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Autore Discussione: CARLO CARACCIOLO  (Letto 6237 volte)
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« inserito:: Dicembre 15, 2008, 11:49:43 pm »

15/12/2008 (21:18)

E' morto l'editore Carlo Caracciolo
 
Il presidente del Gruppo L'Espresso, che fu tra i fondatori della Repubblica, aveva 86 anni. Si è spento a Roma


ROMA


È morto nella sua abitazione a Roma l’editore Carlo Caracciolo. Era nato a Firenze il 23 ottobre 1925. Appartenente alla nobile famiglia dei Principi di Castagneto e Duchi di Melito, Caracciolo è stato un editore italiano tra i più importanti.

Presidente del Gruppo L’Espresso, con Eugenio Scalfari nel 1976 fondò il quotidiano La Repubblica. Figlio di Filippo Caracciolo e di Margaret Clarke, fratello maggiore di Marella, vedova di Gianni Agnelli, cominciò la sua imprenditoria editoriale nel 1951 fondando a Milano la Etas Kompass, dedita alla pubblicazione di riviste tecniche, di cui restò Amministratore Delegato fino al 1975. Nel 1976, da una joint venture tra Editoriale L’Espresso (di cui era diventato azionista di maggioranza) e Arnoldo Mondadori Editore, nacque la Società Editoriale La Repubblica, della quale Caracciolo è stato presidente e amministratore delegato: il 14 gennaio 1976 cominciano le pubblicazione del quotidiano, diretto da Eugenio Scalfari.

Nel 1988 il pacchetto di maggioranza de L’espresso e la sua quota di La Repubblica venne ceduta alla Mondadori, di cui Caracciolo venne nominato presidente (1989 - 1990). Quando Silvio Berlusconi assunse il controllo della Mondadori, ne scaturì un contenzioso giudiziario - la cosiddetta guerra di Segrate - che si concluse nel 1991 con la separazione fra il settore libri e periodici (al gruppo Fininvest) e quello di Repubblica ed Espresso, che andò a formare il Gruppo Editoriale L’Espresso con azionista di maggioranza la Cir di Carlo De Benedetti e di cui Carlo Caracciolo diventò Presidente. È stato presidente della Finegil Editoriale SpA, la società che detiene gran parte delle partecipazioni del Gruppo nei quotidiani locali, della A. Manzoni & C S.p.A., la concessionaria di pubblicità del gruppo, e Presidente del Consiglio di Amministrazione dell’Internet company Kataweb S.p.A.. Il 26 aprile 2006 Caracciolo aveva abbandonato la guida effettiva delle sue società, passata a Carlo De Benedetti, mantenendo la presidenza onoraria del Gruppo Editoriale L’Espresso. Il 2 gennaio 2007 Caracciolo aveva acquistato il 30% del quotidiano francese Liberation.

da lastampa.it
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« Risposta #1 inserito:: Dicembre 15, 2008, 11:50:41 pm »

15/12/2008 (21:37) - IL RICORDO

L'ultimo editore puro
 
Carlo Caracciolo è morto a Roma.

I giornali erano la sua linfa vitale.

Nonostante la sua lunga malattia non ha mai smesso di occuparsene.

CHIARA BERIA DI ARGENTINE


«Assoluzione di un compito civile»: così Carlo Caracciolo di Castagneto amava definire il suo ruolo di editore in una Italia sempre meno attenta alla difesa della libertà di opinione. E, nonostante la lunga malattia - un calvario di operazioni, infarti, ricoveri, controlli tra Roma e Parigi - Carlo Caracciolo, l’ultimo degli editori «puri», scomparso a Roma a 83 anni, fino all’ultimo respiro ha vissuto da editore.

Dall’aprile 2006 presidente onorario dell’Editoriale L’Espresso (il gruppo nato con il settimanale di via Po che aveva ereditato da Adriano Olivetti, e che oggi comprende Repubblica e altri 18 quotidiani, riviste, libri, radio), Caracciolo - per autodefinizione «un collezionista di giornali che vive in un harem cartaceo» - non aveva mai smesso di andare, ogni mattina alle 8, nel suo studio all’ottavo piano della sede romana di Repubblica. Incontri, contatti, voraci letture, giudizi spesso tranchant di un grande editore (nulla a che vedere con i manager della società multimediatica e iper-spersonalizzata) che amava avere un rapporto personale, a volte anche di amicizia, non solo con i direttori - primo fra tutti l’amico e cofondatore del gruppo, Eugenio Scalfari - e i celebri editorialisti, ma anche con il più giovane dei cronisti.

I giornali erano la sua linfa vitale. «Senza Repubblica non avrebbe potuto vivere», dice commosso Luigi Zanda, senatore Pd, amico della più stretta cerchia di Caracciolo. Una grande curiosità intellettuale, una passione vera, ma soprattutto una visione «alta» del mestiere d’editore, la più liberale delle professioni: il tutto condito con lo charme dell’aristocratico napoletano scevro da ogni nostalgia. «Castagneto? Non so dove sia», scherzava Caracciolo con l’understatement ereditato dalla madre, l’americana Margherita Clarke. «Editore fortunato» (dal titolo del libro che gli ha dedicato Nello Ajello, una delle storiche firme dell’Espresso), abile giocatore di scacchi con l’inseparabile Gigi Melega e di poker contro i fortissimi Jas Gawronski e Claudio Rinaldi, nel gennaio 2007 Carlo Caracciolo, ormai assai ricco e assai malato, contro ogni logica puramente economica e forse anche contro il tempo che inesorabilmente scorreva, si lanciò nell’ultima impresa editoriale della sua incredibile vicenda umana facendosi convincere da Edmond de Rothschild ad acquistare il 30 per cento del dissestato quotidiano della gauche francese, Libération.

