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Autore Discussione: Giampaolo PANSA...  (Letto 39695 volte)
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« Risposta #30 inserito:: Maggio 25, 2008, 04:47:44 pm »

Napoli non c'è più

Giampaolo Pansa


Una landa dove mancano il senso della comunità, istituzioni efficienti e stimate, una classe politica capace, un'autorità in grado di mettere ordine  Cassonetti dati alle fiamme a NapoliMi è rimasto nella memoria il volto di Silvio Berlusconi il giorno del giuramento al Quirinale. Di solito il Cavaliere sorride pimpante e sicuro di sé. In quel caso, invece, mostrava una faccia accigliata, coperta da un velo grigio. Ho pensato che, dopo il trionfo elettorale, si trovasse alle prese con una realtà più forte del suo carattere: la terribile difficoltà del compito che lo aspettava. E la mole di impegni che avrebbe scoperto sulla scrivania di Palazzo Chigi. Una quantità di problemi da affrontare subito e in grado di spaventare chiunque.

Nella primavera del 2006, quando nacque sul filo del rasoio il governo di Romano Prodi, si scrisse che il Professore avrebbe dovuto confidare soprattutto nella sua buona stella. Era il famoso Fattore C, un dono fortunato della natura, che lo aveva sempre assistito. E così è stato per un anno e mezzo. Ma dopo la caduta del centro-sinistra, il Fattore C non è più tornato in servizio. Né a vantaggio di Walter Veltroni, che infatti ha perso le elezioni. Né tanto meno a favore del Cavaliere, che si trova a governare nelle condizioni peggiori. Subito sopraffatto da due difficoltà colossali: l'immigrazione clandestina e la catastrofe dei rifiuti a Napoli.

Mentre scrivo non so come si concluderà la riunione del Consiglio dei ministri nella capitale della Campania, circondato da cortei di protesta, in un clima da guerra civile. Tuttavia azzardo una previsione: prima o poi (più poi che prima) Napoli verrà liberata dalla spazzatura che la soffoca. Ma una volta spariti i rifiuti, si scoprirà che Napoli non c'è più, si è perduta, è scomparsa dentro un abisso buio dove sarà impossibile rintracciarla.

Al suo posto oggi c'è una landa dove manca tutto ciò che distingue una metropoli moderna: il senso della comunità solidale, la presenza di istituzioni efficienti e stimate, una classe politica capace di far fronte ai propri doveri e, infine, un'autorità in grado di mettere ordine in un caos di spinte contrapposte divenuto via via sempre più orrendo. Nel buco nero che ha preso il posto di Napoli vediamo s
oltanto un inferno civile, ben più pericoloso del potere criminale della camorra. Tanto da far dire al capo della polizia Antonio Manganelli: "Sono terrorizzato". E al prefetto Alessando Pansa: "Abbiamo di fronte un fenomeno imprevedibile che atterrisce".

Tra i milioni di parole stampate su Napoli, quelle più vere le ha scritte un politico partenopeo della Prima Repubblica, molto discusso, ma sempre acuto: Paolo Cirino Pomicino. Lunedì 19 maggio, sul 'Giornale', ha dipinto con schiettezza il male profondo della città, la ragione prima del suo disastro: l'assenza di guida politica. Di quell'analisi farò una sola citazione: "A Napoli è fuggita da tempo l'intera politica e la città non ha più una classe dirigente in grado di farsi riconoscere dall'intera popolazione come un interlocutore affidabile. Nelle ultime elezioni Napoli ha mandato in Parlamento trentadue deputati e sedici senatori, ma il loro complessivo silenzio è assordante. La città è smarrita, non vede più un solo volto al quale affidare le proprie speranze, vive alla giornata, violentata dai rifiuti e dai soprusi di ogni genere, dall'insicurezza e dalla paura".

Le stesse cose dice Antonio Bassolino, antagonista di Pomicino. L'inamovibile governatore della Campania si è incontrato con Berlusconi a Palazzo Chigi e gli ha garantito sostegno. Secondo Fabio Martini della 'Stampa', ha spiegato al Cavaliere: "Destabilizzare Napoli sarebbe una bomba incontrollabile per l'Italia". Per la verità Napoli è ormai al di là della stabilità e forse la bomba è già scoppiata. Tuttavia il senso di quell'incontro è positivo.

L'ho già scritto e lo ripeto: l'assoluta gravità dei problemi italiani esclude le contrapposizioni violente fra maggioranza e opposizione. Sputacchiare ogni giorno Berlusconi il Caimano non serve a niente. Anzi, rende più profonda la cancrena che minaccia di divorarci tutti.Bisogna trovare subito un'intesa nazionale, come avvenne quando si dovette far fronte al terrorismo delle Brigate Rosse. E occorre ripristinare un'autorità comune, prima che il ribellismo si estenda ad altre metropoli italiane. Penso a una città lontanissima da Napoli, in tutti i sensi. È Torino, dove il sabato sera, in pieno centro, centinaia di giovani sfidano i vigili urbani e i carabinieri a colpi di bottiglia.

Nel frattempo, l'intellighenzia di sinistra si esibisce su giornali e tivù a urlacchiare contro il Caimano. Vengono spremute le meningi per inventare qualche sberleffo nuovo. L'ultimo è il Caimaleonte, "sempre con i denti aguzzi ma con la pelle cangiante, per adattarsi a ogni situazione". Coraggio, amici e compagni: chissà che la satira di Raitre non vi ingaggi per una marchetta. Gratuita, naturalmente.

(23 maggio 2008)

da espresso.repubblica.it
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« Risposta #31 inserito:: Giugno 06, 2008, 04:54:59 pm »

Gianpaolo Pansa

Bertolaso deve vincere


Una sconfitta a Napoli sarebbe la fine del governo Berlusconi e segnerebbe la vittoria del potere criminale  Guido Bertolaso, il sottosegretario ai rifiuti, può vincere o perdere la guerra in Campania. Il Bestiario gli augura di vincere, però non può escludere che l'esito della battaglia sia la sconfitta. Ma se Bertolaso perde, che cosa accadrà? Non è difficile immaginarlo. Per cominciare, a uscire con le ossa rotte sarà il governo di centro-destra. L'immagine di un Silvio Berlusconi decisionista andrà in pezzi. Benché dotato di una larga maggioranza, il Cavaliere avrà vita dura in Parlamento e sui media. Sembrerà un cane che affoga e le opposizioni lo bastoneranno.

È augurabile che questo avvenga? Io penso di no. L'Italia resterà senza guida. Nessuna scelta (pensiamo al nucleare) potrà essere fatta. E forse il governo cadrà proprio mentre il paese è afflitto da mille guai che hanno bisogno di cure immediate. A quel punto, si terranno nuove elezioni e il centro-destra tornerà a vincere con un margine ancora più ampio. Il perché è chiaro: gli elettori del Centro-nord, disgustati per quel che è accaduto a Napoli, voteranno in modo massiccio per un altro governo di centro-destra. Guidato da un leader ritenuto più duro del Cavaliere e con un programma ben più ferreo. Allora sì che vedremo il trionfo dell'Uomo Forte, con tutte le conseguenze del caso.

Il secondo sconfitto sarà il Partito Democratico. Agli occhi dei suoi elettori, risulterà insopportabile il contrasto fra un D'Alema che per Napoli predica la mano dolce e un Veltroni che, sia pure in modo volpino, si dice d'accordo con la mano dura. La sinistra riformista si ritroverà con meno parlamentari di oggi. E forse si spaccherà. Senza nessun vantaggio per la sinistra antagonista che seguiterà a restare fuori dalle Camere.

Passiamo ai vincitori. Il primo risulterà la camorra. La sconfitta di Bertolaso sarà l'apoteosi del potere criminale in Campania. I camorristi decideranno quali discariche aprire e dove. E in che modo lucrare sempre di più sul traffico dei rifiuti. Per far rispettare la loro legge, i camorristi non avranno bisogno della polizia o dell'esercito. Faranno tutto da soli, rafforzando un dominio illegale con le armi. E ammazzando chi osa ribellarsi.


La camorra si imporrà anche alle bande antagoniste che sono già arrivate a Napoli nell'illusione di vincere. Alla protesta delle popolazioni si sta sovrapponendo un magma confuso di centri sociali, di no-global, di No Tav, di No Dal Molin, insieme agli irregolari delle frange più lunatiche e violente. A Napoli si è stabilito persino un anziano reduce di Autonomia Operaia: Oreste Scalzone, un nonnetto in marcia con cappellaccio e zaino sulle spalle.

Sono le avanguardie di un ribellismo sempre più diffuso dappertutto nel paese. Mandare al tappeto Bertolaso, ossia Berlusconi, rappresenterà il loro D-Day, il loro sbarco in Normandia. E l'inizio di una guerriglia più vasta. Potranno gridare alla vittoria della sovversione, anche se diventeranno succubi della camorra.

Tra vincitori e vinti emergerà il dramma di Napoli e di altri centri campani, sempre più soffocati da montagne di spazzatura che nessuno riuscirà a smaltire. L'estate aprirà le porte di un inferno che oggi non sappiamo immaginare. Anche se è una storia che, in parte, abbiamo già visto. Sul finire dell'agosto 1973, all'epoca del quarto governo Rumor, il colera si diffuse a Napoli, quindi a Bari e in altri centri del Mezzogiorno, per poi sbarcare in Sardegna. I morti furono una trentina. Pochi, in fondo, se si tiene conto del degrado igienico-sanitario di molte città del Sud.

Il 7 settembre arrivò a Napoli il presidente della Repubblica, Giovanni Leone. Lo portarono in ospedale a visitare i colerosi. Ricordo che Leone procedeva rapido per le corsie, intabarrato in un camicione da chirurgo. E nascondendo dietro la schiena la mano destra che faceva le corna. A chi toccherà fare gli scongiuri se a Napoli, nel 2008, accadrà qualcosa di simile o di più grave? Al presidente Giorgio Napolitano?

Auguriamoci di no. Tuttavia a Napoli e dintorni va in scenauna farsa tragica

che, nei movimenti scomposti dei suoi attori, riassume l'intero disastro italiano. Ormai è chiaro: siamo una nazione dove l'autorità democratica è scomparsa. E dove intere regioni, per colpa del loro ceto politico, non hanno saputo prepararsi a un futuro che è già qui. Ce lo dice un dato spesso ignorato: la distribuzione geografica dei termovalorizzatori, indispensabili per non morire di spazzatura.

