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Autore Discussione: Giampaolo PANSA...  (Letto 39235 volte)
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« inserito:: Giugno 08, 2007, 04:36:05 pm »

OPINIONI

BESTIARIO
Impotenti e arroganti così l'Unione va k.o.

di Giampaolo Pansa


Il fisco, i Dico, le pensioni: sì, hanno influito sul voto. Ma più di tutto ha pesato l'immagine di un baraccone parolaio e superbo 
È stato Piero Fassino a darci la spiegazione più schietta della batosta nordista che ha mandato al tappeto l'Unione. A Goffredo De Marchis di 'Repubblica', il leader dei Ds ha detto che la parte più dinamica del paese rifiuta "una politica che appare lenta, distante e sorda. E che soprattutto non sa decidere". Secondo Monica Guerzoni del 'Corriere della Sera', Fassino è stato ancora più secco: "Non si può andare avanti con un sistema che, dai Dico al tesoretto, non decide nulla".

Le parole di Fassino si sono guadagnate la prima pagina. Ma per i lettori de 'L'espresso' quella del leader Ds è una vecchia litania. Non è una novità che il ceto dirigente dell'Unione sia fatto di politici con due vizi mortuari: l'impotenza e l'arroganza. Esistono delle eccezioni, naturalmente. Ma il nocciolo duro delle dieci sinistre italiane più i loro alleati centristi è quella roba lì. E quella 'roba' gli elettori del Nord l'hanno rifiutata.

Chi gira l'Italia ha imparato a conoscerli bene i compagnucci del quartierino unionista. Spesso sono tanto ottusi da suscitare pena, prima ancora che avversione. Con chi non sta ai loro ordini, i compagnucci sono dei formidabili sepolcri imbiancati. Ti sorridono, fanno i complimentosi, giurano che sono d'accordo con te. Poi, appena giri le spalle, cercano di fregarti. Convinti che tu non conti un fico secco rispetto a chi, come loro, può vantare un piccolo potere.

Siamo alla sublimazione suicida del Complesso dei Migliori. Ecco un virus che ha contagiato anche sindaci grandi e piccoli. Ossia i politici che, più di chiunque altro, dovrebbero esserne immuni. Ne ho visti all'opera un paio di quelli che oggi hanno perso la poltrona considerata al sicuro da qualsiasi incursione del centro-destra. Signore e signori con la puzza al naso. Pronti a segare chiunque non avesse tutti i bollini della loro parrocchia. Chiedevi di partecipare a un dibattito? No, tu no. Speravi di poter esporre le tue ragioni nella loro città? No, tu no. Domandavi di essere messo a confronto con chi non la pensa come te? No, no, no.

Vi ricordate la bella canzone di Enzo Jannacci, 'Vengo anch'io, no tu no'? Era diventata il loro inno. Democratici a parole, autoritari di fatto. Un giorno stilerò un elenco con nomi e cognomi di questi pennacchioni arroganti. E anche impotenti. Ricordiamoci del lamento fassiniano: "Qui non si decide più nulla". Da Roma sino all'ultima città governata dall'Unione, l'imperativo di qualsiasi politica (scegliere, decidere) ha ceduto il passo al balbettio, alla rissa, alle giaculatorie lamentose, alla ricerca di qualche nemico esterno al quale addossare la colpa della paralisi che rischia di travolgere anche il povero professor Prodi.

Certo, sul voto di domenica avranno influito l'aumento della pressione fiscale, il contrasto insensato sui Dico, il rebus irrisolto della riforma pensionistica, la debolezza nel confronto con la corazzata dei sindacati. Per non parlare del dibattito surreale sul Partito democratico: farlo in fretta o adagio, eleggere subito il leader o no. Ma più di tutti ha contato l'immagine di un baraccone parolaio e superbo. Qualcuno ha osservato che i roghi della spazzatura a Napoli e dintorni (territorio dell'Unione) hanno influito più sul voto del nord che su quello del sud. Però ha avuto il suo peso anche la guerriglia smargiassa fra partiti che, trovandosi dentro lo stesso governo, dovrebbero almeno rispettarsi.

Ho davanti a me una prima pagina di 'Liberazione', il quotidiano di Rifondazione comunista. Attenti alla data: sabato 26 maggio 2007, vigilia del voto. Il titolone di apertura strillava: 'Fassino ama Bush e Montezemolo. Partito democratico o repubblicano?'. E l'occhiello spiegava: 'Il segretario Ds si fa scavalcare a sinistra da Berlusconi e poi loda Bush e il Vaticano, e boccia il programma del Gay pride'.

Che cosa può aver pensato un elettore del centro-sinistra, magari già incerto se votare o no? Immagino un pensiero corrosivo: se questa è un'alleanza, andate al diavolo tutti, mi rifiuto di votarvi.

Infatti, tra domenica e lunedì, l'astensionismo è cresciuto, stavolta a sinistra. Per le provinciali, su cento elettori soltanto 58 si sono recati alle urne. E il partito dell'astensione ha raggiunto un vertice mai toccato: il 42 per cento. Per le comunali, è andata un po' meglio: l'astensione è del 26 per cento. Ma non sappiamo niente delle schede bianche o nulle.

Ormai non siamo più all'allarme rosso. La sirena è suonata quando già le bombe cadevano. A questo punto, è inutile domandarsi se la lezione del 27-28 maggio servirà a qualcosa. La mia modesta opinione è che la legnata non servirà a nulla. Dentro l'Unione, i fratelli coltelli si stanno già rinfacciando la colpa di aver perso. Poi la sconfitta verrà archiviata in fretta. E il povero Prodi sarà obbligato ad andare avanti sulla zattera di Palazzo Chigi. In attesa che il primo branco di squali si mangi lui e il suo equipaggio da operetta.
 
 
 da espressonline
« Ultima modifica: Settembre 28, 2007, 10:55:58 pm da Admin » Registrato
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« Risposta #1 inserito:: Giugno 08, 2007, 05:15:26 pm »

«Entrambi i blocchi sono in sfacelo.

Il centrodestra non è messo meglio»

Lo strappo di Pansa: non sono più di sinistra «Coalizione spappolata.

Il Pd? Il mio Piemonte è rappresentato da Petrini».

Mi iscriverei al partito di Montezemolo 


ROMA — Sinistra, addio. «In Italia la sinistra non c'è più. È finita. Non lo dico io, lo dicono loro. Ci sono dieci sinistre, come riconosce lo stesso Fassino. Sta franando il Palazzo: viene giù tutto quanto, e li seppellirà. La Seconda Repubblica è morta. Comincia la Terza». Giampaolo Pansa non ha mai risparmiato critiche a quella che considerava la sua metà del campo. Ma lo faceva, appunto, da uomo di sinistra. «Ora non ci credo più. Non parlo più di sinistra e di destra perché sono categorie superate. Capisco i giovani, che non si riconoscono in un linguaggio antico. Se dovessi misurarli con le vecchie regole, allora direi che è di sinistra Montezemolo ed è di destra Bertinotti. Destra estrema, destra conservatrice». «In passato ho creduto in Prodi. Ora ho perso anche l'ultima illusione, e non per colpa sua. Prodi guida una coalizione spappolata. La sua presunta alleanza è un baraccone. Conosco le fatiche del Professore per arrivare in fondo a ogni giornata fatta di liti, ribellioni, piccoli ricatti: una lotta che piegherebbe dieci Maciste. Prodi oggi è prigioniero di una banda di folli. Un Gulliver legato da migliaia di lillipuziani. Non scommetterei uno stipendio sul fatto che arrivi al 2011».

IL CUOCO E IL MINISTRO DELL'AGRICOLTURA - Non è delle vicende personali che parla Pansa, gli attacchi e le solidarietà negate dopo essere stato costretto a interrompere le presentazioni dell'ultimo libro, La grande bugia. Di questo scriverà nel prossimo saggio, atteso per l'autunno. È l'attualità politica a indurre Pansa a questo passo. «Ho molta stima del direttore di Repubblica, ma non sono d'accordo con il suo ultimo editoriale. Ezio Mauro pensa che la politica e la sinistra possano ancora autoriformarsi. Io no. Né mi pare che il Partito democratico potrà indurmi a cambiare idea. Vedo che il mio Piemonte, la patria della sinistra italiana, la terra dove sono nati o si sono formati Gobetti, Gramsci, Togliatti, Terracini, Bobbio, è ora rappresentato da Carlin Petrini. Non da Chiamparino, uno dei rari politici seri, forse l'unico che possa presentarsi ai cancelli di Mirafiori senza essere subissato di fischi. Al suo posto ecco Carlin, che già il cuoco rivale Vissani indica come ministro dell'Agricoltura. Mi diranno che sono qualunquista. Mi viene da rispondere: evviva il qualunquismo. Evviva l'antipolitica. La politica italiana si è coperta di discredito con le sue stesse mani. Ha fabbricato la propria rovina».