Nuova passione, nuovi progetti e trasferte a Parigi in puro stile Caracciolo - contatti supereccellenti, mai stress da lavoro, voraci curiosità intellettuali, sublimi mangiate -, scortato da Carlo Perrone, l’amico editore coinvolto nell’avventura, e dal superclan di parenti e amici di cui amava circondarsi. Fu sua figlia Jacaranda, giornalista del gruppo, pochi mesi fa, a salvarlo in una drammatica notte intuendo che aveva avuto un nuovo infarto; ed è stata ancora lei ad accompagnarlo a fine novembre a Parigi (lì ha incontrato anche sua nipote Margherita Agnelli) all’ultimo controllo dal professor Tarot, il suo medico francese. Tornato a Roma, negli ultimi giorni, prima del definitivo ricovero, Carlo Caracciolo da perfetto gentiluomo - never complain, never explain - non tediava certo gli amici con i suoi mali. Chi gli ha parlato in queste settimane della sua vita lo ricorda semmai sempre più amareggiato per la situazione politica italiana, il fallimento degli ideali e del mondo in cui era cresciuto (il padre, Filippo Caracciolo, fu sottosegretario nel secondo governo Badoglio per il Partito d’Azione, amico di Ugo La Malfa e Adolfo Tino; mentre lui era stato partigiano in Val d’Ossola), la decomposizione anche morale del Partito democratico denunciata con un’inchiesta di copertina dall’Espresso e, infine, la drammatica crisi economica con tutti gli immensi interrogativi anche sociali che apre.

Fine del Principe dell’editoria, fine di un’epoca iniziata dal fatale incontro a Milano, primi Anni Cinquanta, di Caracciolo piccolo editore di riviste tecniche con Eugenio Scalfari, un giovane giornalista economico, vicedirettore nell’Espresso di Arrigo Benedetti. «Eugenio emanava sicurezza», ricordava Caracciolo nel libro di Ajello. «Aveva una sensibilità per i temi tecnico-finanziari, non solo a livello teorico». Era nata la coppia più prolifica, amorosa e indistruttibile dell’editoria italiana. Il duo Caracciolo-Scalfari trasforma l’Espresso che perdeva una barca di soldi nel settimanale delle grandi battaglie civili di una sinistra più laica e democratica. «Capitale corrotta-Nazione infetta»; le campagne sul divorzio e sull’aborto, i micidiali scontri con la Dc di Amintore Fanfani con relative minacce di farla pagare alla Fiat di Giovanni Agnelli, marito di donna Marella, sorella di Caracciolo. Nubi tra cognati? «Agnelli aveva per consuetudine di non intrattenersi mai su argomenti sgradevoli», sosteneva Caracciolo. «Mio cognato è un bravissimo editore», diceva con evidente ammirazione l’avvocato Agnelli. Poi, dal 1976, il lancio di Repubblica, la corazzata vicina al Pci di Berlinguer.

Altri scontri, questa volta con Bettino Craxi fino alla guerra giudiziaria con Berlusconi e agli infiniti colpi bassi per il controllo della Mondadori. «Tu sei un mascalzone!», s’infuriò Caracciolo quando il Cavaliere gli comunicò in via Rovani di avere in mano la quota Formenton. Incassato il colpo, si divertì subito dopo a imbarazzare Berlusconi facendosi invitare a pranzo. I migliori anni della sua vita; le grandi battaglie, tante copie e molti guadagni; e pazienza se, lui che è sempre stato amico di Edgardo Sogno, veniva tacciato in certi circoli conservatori di essere un principe rosso. Raccontano i familiari che da martedì scorso nel suo letto di malato Caracciolo - uomo di assoluto fascino, gran seduttore assai amato - aveva perso la voglia di resistere oltre. Anni Novanta a Milano, supervertici con avvocati. In piena guerra con l’amico e alleato Carlo De Benedetti contro Berlusconi per la Mondadori, in attesa della decisiva mediazione dell’andreottiano Giuseppe Ciarrapico, Caracciolo si era volatilizzato: nulla e nessuno potevano fargli saltare la sua pennichella pomeridiana.