In Italia sono 52. Di questi, 12 stanno in Lombardia, 9 in Emilia-Romagna, 8 in Toscana, 6 in Veneto, 5 fra il Trentino e il Friuli Venezia Giulia. Nel Lazio sono 2, in Calabria, in Puglia e in Sicilia 1 per regione. In Campania nessuno, come in Liguria. Per questo bisogna gridare: vai avanti, Bertolaso! E che Iddio ti assista.

(30 maggio 2008)


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C'è un illuso al Quirinale?


Il monito di Napolitano sul rischio di regressione civile è sacrosanto. Ma al tempo stesso ha il suono di una chimera  Mi trova del tutto d'accordo il monito di Giorgio Napolitano: "L'Italia rischia la regressione civile". Come tanti, anch'io vivo con gli stessi timori del nostro Presidente. Ho invece qualche dubbio sullo sfondo storico dal quale è partito il Quirinale nel ricordare la nascita della Repubblica e gli eventi successivi al primo dopoguerra. E qui proverò a spiegarne il perché.

Per cominciare, il referendum del 2 giugno si svolse mentre in Italia, soprattutto nelle regioni del centro-nord, tirava un'aria pessima. La guerra civile era finita da più di un anno, ma si continuava a uccidere. Molti partigiani comunisti non avevano deposto le armi e si erano gettati in una seconda guerra per la conquista violenta del potere. Il gruppo dirigente del Pci era diviso. Palmiro Togliatti non aveva ancora scelto tra la via militare e quella parlamentare. E l'ala insurrezionale, guidata da Pietro Secchia, era molto forte nel partito.

La vittoria della Repubblica e l'elezione dell'Assemblea Costituente non spensero i bollori. Anzi, la scoperta che il Pci era soltanto il terzo partito dopo la Dc e i socialisti spinse le squadre rosse a commettere altri omicidi. A rimetterci la pelle furono anche cittadini che non erano mai stati fascisti, ma venivano considerati avversari di classe: agrari, sacerdoti, imprenditori, militari e persino socialisti contrari ad allearsi con il Pci. Togliatti sudò sette camicie per ridurre alla ragione i suoi squadroni della morte. E ci riuscì soltanto alla fine del 1947, quando Stalin spiegò a Secchia che in Italia non si poteva fare nessuna rivoluzione.

Anche dopo il varo della Costituzione, le acque non si calmarono. Prima del voto del 18 aprile 1948, l'Italia continuò a essere un paese sospeso fra pace e guerra. E si salvò soltanto per la dura tenacia di Alcide De Gasperi e di Mario Scelba. Pari soltanto al realismo di Togliatti che nel luglio 1948, quando subì un attentato, fermò i propri militanti già in piazza. Pure i decenni successivi non furono di latte e miele.
L'insurrezione di Budapest del 1956 vide il Pci schierato con l'Urss. E il muro che separava i due grandi partiti popolari restò intatto, a dimostrare che la regressione civile e politica del paese rimaneva un rischio incombente.

All'inizio del 1970 il pericolo si ripresentò con la nascita delle Brigate Rosse, la più forte delle bande clandestine. Mentre nelle piazze si scontravano giovani rossi e neri, le Br divennero sempre più potenti, al punto di poter sequestrare e uccidere Aldo Moro. In quell'epoca, la regressione civile bussò con forza alla porta degli italiani. Arrivò il tempo delle stragi, iniziato con l'attentato di piazza Fontana. E il terrorismo selettivo delle Br fece decine e decine di morti, l'ultimo nel 1988: il senatore democristiano Roberto Ruffilli.

Le acque si chetarono per qualche anno, ma nel 1992 iniziò il terremoto di Tangentopoli. Quello che non era riuscito al terrorismo riuscì alla corruzione politica. La Prima Repubblica ne fu distrutta e l'Italia si divise un'altra volta, precipitando in un abisso di rancori, di arresti, di suicidi che ancora oggi nessuno ha dimenticato. In quell'abisso sparirono interi partiti, come la Dc e il Psi. Emersero avversioni destinate a dividerci per anni. E sulle ceneri di un mondo scomparso, nacque una Seconda Repubblica.

Accadde nel 1994, quando le elezioni furono vinte da un personaggio estraneo alla partitocrazia superstite: Silvio Berlusconi. Ecco arrivare sulla scena il Cavaliere che due mesi fa è ritornato al governo per la terza volta, dopo due vittorie del centro-sinistra. In un'altra nazione, l'avvicendarsi al potere di blocchi diversi sarebbe stato normale, il segno di una democrazia compiuta. Ma da noi è andata in tutt'altro modo. Il dilemma 'Berlusconi sì, Berlusconi no' ha riacceso e riaccende sempre l'incendio della guerra politica. L'Italia non riesce a trovare riposo. E si vede costretta a una continua prova di forza che rende possibile qualunque regressione.

Gli italiani vorrebbero vivere in pace, anche per provare a risolvere i problemi drammatici di quest'epoca. Ma la pace appare una chimera. La criminalità organizzata, il ribellismo antagonista sempre più diffuso e la mediocrità della classe politica ci trascinano verso un nuovo abisso. Per questo il monito di Napolitano è sacrosanto. Ma al tempo stesso ha il suono di una illusione.

C'è un illuso al Quirinale? Forse sì. Però siamo in tanti a illuderci. A rifiutare le faziosità contrapposte, la politica aggressiva, le urla, le invettive, i cortei militanti, l'informazione troppo schierata. Che cosa ci succederà? Neppure Napolitano può saperlo. Sento che ha paura, come molti italiani qualunque. Esiste un santo al quale rivolgerci? Provate a dirmi chi è.

(06 giugno 2008)


da espresso.repubblica.it
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« Risposta #32 inserito:: Giugno 21, 2008, 05:02:53 pm »

Giampaolo Pansa

Intercettato anch'io?


L'abnorme utilizzo a rete delle telefonate nelle inchieste rischia di far precipitare la già scarsa fiducia nella Giustizia  Sono intercettato anch'io? Ho sempre pensato di no. Non commetto atti illegali. Pago le tasse sino all'ultimo centesimo di euro. Non ho amici che delinquono. Non ricevo mai chiamate di politici. Dunque non c'è ragione che qualche magistrato disponga l'ascolto delle mie telefonate. Tuttavia, visto la gigantesca ondata intercettativa italiana, mi sono chiesto se non fossi finito nei brogliacci di qualche procura della Repubblica. In fondo sono un cattivo soggetto. M'è capitato di fare l'imputato in tribunale. E ogni tanto qualcuno mi denuncia, sostenendo d'essere stato diffamato in un Bestiario.

Allora ho chiesto lumi a un amico magistrato: sono controllato o no? Ma lui mi ha risposto sconsolato di non essere in grado di saperlo. E ha aggiunto: nessuno può darti la certezza che qualche operatore di polizia ti stia o no ascoltando per ordine di un pubblico ministero. E me ne ha spiegato il perché. In Italia domina il sistema chiamato delle intercettazioni a rete, che funziona come segue. Per un motivo fra i più innocenti ti capita di parlare con qualcuno che è sotto controllo. A quel punto, chi ti ascolta ritiene che tu dica qualcosa di sospetto e allora l'autorità inquirente decide l'ascolto anche delle tue telefonate. Siamo all'effetto domino: una intercettazione ne provoca un'altra e così via, all'infinito.

In Italia l'infinito ha un numero finito, ma impressionante: 124 mila. Tante sono state le intercettazioni nel 2007, fra telefoniche e ambientali. I confronti con altri paesi dell'Occidente sono stupefacenti. In Francia 20.000 intercettati. In Gran Bretagna 5.500. Negli Stati Uniti appena 1.705, su una popolazione di trecento milioni di abitanti. Per tornare al 2007, i decreti emessi dalla magistratura italiana per le intercettazioni sono stati 79.966, con un aumento del dieci per cento rispetto all'anno precedente.

Tutto questo lavoro d'orecchio si mangia gran parte delle spese per l'amministrazione giudiziaria. È un'abbuffata gigantesca, ma con risultati dubbi. A sentire il ministero della Giustizia, il 60 per cento dei processi dove l'accusa si basa soprattutto sull'ascolto telefonico si concludono con proscioglimenti e assoluzioni. Eppure la casta dei magistrati è insorta come un sol uomo nel sentire che il governo Berlusconi vuole mettere un freno a un sistema ormai devastante e dagli esiti incerti. È una rivolta sacrosanta? Non ne sono così sicuro. Da qualche intervista di giudici in trincea contro il crimine mi è parso di capire che anche loro condividano il vecchio detto che il troppo stroppia. Per dirla in soldoni, le intercettazioni sono diventate una droga. Se fumi qualche spinello, non succede niente. Ma se ne abusi e poi passi a roba più pesante, vai fuori di testa e non ti fermi più.

Mi ha colpito un'intervista di Massimo Martinelli del 'Messaggero' a Giuliano Vassalli, un signore di 93 anni al quale il paese deve molto: padre del codice di procedura penale, ministro della Giustizia, presidente emerito della Corte Costituzionale, vecchio antifascista e grande socialista. Vassalli ha spiegato che ritiene doveroso un giro di vite perché il sistema è degenerato da tempo. Poi ha aggiunto: "Non è vero che i magistrati non possano più indagare senza intercettazioni. La verità è che hanno perso fiducia nei sistemi di investigazione tradizionali. È molto comodo intercettare tutti, ascoltando anche cose private che non riguardano le indagini".

Esiste poi un lato della questione che chiama in causa noi giornalisti. I più bravi vanno sempre alla ricerca di scoop, ossia di notizie e di storie che le altre testate non conoscono. Quasi cinquant'anni di mestiere mi hanno insegnato che afferrare uno scoop è molto faticoso. Richiede impegno professionale, dedizione al compito, esperienza, acume, cultura e un bel po' di fortuna. Sono tutte doti che non servono più se un magistrato o un intercettatore ti passa di nascosto il brogliaccio di un controllo telefonico, spesso mal trascritto dal maresciallo di turno.