ENTRAMBI I BLOCCHI SONO ALLO SFACELO - Pansa non crede che la via d'uscita possa essere il ritorno di Berlusconi. «Entrambi i blocchi sono in sfacelo. Il centrodestra non è messo meglio, e i risultati delle amministrative di oggi non cambieranno nulla. Quando sento Berlusconi indicare come capo del centrodestra italiano una ragazza come la Brambilla, l'istinto è di chiamare gli infermieri, che lo portino via. No, la destra no». Ad Antonello Piroso di La7 Pansa aveva detto di non voler più votare. «Ma mi riconoscerei in un governo di centro democratico — aggiunge ora —. Un sistema in cui, se suonano al campanello alle 4 di mattina, penso sia il lattaio molto in anticipo e non la polizia che mi viene a cercare». Allude a Visco? «Ma no. Non ho alcun timore: le tasse le pago tutte. Però ha ragione Cesare Salvi, quando dice al Corriere che il caso Visco è grave. O ha mentito il comandante della guardia di finanza, e allora dev'essere radiato dalle forze armate; o ha mentito Visco. E allora deve dimettersi»

MI ISCRIVEREI AL PARTITO DI MONTEZEMOLO - Sul Bestiario, uscito venerdì scorso sull'Espresso, Pansa ha avuto parole di speranza su Luca di Montezemolo. «Non sono tipo da folgorazioni. Ogni volta che lo vedo mi viene in mente la vecchia battuta di Fortebraccio: "Arriva Agnelli, scortato da Luca Cordero di Montezemolo, che non è un incrociatore". Però il suo discorso all'assemblea di Confindustria l'ho seguito per intero e mi è piaciuto. Il Bestiario l'avevo scritto prima; sono stato contento di aver trovato conferme. La crisi del sistema, il costo impazzito della politica, i mille impedimenti burocratici che avviluppano la vita dei cittadini: condivido. E non mi è dispiaciuto neppure il titolo che Sansonetti ha fatto su Liberazione: "Montez", come un conquistador. Magari! Se Montezemolo fondasse un suo partito, mi iscriverei subito. Sarebbe la prima tessera che prendo in vita mia. E penso proprio che "Montez" voglia scendere in politica, anche lui giura il contrario. Ma i vecchi partiti lo ammazzeranno. Tireranno fuori di tutto per usarlo contro di lui. Gli metteranno non i bastoni, ma le spade tra le ruote. Non lo lasceranno campare, né a destra né a sinistra». «Certo, l'ideale sarebbe che uno dei due blocchi, più facilmente il centrodestra, riconoscesse in Montezemolo il leader. E che Berlusconi si facesse da parte, o Prodi cercasse un'alleanza al centro. Ma le prime reazioni non lasciano presagire nulla di buono. Prodi ha commesso un errore clamoroso. Avrebbe dovuto fare propria la critica alla politica e ai suoi costi. Invece se n'è uscito con un sussiegoso "si commenta da solo". Ma come si fa! Da juventino, mi sono chiesto per tutta la stagione perché Deschamps non facesse giocare Bojinov, un fuoriclasse. Allo stesso modo mi chiedo: perché Mario Monti deve occuparsi solo dei convegni alla Bocconi? Non sarebbe un ottimo ministro dell'Economia? E Mario Draghi, deve fare tutta la vita il governatore della Banca d'Italia, o non potrebbe spendersi come premier di un governo? Purtroppo la vecchia politica, e anche le tante vecchie sinistre, sono pronte a tutto, pur di difendere il proprio potere residuo. Per proteggere la loro stessa agonia».

UN ADDIO ALLA SINISTRA NON DOLOROSO - È un addio, quello di Pansa alla sinistra, che si immagina doloroso, sofferto. «Invece sono tranquillissimo. Questi sono gli scabri pensieri di un signore che a ottobre compirà settantadue anni. Faccio il giornalista da quasi mezzo secolo, dall'età di ventun anni sono sempre andato a votare, e ho sempre votato o a sinistra o per il centrosinistra. A volte penso che sono troppo anziano e capita anche a me di cominciare ad avere idee che non condivido. Però, se devo fidarmi delle reazioni di cui mi accorgo quando dico le mie cosacce, siamo davvero in tanti, e anche molto più giovani di me, a pensarla nello stesso modo».

Aldo Cazzullo
27 maggio 2007
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« Risposta #2 inserito:: Giugno 08, 2007, 05:16:12 pm »

BESTIARIO

Ma esiste un nostro Sarkozy?
di Giampaolo Pansa


Da Draghi a Montezemolo. Da Giavazzi a Illy. Che sia autorevole e anche un po' autoritario  Luca Cordero di Montezemolo presidente della Confindustria Può esistere un Sarkozy anche in Italia? Prima di rispondere a una domanda che si pongono in tanti, bisogna fare un piccolo passo indietro nel tempo. E tornare a domenica 20 maggio, giorno di festa anche perché sul 'Corriere della sera' appare una lunga intervista a Massimo D'Alema, scritta da Maria Teresa Meli. Tra la sorpresa di molti, Baffino d'Acciaio dice che il sistema dei partiti italiani rischia una crisi simile a quella di Tangentopoli. E questa volta non per la corruzione, ma per il vecchiume della politica. Dunque, allarme rosso! I dinosauri (immagine mia) stanno per estinguersi. Chi verrà dopo di loro?

Ma l'allarme dalemiano ha un difetto: quello di suonare in ritardo. La crisi di sistema è già in atto. I dinosauri stanno tirando le cuoia. Alcuni si credono ancora vivi e invece sono morti. Due di loro, i Ds e la Margherita, hanno deciso di scomparire, sperando di reincarnarsi in una bestia nuova, il Partito Democratico. Insomma, roba già scritta, anche nel Bestiario. Ma i politici non leggono i giornali. Di solito, li buttano nel cestino, borbottando le solite litanie: qualunquismo, disfattismo, antipolitica.

Tuttavia le giaculatorie non cancellano la verità.

Osserviamo le condizioni dei due blocchi in cui è diviso il paese. Sono allo stremo, boccheggiano, non respirano più. Il centro-destra perde i pezzi (Casini, forse Bossi). Forza Italia e An stanno incollati con lo sputo. Il Partito delle Libertà resta un'utopia. Il leader di oggi, Berlusconi, è sempre più stanco. E senza erede. Può esserlo Michela Vittoria Brambilla? Forse sì, quando la settimana avrà tre giovedì.

Il centro-sinistra non sta meglio. Prodi governa una nave che non lo riconosce più come il comandante. Gli ammutinati aumentano di giorno in giorno. E tutti passano il tempo a scannarsi. Le sinistre dell'Unione sono diventate dieci. Contando i restanti partitini, si arriva a dodici, tredici coabitanti. Ecco un'alleanza senza avvenire. È possibile immaginare che regga sino al 2011? A me vengono i brividi.
 

Che cosa si può fare perché il sistema non crolli del tutto? Una strada maestra c'è. Il primo passo è varare subito una nuova legge elettorale che, come minimo, garantisca un bipolarismo assai più solido di oggi. E tolga di mezzo lo sfasciume dei piccoli partiti capaci soltanto di ricattare qualunque alleanza. Il secondo passo è di andare a votare appena fatta la legge nuova. Il terzo è di andarci con schieramenti diversi da quelli dell'aprile 2006.

Voglio essere chiaro, senza giri di parole. Il Partito Democratico, se mai nascerà, deve tagliare i ponti con le sinistre radicali, quelle 'inutili per governare' come le ha definite tempo fa D'Alema. E insieme a qualche alleato, penso ai socialisti e ai radicali, deve stringere un patto con una parte del centro-destra. Con Casini, prima di tutto. Ma non soltanto con lui. È possibile farlo? E i numeri per vincere le elezioni ci saranno? Credo di sì, a una condizione: che tutto questo avvenga in una situazione nuova, molto diversa da quella d'oggi.

La situazione nuova è una sola: l'emergere di altri leader politici e di un altro personale di governo, in grado di ridare agli italiani un po' di fiducia nella politica e un po' di voglia di andare a votare. E qui si arriva al rebus del Sarkozy italiano. Oggi non c'è. Ma potrebbe esserci domani. Se un gruppo di eccellenti, ora distanti dalla politica dei partiti, vorrà compiere un atto di coraggio. Lo stesso che fece Berlusconi nell'autunno del 1993, scendendo in campo.

Cercate dei nomi? Eccoli. Mario Draghi, oggi governatore di Bankitalia. Avrebbe le capacità di guidare un governo? Penso di sì, ma deve essere così generoso e altruista da mettersi alla prova. Un altro è Luca Cordero di Montezemolo. Dicono che spasimi di entrare in politica. Se è vero, si decida. Un altro ancora è Padoa-Schioppa: è già ministro e può giocare la partita in prima persona.

Sto parlando di tecnici? Certo, l'Italia di oggi ha un gran bisogno di loro. Ha bisogno di Mario Monti, di economisti come Giavazzi e Boeri, di giuristi come Ichino e Ceccanti, di politici-tecnici che amministrano grandi macchine comunali o regionali: Chiamparino, Cofferati, Illy, Soru, Mercedes Bresso. E metto nel conto pure i direttori dei due maggiori quotidiani, Ezio Mauro e Paolo Mieli. Anche loro potrebbero fare una scelta di vita sorprendente.

Sto immaginando una squadra di centro democratico? Ebbene sì. Se i partiti non uccideranno nella culla questi e altri leader nuovi, il Sarkozy italiano lo vedremo nascere da solo. Autorevole e anche un po' autoritario. Quello francese ha appena stabilito che gli studenti diano del 'voi' ai professori. E si levino in piedi quando l'insegnante entra in classe. La misura non mi è nuova. Nel 1960, alla 'Stampa', se il direttore Giulio De Benedetti appariva nel salone dei redattori, ci alzavamo. E finché lui non ordinava "Signori, seduti!", restavamo sull'attenti davanti al gran capo.

