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Autore Discussione: GIUSEPPE BERTA Noi e loro  (Letto 2706 volte)
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« inserito:: Dicembre 13, 2008, 05:05:49 pm »

13/12/2008
 
I colossi indifendibili
 
GIUSEPPE BERTA
 

Il Senato americano ha bocciato con un voto negativo il piano di aiuti per 14 miliardi di dollari rivolto all’industria dell’auto.

Con questo voto siamo ormai alla vigilia dell’evento che fino a pochi giorni fa sembrava ancora impensabile: nel prossimo gennaio potrebbe scoccare l’ora del Chapter 11 - la procedura di fallimento concordata - per Chrysler e General Motors. Eppure, per alcune ore era parso che l’accordo bipartisan sugli aiuti all’auto fosse a un passo dalla chiusura. Secondo il senatore repubblicano Mitch McConnell, incaricato di condurre il negoziato, mancavano soltanto tre parole per siglare l’intesa, che l’assemblea ha poi respinto con 52 voti contro 35.

Le parole mancanti sono, nella sostanza, l’assenso del sindacato di categoria, la United Automobile Workers of America (Uaw), un tempo un’organizzazione fra le più potenti del mondo, ad accettare una riduzione dei salari e delle provvidenze aziendali al livello percepito dai lavoratori occupati presso gli impianti americani di Toyota e Honda. Ron Gettelfinger, il leader del sindacato dell’auto, non se l’è sentita di dare l’avallo a una misura che avrebbe fatto scendere le paghe degli operai di Detroit alla soglia ben inferiore dei loro colleghi in forza presso i transplants giapponesi, dove non esiste di fatto la contrattazione sindacale. Inoltre, la Uaw avrebbe dovuto convertire in azioni della Gm i capitali destinati al fondo sanitario dei dipendenti. Ma è stata soprattutto la richiesta di far cadere la distinzione fra i redditi dei lavoratori sindacalizzati e non sindacalizzati a provocare l’opposizione del mondo del lavoro di Detroit, restio a sottoscrivere quella che rappresenta, a tutti gli effetti, la conclusione di un’epoca storica dell’industrialismo americano.

Ciò che è successo al Senato ha esacerbato i contrasti fra i repubblicani, che hanno affossato gli aiuti all’auto, e i democratici, favorevoli al loro mantenimento nonostante l’atteggiamento sindacale. La senatrice democratica Debbie Stabenow, eletta in Michigan, lo Stato dell’auto, ha bollato duramente la condotta dei repubblicani, accusandoli di preoccuparsi di una cosa soltanto, «che i lavoratori hanno troppi soldi». Esiste ancora un residuo, estremo spiraglio per sventare la bancarotta di Chrysler e Gm: un intervento del Tesoro o della Fed che storni dal Piano Paulson i capitali per venire in loro soccorso. A questo punto, tuttavia, è davvero incominciata una gara contro il tempo.

Qualsiasi possa essere la loro sorte a breve, è evidente che a medio e a lungo termine la condizione degli ex colossi industriali americani si è fatta indifendibile. La crisi globale non ha fatto altro che accelerare un deterioramento in corso da tempo. Fin dal 2003, la giornalista Micheline Maynard ha potuto parlare, in un libro fortunato, della imminente «fine di Detroit», a significare che le case statunitensi avevano perso la sfida con i produttori asiatici, Toyota in testa, capaci di aggredire con efficacia il mercato nordamericano.

Per questa ragione, non ci può essere nel lungo periodo alcun salvataggio di Gm, Ford e Chrysler. I tre gruppi non possono sopravvivere nel nuovo assetto internazionale del mercato dell’auto. La loro storia appartiene al Novecento, non certo al Ventunesimo secolo. Come sottolinea l’amministratore delegato della Fiat Sergio Marchionne, è impossibile perpetuare l’attuale articolazione del settore. Non c’è più posto per la continuità di tre produttori americani distinti, gravati da una quantità di marchi che non riescono a gestire.

Le case produttrici sono chiamate di necessità a fondersi. Soltanto così si potranno sfruttare le risorse, le competenze, le capacità tecnologiche e organizzative di cui sono tuttora depositarie. Così come sono, le ex Big Three di Detroit non possono che distruggere risorse; una volta riorganizzate in una nuova configurazione d’impresa potranno invece fare miglior uso dell’insieme ingente di dotazioni che ancora posseggono. Questo scenario americano così convulso proietterà inevitabilmente le proprie conseguenze in Europa. Ne saranno coinvolti i marchi e le divisioni continentali delle case produttrici Usa, a iniziare dalla Opel, sul cui destino intende porre un’ipoteca la Cancelliere Angela Merkel. La fine del vecchio assetto di Detroit apre inedite possibilità al risiko delle alleanze che sta per avviarsi su scala europea.

da lastampa.it
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« Risposta #1 inserito:: Dicembre 20, 2008, 03:31:14 pm »