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« Risposta #33 inserito:: Giugno 27, 2008, 11:37:33 am »

Giampaolo Pansa

Povero Pidì così iellato

La cattiva sorte lo perseguita. Urge trovare un esorcista che scacci il demonio che si accanisce su Veltroni  Walter Veltroni, leader dell'opposizioneÈ davvero sfortunato il povero Partito Democratico. Lo perseguita una iella maledetta, anche se tutto sembra congiurare a suo favore. Immaginiamo un italiano qualsiasi, un signor Rossi, che rientra in patria da un paese lontano nel quale non si sa nulla di quanto avviene da noi. Al suo arrivo, il signor Rossi, affamato di notizie, si butta a leggere i giornali, ad ascoltare le radio e a guardare telegiornali e talk-show. E si accorge che il centro-destra di Silvio Berlusconi è un asino spelato, divorato da milioni di mosche cattive.

Il Cavaliere è di nuovo finito nel tritatutto della magistratura. A Milano vogliono azzopparlo con una condanna. Lui replica con qualche mossa sbagliata che accentua la rabbia della casta togata. L'associazione dei giudici lo pesta duro. I giornali, anche quelli che avrebbero il dovere dell'imparzialità, lo trattano come se fosse l'erede del gangster Al Capone. Pur possedendo tre emittenti televisive, si vede messo alla gogna dalle altre tivù. Persino la costosa Sky, proprietà di un magnate come Rupert Murdoch, un tycoon di destra, lo maltratta di continuo. Arrivando a discutere sul Berlusca con la formula del cinque più uno: i cinque, compreso il conduttore, lo menano, mentre uno soltanto è stato convocato per difenderlo.

A quel punto, la conclusione del signor Rossi è obbligata. Il Berlusca deve aver perso le elezioni politiche di aprile. O le ha vinte per un pelo di gatto, tanto da spingere gli avversari a sottrargli il governo appena nato. Sul fronte opposto (pensa sempre il signor Rossi) il Partito Democratico starà diventando la forza egemone del paese. Il suo leader, Walter Veltroni, sarà sugli scudi, obbedito da tutte le eccellenze della parrocchia e venerato da una base che si espande, sempre più fedele e militante. In Italia, dunque, si prepara un cambio di quelli storici
(dice a se stesso il signor Rossi). Presto il centro-destra di Berlusconi dovrà fare fagotto, cedendo il passo a un avversario strapotente.

Poi l'ingenuo signor Rossi, parlando con qualche amico e leggendo con più attenzione le cronache politiche, si accorge che le cose non stanno come gli avevano fatto credere. Il Pidì non è per niente forte. La sconfitta elettorale del centro-sinistra è stata molto pesante. Gli iscritti scappano. E lo choc che ha folgorato gli elettori è di quelli drammatici. Nonostante l'affettuosa vicinanza di molti media, dove abbondano i buoni samaritani sempre pronti ad assisterlo, il Pidì non festeggia per niente. Anzi ha cominciato a dilaniarsi al proprio interno: un clan contro l'altro, una corrente addosso all'altra. Stupito, il signor Rossi chiede agli amici quante siano queste correnti del Pidì. Risposta: pare sette, ma nessuno può giurarci.

L'unica certezza è che oggi esiste una supercorrente che si chiamerà 'Red', sigla astuta che significa Riformisti e Democratici. La sta allestendo il pezzo più da novanta del Pidì: Massimo D'Alema. Il signor Rossi pensa che sia un super-clan nato per difendere il segretario Veltroni. Ma gli amici gli replicano: dove sei vissuto fino a oggi? Max è il nemico numero uno di Walter. E quando sarà pronto gli dichiarerà una guerra all'ultimo sangue.

Allibito, il signor Rossi chiede se non sia un proposito suicida, quello dei dalemisti. E aggiunge: mandare al tappeto Veltroni mette a rischio tutto il Pidì, una creatura in fasce, che deve riaversi da una sconfitta elettorale e ha bisogno di affermarsi in molte aree del paese. Ma ancora una volta l'ingenuo Rossi si accorge di sbagliare. A molti big democratici non frega nulla del loro partito. Come è sempre accaduto a sinistra, il virus dell'autodistruzione agisce senza pietà. Uno degli eminenti, l'Arturo Parisi, è arrivato a chiedere le dimissioni di Walter, accusandolo di un misterioso golpe. Per difendersi, e tenere insieme le truppe, Veltroni ha scelto una strada senza sbocchi: portare il Pidì in piazza, nell'autunno, quando il caldo sarà meno feroce. E non per protestare contro i pugnalatori di casa, bensì contro Silvio il Caimano, il fascista, il reazionario, l'autocrate che vuole affossare la democrazia repubblicana.

A quel punto, il signor Rossi arriva a due conclusioni. La prima riguarda se stesso: ha sbagliato a ritornare in questo paese di pazzi, meglio ripartire subito. La seconda riguarda il Pidì: è evidente che è un partito iellato. La cattiva sorte lo perseguita. Tutti i mali dell'universo gli cascano addosso. Urge trovare un esorcista capace di scacciare il demonio che si accanisce su Veltroni & Compagni. O almeno un frate che benedica il loft veltroniano e i suoi sfigati inquilini. Era il rimedio che suggeriva mia nonna Caterina alle sue amiche disgraziate: vai alla chiesa di San Francesco e fatti innaffiare con l'acqua santa!


(27 giugno 2008)

da espresso.repubblica.it
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« Risposta #34 inserito:: Luglio 05, 2008, 09:40:15 am »

Giampaolo Pansa

Scherzare col fuoco


Nel Paese è in atto una guerra civile strisciante tra poteri e istituzioni che cercano di distruggersi  Giorgio NapolitanoC'è troppa gente che scherza col fuoco, sulla pelle dell'Italia. Il primo è Silvio Berlusconi, lo cito subito perché milioni di elettori gli hanno affidato la responsabilità più grande: quella di guidare il paese. E come si diceva un tempo: a grandi onori corrispondono grandi oneri.

Se fossi al posto suo, mi lascerei processare dalla signora Gandus e accetterei qualunque sentenza. Dico di più: anche di fronte a una condanna pesante, lascerei il da fare ai miei avvocati e mi dedicherei anima e corpo al lavoro di premier. Un lavoro ogni giorno più gravoso perché l'Italia è nei guai sino al collo per quel che accade nel mondo. Non serve aprire altri conflitti con il potere giudiziario mentre l'inflazione sale, i prezzi si arroventano e il petrolio rischia di arrivare ai 150 dollari al barile. Il Cavaliere dia retta alla saggezza del presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, quando chiede alla politica e alle istituzioni un clima più sereno e costruttivo.

Ma a scherzare col fuoco sono anche molti magistrati. Non parlo della totalità dei giudici. Anche tra loro accade quel che avviene, per esempio, tra i giornalisti: non siamo tutti uguali, all'interno della stessa corporazione le differenze sono molte. Ho citato questi due poteri perché sono quelli di cui la gente, oggi, si fida di meno. Tuttavia, la sfiducia verso i giornalisti non conta molto. Al più, può spingere i lettori ad abbandonare i giornali, come inizia ad accadere. Per i magistrati la faccenda è assai più grave dal momento che sono loro a decidere la libertà o meno di quanti gli capitano sotto le mani.

C'è molta inquietudine per quel che accade in una parte importante della magistratura. Non è il Cavaliere o il Caimano a dirlo. Sono gli stessi giudici, come dimostrano le secche parole di un magistrato, Felice Casson, oggi senatore del Partito Democratico. Il suo rimprovero più duro agli ex colleghi è di essere
"un mondo ormai autoreferenziale", ossia che parla soltanto con se stesso. Ma l'uomo della strada è ben più aspro di Casson. Vede molte toghe diventare un attore politico e la loro associazione muoversi come un partito.

Troppi si esprimono su tutto, persino sui loro possibili imputati, correndo il rischio della ricusazione. Vede giudici onnipresenti nei talk-show televisivi, travolti dalla smania di apparire neanche fossero veline in cerca di contratto. Ne vede altri che parlano a congressi di partito, per poi difendersi con la formula infantile del 'Mi hanno invitato'. Altri ancora partecipano da protagonisti al Vaffa Day di Beppe Grillo. Tanti firmano appelli contro leggi dello Stato che poi saranno chiamati ad applicare. E non sto a fare nomi perché compaiono ogni giorno nella cronache dell'attivismo politico.

Conosco parecchi dei giudici che si muovono così. E alcuni di loro, i più anziani, li incontrai tanti anni fa, quando erano all'inizio della loro magistratura e si comportavano in modo assai diverso. Apparivano restii persino a dirti il loro nome, mentre oggi dilagano sui media. Quando mi capita di ritrovarli nella trincea della battaglia politica mi domando perché lo facciano. Senza rendersi conto di scavare la fossa anche a se stessi. E senza avvertire la sfiducia che li circonda. Non dovuta soltanto al cattivo funzionamento dell'apparato giudiziario, alla sua lentezza, ai rinvii continui anche delle cause più elementari, ma soprattutto al sospetto che inquieta ogni cittadino si trovi a fare l'imputato. Un sospetto racchiuso nella domanda: il magistrato che ho di fronte sarà imparziale o si lascerà guidare dalla propria faziosità politica?

Non so che cosa accada in altri paesi europei. Ma vivo in Italia e per me conta quel che avviene qui. Sempre più spesso mi capita di essere spaventato del futuro che ci aspetta. E di interrogarmi sulla sorte del nostro paese,alle prese con una guerra civile strisciante tra poteri e istituzioni che si avversano e cercano di distruggersi. Per anni la lettura dei quotidiani, ogni mattina, è stato il rito professionale che dava inizio alla mia giornata e mi spalancava una finestra sul mondo. Oggi la mazzetta di carta stampata mi dà ansia, non vorrei aprirla per non provare nuovi terrori. Poi mi decido e vado alla scoperta di chi altri stia scherzando col fuoco. In questi giorni è di turno Antonio Di Pietro, capo partito e capo popolo. Per come si muove e per come parla, lo trovo nauseante. Sono tra quelli che l'hanno sostenuto, anche dopo Mani Pulite. Ma adesso mi dico che ho sbagliato a farlo.

(04 luglio 2008)

da espresso.repubblica.it
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« Risposta #35 inserito:: Luglio 11, 2008, 10:37:52 pm »

Giampaolo Pansa

Così Parlò Dalemoni


Se il giudizio di Massimo D'Alema sulle intercettazioni non è cambiato dal '96 ed è simile a quello di Silvio Berlusconi un motivo ci sarà.