(25 maggio 2007)
da  espressonline
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« Risposta #3 inserito:: Giugno 19, 2007, 10:47:14 pm »

BESTIARIO

E adesso il Parolaio farà cadere il Prof
di Giampaolo Pansa

A Fausto Bertinotti e a Rifondazione importa nulla della governabilità. Se è il partito a rischiare, il centro-sinistra vada pure in malora 
Un vecchio proverbio recita : se l'asino è spelato, tutte le mosche gli vanno addosso. Quanto sia spelato il centro-sinistra ce lo ricorda uno studioso indipendente: Luca Ricolfi, l'autore del 'Complesso dei migliori'. Intervistato da Giuseppe De Filippi del Tg5, ha stilato una diagnosi secca, in due punti. Primo: in queste elezioni amministrative, due milioni di elettori sono passati dalla sinistra alla destra. Secondo: oggi il centro-destra ha 11 punti di vantaggio sul centro-sinistra, il 55,5 per cento contro il 44,5.

Sull'Unione spelata si stanno gettando un bel po' di mosche. L'ultima è la mosca del ridicolo, emersa dalle intercettazioni sul caso Unipol. Fa ridere il gelido D'Alema che strilla a Consorte: "Facci sognare, vai!". Persino Corradino Mineo, capo di una Rai News tutta rossa, ha chiosato: "D'Alema ha confuso Consorte con Totti". Però ci sono ben altre mosche all'assalto. E sono quelle che annunciano non risate, ma catastrofi.

Al campo dei disastri appartiene la crisi esplosa dentro Rifondazione comunista. C'è innanzitutto una crisi elettorale. Il 27-28 maggio, Rc è uscita dalle urne con le ossa rotte. Voti dimezzati o ridotti al lumicino. Il segretario, Franco Giordano, è stato lapidario: "Ci hanno sradicato dal Nord". Subito dopo, i rifondaroli rimasti comunisti integrali si sono scatenati contro il quotidiano del partito, reo di aver pubblicato un articolo obiettivo sul regime di Castro a Cuba. Poi è arrivato il flop del sit-in pacifista di Rc a Roma: un raduno di pochi amichetti dell'asilo Mariuccia, rispetto all'imponenza aggressiva del corteo antagonista.

Infine ecco l'uscita da Rc del deputato Salvatore Cannavò, leader della corrente di Sinistra critica. Intervistato da Fabrizio Roncone del 'Corriere della Sera', Cannavò rivela con chiarezza che altri del suo gruppo lo seguiranno. E accusa Fausto Bertinotti di essere il responsabile numero uno del fallimento che ha messo alle corde il partito. Cannavò è spietato: i dirigenti di Rc "provano a risolvere il problema della loro debolezza alleandosi con altri deboli: con i Verdi, con il Pdci, con i mussiani. Sa come finirà? Diventeranno la corrente esterna del Partito democratico".

Un comandamento del giornalismo americano spiega che gli articoli non debbono mai puzzare di 'io l'avevo detto'. Ma per una volta il Bestiario infrange la regola. Mesi e mesi fa, mi ero messo a scrivere di 'sinistre regressiste' e non di 'sinistre radicali'. Adesso vedo che lo dicono anche Massimo Cacciari e il D'Alema del facci sognare. Mentre mi beccavo le bastonate verbali di tanti compagnucci duri e puri, mi consolavo pensando: prima o poi, si mazzoleranno tra loro. Ed eccoci arrivati al teatrino dei pupi rossi, che cominciano a darsele di santa ragione.

Il guaio per il paese è che, prestissimo, stanchi di picchiarsi in famiglia, inizieranno a pestare su Prodi e sul suo governo. Non ci vuole molto acume per prevedere quanto accadrà. Al Parolaio Rosso e a Rifondazione non gl'importa nulla della governabilità. Se è il partito a rischiare, che vada pure in malora il centro-sinistra. Metto nero su bianco un pronostico: il Parolaio e i suoi compagni faranno cadere Prodi. È questa la catastrofe in arrivo.

Franco Giordano l'ha già spiegato a Goffredo De Marchis di 'Repubblica': "A Prodi voglio dire una cosa sola: non si può più stare in mezzo al guado. Bisogna difendere il nostro blocco sociale di riferimento e avviare una politica di risarcimento sociale. Altrimenti saremo travolti tutti". E ancora: "La prossima volta, staremo con i movimenti, anche se la piattaforma non dovesse convincerci". Traduzione: bisogna mollare il Professore e ritornare alla lotta in piazza, con Casarini & C.

Se Bertinotti è sotto processo, Prodi rischia la condanna senza neppure passare per un tribunale. Vorrei sbagliarmi, ma la sua fine è gia cominciata. Le eminenze rifondarole lo annunciano in tutte le interviste. E avvertono che ci sono almeno quattro agguati pronti per il Professore: le pensioni, il Documento di programmazione economica e finanziaria, la legge elettorale e le nuove liberalizzazioni.

La sinistra regressista si prepara ad alzare il prezzo di qualsiasi accordo. Le mosche ronzano minacciose. Pretendono "una netta inversione di tendenza, uno scarto, un salto di qualità sulla politica economica e sociale". Qualcuno risuscita gli 'equilibri più avanzati', la formula che portò iella al Psi anni Settanta. In fondo, il più schietto è Giorgio Cremaschi, leader Fiom e rifondarolo minoritario: "Se vuole sopravvivere, Rifondazione deve emanciparsi da Bertinotti e soprattutto porsi il problema di uscire dal governo".

Ma se Rc decide di andarsene, il governo Prodi va a ramengo. È un film che abbiamo già visto nel 1998. Allora al Prof subentrò D'Alema e la baracca resse per un po'. Però, oggi, Max non è il Superman di un tempo. Sta sotto scacco, per una legge diabolica: il ridicolo ne uccide più della spada.

da espressonline.it
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« Risposta #4 inserito:: Giugno 25, 2007, 06:58:03 pm »

OPINIONI

BESTIARIO

Il Prof pianti tutti e se ne torni a casa
di Giampaolo Pansa


I partiti dell'Unione si danno da fare per screditare il premier. Romano Prodi vuole davvero lasciarsi distruggere da questo complotto al rallentatore? 
Ho una domanda da fare a Romano Prodi. Ma soltanto dopo aver ricordato l'ultima perlustrazione del campo di battaglia sul quale il Professore sta lottando da un anno. All'inizio con il sostegno, convinto o meno, dei suoi tanti alleati dell'Unione. E poi, via via, alle prese con un numero crescente di defezioni sul fronte interno.

In questi giorni, gli esiti della ricognizione sono allarmanti. Un sondaggio, voluto dall'Ulivo, rivela che il centro-destra è in vantaggio di 18-19 punti rispetto al centro-sinistra. Un altro sondaggio, più limitato, condotto da Ipsos per il 'Sole-24 Ore' su un campione delle imprese italiane, dice che il 73 per cento delle aziende intervistate boccia il governo.

Dall'inchiesta si apprende quanto sia cambiata l'opinione delle imprese rispetto al sondaggio precedente, compiuto nel febbraio 2006, alla vigilia delle elezioni. Allora il 29 per cento degli intervistati aveva dichiarato di voler votare per il centro-sinistra contro il 42 per cento che optava per il centro-destra. Oggi la forbice si è allargata: quel 29 per cento di favorevoli al governo Prodi si è ridotto al 21 per cento. Mentre i tifosi del centro-destra sono saliti al 61 per cento.

Qualcuno dirà che è la scoperta dell'acqua calda: è ovvio che i padroni stiano a destra. Ma il guaio è un altro. Ed è paradossale. Se si trattasse di una guerra vera, il guaio avrebbe un nome solo: tradimento. Infatti anche gli alleati stanno abbandonando Prodi. Ormai l'attacco che il Prof subisce viene da tre fronti: Berlusconi, le sinistre riformiste e le sinistre regressiste o radicali.

I riformisti, a cominciare dai Ds, scaricano su Prodi le difficoltà interne e il crack d'immagine che rischia di travolgere due dei loro leader, Piero Fassino e Massimo D'Alema. Ad Aldo Cazzullo, del 'Corriere della Sera', lo ha spiegato fuori dai denti uno dei consiglieri del premier, Angelo Rovati: "Noi siamo i primi a farci del male. C'è una malcelata insopportazione nei confronti di Prodi. Ma allora io chiedo: perché non glielo dicono in faccia? Siano espliciti: caro Prodi, ci hai rotto le scatole, non vai più bene, c'è bisogno di altro".

Sul versante delle sinistre regressiste, il mugugno si è fatto minaccioso. E le loro richieste hanno ormai il tono dell'ultimatum: niente Tav, niente raddoppio del Dal Molin, niente scalone, niente Dpf se non garantisce il risarcimento sociale. Su 'Liberazione' di domenica 17 giugno, un deputato di Rifondazione, Ciccio Ferrara, è stato arrogante ("Siamo noi la maggioranza dell'Unione, l'Unione materiale") e insieme molto schietto sulle mosse future del suo partito. Ha scritto: "Staremo con i movimenti, oggi e domani. Al governo ci siamo oggi per far incidere i movimenti nelle scelte. Domani, vedremo. Il governo non è il fine della nostra politica. Il fine della nostra politica è la trasformazione della società".

Penso che Prodi si renda conto di essere diventato la preda di un gioco spietato. Quel che si vede supera anche la testimonianza di Rovati. Su entrambi i versanti del centro-sinistra, i partiti maggiori sono a rischio: per il fatturato elettorale che scende e per il discredito che sale. Ma qualsiasi partito, quando fiuta il pericolo, diventa un animale selvaggio. Pur di salvarsi, è pronto a tutto. Anche a demolire l'immagine del premier che ha scelto e al quale ha affidato il governo. È questo che sta avvenendo sulla pelle di Prodi. Dipinto dagli alleati come un premier insufficiente, traccheggiatore, incapace di decidere, un muro di gomma. Siamo al limite della congiura.