Riposa ora don Carlo (così lo chiamavano l’affezionatissima Grazia a Garavicchio, proprietà in Maremma dei Caracciolo, e Pedro, il fedele maggiordomo a Roma) ma questa volta non si risveglierà. Su una parete di Torrecchia, la grande proprietà a Sud di Roma tra boschi di querce sughero e un giardino incantato, posto del cuore di Caracciolo e di sua moglie, Violante Visconti di Modrone, c’è un affresco dipinto da Tullio Pericoli. Ritrae Carlo che guarda le verdi colline; ai suoi piedi Lunetta, la gelosissima cagnolina del principe. Otto anni fa Violante Visconti è scomparsa, anche Lunetta non c’è più. Cesare Garboli, Emanuele De Seta, Simonetta Scalfari, Sandro D’Urso: immagini del mondo caro a Caracciolo finito da tempo. Era una tersa giornata d’ottobre quando, a Torrecchia, si fece gran festa - chef Vissani, regia di Jacaranda - per gli 80 anni dell’editore-gourmet della Guida ai ristoranti dell’Espresso.
Il nipote John Elkann e Luca di Montezemolo, Eugenio Scalfari e Carlo De Benedetti, i fratelli Nicola ed Ettore, i nipoti Marellina e Filippo e gli amici più cari. Al brindisi il primo a prendere la parola fu Eugenio Scalfari, grande barba bianca e sublime eloquio; poi fu la volta di Ciarrapico, meglio conosciuto come «Er Ciarra». Amicizie pericolose? Carlo Caracciolo era così signore da permettersi di essere un impunito.

da lastampa.it
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« Risposta #2 inserito:: Dicembre 15, 2008, 11:51:24 pm »

Un uomo libero

di Daniela Hamaui


Il direttore de L'espresso ricorda Carlo Caracciolo, spentosi a Roma all'età di 83 anni  Si è spento a Roma Carlo Caracciolo. Aveva 83 anni e nessuna voglia di andarsene. Amava la vita e l'abitava con naturalezza. Tra le persone che lo conoscevano, la parola più usata per descriverlo è "speciale". Poi seguono affascinante, anticonformista, ironico, libero. Ecco Caracciolo era un uomo libero, nei suoi pensieri, nelle sue passioni, nelle sue amicizie. Libero di decidere sempre, fino all'ultimo, cosa fare della sua vita.

L'ho conosciuto 15 anni fa quando il gruppo L'Espresso progettava di fare un settimanale femminile allegato a "Repubblica". Lo incontrai nel suo ufficio di Milano e per tutto il colloquio si dimostrò totalmente disinteressato agli aspetti pratici, ai dettagli. Amava i giornali e cercava nei giornalisti chi provasse la sua stessa passione. Era curioso, ma non mi chiese come avrei fatto il giornale ma solo se credevo in quel giornale, se ne sentivo la necessità. Se le mie idee sul mondo e sulla politica si avvicinavano alle sue. Solo dopo avrei capito fino in fondo perché.

Quando nel 2002 divenni direttore dell' "Espresso" ormai lo conoscevo da diversi anni e sapevo cosa voleva dire avere un editore come lui. Il rispetto del lavoro del direttore era una sua convinzione talmente radicata che nemmeno nel momento di un passaggio così importante cercò mai di imporre il suo punto di vista.

Teneva all' "Espresso" in maniera particolare. Era lì che aveva iniziato la sua carriera da editore, era la sua creatura. E l'aveva vista crescere in un'Italia dove i giornali di opposizione avevano uno spazio e una rilevanza ristretta. Lui aveva creduto prima di molti altri nell'idea che l'informazione potesse avere un ruolo civile, aiutare il Paese a cambiare e modernizzarsi. E "L'espresso" era stato in grado di fare questo e molto altro. Aveva inciso profondamente nella politica, nei costumi, nelle grandi battaglie per rendere l'Italia più laica e aperta alle novità.

Così "L'espresso" finì quasi per assomigliargli nell'impegno ma anche nell'ironia, nella libertà di giudizio e nella capacità di divertirsi con intelligenza. Era il suo giornale e per questo lo amava e lo rispettava. Il giorno in cui divenni direttore mi disse solo: "È una testata fantastica. Merita una nuova giovinezza". Un uomo e un editore indimenticabile.

(15 dicembre 2008)
da espresso.repubblica.it
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« Risposta #3 inserito:: Dicembre 16, 2008, 11:03:47 am »

De Benedetti, un'amicizia lunga 50 anni "Ecco perché gli devo dire grazie"

Il presidente del Gruppo Espresso racconta il suo rapporto con Carlo Caracciolo

"Ha fondato un'impresa editoriale che ha contribuito alla maturazione del paese"

di GIOVANNI VALENTINI

 

ROMA - Le prime parole di Carlo De Benedetti sono incrinate dalla tristezza. "Da anni ormai - dice il presidente del nostro Gruppo editoriale, ricordando l'amico presidente onorario - lui non si occupava più delle questioni quotidiane. Ma si sapeva che era sempre lì ed era un riferimento per tutti, a cominciare da me. In questo momento, sento nel mio animo una grande solitudine: Carlo Caracciolo era un editore, l'unico vero editore che abbia incontrato in vita mia".

A quando risale esattamente la vostra conoscenza?
"A cinquant'anni fa. Era il 1958. Io mi occupavo dell'azienda di famiglia e lui venne a Torino per propormi di acquistare, per qualche migliaia di lire, uno spazio pubblicitario su una specie di Guida Monaci, un annuario che curava per l'Etas-Kompas. Era un uomo bello, elegante, cordiale e allo stesso tempo semplice. Un uomo capace di ispirare subito simpatia".

Da allora, siete stati più soci o più amici?
"Certamente più amici. Poi, negli ultimi trent'anni, Carlo è stato un compagno della mia vita".