 È una faccenda vecchia, quella delle intercettazioni. Torniamo indietro di dodici anni, al settembre del 1996, quando il governo Prodi è in sella dal mese di maggio. La prima scena ha per ambiente la Procura della Repubblica di La Spezia dove è in corso da tempo un'indagine delicata, svolta in silenzio e nel segreto. Il martedì 17 settembre (cito 'l'Unità') un Pm dice ai cronisti: "Nell'inchiesta sono coinvolti anche dei politici". Domanda: "Politici attualmente in carica?". "Sì". Nuova domanda: "In carica anche nel governo?". A quel punto, il magistrato si tappa la bocca e se ne va.

Il primo a reagire è Massimo D'Alema, segretario del Pds. La stessa sera, alla festa dei popolari di Scandiano (Reggio Emilia), reagisce con nervosismo: "Non si possono destabilizzare le istituzioni politiche andando alla tivù a dire: ci sono dei politici coinvolti in un'inchiesta, poi vi faremo sapere chi sono!". Poche ore dopo, è il primo pomeriggio del 18 settembre, i tre consiglieri del Pds nel Consiglio superiore della magistratura chiedono al ministro della Giustizia, Gianmaria Flick, di intervenire sulla procura di La Spezia, sottoponendo il Pm che ha parlato a un'attenta valutazione disciplinare. Certe esternazioni, giurano i tre, "talvolta incidono persino sul sereno svolgimento delle funzioni politiche di governo e sull'andamento dell'economia".

Sull''Unità' del 20 settembre, a sparare è Pietro Folena. Scrive: "Non abbiamo nessun imbarazzo rispetto all'inchiesta di La Spezia. Ma il paese non sopporta più quel che si vide fra il 1992 e il 1994-95: il circuito autonomo tra Pubblico ministero, sistema massmediatico politico e opinione pubblica, che era una forma di comunicazione diretta fra Pm e popolo". Quando escono le intercettazioni spezzine, Folena s'incavola di più: "Basta con questa cultura del buco della serratura. Sta determinando una destabilizzazione che nessun Paese democratico può reggere a lungo!".


Ma è soltanto l'inizio della tempesta. Il 20 settembre, sul 'Messaggero', Cesare Salvi bolla a fuoco il giustizialismo: "È inaccettabile che le decisioni del Parlamento possano essere condizionate dalle opinioni dei giudici". Persino Massimo Cacciari, di solito simpatico e trasgressivo, si scaglia contro i giornali che pubblicano i verbali: "Abbiamo superato ogni limite. Siamo usciti dallo Stato di diritto. Non ci sono più garanzie per gli imputati e la difesa". (Ansa, 19 settembre). Sempre all'Ansa, il senatore ulivista Luigi Manconi dice di vedere "magistrati e giornalisti" solidali "in un unico progetto criminale".

La sera del 20 settembre vado alla Festa Nazionale dell'Unità a Modena per intervistare in pubblico Luciano Violante, presidente della Camera. Tangentopoli è lontana, adesso la sinistra sta al governo. Quando difendo giudici e giornalisti, molti spettatori mi fischiano. Applausi trionfali, invece, per Violante quando dipinge la vita privata degli italiani alla mercé di una Spectre di intercettatori e di cronisti senza vergogna, pronti a gettare fango su tutti.

Il martedì 24 settembre, D'Alema va al 'Costanzo Show', programma di Mediaset. E rade al suolo intercettatori e cronache giudiziarie. Dice: quelle pagine di telefonate sono micidiali per la dignità degli imputati e di tutte le persone nominate. Non bisogna pubblicare né i verbali degli interrogatori né le trascrizioni degli intercettatori. E bisogna, assolutamente!, tutelare meglio il segreto istruttorio. Questo sistema di pubblicare tutto ha prodotto danni enormi. Il metodo di stampare ogni cosa è sbagliato. Avvelena il tessuto civile del Paese. Causa una fibrillazione che è sfiancante anche per l'opinione pubblica e destabilizza tutto. I magistrati debbono mostrare riserbo e una maggiore compostezza, perché non si crei un rigetto nell'opinione pubblica. Dobbiamo chiedere ai giudici maggiore sobrietà e minore spettacolo.

Ascoltando D'Alema a quel 'Costanzo Show' mi dissi: Max parla come Berlusconi. E inventai per 'L'espresso' il personaggio di Dalemoni. Ero eccessivo anch'io? Forse sì. Ma allora le intercettazioni non erano alluvionali come lo sono oggi. Rispetto a dodici anni fa, viviamo nel tempo dei controlli telefonici a gogò. Ed è interessante che D'Alema la pensi sempre come nel settembre 1996. L'ha spiegato il 3 luglio alla festa dell'Unità di Roma, con la solita facondia tagliente. Ma se D'Alema e Berlusconi ragionano nello stesso modo, un motivo ci sarà. Siamo andati davvero al di là di ogni limite? Proviamo a rifletterci.

(11 luglio 2008)

da espresso.repubblica.it
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« Risposta #36 inserito:: Luglio 19, 2008, 07:28:45 pm »

Giampaolo Pansa


La sfortuna del perdente


Ogni giorno il Pd e il suo leader si vedono piovere sulla testa qualche tegola maledetta. L'ultimo colpo è l'arresto di Del Turco  Il leader del Pd Walter VeltroniQualche settimana fa avevo scritto nel Bestiario che il Partito Democratico sembrava preso di mira dalla iella. E mi ero permesso di suggerire a Walter Veltroni di correre dai frati più vicini per farsi inondare di acqua benedetta. Non so se abbia seguito il mio consiglio, ma ogni giorno il povero Pidì e il suo leader si vedono piovere sulla testa qualche tegola maledetta. L'ultima, per ora, è di quelle micidiali, capaci di tramortire un partito e di mandare al tappeto qualsiasi segretario.

Sto parlando della manette che hanno distrutto in Abruzzo il governo regionale di centro-sinistra e spedito in carcere il presidente, Ottaviano Del Turco. Anch'io sono rimasto a bocca aperta. Conosco Del Turco da quando stava nel vertice della Cgil ed era il vice di Luciano Lama. L'avevo incontrato nei congressi sindacali e in quelli del Psi. E l'avevo intervistato più di una volta. Non lo immaginavo nei panni di un mazzettaro. Capace, secondo la Procura di Pescara, di mangiarsi tangenti per sei milioni di euro. Con lo scopo di finanziare, come recita sempre l'accusa, il progetto politico di sfasciare lo Sdi di Enrico Boselli e di strappargli un pugno di parlamentari da trasferire nel Pidì.

Tuttavia questa storiaccia mi obbliga a una domanda che va ben al di là della sorte penale di Del Turco. Se la memoria non m'inganna, quello abruzzese è il primo governo regionale di centro-sinistra a morire sul campo del disonore tangentaro. Ma con la giunta Del Turco muore anche il complesso dei migliori che aveva sempre difeso la sinistra italiana dal sospetto di essere uguale alla destra. Che cosa fosse questo complesso l'ha spiegato con chiarezza Luca Ricolfi, un sociologo indipendente, in un libro rimasto famoso. Era, anzi è, la convinzione di essere il Gallo della Checca: una bestia destinata a primeggiare perché diversa, e migliore, da tutte le altre del pollaio politico.


Ed ecco la domanda. Il caso dell'Abruzzo può ripetersi in altre regioni governate dal centro-sinistra? Per essere più chiari: che cosa è accaduto o sta accadendo in Umbria, in Toscana, in Emilia-Romagna e nelle Marche? La mia speranza è che lì non sia avvenuto nulla e che l'infezione tangentista, se verrà provata, risulti una malattia soltanto abruzzese. Ma nessuno può dirlo con certezza. Ed è di qui che prendono forma non pochi fantasmi che forse rendono inquiete le notti di Veltroni.

In ogni caso, il leader del Pidì dovrebbe muoversi con uno stile diverso da quello messo in mostra in queste settimane di conflitto fra il governo Berlusconi e l'Associazione nazionale dei magistrati. Sono rimasto senza parole nel sentirgli dire in tivù: "La nostra linea è quella dell'Anm". Caso mai avrebbe dovuto affermare il contrario. Ossia che la linea dell'Anm è quella del Pidì. Ma se anche si fosse espresso così, non sarebbe cambiato nulla. Agli occhi di molti suoi elettori, il Pidì di Superwalter sta commettendo l'errore di non riconoscere che la riforma della giustizia è la prima delle tante da affrontare con coraggio. Veltroni sa bene che da noi la giustizia non funziona. Il cittadino che si rivolge alla magistratura anche per questioni elementari non riceve quasi mai un servizio decente. A cominciare dall'esasperante lentezza dei giudizi: una piaga ormai in cancrena, che semina sfiducia, rabbia, voglia di ribellione.

Non avere la forza di denunciare questo scandalo, rende inaffidabile il Pidì come partito riformista. E lo trascina di errore in errore. A cominciare da quello di aver scelto Antonio Di Pietro come unico alleato nel voto del 2008. Un alleato che si è già mutato in un avversario pericoloso, come dimostra l'attivismo spregiudicato dell'Italia dei Valori, tutto rivolto contro il Pidì. Se non si sottrae a questa morsa, Veltroni non ha futuro. Ma non ha futuro neppure il suo partito, destinato ad andare al rimorchio di due soggetti che non hanno a cuore l'interesse del paese: i magistrati che fanno politica e Di Pietro che li spalleggia e li sostiene.

Nel luglio del 2007, quando Veltroni si candidò alla guida di un Pidì che allora non esisteva, il sottoscritto fu uno dei pochissimi che lo descrissero con parole non cortigiane. Il titolo del Bestiario diceva: 'La favola del Perdente di successo'. Dopo la nascita del Pidì, Veltroni non è mai riuscito a vincere. Non era l'uomo giusto per quell'incarico, non essendo un capo severo, dalla parola aspra e capace di scelte crudeli? O è stato soltanto sfortunato? Poiché ho rispetto per Veltroni, preferisco pensare alla sfortuna.