A questo punto, ecco la domanda che rivolgo a Prodi: vuole davvero lasciarsi distruggere da questo complotto al rallentatore? È davvero deciso a barricarsi dentro Palazzo Chigi, nella convinzione che, oggi, non esista né un altro premier né un governo diverso al suo? Prodi sa bene che questa certezza non ha fondamento. E che, nel caso di una crisi, lo sbocco c'è: un governo istituzionale o 'del presidente'. Come il ministero formato nell'aprile 1993 da Carlo Azeglio Ciampi, in piena Tangentopoli. Quel 'governo del presidente', voluto da Oscar Luigi Scalfaro, in agosto aveva già approvato la nuova legge elettorale. E restò in carica sino alla metà del gennaio 1994, per poi lasciare il passo a nuove elezioni politiche.

Non conosco i calcoli di Prodi. Ma non riesco a immaginare che abbia deciso di morire da prigioniero delle mura di Palazzo Chigi. Questo palazzo non è la remota fortezza Bastiani del romanzo di Dino Buzzati, dove il tenente Drogo aspettava l'assalto dei tartari che non arrivavano mai. I tartari dell'Unione sono già all'interno del palazzo. È bene che Prodi ne prenda atto. E salvi se stesso con un gesto che spiazzi tutti: andarsene, piantando in asso gli alleati infedeli e spiegando agli italiani le ragioni della sua scelta. Lo faccia, prima di essere stritolato da una partitocrazia imbelle, che non lo merita. A volte la rinuncia è un atto supremo di coraggio.

da espressonline.it
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« Risposta #5 inserito:: Giugno 30, 2007, 07:31:58 pm »

La favola del Perdente di successo
di Giampaolo Pansa


Veltroni ha alle spalle più sconfitte che vittorie. Eppure è sempre stato capace di rialzarsi dalla polvere per risalire sull'altare 
Candidato naturale alla guida del Pidì o scelta obbligata di una Quercia in agonia? Uomo nuovo o 'vecchio arnese' (Berlusconi dixit)? Io vedo Walter Veltroni come un esempio luminoso del Perdente di successo. Un politico con alle spalle più sconfitte che vittorie. Eppure capace di rialzarsi dalla polvere per risalire sull'altare. Restando sempre uguale a se stesso: un piacione che ama piacere, un favolatore che illude la gente, un conciliatore degli inconciliabili. E dunque un leader inadatto a un'Italia in declino che ha bisogno di capi severi, dalla parola aspra e dalle scelte crudeli.

Ho visto giusto? Non lo so. Su Walter ho scritto migliaia di righe e ne ho lette qualche milione. E il troppo inganna. Le mie cronache su di lui iniziano nella primavera del 1994. Achille Occhetto ha perso le elezioni contro il Cavaliere e deve lasciare le Botteghe Oscure. Baffo di Ferro non vuole cedere lo scettro a D'Alema. Così decide di gettargli tra le gambe un candidato a sorpresa: Veltroni.

In quel momento, Walter non ha ancora 39 anni ed è soltanto il direttore dell''Unità'. Tre messi occhettiani (Piero Fassino, Claudio Petruccioli e Fabio Mussi) cominciano a costruire la sua candidatura. Sembrano farlo a dispetto del candidato. Che giura di non aspirare al Bottegone: "Il mio lavoro è, e resterà, quello di dirigere il nostro giornale".

In realtà, Walter si vede già alla guida del partito. Il 22 giugno spiega a Barbara Palombelli di 'Repubblica': "Il mio sogno? Un milione di persone in piazza. E non per salutare qualcuno che se ne va, ma per festeggiare qualcosa che comincia. Sogno una sinistra unita, che ritrova le ragioni della speranza, riaccende un fuoco, riscopre ideali".

I due candidati non potrebbero essere più diversi. D'Alema è superbo, brusco, dentuto con i giornali. Quando un cronista gli chiede se ha stretto un patto di non aggressione con Veltroni, replica gelido: "Sono cazzi nostri". Veltroni è il buonista gaudioso. E fa spallucce quando un amico lo grattugia così: "Walter, se vuoi essere un numero uno, devi smetterla di dar ragione a tutti".

Il sogno si dissolve il 1 luglio 1994, alla Fiera di Roma. Il Consiglio nazionale elegge segretario D'Alema. Walter incassa con il sorriso sulle labbra. Dice ad Alberto Statera della 'Stampa': "Mi vede pallido, ma è colpa della dieta. Ho perso tredici chili in un mese e mezzo". Poi telefona alla figlia Martina: "Allegra, zio Massimo ci ha salvato le ferie!".

Walter rimane a guidare 'l'Unità'. Fa un bel giornale che non ha nulla del foglio di battaglia. Mai ruvido con gli avversari. Niente campagne-carogna. Articoli intelligenti e spesso inutili. Il Museo dei bidoni. Dalla trota pelosa allo yeti. L'artigiano che fabbrica alabarde per il cinema. Professione sub, un sessantottino sotto il mare. E via cazzeggiando, per la rubrica 'Chi se ne frega' del maledetto 'Cuore'.

Ma il Perdente cerca la rivincita. Ne ottiene una nell'estate del 1995. Vittoria d'immagine, con il libro 'La bella politica'. Trionfo di pubblico e di critica. Persino Romano Prodi non si sottrae all'obbligo del santino. Geloso, D'Alema scrive anche lui un libro: sessanta pagine sull'Italia normale. E i due testi diventano la canzone dell'estate in tutte le feste dell'Unità.

A quella nazionale gareggiano le coppie D'Alema-Maurizio Costanzo e Veltroni-Giovanni Minoli. Una kermesse di luci della ribalta, selve di telecamere, recensioni lecchine. Ma è in agguato la destra, nella persona di Vittorio Feltri, direttore del 'Giornale'. Che in agosto attacca su un fronte imprevisto: Affittopoli.

Walter, sia pure non da solo, perde un'altra volta. Anche lui è tra gli inquilini delle case offerte ai vip dagli enti previdenziali. E va fuori dai fogli. Ricordo una telefonata furibonda all''Espresso': "Pure voi ci avete preso a calci in faccia!". Gli dico: perché non replichi sull''Unità'? La risposta mi lascia secco: "Non posso, perché noi siamo un giornale d'informazione".

È una fine estate violenta. Walter ha lo sguardo smarrito del tacchino inseguito dal cuoco. Ma si riprende presto, convinto della sua buona stella. Siamo alla primavera del 1996. Prodi lo fa correre con lui. Walter vorrebbe candidarsi nel collegio sicuro di Suzzara. Poi D'Alema, dal Bottegone, lo strattona. E Walter affronta la battaglia a Roma 1, contro il magistrato Filippo Mancuso.

È un match da film dell'orrore. Il più perfido del Polo contro il più buono dell'Ulivo. A vincere è Walter. Il compagno di banco che ti fa copiare il compito. Il vicino di casa che accorre quando il tuo lavandino perde. Uno dei suoi slogan, dedicato all'ambiente, sembra fabbricato per lui: 'Chi lo ama è riamato'.

Ma dovrà sopportare il ritratto al curaro che Mancuso affida a Francesco Merlo, del 'Corriere': "Veltroni è un elencatore di luoghi comuni, parla di cose che non sa, cita libri che non legge, è un anglista che non conosce l'inglese, un buonista senza bontà, un americano senza America, un professionista senza professione".

Prodi lo porta con sé a Palazzo Chigi. Ci staranno per poco. Il 9 ottobre 1998 il governo cade. Al Professore subentra D'Alema. E Walter, sconfitto come vice-premier, trova una via d'uscita grazie a Max che lo designa a succedergli come segretario dei Ds. Ancora una volta perdente di successo, Walter viene eletto da una maggioranza bulgara: l'89,1 per cento.

Quattro giorni prima, Walter visita in carcere Adriano Sofri, con Pietrostefani e Bompressi. E auspica la revisione del processo per l'assassinio del commissario Calabresi. Poi va a raccogliersi sulla tomba di don Giuseppe Dossetti, l'icona della sinistra dicì. Carcerati, morti ammazzati, sepolcri di sant'uomini. La spalla di Walter, Pietro Folena (oggi rifondarolo) s'affanna a spiegare: la nostra è attenzione alle problematiche della sofferenza e contaminazione di culture. Ma c'è chi si chiede: l'epoca di Walter al Bottegone sarà di sangue versato e di lacrime a gogò?

L'anno successivo il sangue comincia a versarlo il partito. Elezioni europee del 13 giugno 1999: rispetto alle politiche del 1996, i Ds perdono per strada due milioni e mezzo di elettori. Al Nord sono ridotti al 13,1 per cento. Forza Italia svetta. In tivù compare un Veltroni disfatto, i capelli ritti, il famoso neo quasi a ciondoloni.

Come non capirlo? Eccolo descrive- re il suo partito, nel luglio di quell'anno: "Gracile, arrogante, ha sostituito il centralismo democratico con il casino. Siamo pieni di intrighi, di correnti, di lotte. Sono spaventato da una Quercia ricca non di opinioni diverse, ma di guerre intestine". Quindici giorni prima, i Ds hanno perso il Comune di Bologna, la roccaforte rossa.

