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Autore Discussione: Veltroni deve fare i conti con le divisioni interne al partito (silvio invece..)  (Letto 3570 volte)
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« inserito:: Dicembre 19, 2008, 06:51:17 pm »

19/12/2008 (7:43) - RETROSCENA

Rosolati come la Dc, l'incubo di Walter
 
Veltroni deve fare i conti con le divisioni interne al partito

Mannino: fa come Martinazzoli, che liquidò la Balena

AUGUSTO MINZOLINI
ROMA


La storia si ripete. Nel vedere il dibattersi del Pd alle prese con i tanti focolai aperti da diverse procure nelle amministrazioni di centro-sinistra, insomma, con la Tangentopoli rossa, sembra di essere tornati alla prima Tangentopoli in cui la Dc si difese, o meglio non si difese, e abdicò. Nel Palazzo ex-Dc che ora militano nel Pd o nell’Udc rivedono le stesse scene e personaggi che ricordano quelli di allora. Quelli che liquidarono in pochi mesi il patrimonio politico ed elettorale di un partito che aveva governato l’Italia per cinquant’anni. Paragoni e accostamenti tra il Pd di oggi e quella drammatica storia ce ne sono. Fin troppi. «Vedete - spiega Calogero Mannino, che assolto dopo una via crucis nei tribunali è finito alla corte di Casini - Veltroni mi ricorda Mino Martinazzoli, il segretario che liquidò la Dc.

Solo che Martinazzoli era piangens, Veltroni invece è ridens». Rocco Buttiglione, uno dei tanti segretari del Ppi dopo la diaspora scudocrociato e ora vicepresidente della Camera Udc, ricorda invece la guerra tra correnti - per lui «bande» - che imperversò nella Dc durante gli anni di Tangentopoli all’insegna del «rinnovamento». «Vedo le immagini di ieri - racconta -. Sono loro stessi che forniscono dossier alla magistratura, in parte veri e in parte falsi, per promuovere il cosiddetto rinnovamento».

Appunto, la parola «rinnovamento», una parola spesso abusata, che spesso si riduce ad una sorta di resa di conti interna che prende a pretesto le inchieste. Nella Dc andò avanti per un anno e mezzo e alla fine la classe dirigente scudocrociato invece di «rinnovare» il partito nei fatti lo liquidò. «E volete spiegare a me quello che successe allora? - chiede con un tono ironico e amaro al tempo stesso, Enzo Carra, all’epoca portavoce di Forlani, portato in manette in tribunale da Di Pietro e ora esponente di punta dei “teodem” nel Pd -. Mi ricordo che la Jervolino alla vigilia dell’assemblea di scioglimento della Dc mi telefonò per chiedermi di non partecipare. “Enzo fai questo gesto - mi suggerì - perché se vieni i media parlano solo di te e addio il rinnovamento”. Io non ci andai ma la mandai a quel paese... e ora invece a Napoli è abbarbicata alla poltrona.

Con il suo assessore Gambale in cella. Quello che all’epoca era coordinatore della Rete di Orlando e passava il tempo a gridare “in galera, in galera”». Già, la storia si ripete. Veltroni parla solo di rinnovamento. Magari oggi interpreterà il più tradizionale dei rituali: minaccerà le dimissioni se il partito non gli darà carta bianca per zittire gli altri capicorrente. «Alla fine - prevede il dalemiano Ugo Sposetti - ci farà fuori tutti». E sulla riforma della giustizia? Sulla risposta da dare ad una magistratura che pure per il capo dello Stato, Giorgio Napolitano, per molti versi appare impazzita? Per ora, al di là delle frasi di rito, il leader del Pd non ha detto niente. Anzi. «A trattare con il ministro Alfano - si lamenta Michele Vietti, a nome dell’altra opposizione, l’Udc - ha mandato tre magistrati: Tenaglia, Ferrante e Casson. Tanto valeva che ci mandasse la giunta dell’Anm».

Eppure nel Pd sono molti quelli che ci vedono poco chiaro in questa improvvisa esplosione della Tangentopoli rossa. «Tutto - confida in questi giorni Alfredo Reichlin, dirigente storico del Pci che ha seguito tutte le vicissitudini della sinistra fino al Pd - è cominciato dopo che Violante ha aperto sulla riforma della giustizia. A quel punto qualcuno si è sentito scoperto nella magistratura e sono scoppiati i tanti scandali che hanno coinvolto il Pd...». In breve la Tangentopoli rossa avrebbe una logica politica: la parte più politicizzata della magistratura e il suo braccio politico, Di Pietro, utilizzerebbero gli scandali per fissare il Pd su posizioni giustizialiste contrarie alla riforma.

Finora, però, Veltroni parla solo di rinnovamento e magari alla fine rinnoverà solo i «garantisti» del Pd. La risposta politica, invece, non c’è. Ed è il motivo per cui Berlusconi continua ad essere diffidente. «Loro - spiega Cicchitto - non parlino più di questione morale nei nostri confronti e noi non saremo farabutti come lo furono loro nel ‘92. Veltroni? Sta facendo sciacallaggio. Regola i conti sulla scia delle inchieste». E’ l’assenza di una risposta alla magistratura che rende scettico il Cavaliere. Lui non ne gioisce, semmai ne è preoccupato. Ieri in Consiglio dei ministri quando si è affrontato il problema di un possibile commissariamento di Napoli, si è quasi adirato: «Smettiamola con queste sciocchezze.

Non possiamo essere garantisti a senso unico. Non è che quando l’opposizione è nel mirino dei giudici le spariamo contro...». Questo non significa che speri in un cambio di linea di Veltroni. Anzi. «Volete parlare con l’opposizione? - ha chiesto ai ministri leghisti -. Fate quello che vi pare, a me non me ne frega un bel niente. Io la penso in altro modo: se rinsaviscono saranno loro a chiederci di trattare. Solo che Di Pietro ha stretto il Pd in un abbraccio mortale». Il premier, insomma, è pessimista ma è pronto a ricredersi. Anche perché la situazione può diventare drammatica e la riforma della giustizia è essenziale. «Noi - ha spiegato ai suoi consiglieri - non dobbiamo speculare sulle loro disgrazie. Semmai fargli capire quanto è necessaria una riforma “garantista” del nostro sistema giudiziario.

Basterebbe che facessero quello che gli ha suggerito Napolitano. Ma non so se lo faranno. Non so se Veltroni avrà la forza - e la voglia - di opporsi ai giustizialisti del suo partito e al suo alleato, Di Pietro. Il Pd è allo sbando e in stato confuusionale. Eppure mai come in questo momento dovrebbero concorrere ad una politica forte, capace di riformare e di assumersi le proprie responsabilità. C’è il rischio, infatti, che il malcontento e la sfiducia generata da questa crisi si saldino nel tempo con una nuova ondata giustizialista. Ecco perché il Pd deve scegliere ora non domani da che parte stare. Se non sarà con noi, la riforma la faremo lo stesso. Da soli».

da lastampa.it
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