Quando avete deciso di mettervi in affari insieme?
"Accadde a metà degli anni Ottanta. Il Gruppo, a parte Repubblica, era in difficoltà, Caracciolo e Scalfari vennero a chiedermi una mano e così sottoscrissi un aumento di capitale dell'Espresso, attraverso un pacchetto di fedi convertibili: in pratica, obbligazioni senza reddito, convertibili alla scadenza in una partecipazione del 15%, senza nessun altro patto. Per la verità, fu una scelta del tutto irrazionale, fatta un po' per amicizia nei confronti di Eugenio e un po' per il fascino di Carlo che negli affari perdeva una buona parte del suo spirito romantico".

Sono queste le caratteristiche che spiegano perché intorno a lui ruotavano persone anche molto diverse tra loro?
"Caracciolo era davvero un principe rinascimentale. Aveva quindi una sua corte, composta da persone sagge e colte, ma frequentata ogni tanto anche da qualche gaglioffo. E solo un personaggio come lui, nella sua superiore lievità se lo poteva permettere. Io con lui ho condiviso passioni, delusioni, speranze, sconfitte e vittorie. Ma soprattutto la dedizione totale alla missione del Gruppo".

Il vostro rapporto, poi, è andato avanti fino alla "guerra di Segrate" per la conquista della Mondadori, contesa da Silvio Berlusconi...
"Quello - voglio dirlo chiaramente - fu un torbido imbroglio di corruzione giudiziaria. Eppure, la "guerra di Segrate" cementò l'unione con Caracciolo e Scalfari, il nostro legame di solidarietà. Berlusconi fece di tutto per portarli dalla sua parte. Ma non ho mai avuto il minimo dubbio che né l'uno né l'altro potessero tradirmi".

E Caracciolo come si comportò in quella vicenda? Fu proprio lui a cercare e trovare la mediazione risolutiva di Ciarrapico, uomo di fiducia di Giulio Andreotti.
"Carlo dimostrò allora la sua vera natura di giocatore: di poker e anche di scacchi. Mentre io mi rivolgevo a Mediobanca, guidata a quell'epoca da Enrico Cuccia, lui invece - senza dire nulla a nessuno e certamente a fin di bene - trattava con Ciarrapico. Personalmente, ero molto restio a seguirlo su quella strada. Ma Carlo sosteneva che, per difenderci dall'attacco di Berlusconi, non potevamo servirci soltanto di metodi anglosassoni... Alla fine ebbe ragione lui".

Che cosa cambiò nel Gruppo dopo la "guerra di Segrate"?
"Praticamente, nulla. Il Gruppo fondato da Caracciolo era una bottega rinascimentale, formata da alcuni grandi artisti, a cominciare da Eugenio Scalfari. Tutta la struttura aziendale, in sostanza, poggiava su una cerchia di amici coordinati dal direttore amministrativo, Milvia Fiorani. Poi, a metà degli anni Ottanta, Scalfari si convinse che doveva dotarsi di un manager professionale. Arrivò Marco Benedetto come amministratore delegato e il Gruppo fece un salto di qualità. Ma anche dopo la "guerra di Segrate" continuammo a riunirci nella vecchia mansarda di via Po e a volte sembrava che lo scopo principale del consiglio di amministrazione fosse quello di mangiare insieme la mitica focaccia di formaggio e prosciutto".

Quali erano le doti principali dell'editore Caracciolo?
"Carlo aveva un'ardente passione per questo mestiere, anche se la nascondeva dietro il suo aplomb. Cercava sempre strade nuove per crescere e spesso giocava anche d'azzardo. Gli riconosco, soprattutto, due grandi meriti: il primo è quello di aver stretto un sodalizio complementare, quasi siamese, con Scalfari; l'altro è quello di aver puntato sull'acquisto dei quotidiani locali, con una mossa isolata che allora sembrò una follia e per la quale fu addirittura preso in giro. Ma non è mai stata la follia a soffiare nelle vele di Carlo, il suo cuore era dominato dallo spirito d'avventura".

Nel libro-intervista con Nello Ajello per Laterza, come si legge fin dal titolo, lui si definiva un "editore fortunato". Era proprio così?
"Assolutamente, sì. Fortunatissimo. Era estremamente fortunato nel lavoro, anche in senso economico, patrimoniale. Nella sua vita privata ha sempre preferito il divertimento alla felicità. Io credo che Carlo abbia scelto di essere un uomo solo. Aveva fascino e riscuoteva un grande successo con le donne. Ma credo che l'unico, vero amore della sua vita sia stato quello con la moglie, Violante Visconti di Modrone. Beckett diceva di se stesso: non sono portato per la felicità. Ecco, credo che sia stato lo stesso per Caracciolo".

Che cosa vi ha uniti nel mestiere di editori?
"Direi, innanzitutto, la determinazione: per me, fondata sulla logica e per lui più sull'intuizione. Poi la passione, qualche volta acritica, per il nostro mestiere".

Oltre ai giornali, lui amava anche i giornalisti?
"Non tutti. Alcuni di loro lo divertivano, con altri sapeva divertirsi. Un po' come faceva Gianni Agnelli con i calciatori della Juventus. A pensarci bene, Carlo amava pochissimi di voi. Lui sapeva anche essere un uomo cinico, aveva il cinismo del giocatore".

