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Autore Discussione: INTERVISTA AD ACHILLE OCCHETTO  (Letto 5120 volte)
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« inserito:: Dicembre 08, 2008, 06:07:40 pm »

8/12/2008 (7:41) - LA POLEMICA - INTERVISTA AD ACHILLE OCCHETTO

"Per avere più potere hanno preferito Craxi a Berlinguer"

L’ex segretario del Pds: l’ansia di entrare nei salotti ha cambiato la natura della sinistra

RICCARDO BARENGHI
ROMA


Achille Occhetto, l’ultimo segretario del Pci, guarda da lontano, e con un certo dispiacere, le vicende che attanagliano il Partito Democratico. Partito in cui non è mai entrato: «Io pensavo a un superamento del comunismo da sinistra, con una visione alternativa al sistema e soprattutto mettendo al centro della propria cultura politica la questione morale».

Invece che cosa è successo ?
«Prima voglio dire che non possiamo mettere sullo stesso piano la questione morale che riguarda il centrodestra con questa di cui parliamo in questi giorni. La prima è strutturale, tanto che la incarna Berlusconi. La seconda io la definisco una deviazione, seria e preoccupante, ma comunque una deviazione. Che rivela però un’errata concezione della politica e della funzione dei partiti».

Sarà anche una deviazione, però dura ormai da parecchio tempo: non è mica la prima volta che la sinistra si trova in queste situazioni.
«Ricordo perfettamente che nei primi anni Novanta, quando un nostro dirigente milanese venne inquisito per tangenti, io tornai alla Bolognina e chiesi scusa al partito. Non solo: misi in discussione radicalmente il modo di essere dei partiti, il modo di fare politica, dissi che dovevamo fare un passo indietro rispetto alla gestione dell’economia, uscire dai Consigli di amministrazione, dalle stesse Cooperative...».

E non le diedero retta?
«Manco per sogno, ci fu una rivolta della Toscana e dell’Emilia. Rivolta che fu immediatamente utilizzata anche al centro, a Roma, per farmi la guerra».

Indovino: D’Alema?
«Indovinato».

Quindi che strada presero il Pds, poi i Ds e oggi il Partito democratico?
«La strada indicata e seguita da Craxi. Ho visto in questi anni autorevoli dirigenti spiegare che tra Berlinguer e Craxi aveva ragione l’ex leader socialista».

Si riferisce a Piero Fassino?
«Anche ma non solo, è stato un vezzo generale che ha riguardato quasi tutto il gruppo dirigente. Come diceva il vecchio Napoleone Colajanni, il repubblicano e garibaldino dell’Ottocento, "il pesce puzza dalla testa"».

Sta dicendo che anche Veltroni e gli altri sono coinvolti?
«Ma neanche per sogno, non lo dico perché non lo penso. Vedo che per ora il problema è in periferia, mele marce, cacicchi o come si chiamano adesso, che comunque per me fino a sentenza definitiva sono tutti innocenti. Io parlo di una questione culturale, di una visione della politica»

Cosa intende dire?
«L’aver capovolto le idee di Berlinguer sule mani pulite, l’aver scelto di stare sul mercato anche come partiti, l’aver cercato di comprare una banca, l’aver tifato per questa o quella cordata di finanzieri... tutto questo ha cambiato la natura del centrosintra. Poi è evidente che, scendendo "pe li rami", in provincia troviamo il familismo, le commistioni, le cene tra compagni di merendine fatte tra amministratori e costruttori».

Ma perché è stata scelta questa linea, perché Craxi e non Berlinguer?
«Perché si sono lasciati trasportare dall’ansia di legittimazione, il bisogno insopprimibile di entrare nel salotto buono. Che poi, come si vede, tanto buono non è. Ci sarebbe stato bisogno di un codice morale come ha fatto Zapatero, in cui si riafferma che la politica deve stare su un altro piano rispetto agli affari, a prescindere dalla magistratura. Un Codice di autoregoamentazione insomma».