20/12/2008
 
Auto, due visioni del futuro
 
 
GIUSEPPE BERTA
 

Un salvagente gettato in extremis a un naufrago in procinto di affogare: è l’immagine che richiama alla mente la decisione di George Bush di stornare 17,4 miliardi di dollari dal Piano Paulson (gli ultimi non ancora impegnati della prima tranche di 350 miliardi) per destinarli ai giganti in agonia di Detroit, General Motors e Chrysler. Di tale cifra saranno disponibili già questo mese e nel prossimo 9,4 miliardi che andranno alla Gm, il grande malato dell’industria americana, e 4 alla Chrysler, che ha appena comunicato la sospensione del lavoro nei suoi 30 stabilimenti.

Alla fine, dunque, il governo ha acconsentito al soccorso di quelle case automobilistiche che, come hanno ripetuto in queste settimane autorevoli rappresentanti repubblicani in Senato, avrebbero meritato di soccombere, secondo le leggi di mercato. Quanto l’intervento della Casa Bianca sia stato sofferto, lo si intende dalle parole con cui Bush ha motivato gli aiuti. Il presidente ha specificato che non si tratta né di capitali erogati a fondo perduto né di un piano organico di salvataggio per gruppi industriali sul punto di essere travolti dalle proprie difficoltà economiche interne, prima ancora dello scoppio della crisi globale.

General Motors e Chrysler dovranno dimostrare di saper condurre una completa riorganizzazione, segnando una discontinuità netta con i metodi di gestione del recente passato. Il governo chiede loro di attuare una svolta soprattutto sul terreno dell’efficienza e delle relazioni col sindacato, sottolineando che l’industria di Detroit non potrà mai recuperare competitività senza un’inversione di marcia. Nella sostanza, i repubblicani non hanno mutato idea sul sistema di Detroit e si sono rassegnati a una forma di aiuto temporaneo solo per non essere accusati di aver provocato una catastrofe industriale e sociale, specie nell’imminenza del passaggio delle consegne a Washington. Perciò chiedono sacrifici sia al management sia al sindacato, rinfacciando a quest’ultimo di voler perpetuare ostinatamente i propri privilegi, fino a pregiudicare la sorte delle case produttrici americane.

I democratici, nelle ultime settimane, hanno ripetutamente tacciato i repubblicani di favorire la deindustrializzazione degli Usa. In realtà, il braccio di ferro sulla sorte di Detroit ha rivelato come si confrontino due visioni opposte dello sviluppo dell’industria automobilistica. Mentre il partito democratico annovera l’organizzazione sindacale e in particolare la United Automobile Workers of America (Uaw) fra gli elementi costitutivi della sua base di riferimento, quello repubblicano ritiene che la crisi sia il momento opportuno per liberarsi una volta per tutte dell’ingombrante tutela sindacale.

Se la Gm, una delle imprese americane dove il sindacato è o è stato più forte e in cui maggiori sono i suoi diritti da più di sessant’anni, vuole sopravvivere, deve porre termine al regime vincolante della contrattazione collettiva. Basta coi salari più alti, allora, e con meccanismi di garanzia come quello della «banca dei lavori», che assicura ai lavoratori licenziati una prolungata indennità di disoccupazione a carico dell’azienda. Lo standard salariale e normativo deve diventare quello degli impianti produttivi di Toyota e Honda, ma anche di Bmw, che si sono insediati negli Stati meridionali, dove il contratto collettivo di lavoro non esiste e dove più elevata è la flessibilità occupazionale, con ridotte coperture assistenziali. Nella visione dei repubblicani, l’industria americana ha soltanto una strada davanti a sé: omologarsi ai criteri che vigono nelle strutture produttive dei concorrenti di Gm, Chrysler e Ford, lontani da Detroit per una distanza che non è soltanto geografica, ma organizzativa e sociale.

Per Obama e la sua nuova amministrazione si profila quindi una sfida ulteriore: dovranno provare che si può recuperare efficienza produttiva senza smantellare per forza di cose la presenza del sindacato nelle fabbriche là dove ancora resiste. La Uaw non sembra accettare delle condizioni che di fatto sanciscono la fine del suo potere di influenzare la regolazione dei salari e del welfare aziendale.