Caracciolo e l'avvocato Agnelli, suo cognato. Rispetto reciproco o rivalità?
"Direi, piuttosto, un confronto silente, a distanza: più che altro, sul piano dello charme, del fascino, della personalità".

Fino all'ultimo istante, lui è stato un combattente. Da che cosa derivava questo aspetto del suo carattere?
"Carlo poteva apparire un uomo volage, leggero, ma in realtà aveva principi solidissimi. Dall'età di 16 anni e fino all'altro giorno, in clinica, si sentiva un partigiano nel senso più nobile del termine. Non se ne vantava mai apertamente, ma ogni tanto raccontava di quando era stato condannato a morte dai tedeschi e poi era riuscito a liberarsi. Era un autentico antifascista".

Molti lo chiamavano "il principe rosso".
"Caracciolo aveva senz'altro una certa nostalgia per il comunismo...".

Per il comunismo come ideologia o per il vecchio Pci come partito?
"No, certamente non per l'Unione Sovietica. Ma per l'utopia comunista, sì. Quella era la sua stella polare. Non ha mai avuto molte simpatie per tutto ciò che è venuto dopo il Pci: riteneva che quelle esperienze non avessero un solido fondamento, un set stabile di valori. Il suo cuore batteva per il Pci di Berlinguer. Posso dire che Carlo era più a sinistra di me".

Voi avete avuto, però, anche alcuni momenti di tensione.
"Uno solo. Quando tre anni fa decisi di assumere la presidenza del Gruppo L'Espresso. Per me, non aveva importanza chi fosse il presidente, lui o io. Fino a quel momento, avevo svolto - per così dire - il ruolo di garante imprenditoriale di due grandi artigiani e artisti, come Caracciolo e Scalfari. Carlo era già malato, aveva da poco compiuto 80 anni, e mi sembrava opportuno che una società quotata in Borsa e impegnativa come il Gruppo L'Espresso rinnovasse il suo vertice".

Questo ha modificato i vostri rapporti personali?
"Niente affatto. Carlo è rimasto fino alla fine un punto di riferimento per tutti noi, me compreso. Abbiamo continuato come negli ultimi trent'anni a parlarci tutte le domeniche al telefono e negli ultimi anni a incontrarci ogni mercoledì alle 9 nel suo ufficio".

Quando vi siete parlati l'ultima volta?
"Mercoledì scorso, mi ha risposto al telefono, dalla clinica. Ho sentito che non c'era più".

E non vi siete più visti?
"Sono andato a trovarlo in clinica venerdì, alle 8 del mattino, ma non sono riuscito a vederlo".

Ora che il presidente onorario non c'è più, il Gruppo riuscirà a conservare il suo spirito originario?
"Le doti dell'uomo non sono replicabili. Il suo stile resterà inimitabile. Le sue convinzioni, però, ci hanno accomunato totalmente e per me è stato naturale stare al suo fianco nel mestiere di editore. Ora io rappresento, come lui, quella figura di garante della libertà e del dna del Gruppo che costituiscono il principale impegno della mia vita di oggi".

Due anni fa Caracciolo è andato in Francia a rilevare una quota di Libération. Che cosa lo spinse, la voglia di un'altra avventura?
"La proposta era stata fatta al Gruppo, io risposi di no. Lui mi disse: ti spiace se ci provo io? Credo sia stata la voglia di un'altra sfida, l'ambizione di dimostrare che era ancora capace di affrontarla".

Qual è il ringraziamento maggiore che Carlo De Benedetti deve a Carlo Caracciolo?
"Aver fondato il Gruppo L'Espresso, un'iniziativa che ha contribuito alla maturazione del Paese. Un esempio raro di libertà. Un posto perbene che permette a chi ci lavora di dispiegare la propria intelligenza".

(16 dicembre 2008)
da repubblica.it
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« Risposta #4 inserito:: Dicembre 16, 2008, 11:10:35 am »

Carlo Caracciolo, una vita da romanzo


La sua vita è stata paragonata a un grande romanzo borghese: Carlo Caracciolo, morto a 83 anni nella sua casa a Roma, viene considerato un protagonista di un'Italia fatta di impegno civile e di profonda passione per la cultura e la politica. Il Principe di Castagneto, Duca di Melito, ha legato la propria storia a quella di un gruppo editoriale e di un giornale, l'Espresso e La Repubblica.

Una vicenda che iniziò con un colpo di fortuna: era il 1956 quando Adriano Olivetti cedette a titolo gratuito le azioni dell'Espresso all'appena trentenne Caracciolo, fino a quel momento coinvolto solo nella gestione pubblicitaria della rivista. Il principe divenne così azionista di maggioranza della società e più di vent'anni dopo, insieme all'amico Eugenio Scalfari, diede forma e sostanza al progetto di un nuovo quotidiano: La Repubblica. Caracciolo descriveva se stesso con grande ironia; scherzava sui titoli nobiliari; parlava in modo aperto della passione per le donne e delle sue idee politiche. Un capitolo a parte merita l'amicizia di una vita con Gianni Agnelli: un rapporto intenso andato oltre il legame familiare. La sorella di Carlo, Marella, sposò infatti l'Avvocato nel 1953.
Caracciolo - nel libro L'editore Fortunato - raccontava così il primo incontro con Agnelli: «Gli inizi dell'amicizia con Gianni, che sarebbe durata un'intera vita, posso collocarli nei primissimi anni Cinquanta. Lui, nato nel '21, aveva quattro anni più di me. La cosa che di lui più m'impressionava era l'enorme desiderio di piacere. Aveva una vitalità straripante, quasi pericolosa. Era un giovane gaio, con disponibilità economiche ovviamente inesauribili cui facevano riscontro poche occupazioni».