Se la sente a questo punto di dare un consiglio al segretario Veltroni?
«Certo, ricominciare da quel riformismo colto di Gobetti e Salvemini: la riforma della politica come questione morale. Passando ovviamente per una severa e profonda autocritica. Un processo che andrebbe fatto pubblicamente, coinvolgendo più gente possibile, con un atto nobile, una Convenzione, forse anche un Congresso». Occhetto è stato l'ultimo segretario del Partito Comunista Italiano (dal 1988) e il primo segretario del Partito Democratico della Sinistra (fino al 1994); è stato co-fondatore e vicepresidente del Partito del Socialismo Europeo nel 1990, deputato e presidente della Commissione Affari esteri della Camera (dal 1996 al 2001); membro del Consiglio d'Europa dal 2002 al 2006. Alle elezioni politiche del 1994 venne indicato come leader della coalizione di sinistra, ma la vittoria del centrodestra guidato da Berlusconi lo spinse a lasciare la segreteria del partito.

da lastampa.it
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« Risposta #1 inserito:: Novembre 12, 2009, 05:14:56 pm »

Occhetto: «Io ho avuto coraggio Chi è venuto dopo ha fatto troppi errori»

di Bruno Gravagnuolo


«La svolta del 1989 fu una giusta e inevitabile. Grazie ad essa non fummo sepolti dal crollo del Muro. E non fu intuizione improvvisa». Achille Occhetto, l’uomo che sciolse il Pci, non si pente. E della «svolta» difende puntigliosamente i passaggi e il senso di marcia. Anzi, non solo respinge ogni responsabilità per i travagli successivi dal Pds al Pd. Ma rilancia come merito del suo ‘89, il «meglio» degli anni 90 in Italia: «Il grande Ulivo, colpevolmente liquidato, da cui deve ancora nascere il vero Pd».

Occhetto, in molti dicono: fulmine solitario la tua svolta. Una Minerva armata dalla testa di Giove. Fu davvero così? Quando e con chi ne cominciasti a parlare?
«Non fu improvvisa illuminazione. Tutto il 1989 fu un anno preparatorio e già con il XVIII Congresso dichiaro: “non muteremo nome sotto pressione esterna, ma solo con un evento di grande portata”. Del resto chiamammo allora il Pci “nuovo Pci”. Nel luglio sull’Espresso evoco l’anniversario della Rivoluzione francese e il nesso antitotalitario eguaglianza/libertà. Poi la Tien An Men. E alla manifestazione a Roma, con Ingrao, affermo: oggi è morto il comunismo. Ancora: vado a Budapest, dove gli ungheresi si muovono verso i socialisti europei. Infine cade il Muro. Insomma, c’era tutto un fermento. E il 9 Novembre sono a Bruxelles, dove incontro il leader laburista Kinnock...».

Che ti chiede: «cambierete nome»?
«Quel venerdì rispondo: “è molto difficile, molto difficile, molto difficile”. Il lunedì Kinnock legge sui giornali del cambiamento del nome e si stupisce. “Curioso - dice - questo Occhetto, se avesse detto ‘difficile’ una vola sola, avrebbe cambiato nome subito”. L’accelerazione c’è stata, ma legata alla caduta del Muro. Il merito fu l’aver capito che quel crollo significava un mutamento globale: politico, geopolitico, culturale. Rispetto a cui tutte le forze in campo dovevano ridefinirsi. Perciò parlai di “nuovo inizio”, campana per tutti».

Non vi fu eccesso di discontinuità, senza direzione di marcia?
«La direzione era chiara: ricollocare tutta la sinistra nel campo della libertà. Fuori dal collettivismo autoritario, per far crescere una sinistra nuova sulla base di una spinta costituente...».

Ma non era una sinistra un po’ vaga e movimentista?
«Questa critica “interna” nasce dall’idea errata che il XVIII Congresso avesse già detto tutto. Ma quello era il vino nuovo da mettere nella nuova botte: la nuova formazione politica. Di fatto il nuovo Pcinon poteva bastare dinanzi alla caduta del Muro e al crollo incipiente dell’Urss».