(18 luglio 2008)

da espresso.repubblica.it
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« Risposta #37 inserito:: Luglio 27, 2008, 12:29:46 am »

Giampaolo Pansa

Brancaleone bipartisan

Bossi di là e Di Pietro di qua: con il risultato che escono indebolite entrambe le coalizioni  Il ministro Roberto Maroni e Umberto BossiVe lo ricordate il film 'L'Armata Brancaleone' girato da Mario Monicelli nel 1966 con un formidabile Vittorio Gassman? Era pieno di secondi e terzi personaggi che sbroccavano come lui, ossia parlavano a vanvera, sparando le cavolate più folli. L'Umberto Bossi del dito alzato contro l'Inno di Mameli starebbe bene in un remake di quel film. Come le spara lui non le spara nessuno. Lo farà di certo per tattica politica. Ossia per tenere al laccio l'intero centro-destra e avere presto il federalismo. Ma le sue super-castronerie, come quella di cacciare dal Nord tutti gli insegnanti meridionali, sono brancaleonismo puro.

C'è però un guaio per chi ha votato il centro-destra e anche per chi vorrebbe vivere in un paese ben governato da chiunque abbia vinto le elezioni. E il guaio è che l'effetto Brancaleone finisce per intaccare un po' tutta la coalizione guidata da Silvio Berlusconi. Avremmo bisogno di un blocco coeso, con le idee chiare sul da farsi, capace di decisioni e fatti conseguenti. Ma non mi pare che vada così. Ci sono ministri all'altezza del compito. E cito per tutti il responsabile dell'Economia, Giulio Tremonti. Però l'insieme fa pensare a una compagine slabbrata, poco salda, refrattaria a rendersi conto delle grandi responsabilità che la vittoria elettorale le ha affidato.

Anche il Cavaliere mi sembra traballante. Gli sciocchi del centro-sinistra, che sono tanti, hanno ripreso a strillare al Caimano. Magari fosse così! Non avremmo un premier sempre nervoso, impaurito dalle proprie vicende giudiziarie, incline anche lui a sbroccare. Se a Palazzo Chigi sedesse un vero Caimano, la riforma della giustizia (per fare un esempio solo) sarebbe già stata avviata con le armi dell'astuzia. Prima fra tutte quella di portare dalla propria parte i magistrati che hanno compreso una verità: i cittadini non sopportano più le drammatiche inefficienze della macchina giudiziaria
, capace soltanto di rendere infernale la vita ai molti italiani qualunque che non hanno alle spalle né un padrino né un patrono. Per non parlare dei processi-spettacolo, con la pubblica accusa che organizza conferenze stampa e parla di continuo fuori dalle aule dei tribunali. Una piaga che ha fatto insorgere, con mille ragioni, il presidente della Repubblica.

Il risultato è che il Bossi in formato Brancaleone fa scuola. E con quel dito, un gesto scurrile alla Beppe Grillo dei Vaffa Day, eccita i suoi gemelli nel centro-sinistra. Primo fra tutti, Tonino Di Pietro, un brancaleonide d'acciaio che sta diventando il vero padrone dell'opposizione di centro-sinistra. Chi ha votato per questo blocco assiste allibito a una malvagia inversione dei ruoli. Walter Veltroni conta sempre di meno. Sta più di là che di qua, per la guerra che gli hanno dichiarato tante eccellenze del Partito Democratico. E sembra intimorito da quel che gli va accadendo. Al punto di non trovare il coraggio, e mi limito a un caso, di dire una parola in difesa di un onesto libro di storia. Parlo degli 'Orfani di Salò', sulla nascita del Msi, scritto da un bravo giornalista del 'Corriere della sera', Antonio Carioti. Costretto a subire le contestazioni aggressive di una sinistra che accetta soltanto autori pronti a inchinarsi davanti alla falce e al martello.

Siamo al Brancaleone bipartisan. Con Di Pietro nella parte del cavaliere di Norcia, ma assai più spietato nella strategia e nel lessico. La strategia di Tonino è quella del cuculo: insinuarsi nel nido di Veltroni, sperando di scacciarne il legittimo inquilino. Mi domando che cosa aspetti il fragile Walter a respingerlo con asprezza e a trattarlo per quel che è: un nemico, quasi una quinta colonna del Caimano. Quanto al lessico, Tonino non parla ancora nel misto di latino medioevale e di italiano prevolgare inventato da Age & Scarpelli per Gassman. Ma prima o poi ci arriverà. Già adesso dà del magnaccia a Berlusconi. Pronostica l'avvento del fascismo fondato sulle veline, avanguardie dell'olio di ricino. Sproloquia della P2 che ritorna. Si propone come santo protettore della casta giudiziaria. Porta in piazza girotondi ringhianti contro Veltroni. E ora rimbecca Napolitano che condanna i processi- show, intimandogli di parlare d'altro.

Come andrà a finire? Non lo so. Ma il Brancaleone bipartisan renderà deboli entrambe le coalizioni. Con un esito indecifrabile. Qualche tempo fa avevo immaginato la nascita di un governo di salvezza nazionale, l'unico rimedio per un paese malato come il nostro. Però oggi non sono più certo di niente

(25 luglio 2008)

da espresso.repubblica.it
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« Risposta #38 inserito:: Agosto 01, 2008, 12:01:45 am »

Giampaolo Pansa



Forse Max vedeva giusto


D'Alema lo ha sempre detto: criminalizzare Berlusconi serve solo a rafforzarlo. Eppure buona parte della sinistra insiste a farlo.

E' sufficiente mettere il naso fuori di casa per rendersi conto di quanto sia cresciuto il numero degli immigrati clandestini. Ormai li vediamo dappertutto, anche nei piccoli paesi, dove non ci sono molte occasioni di lavoro. Di solito si comportano bene. E benissimo quelli che ottengono di uscire dal buio per essere assunti in modo regolare da un'azienda o da un privato. Lo so per esperienza diretta. Così come esperienze fatte da altri mi dicono che non tutti gli immigrati si adattano a una convivenza pacifica. E che cosa facciano per campare lo impariamo dalla cronaca nera.

Un indice di quanto stiano aumentando gli arrivi in Italia ce lo danno gli sbarchi di clandestini sulle nostre coste. Nei primi sei mesi del 2008 sono arrivati 11.949 irregolari, ossia più del doppio rispetto al primo semestre del 2007 che aveva visto 5.387 ingressi per mare. Da gennaio alla fine di giugno, soltanto a Lampedusa sono sbarcati 10.402 clandestini: un numero che alla fine di luglio è cresciuto. Anche per questo, il ministro dell'Interno, Roberto Maroni, ha stabilito di estendere a tutto il territorio nazionale la dichiarazione di stato d'emergenza che, nell'ultimo rinnovo, era limitato soltanto alle tre regioni vicine agli sbarchi: Sicilia, Calabria e Puglia.

Perché dichiarare l'emergenza? Per poter organizzare il ricovero e l'accoglienza di tutti i nuovi clandestini, saltando le pastoie burocratiche e finanziarie. E' lo stesso motivo che aveva spinto a proclamare l'emergenza per ben sei volte: quattro, a partire dal dicembre 2002, sotto il governo Berlusconi e due (marzo 2007 e febbraio 2008) sotto il governo Prodi. Quello deciso da Maroni è dunque il settimo rinnovo di una procedura ben conosciuta anche dai big del centro-sinistra che erano stati ministri nel governo del Professore o suoi sostenitori di riguardo.

Parlo di questi big perché si sono affrettati ad urlare contro il provvedimento di Maroni. Decisa da loro l'emergenza era sacrosanta. Decisa dal centro-destra diventa nefanda. Qualche citazione? "Il governo continua ad alimentare la paura con un clima da Stato di polizia", strilla l'ex ministro Rosy Bindi. "Una decisione gravissima", ringhia Paolo Ferrero, anche lui ex-ministro con Prodi. "A quando le nuove leggi razziali?", grida l'ex sottosegretario Paolo Cento. "Sono davvero dei mascalzoni: è una decisione abominevole", sostiene Gianclaudio Bressa, vicepresidente dei deputati del Pidì. Sino ad arrivare al rifondarolo Nichi Vendola, grintoso anche se al tappeto: "Il provvedimento del governo è un pezzo di fascismo".

Ecco uno dei virus che sta uccidendo le sinistre italiche: la faziosità portata all'eccesso. Quella che spinge a dire: qualunque cosa decida Silvio Berlusconi è sbagliata, pericolosa, parafascista o fascista. Tuttavia, così facendo, le tante sinistre possono al più convincere i loro militanti cocciuti e non l'insieme degli elettori. Il risultato è che il Caimano se la ride e diventa sempre più forte.

Ci aveva avvisato di questo rischio uno dei leader del Pidì, Massimo D'Alema. Era accaduto anni fa, proprio con Claudio Rinaldi che allora dirigeva 'L'espresso'. A rammentarmelo è stato un vecchio libro di Antonio Padellaro, un nostro bravo collega che oggi dirige 'l'Unità': 'Senza cuore. Diario cinico di una generazione al potere', pubblicato nel 2000 da Baldini & Castoldi.

Verso la fine del 1995 o all'inizio del 1996, quando il Cavaliere stava a Palazzo Chigi, D'Alema, allora segretario del Pds, spiegò a Rinaldi che Berlusconi non era un professionista della politica, bensì un dilettante. Aveva tante qualità, ma in altri campi. Bisognava dunque portarlo sul terreno della politica dove avrebbe di certo perso. Poi Max aggiunse: "Se invece si contribuisce a farne un mito popolare, anche in negativo, se lo si esalta o denigra come qualcosa di speciale, Berlusconi crescerà di statura e trarrà giovamento da questa linea". "Voi dell'Espresso non capite niente" fu la sentenza di D'Alema. "Se si continua a criminalizzare Berlusconi, si finirà unicamente per rafforzarlo".

Riletto oggi, lo trovo un consiglio saggio. Però in quel tempo, tanto Rinaldi che Padellaro e io ci guardammo bene dal seguirlo. Certo, ci siamo divertiti a sbranare ogni settimana il Caimano. Padellaro lo fa ancora tutti i giorni sull'Unità. Con quale risultato? Berlusconi è più forte che mai ed è ritornato per la terza volta a Palazzo Chigi. Quanto a me resto abbarbicato al 'Bestiario' e predico contro la faziosità. Ma con ben poca fortuna.