Proprio quest'anno, in una intervista a Claudio Sabelli Fioretti (La Stampa, 10 gennaio 2008), Caracciolo usava toni lievi e divertenti per parlare della sua vita . Chi la chiama Principe?: «Nessuno. Solo i posteggiatori. Tutto sotto sterzo, Principè». Un titolo utile soprattutto per rimorchiare le americane. Dell'infanzia, rievocava le lunghe passeggiate a cavallo nella steppa in Turchia, poi in Svizzera quando suo padre divenne console a Lugano. E soprattutto fotografava un'immagine: «Mio padre che partiva, l'8 settembre, per raggiungere gli alleati a Napoli. Divenne poi sottosegretario nel primo governo Badoglio».
 
Altra pagina importante dell'album dei ricordi di Caracciolo, la scelta di stare nella Resistenza, con i partigiani della Brigata Matteotti: «L'ho fatto per un anno. Sono anche stato fatto prigioniero. Avevo visto un gruppetto di combattenti che portavano dei fazzoletti rossi al collo. Li avevo rimproverati: 'Non sapete che è proibito?'. Erano fascisti, mascherati da partigiani». Il Principe forse uccise: «Eravamo in una baita in montagna. Sentii sparare, uscii di corsa, senza scarpe, vidi uno che mi puntava un mitra contro. Riuscii a sparare prima di lui e scappai. Ma prima lo vidi cadere».

Non si definiva un fuoriclasse dell'editoria ma un uomo intellettualmente vivace, non un comunista ma di sinistra, fortunato ma anche laborioso. Gli piaceva il poker e giocava con Gigi Melega, Jas Gawronski, Claudio Rinaldi. Caracciolo con schiettezza riconosceva di essersi «un pò dispiaciuto» quando Carlo De Benedetti gli chiese di farsi da parte e di chiudere la sua esperienza alla presidenza del gruppo l'Espresso. Spiegava di capire senza condividerle alcune scelte fatte da Repubblica, come quella di seguire la linea della fermezza nel sequestro Moro, precisava che era stato Scalfari e non lui a «innamorarsi» di Ciriaco De Mita, mentre di Silvio Berlusconi diceva: «Svelto, spregiudicato, pieno di fantasia.  Non coraggioso. Insopportabile quando racconta barzellette».

Berlusconi è stato suo nemico nella cosiddetta guerra di Segrate per il controllo del gruppo Mondadori, una ferita rimasta aperta e che lui raccontava con queste parole: «Girava la voce che Berlusconi stava concludendo un accordo con Cristina e Luca Formenton nonostante i Formenton avessero firmato un accordo con De Benedetti. Un giorno Berlusconi mi invitò a cena. Io, prima della cena, vidi Luca Formenton il quale mi smentì le voci. Mezz'ora dopo Berlusconi mi disse: 'Carlo, abbiamo chiuso l'accordo con i Formenton'. Io gli dissi: 'Sei un mascalzone e finiremo davanti al giudicè. E lui: 'Deciderà il giudicè».

Infine, le donne: ne ha avute tante ma - precisava - sempre con la discrezione e lo stile di un principe; infedele e geloso allo stesso tempo, incorse in un incidente piuttosto singolare: «In un night-club, incontrai una signora con la quale andavo a letto. La invitai a ballare ma il marito si arrabbiò: 'Mascalzone! Maleducato!'. Uscimmo fuori e ci prendemmo a cazzotti. La mattina dopo all'alba ricevetti una visita: 'Sono il padrino, scelga l'arma per il duellò. Io gli dissi: 'Ci mettiamo a giocare con gli spadoni?». Così mi sfidò a duello anche il padrinò».

Una vena inesauribile, una passione infinita per il mondo dei giornali e le sue sfide sempre nuove: l'ultima, a gennaio del 2007 a Liberation al fianco dell' azionista di maggioranza Edouard de Rothschild. Il principe acquista a titolo personale il 33,3% del quotidiano francese, diventa il secondo azionista, e investendo cinque milioni di euro nella ricapitalizzazione.  L'ultima avventura di Caracciolo. La gente - gli chiede infine Sabelli Fioretti - dice che lei è freddo, cinico e anche cattivo. È vero? «No, sono buono», la sua risposta.

15 dicembre 2008     

da unita.it
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« Risposta #5 inserito:: Dicembre 16, 2008, 11:15:39 am »

16/12/2008
 
Le barzellette lo annoiavano
 
CLAUDIO SABELLI FIORETTI
 

Non conoscevo e non avevo nemmeno mai incontrato il principe Caracciolo quando l’ho intervistato all’inizio di quest’anno. Mi colpì subito l’ovvio. Era un aristocratico. Anche chi come me non crede a queste cose non poteva non notare la differenza che correva fra Carlo e il resto del mondo. Non stava malissimo allora e si sottopose di buon grado a un’intervista lunga come sono di solito le mie interviste.