Prevalse l’«oltrismo»: né, né... non era meglio ricollocare l’ex Pci nell’alveo di un nuovo socialismo democratico, per traghettare il grosso del movimento operaio verso un approdo definito?
«Come ha ricordato Fassino l’idea di andare oltre le culture politiche del 900, vista la loro crisi, fu un merito. Il che non significò non avere direzione. Tutta la preparazione della svolta fu accompagnata dal lavoro spasmodico per entrare nell’Internazionale socialista. La mia impostazione si ispirava all’ecologismo e alle nuove elaborazioni della socialdemocrazia: Palme, Brandt, il rapporto Brutland. Io stesso sono divenuto cofondatore del Pse, con i leader di allora. Inoltre prima della svolta sciolgo il gruppo comunista in Europa, in vista di gruppo intermedio e della confluenza nel gruppo socialista. Che dovevamo fare di più?».

Come spieghi allora lo stillicidio infinito: Pci, cosa 1, cosa 2, Pds, Ds, la «carovana», fino al Pd...?
«Verso il Pse ci andavamo. E ti ho risposto. Quanto al resto, posso dire che la carovana è stata l’unica idea feconda. Capace di esprimere uno schemadi unità dal basso delle forze riformatrici italiane: il primo grande Ulivo. L’errore fu aver dissipato questo grande miracolo, travalicante la fusione fredda di apparati. E aver distrutto un grande tentativo vincente, nel nome di un partito socialdemocratico. Col gran capolavoro di non fare il partito socialdemocratico e distruggere l’Ulivo».

Non credi che i tormenti attuali delPd dipendano anche da errori della svolta. Né ritieni di aver commesso errori di fondo. È così?
«Errori tanti, ma nego che i tormenti odierni del Pd nascano dalla svolta, scelta circoscritta e però grandiosa storicamente. Che ci ha permesso di non restare sepolti sotto le macerie del Muro, a differenza degli altri! Gli svolgimenti successivi dipendono da altri errori, in primis l’aver liquidato l’Ulivo. Quanto al Pd, racchiude una delle ispirazioni della svolta: nuova formazione di sintesi tra le culture riformatrici e di sinistra, prima separate dai muri ideologici. Tale è la verità interna del Pd. Ciò che è irrisolto è il modo: fusione a freddo di apparati. E la mancata contaminazione tra diversi: laici e cattolici, moderati e radicali. Ecco il compito che lascio a chi davvero vuole fare il Pd. Da Sinistra e Liberta alle forze dentro il Pd».

La sinistra come emancipazione del lavoro e dei subalterni resta il mattone fondante del tuo eventuale Pd?
«È il punto di partenza e di arrivo. La novità, da parte mia, sta nell’aver posto il primato della libertà, come metodo e sostanza.Comefattore universale e dirompente che rivoluziona tutto a sinistra».

Il Pd di Bersani può «emendarsi» e raccogliere tutto questo?
«Non l’ho seguito molto da vicino. Il mio problema è più generale e lo affido a tutte le componenti in gioco. Si riassume nei tre lasciti della svolta. Primato della libertà: niente eguaglianza senza libertà. Poi: limite della politica e dei partiti rispetto alla società civile. Che non è privatismo, bensì regole dell’economia per un nuovo modello di sviluppo, ecologico in primo luogo. Infine: questione morale. Attualissima. Dopo tante rivalutazione di Craxi contro Berlinguer, occorre un nuovo capovolgimento. E aggiungo, ci vuole l’autoriforma della politica se non si vogliono inaccettabili invasioni di campo da parte dei giudici».

