre garanzie alla società? In un’intervista che sarà pubblicata dal settimanale Oggi Carmen Masi racconta i contatti con il governatore specificando che la sua telefonata «mi fu preannunciata da un giornalista della Mondadori». Si sa che il contratto doveva prevedere la vendita in esclusiva per ottenere la certezza che da quel momento nessuno avrebbe mai più avuto nella disponibilità il video. Ma questo non spiega comunque l’atteggiamento del governatore e la sua scelta di non denunciare quanto stava accadendo. Come poteva essere sicuro che qualcuno non ne possedesse altre copie? E soprattutto, dopo essere stato ricattato dai carabinieri, chi avrebbe potuto garantirgli che non ci fossero in giro fotografie o altro materiale compromettente? Del resto sapeva bene che i militari del Trionfale avevano in mano tre assegni da lui firmati — uno da 10.000 euro e due da 5.000 — che aveva staccato quando fu sorpreso in casa con la transessuale. E questo avrebbe dovuto fornirgli la consapevolezza che non poteva bastare l’acquisto del filmato per avere la certezza di essere al riparo da ulteriori conseguenze.
Anche perché, nonostante abbia raccontato di aver dato incarico al suo segretario di denunciare lo smarrimento dei titoli, si sa che nessun esposto è stato poi presentato. Troppi dettagli di questa storia rimangono oscuri. E il principale riguarda proprio i soldi che Marrazzo è stato disposto a versare purché questa vicenda non venisse resa nota. Si sa che per il video era stato fissato un prezzo di vendita di 200.000 euro. L’agenzia aveva comunicato ad Antonio Tamburrino — uno dei carabinieri poi arrestati, accusato soltanto di ricettazione — che si trattava di una cifra troppo elevata. «Il mio cliente — chiarisce il difensore Mario Griffo — si era fatto portavoce della richiesta dei suoi colleghi, ma è in grado di dimostrare di non avere alcuna consapevolezza che si trattasse di materiale di provenienza illecita», motivo che giustificherebbe una richiesta tanto esosa. «Al telefono con Marrazzo non si parlò di cifre », racconta Carmen Masi a Oggi non confermando così che il prezzo pattuito potesse essere di circa 90.000 euro. Si sa che il governatore contattò la donna da un telefono cellulare, si qualificò e aggiunse: «So che lei ha qualcosa che mi riguarda». Poi comunicò la sua intenzione di affidarsi a un legale per cercare di chiudere al più presto la partita, nonostante fosse ancora aperta quella con i carabinieri che lo ricattavano. Quanti soldi aveva consegnato loro? Ai magistrati Marrazzo non ha mai parlato di soldi versati in contanti. Ma gli investigatori sospettano che i 5.000 euro fossero una delle tranche pattuite per comprare il silenzio dei carabinieri anche se lui dice che loro glieli hanno rubati.
Fiorenza Sarzanini
27 ottobre 2009© RIPRODUZIONE RISERVATA da corriere.it
|
|
|
Registrato
|
|
|
|
Admin
Utente non iscritto
|
|
« Risposta #29 inserito:: Novembre 02, 2009, 10:39:01 am » |
|
L’inchiesta - Da oggi cominciano gli interrogatori. Le contraddizioni tra l’ex presidente della Regione e Natalie
Marrazzo, nuove accuse ai ricattatori
I carabinieri arrestati avrebbero rapinato numerosi trans.
L’ipotesi di video su altri clienti
ROMA — I carabinieri che ricattavano Piero Marrazzo avrebbero compiuto altre rapine. A confermare il sospetto degli investigatori del Ros è stato Natalie, 37 anni, il transessuale filmato in compagnia del governatore. Durante i suoi due interrogatori della scorsa settimana ha riferito nomi e circostanze. Questa parte della sua deposizione è stata coperta da omissis, probabilmente per nascondere il nome dei clienti presenti durante le irruzioni. Dieci giorni dopo la scoperta dell’esistenza del video utilizzato per tenere sotto pressione il presidente della Regione Lazio, si rafforza l’ipotesi che altri incontri possano essere stati «ripresi». E dunque che anche ad altre persone possano essere stati chiesti soldi in cambio del silenzio.