Passano sei mesi e, il 15 gennaio 2000, Walter è rieletto segretario dei Ds al congresso di Torino. Ma la Quercia è in pieno marasma da clan. Ulivisti puri. Miglioristi superstiti. Veltroniani. Dalemisti. Pontieri. Sinistra tenera. Sinistra dura. Laburisti. Cristianosociali. Sinistra repubblicana. Comunisti unitari. E riformatori per l'Europa.

Morale: il 16 giugno di quell'anno una nuova batosta per Ds e alleati. Sconfitti in otto regioni su quindici. Il giorno dopo D'Alema si dimette da premier, lasciando la poltrona a Giuliano Amato. Walter è sotto accusa, anche se quel disastro non può essere addebitato soltanto a lui. Ma è in quell'estate, forse, che il Perdente di successo medita la sua exit strategy: uscire dall'agone nazionale e rintanarsi a Roma.

L'occasione si presenta all'inizio del gennaio 2001. Il sindaco della capitale, Francesco Rutelli, si dimette per guidare il nuovo scontro con Berlusconi, previsto per maggio. Walter si candida subito a succedergli. Come è possibile? Il leader dei Ds che si rifugia in un municipio? In realtà, Veltroni ha annusato un'altra catastrofe. E non vuole perire sul campo.

La catastrofe arriva alle politiche del 13 maggio. Vittoria schiacciante di Forza Italia. I Ds sono al minimo storico: 16,6 per cento. Lo stesso giorno, Walter si batte contro Antonio Tajani. Ma diventa sindaco di Roma soltanto due settimane dopo, al ballottaggio. Il Perdente di successo l'ha scampata bella. Ha vinto in casa, però ha vinto. E bisserà la vittoria nel 2006, con un margine molto ampio.

Roma capoccia e ladrona è ormai sua. L'astuto Walter ne farà la rampa di lancio per nuove avventure. Al partito ci pensi quel piemontardo faticone di Fassino. Piero verrà eletto segretario a Pesaro, il 16 novembre 2001. E troverà all'opposizione proprio Walter, capo ombra del Correntone di sinistra.

Adesso, come nel gioco dell'oca, si ritorna alla casella di partenza. I due avversari storici di Walter lo candidano alla guida del Pidì. È l'auspicato rinnovamento? Direi di no. Siamo ai soliti tre attori di tanti spettacoli nel Teatro della Quercia. Dunque ci vorrebbero altri competitor nelle primarie. Difficile, ma non impossibile, che emergano. Comunque, smettiamola con i requiem anticipati per Prodi. Non è elegante. E disturba molto anche gli scettici come me.
 
da espressonline
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« Risposta #6 inserito:: Settembre 02, 2007, 11:38:40 am »

BESTIARIO

Fuoco su Veltroni Poi toccherà a Prodi?
di Giampaolo Pansa

I piromani della sinistra regressista sparano bordate sul candidato leader del Pd. E non risparmiano il Prof 
Da piccolo abitavo in una casa di ringhiera. Le ringhiere, lo dico per i più giovani, sono lunghi balconi che percorrono il perimetro interno di un palazzo. Da quelle dei piani alti, si poteva osservare la vita del caseggiato e sapere tutto di tutti. Sotto di noi viveva una coppia di coniugi stagionati. Si odiavano, ma per mille motivi non potevano separarsi. Così, ogni giorno, si combattevano e non solo con le parole. Si sputtanavano. Si pestavano. Lui tentò anche d'incendiare lei, versandole addosso dell'alcool con un po' di fiammiferi accesi. Ma si pentì all'istante e soffocò il fuoco. Un piromane a metà, rispetto a quelli che oggi fanno strage dei boschi.

Quella coppia scassata mi ricorda il centro-sinistra in questa fine d'agosto. I due blocchi che lo compongono non possono dividersi. Ci sarebbero subito nuove elezioni e Silvio Berlusconi vincerebbe a mani basse. Così devono limitarsi alle risse da ringhiera e agli sputi in faccia. La loro guerriglia ricomincia ogni mattina sui giornali. E lascia stupefatto anche un vecchio ronzino della cronaca politica come il sottoscritto. Neppure al tempo dei pentapartiti più litigiosi avevo visto un bordello tanto nauseante. Per di più, senza via d'uscita. Un suicidio che non si conclude mai.

Entrando nei dettagli, bisogna dire che l'assalto più rabbioso va in un senso solo: dalla sinistra regressista verso la sinistra riformista e il centro dell'Ulivo. La bastonatura verbale ha stili diversi. C'è quello compassato, alla Cesare Salvi: "I duri e puri del centrismo avanzano. Ma dicano con chiarezza che cosa vogliono. Andare a votare? Cambiare alleanze?". C'è il modello gelido, alla Paolo Ferrero: "Il vero obiettivo di Rutelli e Veltroni è abbandonare il programma e realizzare una svolta centrista". C'è l'accusa ideologica, alla Giovanni Russo Spena: "Veltroni prefigura una società degli individui che è un vero abbandono di campo per la sinistra". C'è l'urlaccio sguaiato, alla Marco Rizzo: il Partito Democratico si muove "nel solco della P2, contribuendo a realizzare il programma di Licio Gelli".

Ma a superare tutti è una signora: Manuela Palermi, capogruppo al Senato dei Comunisti Italiani e dei Verdi. Intervistata da Matteo Bartocci del 'manifesto', ha picchiato col pugno di ferro: "Rutelli è un bugiardo e un moderatissimo. Del resto, viene dai radicali, un partito che ha in odio i lavoratori, guerrafondaio e filopadronale. Con lui ci sono tanti opportunisti della vecchia Dc. Il loro obiettivo è l'accordo con Forza Italia. Vogliono far saltare il governo e creare un esecutivo di salute pubblica insieme a Berlusconi". Anche nel Partito Democratico, "in tanti portano avanti questo obiettivo. Con un cinismo e una spregiudicatezza che non mi aspettavo così pesanti". E sempre sul Pidì: "Nessuno potrà governarlo. Non è un partito, ma un'arena dove si è persa ogni solidarietà reciproca".

Le sinistre regressiste sono in tilt. Per colpa del Pidì, ancora da nascere e già da bruciare. Per i piromani di Rifondazione, l'uomo da ridurre in cenere è Superwalter, visto sempre in combutta con il fellone Rutelli. Martedì 28 agosto, il servizio di apertura di 'Liberazione' era dedicato al "mito del buon Pd", ovvero al "volto feroce del Partito Buonista". Su Veltroni veniva stilato un altro capo d'imputazione da tribunale di guerra: apprezza Sarkozy, disprezza i sindacati, vuole un partito intriso di cattiveria, anzi violento, è così impudente da ridurre Bruno Trentin a un concertatore che piaceva alle imprese. "Qualcuno arriverà a rimpiangere Fassino" concludeva 'Liberazione'.

Non penso che Veltroni debba guardarsi da Rosy Bindi e da Enrico Letta, i suoi competitori nelle primarie. Come prevede il sondaggio pubblicato da noi, Superwalter vincerà con più del 70 per cento dei voti. Ma il suo percorso verso il trionfo sarà tormentato dai mille agguati dei neocomunisti. La sinistra regressista, in crisi anche per le difficoltà di mettere insieme la Cosa Rossa, glie la farà pagare cara. Le bordate che già sparano contro di lui (gollista, conservatore, oligarca, neoliberista, in combutta con costruttori, editori di giornali, sanità privata e Vaticano) sono buffetti rispetto alla robaccia che Walter si vedrà arrivare addosso.

Resta da chiedersi se i piromani delle quattro sinistre daranno fuoco pure al governo Prodi. Il Bestiario ritiene di no. O almeno staranno attenti a circoscrivere le fiamme per non farle arrivare a Palazzo Chigi. Siamo di fronte a un paradosso, una volta tanto positivo: più l'Unione si scanna in una parodia grottesca della guerra civile, più il Professore si rafforza. Per un motivo chiaro: è Romano l'unico baluardo contro il ritorno di Silvio. Lo staff prodiano dice: soltanto un incidente al Senato può far cascare il Prof. Certo, gli incidenti si evitano con il buonsenso. Ma è noto che i piromani di buonsenso non ne hanno. A loro piacciono le fiamme. Comprese quelle che possono bruciargli le chiappe.


da espressonline.it
« Ultima modifica: Settembre 08, 2007, 09:16:25 pm da Admin » Registrato
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« Risposta #7 inserito:: Settembre 08, 2007, 09:15:55 pm »

BESTIARIO

Il silenzio della Casta
di Giampaolo Pansa


La classe politica pensa di essere ancora fortissima. Ma gli italiani rimasti fuori dal suo recinto non stanno ad ascoltarla perché non credono più a quel che si sentono dire  Pier Ferdinando CasiniEra un saraceno infuriato, Massimo D'Alema. Ma come al solito, anzi, più del solito, la sua furia era del genere freddo, senza urla né gestacci. Sedeva sul palco del Teatro Parioli con la mano destra schiacciata ad artiglio dentro il divano azzurro. E a ogni parola, scrisse un cronista dell'epoca, le unghie vi affondavano sempre di più. Come se quel cuscino, dove la sera prima stavano i pregevoli glutei di Miss Italia, potesse trasformarsi nel collo morbido di qualcuno. Un collo, aggiungo io, da strozzare.