12 novembre 2009
da unita.it
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« Risposta #2 inserito:: Novembre 12, 2009, 05:16:09 pm »

Occhetto mi disse: «Tutto è possibile...»

di Walter Dondi


Devo confessare che non sono mai riuscito a chiarire fino in fondo se in quel momento prevalse la curiosità del cronista o, piuttosto, la tensione del militante. Di certo c’è che, quella mattina di 20 anni fa alla Bolognina, quando udii quelle parole di Occhetto scattò immediatamente il desiderio di capire che cosa volessero veramente significare quelle affermazioni sulla necessità di avere «coraggio», di «inventare strade nuove» e «avviare grandi trasformazioni» di fronte agli straordinari cambiamenti in corso nel mondo. Come è noto eravamo a tre giorni dal crollo del Muro di Berlino. Così dissi al giovanissimo collega dell’Ansa che era con me: andiamo a chiederglielo direttamente. Questo discorso ai partigiani lascia intendere che il Pci cambia nome? «Lascia presagire tutto. Tutto è possibile», fu la risposta a una domanda ripetuta almeno due, se non tre volte.

Può apparire persino banale, ma la svolta della Bolognina è nata così. Con buona pace di qualche ricostruzione fasulla, interessata e faziosa che pure ci fu (vedi quella di Rina Gagliardi sul Manifesto di qualche giorno dopo). Peraltro, è bene ricordare come solo l’Unità, tra i quotidiani l’indomani pubblicò un pezzo in cui si capiva che la questione del cambio del nome del Pci era diventata questione politica all’«ordine del giorno» nel partito. Una scelta, quella del giornale (che pubblicò integralmente e senza alcun taglio o cambiamento il mio pezzo), per nulla scontata, considerata la delicatezza del tema.

Certo, furono una sorpresa la presenza e il discorso di Occhetto. Un’«improvvisata», la definì l’allora segretario del Pci decidendo di materializzarsi alla celebrazione del 45° anniversario della battaglia partigiana di Porta Lame, insieme a William Michelini, il partigiano che era solito accompagnarlo nelle sue trasferte bolognesi.

Ma la questione del cambio del nome al Pci non era proprio una novità. Se ne parlava apertamente, anche sui giornali del partito. Ho abbastanza vivo il ricordo di un articolo del luglio 1989 su Rinascita, nel quale due intellettuali di “area” come Michele Salvati e Salvatore Veca proponevamo il cambio del nome e la trasformazione del Partito comunista in un nuovo moderno partito riformista.

Il crollo del Muro di Berlino rappresentò un fatto eccezionale, traumatico e determinò indubbiamente un’accelerazione degli eventi. Ma non si può dire che, in precedenza,nonci fossero stati fatti talmente rilevanti e gravi tali da rendere necessario un distacco chiaro e definitivo tra il Pci e la realtà del comunismo realizzato nell’Est europeo e nel resto del mondo.

Così, quel pomeriggio, mentre scrivevo, miscorrevano nella mente alcuni degli avvenimenti che avevano segnato la mia vita di militante. Come dimenticare che a giugno c’era stata la rivolta a Pechino soffocata nel sangue di Tienanmen. Ed io, quel giorno, ero davanti all’ambasciata cinese a Roma, dove proprio Occhetto aveva pronunciato parole durissime di condanna, non solo di quella repressione, ma del comunismo.

E prima ancora la grande speranza della Primavera di Praga: lì c’era l’idea che il comunismo avrebbe potuto essere un’altra cosa, quel socialismo dal volto umano e democratico impersonato da Dubcek, e che sembrava così vicino ai nostri ideali di comunisti italiani. Ma era andata diversamente: il 21 agosto 1968, infatti, giovane “figiciotto”, ero nelle strade di Brno percorse dai carri armati sovietici e dai soldati con la stella rossa che spianavano i mitra contro i cecoslovacchi, mentre sulle facciate dei palazzi gli striscioni urlavano: «Nel ’39 Hitler , nel ’68 Breznev».

Come sarebbe cambiata la storia italiana se la Bolognina fosse stata vent’anni prima? Naturalmente, la storia non si fa con i se. E quindi, come si dice, questo è un altro discorso.