(31 luglio 2008)

da espresso.repubblica.it
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« Risposta #39 inserito:: Agosto 09, 2008, 06:31:53 pm »

Giampaolo Pansa


La Sinistra manesca


Da Bologna a Torino, da Vicenza a Roma: il neo-comunismo antagonista, sfrattato dal Parlamento, vuole imporre la sua legge nelle piazze  1980: la stazione di Bologna dopo l'esplosioneNella Bologna del 2 agosto, giorno della memoria per la strage alla stazione nel 1980, l'unico politico in condizioni normali mi è sembrato il ministro Gianfranco Rotondi. Da democristiano collaudato e dotato di humour, ha detto dal palco: "I fischiatori non mi disturbano, sono i soli che mi considerano ministro".
Rotondi alludeva alla gaffe dell'assessore Libero Mancuso, un ex magistrato sempre troppo sicuro di sé e ormai incline a sbroccare come accade a noi che abbiamo i capelli bianchi: "Rotondi è una persona sconosciuta e del tutto incolore. Non credo proprio che qualcuno si accollerà la fatica di fischiarlo". Il ministro per l'Attuazione del programma era stato spedito a Bologna al posto del collega alla Giustizia, Angelino Alfano. Per il quale la sinistra manesca aveva promesso sfracelli, in virtù del lodo che porta il suo nome.

Mi è apparso preoccupato il sindaco della città, Sergio Cofferati, fischiato anche lui. E capisco il suo umore. Tutti i santi giorni, si trova alle prese con un paio di problemi: la voglia di silurarlo di una parte della sinistra riformista e i guai che derivano dalla guerriglia permanente fra due fazioni rosse e violente, padrone di un pezzo del centro cittadino, l'area universitaria. La Bologna che Cofferati amministra è ormai irriconoscibile.

Come se il destino malvagio che perseguita dovunque i luoghi storici del vecchio comunismo, compreso quello all'emiliana, avesse deciso di infierire anche su questa città, amata da tanti per la sua gioia di vivere. Adesso Bologna riempe Piazza Maggiore soltanto per osannare il Vaffa Day di Beppe Grillo. E quando arriva Giuliano Ferrara, per tenervi un comizio elettorale com'è suo diritto, pretende di cacciarlo via a colpi di uova marce.

Ma la sinistra manesca non prende di mira soltanto Bologna. Ripensiamo a quel che è successo negli ultimi due mesi. A Torino impedisce a una ragazza di An l'ingresso all'università per dare un esame. A San Giuliano Terme, in provincia di Pisa, si scatena contro un libro sgradito, arrivando a occupare il consiglio comunale. A Roma assalta una mostra sulle foibe e poi sequestra il preside di Lettere della Sapienza.

 
A Vicenza blocca la stazione per l'eterna protesta contro l'ampliamento della base Usa. Sono soltanto pochi esempi di un nuovo modo di stravolgere la Costituzione, per affermare il principio autoritario che piccole minoranze intolleranti possono sottoporre alla loro volontà la maggioranza dei cittadini.

L'aspetto più assurdo di questo clima è che i maneschi impongono la loro legge in nome dell'antifascismo, ossia di un principio non violento. Chiunque non si pieghi ai loro diktat è di per sé un fascista. Chiunque voglia rileggere un fatto storico diventa di per sé uno sporco revisionista che non deve pensare, parlare, scrivere, pubblicare. Sta succedendo anche a Bologna, a proposito della strage alla stazione.
 
Accade che, a destra come a sinistra, molti si stiano convincendo che la sentenza definitiva su quel massacro sia il frutto di un errore giudiziario. E che i colpevoli non siano i tre terroristi neri dei Nar, condannati ad anni di galera. Personalmente non so come pensarla. Ma mi sembra folle evocare anche in questo caso il Demonio Revisionista. Se una sentenza è sbagliata, sarà giusto correggerla. Altrimenti sarà altrettanto giusto che resti com'è.

Immagino che, contro il revisionismo giudiziario, la sinistra manesca produrrà cortei, sit in, blocchi stradali e sventagliate di insulti. Del resto, il neo-comunismo antagonista, sfrattato dal Parlamento, ha già annunciato che farà politica nelle piazze. Non riesco invece a immaginare che cosa deciderà il povero Partito Democratico, né su questo fronte né su altri. Ho scritto povero con fraterna condivisione dei guai che si sta creando da solo. L'istinto suicida delle tante sinistre italiane sembra dilagare anche dentro il quartier generale di Walter Veltroni. E qualcuno pensa che quell'istinto sia già arrivato al suo approdo fatale.

Lunedì 4 agosto, 'Emme', l'inserto satirico dell''Unità', chiudeva le pagine con un vignettone colorato che ti obbligava a toccare ferro. Si vedevano Goffredo Bettini ed Ermete Realacci, in panni vacanzieri, intenti a sorreggere un Veltroni agonizzante, con l'aspetto di chi è più di là che di qua. Il titolo strillava: 'Weekend con il morto'. Se siamo a questi punti, verrà persa non soltanto Bologna. La sinistra manesca non troverà più argine. E a godere rimarrà, da solo, il sempiterno Cavaliere, detto il Caimano.

(08 agosto 2008)


da espresso.repubblica.it
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« Risposta #40 inserito:: Agosto 14, 2008, 05:27:38 pm »

Giampaolo Pansa


Il sex appeal di Tonino


Veltroni stia attento al fascino di Di Pietro: è irresistibile. Parola di Mara, Stefania, Lorenza...  Non possono esserci dubbi: il Grande Match Politico dell'autunno si svolgerà tutto dentro il centro-sinistra. E vedrà sul ring Walter Veltroni e Tonino Di Pietro. In apparenza, la posta in palio è la supremazia nella resistenza antifascista al nuovo Mussolini (Asor Rosa dixit). Ma in realtà Tonino persegue un disegno perfido: sfiancare Walter, scardinare il Pidì e mangiarsi una buona fetta dei suoi voti. Qualcuno dirà: è un disegno suicida che gioverà soltanto al Berlusca, basta un po' di buon senso per capirlo. Ma che c'azzecca il buon senso con Tonino?

Come andrà il duello nessuno lo sa. Però la vedo magra per Walter. Nella battaglia politica conta molto l'immagine. E l'estate non si è rivelata generosa con il leader del Pidì. Che tristezza quelle foto sulla spiaggia di Sabaudia, con un Veltroni dalla pancetta espansa! Tutto il contrario delle foto di Tonino apparse su 'Chi': un Di Pietro muscoloso che in una strada di Roma bacia alla brava, con la foga del ventenne, una brunona tosta.

Gli spin doctor che curano il personaggio di Walter dovranno meditare su quel bacio stradale. Per scoprirne le possibili contromisure. Tonino non ha soltanto un ego formidabile e un'eccezionale autostima. Possiede anche un forte sex appeal che gli viene dai tempi di Mani Pulite. Quando nei panni di Torquemada faceva delirare un bel po' di signore che vedevano in lui il maschio ripulitore della spazzatura tangentizia.

Non ci credete? Ecco qualche testimonianza che ricavo da un periodico insospettabile di piaggeria verso Di Pietro: un numero di fine 1993 del settimanale 'Epoca', rotocalco della Mondadori ormai berlusconiana, diretto da Roberto Briglia, ancora oggi uno dei big manager di Segrate. In quei giorni, una brava giornalista, Valeria Numerico, chiese a sei donne, "belle, famose e sentimentalmente appagate" di dire "parole d'amore, di stima e di affetto" al dottor Di Pietro, "omaggi espliciti o insinuanti, diretti finalmente all'uomo e non al magistrato". Leggete che cosa ne venne fuori.


All'attrice Stefania Sandrelli, Tonino appariva "maschio, ma non macho. C'è in lui l'unica mascolinità che apprezzo e che si esprime in decisione, chiarezza, senso della realtà". Domanda: con quali armi femminili lo sedurrebbe? E Stefania: "Quando incontro qualcuno che mi piace, voglio subito accarezzarlo, toccarlo, abbracciarlo. Farei così anche con lui". Pensando a un film su Mani Pulite "vedrei Tonino interpretato da Robert De Niro. Quanto a me, vorrei essere un giudice donna del suo pool: anche lei potrebbe fargli, di tanto in tanto, una carezza".

E Mara Venier, star di 'Domenica in', scrisse a Di Pietro: "Caro Antonio, indimenticabile quella foto di lei in canottiera mentre si affaccia al balcone di casa, durante le smilze vacanze molisane. Sotto la canottiera, c'è il Sean Connery della gente normale che si fa amare per quella sua aria ruspante. Lei conquista le donne, lei dà sicurezza. Lei, col fuoco di fila delle sue domande chiare, ha cambiato il modo di essere (e di fare) il giudice. Lei è il nostro solido Perry Mason", concluse Mara, trascurando che Mason era un avvocato.

E Lorenza Foschini, allora conduttrice del Tg-2: "È così facile amarla, dottor Di Pietro! Lei potrebbe rappresentare il prototipo del marito ideale". Marito ideale? Ma no, Dipì è di più. "Lei è una forza della natura", spiega Carmen Llera Moravia. "Lei non sarebbe il mio tipo, non è abbastanza magro, tormentato, misterioso o sofisticato. Non è neanche ebreo. Eppure, qualche mese fa l'ho sognata. Ma anche questo", aggiunse subito l'astuta Carmen, "significa poco, visto che stanotte ho sognato l'onorevole Occhetto".

Dipì come Baffo di Ferro? Non scherziamo, giurava Alessandra Casella, l'esperta di libri della rete Italia 1: "Caro Antonio, non le ci è voluto molto per conquistarmi. Con quei suoi tratti molisani. Con quel suo corpo massiccio, per cui le donne si sentono finalmente autorizzate a esclamare: è tanto! Con il suo aspetto da Orso Yoghi che nasconde un animo d'acciaio. Lei seduce l'Italia che le si affida. Seduce le italiane (e non pochi italiani) invadendo di 'sì, vostro onore' i loro sogni erotici. E seduce me".

E la sesta donna? La scrittrice Barbara Alberti fu l'unica a trattare Dipì 'da uomo a uomo'. E lo scolpì così: "Trovo deliziosa la sua civetteria di modesto: lei è vanitoso come lo sarebbe San Francesco se lo mettessero davanti alle telecamere". Già, un san Francesco pronto a trasformarsi in lupo. Attento, Walter, all'autunno rovente del molisano scalzo.