Quella sera, il martedì 5 settembre 1995, Max era da quattordici mesi segretario del Pds. Aveva 46 anni, e il capello e il baffo intensamente neri. Davanti a lui troneggiava un Maurizio Costanzo di taglia fortissima: il padrone di casa, la casa del Costanzo Show. La balia astuta non aveva bisogno d'incitare il pargolo. Infatti, D'Alema fece tutto da solo. Annunciò che aveva deciso di lasciare l'appartamento ricevuto in affitto da un ente pubblico, l'Inpdap, a equo canone (633 mila lire mensili, 327 euro di oggi, per 185 metri quadrati). E che si sarebbe cercato una casa nuova. Stroncando la polemica che lo riguardava.

Erano i tempi di Affittopoli, lo scandalo messo a nudo da Vittorio Feltri, che allora dirigeva 'il Giornale'. Fu magistrale la mossa di D'Alema. Anche se non tappò la bocca a noi giornalisti che, diceva lui, gli davamo la caccia. Una brutta razza, "barbarica", dedita alla "cultura della violenza e dell'intimidazione". Insomma, "squadrismo a mezzo stampa", come scrisse su 'Repubblica'. Un'accusa, quest'ultima, che il compagno Max aveva copiato da un avversario ormai al tappeto, Bettino Craxi. Che qualche anno prima s'era spinto a bollarci come "squadristi della carta stampata".

D'Alema forse non lo sapeva. Ma noi dello squadrismo cartaceo godevamo nell'ascoltare la sua reprimenda. Anche perché ci veniva dal politico più tosto di quel momento. E nel godere, ci fregavamo le mani, aspettando che qualche altro dei big coinvolti si presentasse da Costanzo per annunciare che pure lui lasciava l'alloggio privilegiato. Però nessuno si presentò. E nessuno abbandonò la casetta sua.


Adesso, dodici anni dopo, la storia si ripete in peggio. Non è più questione di affitti, ma di acquisti sul velluto. Sempre da parte di boss politici o di signori dello stesso giro, che hanno comprato casa da enti pubblici. E a prezzi che il cittadino qualunque immagina soltanto nei sogni. 'Casa nostra' era il titolo beffardo, ma del tutto sacrosanto, de 'L'espresso' che ha scovato la faccenda. Su questo numero leggerete la seconda puntata della storiaccia. Ma non sperate di vedere un'eccellenza del calibro di D'Alema presentarsi a uno show televisivo per annunciare che rinuncia all'acquisto e restituisce l'immobile.

Perché questa fuga dalle telecamere, per rifugiarsi in macchinose rettifiche? A parere del Bestiario, c'è una ragione evidente. In dodici anni, e pur nel succedersi di governi diversi, il ceto partitico italiano ha subito due mutazioni profonde. Ha visto indebolirsi in modo pauroso il suo prestigio tra i milioni di cittadini che ancora seguono la politica. E nello stesso tempo si è rinchiuso nei propri castelli, negando al popolo bue anche la più piccola autocritica.

Insomma, oggi siamo di fronte a un mostro che nel 1995 non era ancora apparso all'orizzonte: la Casta. Che cos'è una casta? È un gruppo sociale chiuso che si considera, per nascita o per condizione, separato dagli altri gruppi e che si attribuisce speciali diritti e privilegi. Ma 'La Casta' è anche il titolo di un libro di due eccellenti giornalisti, Gian Antonio Stella e Sergio Rizzo. L'ha pubblicato Rizzoli e oggi viaggia verso il milione di copie vendute.

Il 19 aprile, dopo la prima giornata del congresso Ds a Firenze, nel prendere un caffè insieme, Stella mi aveva parlato del libro che stava per uscire. Da uomo con i piedi per terra, sperava in un buon successo, ma niente di più. Gli dissi che il titolo era formidabile. E avrebbe incontrato un sentimento popolare diffuso: di fastidio, di rifiuto, di astio e spesso di rancore per una classe di feudatari sempre più impuniti e inconcludenti. Per questo, il loro libro era quello giusto e nel momento giusto.

Però la Casta ha continuato a fare spallucce. Compra case a prezzo di favore e se ne sbatte. Ci manda qualche lettera di rettifica, però non lascia il malloppo. Ma di solito se ne sta zitta, obbedendo a un vecchio detto mafioso: chinati giunco finché la piena non passa. Lo stesso fanno gli enti che hanno svenduto tante belle case.

Al punto che oggi, nonostante l'ostinazione de 'L'espresso' e di pochissimi giornali arrivati di rincalzo, sappiamo ancora ben poco di quello che è accaduto. Quanti sono i compratori eccellenti? Quanti sacchi di euro ci hanno rimesso i venditori? Silenzio. Non è vero che viviamo nell'iper-informazione. Siamo nell'epoca del sasso in bocca.

La Casta si muove così per due ragioni. La prima è che pensa di essere ancora forte, fortissima. Per questo se ne sta rintanata nei propri manieri. E sbarra le porte, alza i ponti levatoi, schiera sugli spalti i suoi armigeri. Siamo in presenza dell'unico, vero potere bipartisan. Dove s'incontrano tutte le famiglie della Casta: destra, centro, sinistra.

Nei loro fortini, le famiglie stringono patti di ferro, si dividono i bottini, fanno bisboccia, impartiscono ordini ai giornali e alla televisione. E così facendo degradano la democrazia in autocrazia. I cittadini senza potere strillano? Lasciamoli strillare. Sono soltanto dei qualunquisti, dei drogati di antipolitica, dei poveri fessi che s'illudono di fare breccia dentro muraglie più solide di quella cinese. Dunque, non meritano nessuna risposta, ma soltanto il silenzio.

Ma proprio il silenzio della Casta ci apre uno spiraglio sul secondo motivo che spiega la tenacia cocciuta di tante bocche chiuse. E che rivela la crepa nascosta nell'imponente apparato difensivo dei i partiti. Il motivo è che la Casta ormai sa che qualunque cosa possa dire non viene più creduta da un numero crescente di italiani. I cardinali e i vescovi di questa o quella chiesa politica seguitano a celebrare le loro messe cantate nei loro costosi festival, a Telese come a Bologna. I fedeli chiamati ad applaudirli, applaudiranno. Ma gli italiani rimasti fuori da quei recinti non staranno ad ascoltarli. Certi di aver udito un bla bla bugiardo.

Siamo alla pena del contrappasso per chi ha usato male il potere che gli era stato affidato. Mi hai fregato e io non ti credo più. È una regola spietata che vale anche per 'Casa nostra'. Ammesso che ci sia qualche big in grado di spiegare un acquisto del tutto limpido, pure questa perla rara perderà il proprio tempo in rettifiche inutili, in lettere senza peso, in querele che spariranno nel mare di denunce civili e penali che ormai sommerge tutti i giornali italiani.

E a proposito della carta stampata, c'è un'altra illusione della Casta che sta svanendo. Certo, i giornali possono anche essere 'silenziati', come mi disse un giorno un cinico big della sinistra. È accaduto per 'Casa nostra', come avvenne dodici anni fa per Affittopoli. Ma non si può silenziare tutta la stampa. Ci sarà sempre qualche giornale che rifiuta di tenere la bocca chiusa. E anche una sola voce, o due o tre voci come nel caso di oggi, basterà per mettere in piazza le mutande sporche di tanti baroni della Casta.

Questi baroni hanno un vizio che al Bestiario sembra spregevole. Sono sempre pronti a pontificare contro una campagna giornalistica, un libro, un'opinione che non stanno al loro gioco. Fanno i sapientoni. S'imbarcano in lezioni sussiegose. Colpevolizzano il reprobo. Lo indicano ai loro clienti come un cattivo soggetto, un nemico della buona politica, un falsario della storia. Ma sono proprio i baroni della Casta a cascare malamente dal pero. E a rivelarsi per quello che sono: mediocri, impudenti e suicidi.

Tuttavia, alla fine della fiera si apre un problema che riguarda tutti. Certo, il dramma italiano è che nessuno della Casta politica è più credibile. Il palazzo dei partiti è in mano a una sterminata banda di vu cumprà che spaccia merce falsa. Ma allora da chi è possibile comprare merce buona? In altre parole, a chi dobbiamo credere e affidare la guida di questa repubblica da rifare? Confesso di non saperlo. E mi rendo conto di essere, come tanti, di fronte a un grande vuoto. O meglio, a un abisso dentro il quale non voglio guardare. Perché il suo buio mi fa paura.

(07 settembre 2007)

da espresso.repubblica.it
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« Risposta #8 inserito:: Settembre 28, 2007, 10:55:38 pm »

BESTIARIO

Quella nave dei folli
di Giampaolo Pansa


Romano Prodi è alla guida di una ciurma di matti da legare. Ma terrà duro. Perché non vuole riconsegnare il paese a Berlusconi 

Qualche secolo fa, c'erano le navi dei folli. Quando in un manicomio i pazzi diventavano troppi, una parte dei malati di mente la si caricava su un'imbarcazione male in arnese, con qualche barile d'acqua e un po' di pane zeppo di vermi. La nave veniva condotta al largo e abbandonata. Il giorno che l'acqua e il pane finivano, i matti cominciavano a colpirsi, si sbranavano, si uccidevano. La nave affondava e di quei pazzi non si parlava più.

È alla nave dei folli che penso quando osservo la tragica babele nella maggioranza di centro-sinistra. D'accordo, qualche savio c'è ancora. Però la maggior parte della truppa ministeriale mi ricorda una di quelle barche in preda al caos e ormai alla deriva. Molti criticano Romano Prodi, l'ho fatto anch'io. Tuttavia spero che, un giorno, qualche storico non al servizio di un partito proverà a raccontare in quali condizioni il Prof ha guidato il paese in questo anno e mezzo. "Sei troppo prodiano!" mi rimproverano degli amici. Ma come faccio a non esserlo, quando lo vedo alle prese con una ciurma di matti da legare.