12 novembre 2009
da unita.it
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« Risposta #3 inserito:: Febbraio 13, 2017, 12:53:01 pm »

   Opinioni
Achille OCCHETTO   
· 10 febbraio 2017

È l’ora dell’unità politica dell’Europa. Le forze di sinistra ripartano da qui

C’è bisogno di un nuovo riformismo sovranazionale che si contrapponga all’«America first» di Trump, ponendo al centro l’umanità tutta. Nessuna nazione può affrontare da sola le grandi sfide globali, ma l’architettura dell’Ue va ripensata

Il 27 marzo si celebreranno in Campidoglio i 50 anni dei Trattati di Roma. Sarà per l’Europa un importante momento di riflessione sulla sua crisi nel contesto di una più generale visione del mondo e della politica. Dovrebbe essere, a mio avviso, una buona occasione per prendere le mosse dalla consapevolezza che ci troviamo dinnanzi ad un tornante di proporzioni incalcolabili nella storia del mondo e dell’Europa, che avrà un indubbio riflesso planetario.

In realtà la politica europea –e il centro sinistra, in Italia – sembrano essere del tutto impreparati all’immane scontro contro le tendenze centrifughe e disgregatrici che si stanno parando davanti a noi. Per avere qualche possibilità di successo, nello sforzo volto ad arginare lo tsunami nazionalista, occorrerebbero, a mio parere, due condizioni preliminari. La prima è quella di non presentarsi come i difensori acritici delle attuali istituzioni politico-finanziarie internazionali; la seconda è quella di prendere decisamente nelle proprie mani la critica alla perversa globalizzazione delle politiche neoliberiste e di austerità. Se non si strappa dalle mani dei movimenti nazionalisti questa critica, la partita è persa.

C’è bisogno di un nuovo riformismo sovranazionale – oserei dire cosmopolita –che si contrapponga all’America first di Trump o alla Francia, alla Germania, al Veneto first, ponendo al centro l’umanità tutta. L’Umanità First. Non si tratta solo dell’antico ideale internazionalista. Si tratta di una emergenza politica concretissima. Non esiste oggi nessun tema di politica nazionale che non sia condizionato dalle nuove sfide globali. Che sono fondamentalmente tre: la spaventosa voragine della diseguaglianza planetaria, foriera di immigrazioni bibliche e di guerre; la terrificante crescita demografica, e il cambiamento climatico. Non c’è nessuna nazione che possa isolatamente affrontare uno solo di questi temi.

Da questa inconfutabile considerazione derivano due conseguenze. La prima è che tali sfide possono essere affrontate solo a livello planetario, attraverso l’intervento solidale e coordinato di tutto il pianeta; la seconda, è che va radicalmente superata l’angusta visione della competizione liberista dentro i vecchi steccati dello Stato nazione. La parola competizione va sostituita con la parola cooperazione. In questo contesto, da parte loro, la sinistra e il centro sinistra dovrebbero acquisire la forza ideale e politica di cambiare il terreno dello scontro, anche attraverso una nuova predicazione di massa, come avvenne agli albori del movimento socialista. Questa ispirazione generale ha oggi il suo immediato banco di prova nella visione che ciascuna forza politica ha dell’Europa.

Questa è la posta in gioco nelle prossime celebrazioni dei Trattati di Roma. Oltre ai balli, ai fuochi di artificio, ai banchetti e alle cerimonie saranno necessarie anche le idee. Per ora se ne vedono poche e limitate. È inutile girarci attorno: l’alternativa che sta dinnanzi a noi è tra uscire dall’Europa o riformarla . L’unica via che non si può seguire è quella di lasciare le cose come stanno, sia pure attraverso palliativi o mezze misure che lasciano il tempo che trovano.

E ciò avviene se ci si ostina a non guardare in faccia alla realtà, a nascondere la causa fondamentale di tutti i nostri mali, a non confessare apertamente che la risposta dell’Europa alla crisi iniziata nel 2008 è stata una risposta sbagliata, e, in molti casi, catastrofica. Tutte le misure neo-liberiste hanno ampiamente fallito l’intento di rilanciare la crescita e l’occupazione, aprendo così una lunga fase di stagnazione.