Però a un certo punto dovemmo interromperci perché era arrivata un’infermiera per una seduta di riabilitazione della gamba. Quando tornai per riprendere l’intervista lo trovai che giocava a scacchi con Gigi Melega. Gigi, un signore anche se non aristocratico, da grande collega, chiese ed ottenne la patta per consentirmi di riprendere l’intervista. Il Principe, sempre spiritoso, leggero, sincero, non si tirò indietro quando gli chiesi giudizi su persone amiche.

Su De Benedetti disse che gli era dispiaciuto quando lo aveva costretto a tirarsi da parte cedendogli la guida del gruppo che aveva creato.

Su Scalfari puntualizzò che non era rimasto coinvolto nel suo innamoramento per De Mita. Parlò anche di Berlusconi e mi sorprese: era una delle poche persone che non gli riconosceva nemmeno la simpatia e il fascino. Da vero Principe mi disse che lo annoiava mortalmente quando raccontava le sue barzellette. Alla fine andammo a cena insieme a Luigi Zanda in un ristorante dalle parti di piazza Navona.

Lui fu allegro per tutta la serata, mi invitò nella sua tenuta di campagna a Torrecchia, parlò quasi sempre lui. Se soffriva non lo dava a vedere.

Qualche giorno dopo gli mandai il testo perché lo rileggesse.

Non toccò nulla, tranne qualche frase nella quale si era lasciato andare ad un linguaggio un po’ troppo volgare. Mi ringraziò e mi disse: «Ma lei non verrebbe a lavorare a Repubblica?».

Non sono andato alla Repubblica. Ma mi dispiace di non essere mai andato a trovarlo a Torrecchia.

 
da lastampa.it
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« Risposta #6 inserito:: Gennaio 19, 2009, 03:17:03 pm »

Il racconto

«E Caracciolo ci disse: siete figli miei, una lettera per il riconoscimento»

Carlo Revelli: l'ho saputo nell'ottobre 2007. Non voglio guerre per l'eredità


Caro direttore, a volte capita, nella vita delle persone, di ritrovarsi in situazioni inattese, assurde. È successo anche a me. Tutto è cominciato a metà ottobre 2007. Mia sorella Margherita aspettava il suo quarto bambino, e mia madre Maria Luisa stava spesso da lei. Ero sceso a Roma per andarle a trovare. Mi capita sovente di volare tra Roma e Parigi da quando vivo e lavoro oltralpe. Non mi sarei mai immaginato, quel giorno, di ascoltare quelle parole.

Mia madre confessò che sia io che mia sorella non eravamo figli di nostro padre Carlo Revelli senior, scomparso nel 2002, ma di Carlo Caracciolo! Lì per lì sono stato assalito dallo stupore, non ci credevo, ma non ho avuto la forza di chiedere conferma. Il volto e la voce di mia madre erano tesi, non stava scherzando anche se, nervosamente, le veniva a volte da sorridere mentre parlava. Dopo alcuni istanti mi tornò in mente la prima volta che conobbi Carlo Caracciolo. Fu mia madre ad insistere affinché lo incontrassi, mi disse che era un vecchio amico di famiglia e che, forse, mi avrebbe potuto dare dei consigli sull'esperienza editoriale di giornalismo partecipativo nella quale mi ero lanciato in Francia, diversi anni prima, con AgoraVox. Il nostro primo incontro avvenne nel marzo 2006 nel suo ufficio dell'Espresso a Roma; fu un incontro professionale. Io ero intimorito dalla sua personalità e pertanto chiesi all'amico e socio Sigieri Diaz Pallavicini di accompagnarmi. Fu in quella occasione che gli «spiegai», per la prima volta, cosa fosse AgoraVox e come fosse possibile fare informazione senza avere «veri giornalisti». Tentai anche di spiegargli come il futuro del giornalismo sarebbe potuto venire dal basso, dalla gente comune e non esclusivamente dall'alto attraverso i media tradizionali... Dopo un'ora di quasi monologo, non ero sicuro di averlo veramente convinto sulle potenzialità del giornalismo partecipativo... Nonostante ciò, lui si mostrò divertito e ci invitò a colazione a casa sua.

Successivamente fu lui a volermi rivedere. Mi convocò, insieme ad alcuni suoi collaboratori, per discutere di AgoraVox. Avevo l'impressione che mi prendesse un po' per «matto» quando m'infervoravo parlando di citizen journalism, ma la sua volontà di volerne discutere nuovamente mi fece veramente piacere. Questa volta fu lui a venire nei nostri uffici di Parigi. Era accompagnato dall'editore Carlo Perrone ed io da un mio collaboratore. Era il gennaio 2007 e ricordo che Carlo Caracciolo scese a fatica le scale che conducono alla nostra sala riunioni. Accomodatosi dovette subirsi una lunga presentazione Powerpoint, per di più in inglese. Naturalmente ne approfittò per schiacciare uno dei suoi leggendari pisolini. Fui felice, però, che Carlo non si addormentò durante la mia presentazione e in più l'interesse e l'attenzione costante del suo socio Carlo Perrone tenne alto il nostro morale dopo la riunione... Fu in quell'occasione che gli chiesi, intimidito, una firma sul libro di Nello Ajello che ritraccia la sua vita, L'editore fortunato. Mi capita spesso di ripensare a quella dedica ed al fatto che, mentre la faceva, lui sapeva già tutto, e nonostante ciò decise di scrivermi «con molta amicizia» tentando di rispettare quel segreto custodito da quasi 40 anni. Li accompagnai fuori e, sorpreso, vidi ad attenderli lo stesso taxi che li aveva condotti da noi.