Volete qualche esempio? L'ultimo sta sui quotidiani di questi giorni. Il capo di una delle dieci sinistre, Oliviero Diliberto, ha invocato l'espulsione dal governo di Tommaso Padoa-Schioppa, il ministro dell'Economia. E il motivo l'ha spiegato così: "Diffido di quelli che hanno due cognomi perché tendenzialmente non stanno con i lavoratori. A Romano Prodi non dico di cacciarlo, ma se lo facesse non mi strapperei le vene". Oliviero il Cubano parlava alla festa nazionale del suo partitino. Qualcuno gli avrà chiesto se diffida anche del capo dei Verdi, Alfonso Pecoraro Scanio e del rifondarolo Giovanni Russo Spena? I giornali non l'hanno riferito.

Pochi giorni prima di Diliberto, era stato di scena Antonio Di Pietro, ministro delle Infrastrutture e capo di un altro partituccio, l'Italia dei Valori
. Con qualche intervista sui giornali e una raffica di comparsate in tivù, Di Pietro ha chiesto: 1) le dimissioni di Prodi; 2) quelle di Vincenzo Visco, per l'affare Speciale; 3) la fucilazione di Clemente Mastella; 4) la morte del governo; 5) la nascita di un ministero Di Pietro-Grillo. Attenzione, non stiamo parlando di Luigi Grillo, senatore di Forza Italia. Il Grillo in questione è Beppe, il duce del Vaffanculo. Quello che urla dal balcone: "Italianiii!".

Di Pietro si è nominato zione e tutore di Beppe, nonché suo rappresentante in Parlamento. Spiegando che il barbuto nipote e il movimento dei Vaffa sono "la Fase Due di Mani Pulite". Mi domando se Tonino non tema che Grillo distrugga anche il suo partito. Forse no. Ma immagino la possibile risposta dipietrista: "Non me ne importa nulla, l'Italia dei Valori sta già scomparendo. I miei parlamentari passano da un blocco all'altro". E c'è chi sostiene che, una volta nato il Partito Democratico, Di Pietro chiederà di iscriversi, per rompere le scatole al pallido Veltroni. Del resto, aveva già tentato di entrare nella nuova parrocchia del Pd, ma ne era stato respinto.

Come se non bastasse, la nave dei folli sbanda più di prima, in vista della contesa sulla legge finanziaria. Il Prof cadrà su quel fronte? Nessuno può dirlo. Piero Fassino ha fatto bene ad avvertire: "Se cade Prodi, ci sono soltanto le elezioni anticipate". Sul 'Foglio' del 24 settembre, Giuliano Ferrara ha consigliato al premier di andarsene: "Onorevole Prodi, chiuda in bellezza: si dimetta". Il Bestiario l'aveva suggerito fin da giugno: "Il Prof pianti tutti e se ne torni a casa". Ma entrambi non abbiamo tenuto conto del carattere del Prof. E di quello che intende fare.

Oggi il Bestiario pensa di averlo capito. Prodi non ha nessuna intenzione di dimettersi. E per una ragione precisa: non vuole passare alla storia come il premier che ha riconsegnato il paese a Silvio Berlusconi. Per questo, andrà via soltanto quando sarà evidente a tutti che sono stati i folli del centro-sinistra a distruggere il governo. Prima di allora, terrà duro, cercando di fare il suo dovere. Dunque, delle due l'una: o i folli aiutano Prodi a lavorare con profitto o si arrendono al trionfo del Cavaliere. E dopo la resa, vadano a spiegarsi con i loro elettori.

La mia curiosità di cronista mi fa invidiare chi sta accanto al Prof in quello che sembra il suo finale di partita. Prodi è all'ultimo round? Forse sì. Però esiste Santa Scarabola, la santa dell'impossibile. Nelle situazioni disperate, mia nonna Caterina la invocava sempre. E qualche volta veniva esaudita. Per questo non ci resta che aspettare. Anche se mi scopro spaventato dalle condizioni della nostra disgraziata Italia. Dove non comanda più nessuno. E dove troppi eccellenti meriterebbero un posto sulla nave dei folli. Ma un posto scomodo, lontano dalla poca acqua da bere e dal poco pane con i vermi.

(28 settembre 2007)
da espresso.repubblica.it
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« Risposta #9 inserito:: Novembre 03, 2007, 08:08:48 am »

BESTIARIO

Come si può vincere da soli
di Giampaolo Pansa


Una nuova legge elettorale. E una grande purga che assomigli a una rivoluzione. Solo così Veltroni darà un senso al Pd  Walter VeltroniIl Partito Democratico ha cominciato la sua lunga marcia. E fra i tanti propositi espressi da Walter Veltroni, uno spicca sugli altri: la vocazione maggioritaria della nuova creatura. Tradotto dal politichese, significa che il Pd si propone di vincere le future elezioni da solo, senza alleati o con pochissimi compagni di strada. Come tutti capiranno, si tratta di un progetto titanico. E il primo a saperlo è proprio Veltroni, un politico che avrà molti difetti, ma non quello di essere sciocco.

Il leader del Pd rammenta di certo le cifre che adesso ricorderò. Alle ultime elezioni politiche (aprile 2006), alla Camera dei deputati l'Ulivo, ossia Ds più Margherita, ottenne quasi 12 milioni di voti, vale a dire il 31,3 per cento. Quanti voti in più occorrono per realizzare la vocazione maggioritaria? Almeno un altro 16-17 per cento, che consentirebbe di arrivare a un teorico 47-48 per cento. In pratica, questo significa che il Pd dovrebbe conquistare un numero di nuovi suffragi pari a quasi tutti i voti raccolti dagli alleati di oggi, da Rifondazione Comunista all'Udeur. Sono il 16,5 per cento, ben 6 milioni e 300 mila voti.

Ecco la sfida titanica che sta di fronte al Pd. È possibile vincerla? In politica non bisogna mai dire mai. Tutto può avvenire. Ma a patto che esistano le condizioni affinché un certo evento accada. Per quanto riguarda il Pd, la prima è che sia un partito davvero monocratico. Guidato da un uomo solo al quale vengono delegati tutti i poteri. È uno schema berlusconiano? Può darsi. Ma oggi gli elettori sono stanchi di partiti dove non si capisce chi comanda. Partiti con un vertice spappolato, dove il leader deve vedersela ogni giorno con cinque o sei sotto-leader sempre pronti a sgambettarlo. E con una babele di correnti alle quali non importa nulla della forza del partito, ma soltanto del fatturato dei singoli clan.

Veltroni riuscirà a essere un uomo solo al comando? Anche questo è possibile. Del resto, Superwalter sa bene che, se non fosse così, la sua sfida cadrebbe subito. Ma per vincere deve costruire una serie di fatti senza i quali neppure un Superman della politica potrebbe stare in piedi. Proviamo a elencarne qualcuno.

Innanzitutto è indispensabile una nuova legge elettorale che rafforzi i due partiti maggiori di un sistema bipolare. Mettendoli in grado di non affondare nella palude dei nano-partiti, micidiali nelle pretese e nei veti. Questa legge deve restituire al cittadino elettore la possibilità di scegliere gli uomini e le donne da mandare in Parlamento. Veltroni ha garantito le primarie per qualunque carica elettiva. Ma per consentire che questa scelta vada a buon fine, dovrà offrire al voto primario soltanto candidati all'altezza del compito che li attende.

Oggi il partitismo italiano è la negazione quasi totale del criterio base per risultare un sistema sano: la meritocrazia. Sappiamo bene che cosa significa. Vuol dire fare avanzare i migliori e scartare i peggiori. Adesso siamo alla peggiocrazia. Il Parlamento è zeppo di signore e signori che non dovrebbero stare neppure in un'assemblea di condominio. Nei sacri palazzi della politica campano troppi personaggi incapaci, arroganti, faziosi, clientelari, incolti e non di rado disonesti. Il criterio del merito è l'unico che li manderà a casa. Occorre una grande purga, cattiva ma giusta. Qualcosa che assomigli a una rivoluzione.

Il merito deve imporsi in tutti gli incarichi pubblici. Il Pd ha l'obbligo di dire basta alle cordate di amici degli amici, agli enti spartiti fra i soliti noti, ai media lottizzati sino al limite del grottesco. Veltroni è molto attento all'informazione televisiva. Ma sa che cosa accade dentro la Rai? E come si comporta il cavallo bolso di viale Mazzini? La Rai è un maso chiuso, che si apre solo dall'interno. Per lasciar passare soltanto chi è gradito al potere dominante in quel momento. Anche qui comandano i clan di partito o le famiglie ideologiche. Sei dei nostri? Bene, eccoti il video. Non sei dei nostri? Va ad abbaiare alla luna.

La gente è stufa anche di altro. Non vuole più saperne di vedere i soldi della proprie tasse buttati nel mare magno delle consulenze inutili, dei premi immeritati, dei finanziamenti a progetti buoni per il cestino, dei battaglioni di addetti stampa, di un esercito di nullafacenti che occupano poltrone conquistate soltanto perché sono fedeli a qualche mafia di partito.

Veltroni deve spazzare via tutta questa razzumaglia. E aprire l'epoca di una nuova e profonda moralità civile. Soltanto così avrà un senso l'avventura mai vista di un Partito Democratico italiano. Ci riuscirà Superwalter? Il Bestiario glielo augura. Ma, come sempre, starà a vedere. E giudicherà dai fatti, non dalle parole dei discorsi carichi di effetti speciali.