L’aumento della disoccupazione e la crescita dell’indigenza, accompagnate dalla contrazione della spesa pubblica, hanno reso il quadro ancora più fosco. Il crescente rischio di povertà ha minato i fondamenti stessi della giustizia sociale. In questo contesto sarebbe davvero da incoscienti non vedere come l’ondata nazionalista o, più semplicemente, euroscettica, che sta investendo il vecchio continente, sia alimentata proprio da tale fallimento. Mi sembra che manchi ancora la consapevolezza che, come è già avvenuto in altri momenti tragici della storia europea, o si procede in avanti, attraverso un rafforzamento della partecipazione democratica e delle riforme strutturali, oppure si soccombe sotto la valanga di critiche giustificate, che tuttavia prendono una direzione a prospettive catastrofiche.

I movimenti euroscettici ravvisano, come ha fatto da ultima la Le Pen, in un deficit di sovranità economica, finanziaria e politica il male del momento. In questo hanno ragione. Ma su cosa hanno torto? Hanno torto nel ricollocare la sovranità nell’ambito delle vetuste frontiere nazionali. Il vero problema è quello di chiedersi: dove sta la sovranità? Nel passaggio dal livello nazionale a quello sovranazionale sembra essersi volatilizzata. È diventata un oggetto misterioso. Questo è il motivo principale della crisi strutturale della democrazia su scala mondiale.

Ma se le cose stanno così, il vero problema non è quello di ricollocare la sovranità esclusivamente dove stava prima, ma è quello di darle una nuova dimora sovranazionale, rispettosa di tutte le diversità e forme coordinate di partecipazione e controllo nazionale e lo cale. Lo sappiamo: il peccato originale dell’euro è stato quello di deprivare gli Stati membri della loro autonomia fiscale senza trasferire il loro potere di spesa ad una autorità più alta. I fatti hanno ampiamente dimostrato che non si può avere una moneta senza uno stato. Un nuovo riformismo transnazionale non può esimersi dal porre, in avanti, tale tema, se non si vuole essere travolti dalle risposte retrive agli attuali limiti di tutta l’architettura istituzionale europea.

Tutto ci dice che la costruzione dell’unione fiscale non può prescindere dalla costruzione dell’unità politica. Infatti è contraddittorio mantenere una unione monetaria, con una politica monetaria centralizzata, in mancanza di una comune politica finanziaria ed economica capace di raddrizzare gli sbilanciamenti macroeconomici tra i diversi paesi membri. Non solo è contraddittorio, ma rischia di far rientrare dalla finestra i confitti e i contrapposti interessi nazionali fatti uscire dalla porta.

Per questo una effettiva unione fiscale richiederebbe una capacità impositiva a livello dell’unione monetaria che garantisca un graduale trasferimento di risorse dai paesi più ricchi a quelli più poveri, una autorità federale capace di un impegno concordato sul “deficit spending”, accompagnato da un decisivo trasferimento di legittimità e partecipazione democratica dal livello nazionale a quello sovranazionale. Dobbiamo farcene una ragione: nulla potrà essere salvato dell’attuale architettura europea se non si imbocca con decisione la strada del superamento delle politiche di austerità. Questo vorrei sentirmi dire, prima ancora di sentir parlare di astratti schemi di gioco.

Eminenti economisti come Stiglitz, Jean-Paul Fitoussi, Peter Bofinger, Stephany GriffithJones e molti altri, hanno da tempo dimostrato, con i loro circostanziati studi, che le devastanti politiche di austerità ben lungi dal capovolgere il corso della crisi hanno peggiorato la situazione. Sono in molti, tra loro, a invocare un approccio orientato alla crescita sia sul terreno delle politiche fiscali, degli investimenti sociali e delle infrastrutture, sia nella ristrutturazione del debito. Ma si tratta di invocazioni in gran parte inascoltate.