Per il momento, Gm e Chrysler hanno ottenuto la boccata d’ossigeno necessaria a sventare l’eventualità di ricadere sotto le procedure fallimentari del Chapter 11. Ma la loro via crucis è solo all’inizio: la riorganizzazione di Detroit deve entrare nel vivo ed essa non può che condurre al superamento degli assetti d’impresa esistenti. Ieri, comunque, in America si è compiuto un altro passo in direzione di quel ridisegno del sistema mondiale dell’auto che tra breve coinvolgerà gli altri continenti.

da lastampa.it
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« Risposta #2 inserito:: Marzo 10, 2009, 11:59:29 am »

10/3/2009
 
Noi e loro
 
 
GIUSEPPE BERTA
 
Ciò che ieri Umberto Bossi ha detto a Gad Lerner, sostenendo che nell’assegnazione di posti di lavoro e di abitazioni la preferenza deve essere accordata agli italiani, segna indubitabilmente un passaggio nella percezione della crisi e delle sue ricadute sociali. Per la prima volta un rappresentante di governo sancisce che sono i tempi difficili a imporre di discriminare fra i cittadini italiani e gli «altri». Bossi, naturalmente, interpreta una reazione immediata, più ancora che un diffuso senso comune, di fronte alla crisi: quando la recessione incomincia a mordere davvero, il primo istinto è quello di fare quadrato, impedendo che la propria posizione sociale ed economica sia messa a rischio da forze esterne.

Anche quando esse risultino in realtà ben radicate ormai dentro i confini della nostra società. In fondo, Bossi ha dato voce a un sentimento che si va allargando a macchia d’olio nell’Europa di oggi: quello di reintrodurre la distinzione fra «noi» e «loro» che la globalizzazione, con la radicalità della sua espansione, era parsa mettere in discussione. È il sentimento espresso dai lavoratori inglesi che hanno protestato contro gli operai italiani delle raffinerie, accusati di accettare condizioni economiche inferiori alle loro e dunque di minare la stabilità delle loro occupazioni. Probabilmente, Bossi e la Lega Nord si sono accorti, come già è avvenuto altre volte in passato, che serpeggia un’avversione nei confronti delle figure ravvisate come la personificazione dei pericoli della globalizzazione e pensano di doverla rappresentare, in parte per giustificarla e ricavarne consenso politico e in parte perché intuiscono che questi atteggiamenti non possono essere semplicemente censurati od oscurati.

Chi se la prende oggi con gli immigrati e li accusa di sottrarre lavoro a sé e ai propri concittadini non dispone ovviamente di una comprensione effettiva del mercato del lavoro. Bastava osservare i cantieri edili degli ultimi anni per accorgersi della presenza prevalente di una popolazione di lavoro che si era sostituita agli operai locali perché da tempo costoro si erano ritirati da quelle attività. Ma chi è pronto a unirsi alla protesta verso la presenza eccessiva dei lavoratori stranieri lo fa sull’onda di un timore che non nasce da una valutazione razionale. Lo fa perché vuole sentirsi confortato da altre voci, magari più forti e autorevoli della sua, decise ad affermare che è il lavoro italiano a dover essere difeso in primo luogo, così come la produzione va riportata per quanto si può dentro il territorio nazionale.

Il sistema globale non ha mai goduto di cattiva fama come adesso. Quanti anni sono passati dalla rivolta del movimento no global di Seattle e di Genova? All’inizio del nostro secolo era la sinistra estrema a mobilitarsi contro un mondo senza frontiere. Oggi agli occhi di molti la globalizzazione appare come una tendenza irrazionale e distruttiva. Un’organizzazione inutilmente complessa che si ritorce contro i soggetti stessi che l’hanno realizzata. Non pochi devono aver pensato che un po’ di ragione i lavoratori inglesi devono avercela, ammesso che sia vero che gli italiani si accontentano di guadagnare meno di loro. E di sicuro è ancora maggiore il numero di quanti ritengono che faccia bene Sarkozy a concedere gli aiuti all’industria francese, a patto di lasciare le fabbriche dove sono e come sono. Di questi succhi si nutre un atteggiamento che vede nel cosmopolitismo promosso dall’internazionalizzazione dell’economia una costruzione artificiale e dannosa.

Finora abbiamo guardato soltanto alle conseguenze economiche della crisi. Ci siamo soffermati sulla caduta dei mercati, delle Borse e della produzione. Man mano che il cammino di questa durissima recessione avanza, tuttavia, dovremo incominciare a preoccuparci dei suoi aspetti politici. È impossibile ritenere che lo stato d’inquietudine e di disagio sempre più acuto non assuma forme politiche. Che non si sviluppino manifestazioni e tendenze inclini a far leva sul malessere per indicare soluzioni radicali e sommarie della crisi.

La sinistra europea di governo, che si è identificata nell’ultimo decennio con la modernizzazione derivante dalla crescente espansione internazionale dell’economia, ha perso contatto con quell’universo popolare che si sente penalizzato da una «società aperta» in cui soltanto i soggetti più forti si muovono a loro agio. È naturale perciò che questi strati sociali si rivelino sensibili a chi promette di ripristinare un ordine naturale delle cose, turbato dagli sconvolgimenti recenti. Per questo, è urgente dialogare con coloro che manifestano le loro paure davanti alla crisi. Per mostrare loro come all’origine della crisi stia un assetto mondiale non più imperniato sull’Occidente, di fronte a cui è illusorio cercare riparo in una cittadella fortificata.
 
da lastampa.it
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