Ci sono diversi brani del verbale che i pubblici ministeri hanno «omissato». L’attendibilità di Natalie — all’anagrafe José Alexandre Vidal Silva — è confermata dalla scelta dei magistrati di concedere un permesso di soggiorno a fini di giustizia. E questo fa ritenere che abbia fornito elementi preziosi per verificare quanto ampio fosse il «giro» dei militari in servizio presso la Compagnia Trionfale, tuttora rinchiusi in una sezione speciale del carcere di Rebibbia. «Sono molto noti nell’ambiente dei trans — ha affermato il transessuale — perché soliti entrare nelle case e rubare tutti i soldi e gli oggetti di valore. A una mia amica transessuale di nome Raquel che abita in Due Ponti 150, da quanto da lei riferitomi, hanno rapinato 1.600 euro in contanti, un computer e tanti profumi di marca».
Natalie tornerà al palazzo di giustizia nei prossimi giorni, ma prima — domani pomeriggio — il pubblico ministero ascolterà Nicola Testini, Luciano Simeone e Carlo Tagliente, accusati di estorsione e altri reati. Nessuna richiesta è stata presentata per Antonio Tamburrino, accusato soltanto della ricettazione del filmato, e questo — sottolinea il suo legale Mario Griffo — «conferma come le posizione processuali siano molto diverse». In vista dell’udienza del Tribunale del Riesame fissata per mercoledì, il magistrato ha deciso di ascoltare nuovamente Marrazzo, forse addirittura già oggi.
Sono ancora troppe le contraddizioni e le omissioni che emergono da una lettura comparata dei verbali riempiti dai protagonisti di questa vicenda. E quelle più evidenti riguardano proprio la ricostruzione fornita dal governatore e quella di Natalie, anche su dettagli apparentemente banali, quasi accreditando la possibilità che in realtà siano stati due gli incontri filmati.
Nel primo interrogatorio il transessuale sostiene che l’irruzione dei carabinieri avviene a giugno, Marrazzo parla degli inizi di luglio. Secondo Natalie era pomeriggio, il governatore dice invece «le prime ore della mattina » .
L’ex presidente della Regione dovrà poi precisare quanti soldi abbia davvero versato ai carabinieri (finora ha detto che furono portati via 2.000 euro suoi e 3.000 di Natalie) e, soprattutto, se quella mazzetta di banconote che si vede nel filmino fosse il prezzo del ricatto. «Erano almeno 15.000 euro», ha raccontato agli investigatori del Ros Max Scarfone, il fotografo che fece da intermediario per vendere il filmato. «Erano certamente tanti, molto più di 5.000. Una «pila» alta: sotto quelli da cinquecento euro e poi quelli da cento, fino ad arrivare a quelli da cinquanta e da dieci», ha aggiunto Giangavino Sulas, il giornalista di Oggi che ha potuto vedere il video. Ma soprattutto dovrà dire se è vero che dopo l’irruzione chiese a Natalie di raggiungerlo a casa — come ha raccontato il transessuale — e, in caso affermativo, per quale ragione.
Ancora tutti da chiarire anche i rapporti tra i carabinieri arrestati e Gianguarino Cafasso, lo spacciatore morto qualche settimana fa, che per primo aveva tentato di vendere il video. I militari sostengono che fu proprio lui a filmare Marrazzo, ma i magistrati ritengono questa versione «non credibile», anche se proseguono gli accertamenti per capire quale sia stato il suo ruolo effettivo.
Fiorenza Sarzanini
02 novembre 2009© RIPRODUZIONE RISERVATA da corriere.it
|
|
|
Registrato
|
|
|
|
|