 
L'editore con Margherita Revelli nella stessa occasione
Non capivo, ma di fronte al mio stupore mi spiegarono che non potevano perdere tempo, che dovevano ritornare da Rothschild per formalizzare l'acquisto del 33% di Libération... A metà ottobre del 2007 Carlo Caracciolo tornò a Parigi ed è qui, nella città in cui vivo da 16 anni, che mi feci coraggio e gli chiesi se fosse davvero mio padre, come mia madre mi aveva rivelato pochi giorni prima. Mi rispose di sì e mi spiegò le ragioni di un segreto così a lungo custodito. Da quel momento i rapporti sono sempre rimasti sereni ed amichevoli. Sin dai primi giorni, la sua intenzione era di adottare sia me che mia sorella Margherita, come già fatto con Jacaranda nel 1996. Mi ricordo ancora quando, l'estate scorsa, Carlo mi chiamò da Torrecchia e con serenità mi disse che l'udienza era stata fissata per il 16 settembre 2008. Purtroppo, diverse «complicazioni» — chiamiamole così — tra cui un articolo pubblicato su una rivista di gossip, compromisero definitivamente questa possibilità. A questo punto, fu proprio Carlo Caracciolo ad incoraggiarci ad iniziare il prima possibile le pratiche per il disconoscimento ed il riconoscimento. Fu sempre lui che concordò insieme a noi ogni parola degli atti che presentammo al tribunale nell'ottobre 2008, facendoci allegare una lettera in cui ci riconosceva come suoi figli. Sono costretto a scrivere, a parlare di ciò che è stato, perché sono profondamente rammaricato e addolorato.

Sono rammaricato di dover leggere che le pratiche sarebbero state avviate post mortem per mano mia e di mia sorella. Sono rammaricato perché in realtà le iniziative portate avanti in questi giorni sono state intraprese da coloro i quali già cercarono di bloccare, in tutti i modi, prima la nostra adozione e poi il nostro riconoscimento ante mortem. Sono rammaricato, infine, che qualcuno cerchi di far credere che le iniziative giudiziarie siano state promosse senza il consenso di Carlo; fu lui a consigliarle ed incoraggiarle direttamente. Fu Carlo a voler partecipare, proprio in quei giorni, al battesimo dei figli miei e di Margherita, venendo con diverse persone della sua famiglia a casa di mia sorella, sposata con Fabiano Rebecchini. Solo chi conosce bene la politica capitolina degli ultimi decenni, può capire cosa significasse per Carlo Caracciolo entrare in un «feudo» Rebecchini per di più «occupato» da un centinaio di parenti. Eppure venne, scherzò e si divertì. Non era la prima volta. Durante tutta la difficile gravidanza di mia sorella, immobilizzata a letto per circa 8 mesi, lui andò più volte a trovarla. E fu ancora lui a presentarci come suoi figli, nel mese di giugno 2008, durante un incontro al quale erano presenti, tra gli altri, la sorella Marella, la nipote Marellina ed il fratello Ettore.

Gesti che non gli abbiamo mai chiesto, ma che lui ha spontaneamente ripetuto più volte, con amici e parenti, sia nella sua casa della Lungarina a Roma che a Torrecchia. Scrivo queste parole anche e soprattutto per mia madre, per le mie sorelle, nessuna esclusa, e i miei fratelli, per le mie due famiglie e per tutti coloro che stanno scoprendo ora questa storia. Una storia che non ho mai avuto il coraggio di rivelare né agli amici, né ai collaboratori con cui condivido quotidianamente la passione per ciò che facciamo. Non l'ho mai rivelato, naturalmente, neanche ai numerosi lettori e redattori di AgoraVox, fossero essi francesi o italiani. Detesto questo clamore, perché Carlo Caracciolo, oltre ad essere intrinsecamente riservato e schivo, è stato un grande editore, un editore coraggioso — più che fortunato —, un uomo che ha fatto la storia dell'Italia e dell'informazione, e non merita tutto ciò. Come non lo merita Carlo Revelli senior, che è stato sicuramente un vero principe in tutti questi anni ed al quale, ogni giorno, va la mia stima, il mio affetto, il mio ricordo. Questa è la mia verità, la verità di chi si è battuto negli anni per la libera e corretta informazione. Scrivo queste parole, per dire, per informare. Perché sono un uomo che a 39 anni, dopo aver costruito la sua vita da solo e senza aiuti, l'ha vista stravolta da un giorno all'altro senza aver chiesto nulla a nessuno. Scrivo e informo perché nella mia vita non so fare altro e perché ho sempre amato la corretta informazione. Mi auguro che questa storia possa risolversi in modo rapido e dignitoso come Carlo ha sempre cercato di fare. Ma questo non sta a me deciderlo. Io volevo solo raccontare una storia che è piombata nella mia vita in un autunno romano e che è diventata una questione molto più grande di me. Carlo Revelli

Carlo Revelli
19 gennaio 2009

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