(14 agosto 2008)


da espresso.repubblica.it
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« Risposta #41 inserito:: Agosto 23, 2008, 11:46:40 pm »

Giampaolo Pansa


Il regime di Ecce Bombo


L'allarme di Nanni Moretti sull'assenza di opinione pubblica?
È il vizio della sinistra che bolla di fascismo chi non la pensa come lei  Dal Festival del cinema di Locarno, Nanni Moretti ha lanciato un allarme: in Italia l'opinione pubblica non esiste più. A sentir lui, lo dimostrano una serie di fatti: primo fra tutti il ritorno di Silvio Berlusconi al governo fra l'indifferenza degli italiani, che non s'indignano per i conflitti d'interesse del Caimano e per il suo strapotere nei media televisivi. L'allarme di Moretti mi fa sorridere. E mi obbliga a domandarmi dove viva il nostro celebre regista. Forse a Roma, ma rinchiuso in uno studio cinematografico con quattro amici che la pensano come lui. Oppure ha scelto di stare in qualche paese lontano, da dove l'Italia non si scorge più.

Se Moretti andasse in giro per il nostro paese, si renderebbe conto subito di una verità: l'opinione pubblica non soltanto non è scomparsa, ma si è moltiplicata e parla i linguaggi più diversi. Esiste sempre quella della sinistra radicale, rimasta fuori dal Parlamento, però assai attiva e incavolata nelle sedi di almeno tre partiti e nelle piazze. C'è sempre l'opinione di centro-sinistra, anche se oggi appare la più disorientata per la sconfitta elettorale e per il caos che logora il partito di riferimento, il povero Pidì di Walter Veltroni.

C'è l'opinione pubblica di centro-destra, molto forte perché i suoi leader politici sono ritornati al governo con l'eterno Berlusconi. Ma anch'essa tormentata dai messaggi contraddittori che riceve. L'ultimo riguarda l'abolizione dell'Ici. Questa tassa deve tornare, strilla la Lega. No, l'Ici l'abbiamo salutata e non ritornerà più, giurano il Pdl e An.

E infine c'è l'opinione pubblica di destra. È sempre esistita, ma sino a qualche anno fa se ne restava in silenzio. Adesso parla, legge, discute, si difende e attacca, come fanno tutte le opinioni pubbliche nelle grandi democrazie. Per rendersene conto, è sufficiente partecipare a incontri pubblici che non siano le vecchie Feste dell'Unità o del Pd, come si chiamano oggi: recinti chiusi, dominati da un razzismo intellettuale sempre più stantio e sterile. Questa opinione di destra tutela anche la propria memoria storica, che non si sta affatto dissolvendo, checchè ne pensi e ne scriva
SuperWalter.

Tornando all'argomento di Moretti, il suo difetto sta nel manico. Ossia nella convinzione che l'unica opinione pubblica a contare sia quella contraria al Caimano. Anche più di un giornale e parecchi opinionisti la pensano così. Ma proprio questo è l'errore più grande. E nasce dal riflesso condizionato di una concezione autoritaria della democrazia.
 
In nessun paese libero sarebbe possibile sostenere il principio che ha diritto di cittadinanza un solo modo di pensare. Succede così soltanto negli Stati illiberali. Ed è successo così nell'Europa del Novecento, prima nella Russia comunista, poi nell'Italia fascista e nella Germania nazista.

Mi guardo bene dal dare a Moretti del cripto-fascista, ossia del fascista nascosto e in abito simulato. Innanzitutto perché non lo è e non lo è mai stato. Poi perché l'accusa di fascismo non ha più forza, visto l'abuso che se ne sta facendo. Identico all'abuso della parola regime. Per molte famose teste d'uovo delle tante sinistre, tutto ciò che non coincide con la loro visione del mondo è fascismo.

Persino la presenza di un po' di soldati nelle città dove il crimine è più diffuso diventa la prova che le Brigate Nere sono tornate, pronte a torturarci. E la gente che applaude ai militari è soltanto popolo bue, che ha portato il cervello all'ammasso per ordine delle tivù di Berlusconi.

Potrà sembrare una forma di contrappasso, però tanti intellettuali antifascisti si stanno impiccando da soli all'albero fantasma del fascismo. Anche perché dimenticano la regola numero uno di chi usa l'intelletto: chiamare le cose con il nome giusto, come ha ricordato Luca Ricolfi in un importante articolo sulla 'Stampa' del 15 agosto. Non intendono farlo per pigrizia culturale, per vanità faziosa, per ottusità politica? Peggio per loro. Saranno sempre meno credibili. E soprattutto rischieranno di fare la fine del personaggio di un celebre film di Moretti.

Ve lo rammentate 'Ecce Bombo', del 1978, l'esordio di Moretti nel cinema professionale? C'era una figura indimenticabile: la sessantottina smonata che ripeteva "Giro, vedo gente, faccio cose". Ecco, cari amici che paventate un nuovo Mussolini: girate e vedete un po' di gente, ma di quella che non vi somiglia. Vi renderete conto che il regime di Ecce Bombo è la più sgangherata fra le trappole per i vostri sacri lombi.

(22 agosto 2008)


da espresso.repubblica.it
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« Risposta #42 inserito:: Agosto 29, 2008, 11:25:29 pm »

Giampaolo Pansa


Dopo la festa guai in vista


Da quella del Partitone rosso del '92 a Reggio Emilia i rompiballe doc esclusi dalle messe cantate del PD  Achille Occhetto al congresso del Pci (1990)Un tempo l'essere invitato alla Festa nazionale dell'Unità era un grande onore per un giornalista. Più ti consideravano uno spaccapalle, più ti invitavano. Il vecchio Pci non temeva il confronto con la stampa borghese. Anche il Pds uscito dal dramma del 1989 aveva ereditato la stessa voglia di mostrarsi liberal. E così accadde quello che vi racconterò.

Era il settembre 1992 e pure gli eredi del Partitone Rosso si trovavano sotto il torchio di Mani Pulite. All'inizio di luglio, Achille Occhetto, segretario del partito, era corso a Milano per due roventi assemblee di iscritti. Gli rinfacciavano le tangenti incassate da alcuni dirigenti ambrosiani. In entrambi i casi, il povero Baffo di Ferro si difese, sgomento: "Vi giuro che non sapevo nulla di quello che accadeva qui!".

Trascorsero due mesi e andai a Reggio Emilia dove si svolgeva la Festa nazionale. Ero stato precettato per un dibattito dal tema gommoso: 'Questione morale e partiti'. Avevo al mio fianco Antonio Bassolino, mentre il moderatore era Gad Lerner. Mi sentivo in libera uscita dal lavoro all''Espresso'. E volevo godermi un giorno di vacanza. Non avevo premeditato nulla, tanto meno contro Occhetto. Mi stava simpatico. E durante la svolta della Bolognina, quando cambiò il nome al Pci, m'ero sentito dalla sua parte.

La sera dell'8 settembre 1992 ci ascoltava la solita grandissima folla. Ispirandosi al calendario, Lerner mi chiese di parlare dell'8 settembre dei partiti nel terremoto di Mani Pulite. Visto che eravamo ospiti del Pds, parlai del padrone di casa. Occhetto sosteneva di non sapere delle tangenti milanesi intascate dai suoi. Se diceva la verità, Baffo di Ferro s'era dimostrato un ingenuo al cubo. Se mentiva e sapeva tutto, era un gran bugiardo. Ma in entrambi i casi doveva dimettersi da segretario. Perché un partito come il Pds non poteva essere guidato da uno sciocco o da un mentitore.


Mi aspettavo una tempesta di fischi, di urla, di insulti. E invece, con mia grande meraviglia, venni avvolto da una tempesta di applausi. Insomma, tutto il pubblico della Festa era d'accordo con quel provocatore di Pansa. La bolgia durò un bel po'. Gli altri partecipanti al dibattito erano rimasti spiazzati. Bassolino tentò una difesa del partito, urlando: "Ci sono anche nostre responsabilità, però non possiamo essere messi sullo stesso piano della Dc e del Psi!".

Ma la frittata era fatta. A dibattito concluso, andammo in un ristorante della Festa a mangiare l'erbazzone reggiano: sfoglia salata ripiena di spinaci. Quando ci salutammo, Bassolino mi ringhiò in un orecchio: "Così Achille impara a dar retta ai consigli di Scalfari e tuoi. Io me li ricordo gli articoli che scrivevi su 'Repubblica' nel novembre del 1989: vai avanti, Occhetto, avanti nel tuo azzardo!".

La mattina seguente, prima dell'alba, Piero Fassino venne svegliato da una telefonata furente di Achille: "Hai sentito che cosa ha fatto il tuo amico Pansa alla Festa dell'Unità?". Ma Piero non sapeva nulla. Allora, con voce strozzata, Baffo di Ferro gridò: "Ha chiesto le mie dimissioni! E il pubblico si è alzato in piedi ad applaudirlo! Basta: non andrò più a Reggio Emilia a concludere la festa".

Sempre quella mattina, Walter Veltroni, direttore dell''Unità', si era preso un giorno di vacanza con la moglie, a Venezia: voleva godersi un pezzettino del Festival del cinema. Aveva appena posato la valigia in albergo che lo chiamarono dal giornale. E gli chiesero di rientrare subito a Roma perché Occhetto minacciava sfracelli. Achille sospettava una manovra per distruggere la sua immagine. Un complotto ordito dal maledetto Massimo D'Alema, con la complicità di quel manigoldo di Pansa, finto tifoso di Baffo di Ferro. Con lentezza, le acque si calmarono. E Occhetto venne convinto a tenere il discorso di chiusura della Festa.

Ve lo immaginate un giornalista che, alla Festa nazionale del PD, in corso a Firenze, chieda le dimissioni di SuperWalter perché non sa tenere insieme il nuovo partito? Io no. I Rompiballe Doc sono stati esclusi da tutte le messe cantate alla Fortezza da Basso. E se c'è da fare il viso feroce, bisogna puntare soltanto sul Caimano di governo e i suoi ministri, invitati alla Festa perché facciano i pupazzi da piattonare con lo spadone.

Ma questo mi pare il riflesso di una grande insicurezza del Pidì. E del timore che, una volta finita la Festa, cominci una stagione di guai per Veltroni e C. Tempi duri all'orizzonte. Speriamo di essere sempre qui a raccontarli, con la solita schiettezza.

(29 agosto 2008)

da espresso.repubblica.it
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« Risposta #43 inserito:: Settembre 05, 2008, 11:02:23 pm »

Giampaolo Pansa

Quel meeting ci batterà

La ruota della storia ha cominciato a girare nel senso opposto.