Un effettivo rilancio degli investimenti pubblici e privati richiede una visione unitaria, di portata federale, del rilancio dell’economia che determini un circolo virtuoso tra i necessari stimoli fiscali, il sostegno della domanda e l’alleviamento dell’eccessivo peso del debito, attraverso attente valutazioni sulla sostenibilità del debito stesso. Tutto il contrario dell’atteggia – mento assunto verso la Grecia o verso l’immigrazione in Italia. Se non si considera, come è avvenuto in alcuni casi negli Usa, che le difficoltà di uno Stato membro sono un problema di tutta l’Unione, non avremo mai una autentica Europa politica. Dinnanzi allo spettro nazionalista e reazionario che sta investendo il nostro continente sarebbe un errore fatale chiudersi nella mera difesa delle attuali istituzioni politiche. Altrettanto insufficiente sarebbe nascondersi dietro alcuni palliativi. La stessa ipotesi di una Europa a due velocità non dice nulla di preciso se prima di decidere la velocità non si chiarisce la direzione verso la quale si intende muoversi. Solo quando sarà chiaro verso quale Europa ci si muove ciascuno Stato potrà decidere con quale velocità è in grado di correre verso l’identico obbiettivo. Il punto di partenza dovrebbe essere la ridefinizione dell’insieme dell’architettura europea.

La risposta alla crisi non è meno Europa ma più Europa, non è meno democrazia ma più democrazia. La prospettiva, indicata dai padri fondatori, che andava nella direzione degli Stati Uniti d’Europa, potrà diventare realtà viva solo se ci si muove contemporaneamente sia nella direzione di una democratica federazione di cittadini che abbia il suo fulcro nel rafforzamento dei poteri del Parlamento europeo e l’elezione diretta del presidente della Commissione europea e sia muovendo oltre il paradigma neoliberale che ha sottoposto la politica alle decisioni, democraticamente incontrollate, del potere finanziario. Non ci sarà riforma istituzionale capace di superare l’attuale gap tra società civile e istituzioni europee se non si ridà alla politica il posto di comando.

Il rafforzamento delle decisioni democratiche va di pari passo con la riduzione del potere delle istituzioni finanziarie e tecnocratiche per muovere decisamente contro le politiche macroeconomiche fondate sull’austerità. L’Europa dovrebbe essere guidata dall’orgoglio di diventare un banco di prova per passare dalla globalizzazione della finanza alla globalizzazione democratica, per superare l’attuale mancanza di governo democratico dei processi, per affrontare più agevolmente le sfide globali che stanno dinnanzi al pianeta.

È, a mio avviso, molto preoccupante vedere come la critica alla globalizzazione da parte di forze conservatrici venga subita passivamente dai mass media e da una parte dello stesso pensiero di sinistra. Si è perso il gusto della battaglia delle idee. Si è smarrita la nozione gramsciana della lotta per l’egemonia culturale, resa oggi quanto mai necessaria per sottrarre grandi masse, mosse da giusti motivi di protesta, alla guida di forze retrive. Ciò richiederebbe una più decisiva battaglia culturale nei confronti delle generiche denunce contro la globalizzazione, volte a far girare all’indietro la ruota della storia.

La crisi della globalizzazione finanziaria è la crisi del paradigma neoliberista: l’indifferenziata critica alla globalizzazione in generale è una forma mistificata di apologia dell’attuale modello di sviluppo. Se il riformismo transnazionale non prende, invece di giocare di rimessa, decisamente in mano la critica all’attuale Europa, nessuno potrà arginare l’ondata populista e nazionalista in corso. Molte denunce che vengono da quella parte sono giuste; sono le risposte ad essere sbagliate. Cerchiamo tutti assieme, tutte le sinistre che attualmente si stanno azzannando sul nulla, le risposte giuste.

Da - http://www.unita.tv/opinioni/e-lora-dellunita-politica-delleuropa-le-forze-di-sinistra-ripartano-da-qui/
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