Solo i califfi del Pd non se ne sono accorti.


Al Meeting di Comunione e Liberazione a Rimini c'ero andato molti anni fa. Era l'agosto del 1986 e dovevo discutere di informazione con Enzo Biagi, il moderatore era Robi Ronza. In seguito mi avevano invitato altre volte, ma per qualche motivo non ero riuscito a tornarci. Quest'anno ho accettato e il 27 agosto ho risposto alle domande di Alberto Savorana, il portavoce di Cl. Il tema dell'incontro recitava 'La passione per la storia' e lo scopo era discutere dei miei libri sulla guerra civile italiana. Il primo choc è stato di trovarmi di fronte a una platea di mille persone, venute per capire che tipo sono. E molte altre mi aspettavano fuori da quel salone strapieno, per ringraziarmi, per stringermi la mano, per incitarmi ad andare avanti.

Che scoperte ho fatto quella sera e il giorno successivo, nel vagare per il Meeting? Soprattutto tre. La prima che lì c'era un popolo, ossia una folla sterminata di gente comune, però non qualunque. Spesso di condizioni modeste e a famiglie intere. E tutti avevano nel cuore il desiderio di stare insieme, ma anche di incontrare persone diverse da loro. La seconda scoperta è stata che questa gente non ti chiedeva da dove venivi, ma voleva soltanto comprendere dove stavi andando.

Nessuno mi ha fatto l'analisi del mio sangue politico. Nessuno mi ha chiesto per chi avevo votato. Nessuno mi ha domandato se preferivo Berlusconi o Veltroni. Erano soltanto interessati a sapere perché avevo scritto quei libri, che cosa mi aveva mosso a fare quel passo e se intendevo proseguire lungo quella strada. Era il mio percorso umano che volevano scrutare, con lo sguardo attento dell'amicizia: il mio viaggio alla ricerca della verità e di me stesso. E ogni volta mi sono sentito ascoltato e mai giudicato. Non mi era mai successo.

La terza scoperta sono stati i giovani che lavoravano al Meeting, dalla mattina sino a tarda sera. Confesso che non voglio mai occuparmi dei giovani.
La mia distanza da loro è ormai troppo grande, e non solo a causa dell'età. A Rimini ne ho incontrati un esercito. Erano più di 3 mila per far girare al meglio la macchina. Tutti volontari, tutti venuti a loro spese. Luigi Amicone, il direttore del settimanale 'Tempi', mi ha raccontato che ne erano arrivati 14 dal lontanissimo Kazakistan, stretto fra Russia e Cina. Pagandosi il viaggio e soltanto per pulire i bagni.

Nell'osservare il mondo del Meeting mi sono ricordato del vecchio motto di un presidente francese: François Mitterrand. Aveva vinto le elezioni con lo slogan: 'Una calma forza tranquilla'. Anche i ciellini sono così. E anche per questo vinceranno. Diventando sempre più forti in un'Italia nevrotica che non crede in niente, strozzata dal relativismo, senza più passioni o aggrappata a brandelli di passioni consunte che non sono più una bandiera.

Uno che l'ha capito subito è un'astuta eccellenza del Partito Democratico: Ugo Sposetti, già tesoriere dei Ds e grande esperto delle vecchie Feste dell'Unità. Quando è arrivato al Meeting, ha iniziato a girare, a guardare, ad ascoltare. E ha concluso: "Devo ammetterlo, siete più bravi di noi. Per vedere la nuova Festa dell'Unità bisogna venire da voi a Rimini".

A qualche ciellino si sarà accapponata la pelle nel sentir paragonare il Meeting alle defunte feste comuniste. Ma Sposetti ha visto giusto. Proviamo a pensare alla Festa nazionale del Pidì a Firenze. Quasi tutte le sere, per capire che roba sia, mi guardo Nessuno tv che fa le dirette dei dibattiti alla Fortezza da Basso. Se fossi Veltroni oscurerei quell'emittente. E rinuncerei a metter su la tivù del partito. Che strazio il cabaret dei sopravvissuti! Vecchie facce che danno aria ai denti per dimostrare di essere in vita. Litanie logore, spesso urlate di fronte a molte sedie vuote o ai volti annoiati di militanti più anziani di me.

Mi godo lo spettacolo con un sentimento doppio. La maligna goduria di aver fatto bene ad avere cattivi pensieri sulla sorte delle sinistre italiane.
E l'angoscia di vedere sparire un mondo nel quale anch'io ho creduto. Poi mi dico: forse la ruota della storia ha già cominciato a girare nel senso opposto. E i superbi califfi del Pidì e delle altre parrocchie rosse non se ne sono accorti.

Ripenso al meeting di Rimini e concludo: maledetti ciellini, ci sconfiggerete. Anzi ci avete già battuti. Come diceva la favola del cavaliere che combatteva senza accorgersi di essere già morto? È il caso della sinistra di oggi. Speriamo che i vincitori ci offrano almeno l'onore delle armi.

(05 settembre 2008)


da espresso.repubblica.it
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« Risposta #44 inserito:: Settembre 13, 2008, 12:39:00 am »

Giampaolo Pansa


I furbissimi e il barbaro


Il tifone Di Pietro si sta avvicinando alle coste democratiche e i capi del Pidì non muovono un dito per fermarlo  Chi l'avrebbe mai detto che due furbissimi come Walter Veltroni e Max D'Alema sarebbero stati messi nel sacco da quel barbaro molisano di Antonio Di Pietro? Un buzzurro che non è mai stato a Mosca, non ha conosciuto Togliatti fin da piccolo, non ha frequentato Berlinguer, non si è mai laureato alla scuola di guerra del vecchio Pci. Invece sta accadendo proprio questo. Secondo gli ultimi sondaggi, l'Italia dei Valori mangia la terra sotto i piedi al Partito Democratico. Ha quasi raddoppiato i voti di aprile: dal 4,4 all'8,5 per cento. E cresce a vista d'occhio, mentre il Pidì scende sotto il 30 per cento.

Il dramma di Walter e Max è l'esito di una resa dei conti con il Fato. Sedici anni fa, nel terremoto di Tangentopoli, gli eredi del Pci furono gli unici a salvare se stessi e il partito. Allora si disse che a concedergli la grazia era stato soprattutto Di Pietro, il ferro di lancia del pool di Milano. Vero o falso che fosse, qualche anno dopo Tonino venne premiato dal Partitone Rosso. Che lo mandò in Parlamento con una trionfale elezione nel Mugello.

C'ero anch'io, per conto dell''Espresso', a vedere l'esordio politico di Tonino. Settembre 1997, Firenze, Festa dell'Unità nell'ex area Fiat di Novoli. Quindicimila compagni in tilt per l'apparizione di Di Pietro sul palco, accanto a D'Alema, segretario del partito. Indicando Tonino al popolo della Quercia, Max pronunciò una formula che oggi suona iettatoria: "L'incontro tra un funzionario onesto dello Stato, figlio di contadini democristiani del Mezzogiorno, e il popolo rosso di Firenze è un segno che l'Italia è cambiata. E a Enrico Berlinguer sarebbe piaciuto molto!". Poi concluse con uno slogan fantozziano: "Di Pietro ha detto: sono un moderato e scelgo l'Ulivo. Dunque Tonino lo dobbiamo ringraziare, non convertire!".


Le tante compagne presenti a Novoli urlavano di gioia. Tutte le storiacce sul conto di Tonino, i soldi ricevuti nelle scatole di cartone, le auto, gli appartamenti, le cattive compagnie, erano svanite nel cielo stellato della festa. Se osavi qualche domanda maliziosa, le compagne ti ringhiavano: "Vuoi mettere la rogna tra le preghiere?". E godevano nell'ammirare sul palco, accanto a Max, l'uomo più visto alla tivù negli ultimi cinque anni. Un gigione dal sorriso malandrino, con le mosse del gattone che la sa lunga. Che importanza aveva se nel parlare s'impappinava, storpiava le parole e straziava i congiuntivi?

Il giorno successivo chiesi a Guido Sacconi, il segretario provinciale del Pds, che tipo di allievo fosse Di Pietro. Lui mi rispose, profetico: "Uno che impara tutto con una velocità impressionante". Ritrovo lo stesso aggettivo nel giudizio di un grande sondaggista, Nando Pagnoncelli ('La Stampa', 7 settembre): "Il consenso per Di Pietro si sta impennando anche nelle regioni rosse e poi in Molise e in Abruzzo, in forme impressionanti".

Dopo la sconfitta elettorale di aprile, il Pidì pensava di dover combattere soltanto contro Silvio il Caimano. Ma adesso scopre di avere in casa il peggior nemico. Di Pietro si è dato una missione: distruggere il Pidì. La prova generale dell'invasione barbarica la farà nell'autunno in Abruzzo. Poi cercherà l'assalto finale nelle elezioni europee del 2009, forse con l'aiuto dei girotondini sempre più assatanati.

Nulla è più imprevedibile della politica. Ma il meteo annuncia che il tifone Di Pietro si sta avvicinando alle coste democratiche. E i capi del Pidì non muovono un dito per fermarlo. Walter e Max non hanno neppure spiegato perché, in aprile, si siano alleati proprio con Tonino. L'hanno fatto per non inimicarsi la magistratura? Per il timore di un ricatto su chissà quali carte giudiziarie? Per l'arroganza di chi ritiene d'essere il più forte? O per semplice stupidità?

Comunque sia, il Pidì sta vivendo il suo settembre nero. Poi verrà un ottobre nerissimo. Quindi un novembre color dell'inferno. Tonino il Barbaro sarà spietato. E i capi democratici si troveranno sempre più nel pallone. Lo si è visto nell'ultima polemica sulla Resistenza e la Repubblica sociale. Il ministro della Difesa, Ignazio La Russa, ha detto una verità: i giovani che si arruolarono con Salò erano convinti di difendere la patria dagli anglo-americani. Lo erano anche quelli che poi passarono a sinistra. Però Veltroni sa rispondere soltanto attaccandosi all'osso dell'antifascismo. E l'anticomunismo, caro Walter? Già, ma Veltroni ci ha già spiegato di non essere mai stato comunista. E di non sapere neppure che cosa fosse il vecchio Pci.

(12 settembre 2008)


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