(02 novembre 2007)
da espresso.repubblica.it
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« Risposta #10 inserito:: Novembre 09, 2007, 05:54:52 pm »

BESTIARIO

Per chi suona la campana

di Giampaolo Pansa


L'uccisione di Giovanna Reggiani sta mutando la topografia del consenso politico. Ma i partiti di governo non se ne rendono conto  Giuliano AmatoLa morte di Giovanna Reggiani, uccisa da un rumeno, ha prodotto uno tsunami che sarà difficile calmare. Abbiamo visto levarsi una gigantesca ondata che ha messo a nudo, prima di tutto, la fragilità italiana, la debolezza ormai drammatica della nostra struttura politica, istituzionale e civile. Quell'omicidio ci ha obbligati a guardarci allo specchio, come prima non avevamo mai fatto. E il volto del paese che vi abbiamo visto fa tremare.

Per cominciare, si è capito che l'Italia è un paese senza legge, dove si può commettere qualsiasi reato e non pagare quasi mai il conto. A spiegarcelo sono state le autorità rumene: "Da noi la situazione è tranquilla perché i nostri delinquenti sono venuti tutti da voi". Ha ragione Pier Ferdinando Casini quando dice a 'Matrix': "L'Italia è ormai il ricettacolo della criminalità europea". È vero: siamo diventati importatori di delitti. La nostra giustizia è di manica larga. Le leggi punitive sono farraginose. Le scappatoie risultano infinite. Troppi malfattori sfuggono al carcere. Tanti anni fa, Norberto Bobbio spiegava agli studenti dell'ateneo torinese che nessun ordinamento giuridico si regge senza la certezza della sanzione. Ma da noi la punizione è diventata merce rara, una ruota quadrata.

Le forze di polizia sono poche e con mezzi scarsi. Dovrebbero dare la caccia ai clandestini, ma tutto congiura per impedirglielo. A cominciare dal feticcio dell'accoglienza, sempre e comunque. È la specialità mistica che identifica troppe comunità chiesastiche e troppi circoli della sinistra radicale. Ma dove sta scritto che dobbiamo accogliere tutti, compresi quelli che entrano in casa nostra per delinquere? Ecco una forma di suicidio strisciante. Accade quando una società si lascia penetrare da chi vuole distruggerla.

C'è poi l'inerzia del sistema politico. Adesso tutti i big dei partiti scoprono che l'Europa dell'est sta scaricando in Italia un esodo gigantesco. Il ministro dell'Interno, Giuliano Amato, parla di cinquecentomila arrivi dalla Romania ('Repubblica' del 3 novembre). Ma non si ha il coraggio di prendere decisioni forti. Avremmo già dovuto bloccare gli ingressi. Invece la nostra frontiera resta spalancata. Ogni giorno da Bucarest partono decine e decine di pullman stracarichi. Nessuno li ferma. Nessuno li controlla. Nessuno chiede di vedere se chi entra ha un documento europeo, un permesso di soggiorno e un contratto di lavoro. Ossia quello che domandano agli emigrati dai nuovi paesi dell'Unione tre stati non illiberali, come Germania, Regno Unito e Irlanda.


Abbiamo lasciato soli i sindaci delle grandi città italiane, il principale traguardo di un'immigrazione senza limiti. E in più di un caso li abbiamo contrastati. È esemplare la vicenda di Bologna e di Sergio Cofferati. Per aver preso delle misure a protezione della propria città, la sinistra radicale lo ha bollato come un sindaco 'sceriffo', 'un perfetto conservatore'. Poi è uscita dalla giunta per fargli con più livore una guerra continua.

Il sindaco di Roma, Walter Veltroni, non ha avuto i problemi di Cofferati. Ma lo tsunami ha minato la sua immagine. Voglio dirlo con la schiettezza di chi guarda con rispetto al doppio lavoro di Superwalter: si è rotto un incantesimo che molti media hanno alimentato. Troppe luci della ribalta. Troppe notti bianche. Troppe mostre del cinema al sole abbagliante di attrici che sfilano sul tappeto rosso. La tivù, il mezzo preferito da Veltroni, oggi ci mostra una Roma devastata dall'immigrazione clandestina. Dove i disperati vanno a fare la cacca dentro l'atrio dei palazzi. E aggrediscono le famiglie persino nei loro alloggi.

È grottesco che la sinistra regressista batta sul tamburo della xenofobia. I loro big strillano ogni giorno contro inesistenti deportazioni di massa. Il giornale di Rifondazione Comunista grida nei titoli 'All'armi siam razzisti'. Ma è roba vecchia che non attacca più. Lo dice persino un sondaggio tra i lettori di 'Repubblica': il novanta per cento sostiene che la criminalità in arrivo dall'estero deve essere contrastata anche con misure straordinarie.

Tutti gli tsunami cambiano i paesaggi. Quello innescato dal delitto di Roma sta mutando in profondità la topografia del consenso politico. Gli elettori non sono dei politologi. Vanno subito al sodo. Se un governo e l'alleanza che lo regge si rivelano incapaci di difendere la sicurezza dei cittadini qualunque, li abbandonano senza rimpianti. Vorrei sbagliarmi, ma credo che tanti voti stiano lasciando il centro-sinistra. Per andare dove? Immagino verso il centro-destra. Se ne rende conto la maggioranza di oggi? Temo di no. Non c'è peggior sordo di chi non vuol sentire. Neppure quando la campana sta suonando per lui. E manda rintocchi lugubri che segnalano una fine ingloriosa.

(09 novembre 2007)

da espresso.repubblica.it
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« Risposta #11 inserito:: Novembre 23, 2007, 06:51:59 pm »

Gli scorpioni e il prof

Il governo Prodi è insidiato più dai veleni interni al centro-sinistra che da quelli esterni.

E se cadesse avremmo una riedizione del marzo '94

DI GIAMPAOLO PANSA


 Forse siamo arrivati al dunque nella guerra tribale che strazia la maggioranza di governo. Le fazioni libanesi che devastano il centro-sinistra sembrano decise a darsi l'ultima battaglia. Scrivo 'forse' e 'sembra' perché nulla è certo nei territori dell'Unione. L'immagine del Libano è stata proposta dal ministro Clemente Mastella. Il quale, peraltro, guida una sua fazione, ancorché molto esigua. Per di più impegnata in una guerriglia feroce contro un'altra fazione microscopica, quella del ministro Antonio Di Pietro.

Confesso che non ne posso più di questi due ministri che si sbranano in tivù. Quando li vedo pestarsi nei telegiornali e nei talk show, li cancello all'istante con il telecomando. Ammetto che a irritarmi è soprattutto Di Pietro. Ha un'aria da Capitan Fracassa pronto a sfasciare tutto. E sempre più spesso mi domando se ho fatto bene a difenderlo nel tempo di Mani Pulite.

Ma oggi né Mastella né Di Pietro sono la malattia più perniciosa del centro-sinistra. Oggi l'Unione è afflitta da un morbo pazzo che la spinge a ribaltare le regole delle democrazie parlamentari. In quelle normali, gli alleati sostengono il governo. E soltanto l'opposizione cerca di rovesciarlo. Da noi il governo è insidiato anche dall'interno. Gli scorpioni velenosi stanno più dentro il centro-sinistra che fuori. A loro non importa se Prodi abbia governato bene o male. Come nella favola, è nella natura degli scorpioni pungere e uccidere. Ed è quello che molti alleati del Prof fanno sin dal primo giorno.

Eppure, Prodi ha governato bene, nelle condizioni date. Quelle condizioni erano tre: una micro-maggioranza al Senato, una coalizione eterogenea di dieci partiti, un contratto programmatico monumentale scritto per soddisfare tutti i firmatari. In più, la Spectre dei Dieci gli ha negato le due armi che rendono forti i governi: la coesione e la stabilità. In questo modo, il premier è diventato un prigioniero obbligato ai lavori forzati e con le catene ai piedi. È questa la raggelante sensazione che mi ha assalito sette giorni fa, nell'entrare a Palazzo Chigi per un'intervista a Prodi. Sì, un prigioniero che ha fatto l'impossibile. Nessun altro, al suo posto, ci sarebbe riuscito.


Nell'autunno degli scorpioni, ogni previsione è vana. Prodi può già essere caduto quando questo numero de 'L'espresso' sarà in edicola. Oppure può essersi salvato. Per cadere un'altra volta o per salvarsi ancora. Chi non si salva più, anzi è già perduta, è l'Unione. La marcia delle sinistre radicali per ottenere dal governo equilibri più avanzati (toccate ferro, la formula porta iella) ha condotto in piazza un milione di militanti. Ma in piazza potrebbero scendere ben più di un milione di elettori del centro-sinistra che la pensano in modo diverso. Quelli che vogliono un governo stabile, riforme vere, meno spese inutili, niente doppi giochi delle tante fazioni libanesi e le necessarie medicine amare per un paese in declino.

Bene, questa seconda marcia non ci sarà mai. Nessun partito si sente di promuoverla e organizzarla. Potrebbe farlo il Partito democratico, ma non esiste ancora. Tuttavia, il Pidì è già provvisto di un leader, molto votato: Walter Veltroni. Ci ha promesso meraviglie e siamo disposti a credergli. A un patto: che Superwalter parli chiaro contro gli scorpioni che vogliono uccidere il Prof. Fino a oggi non mi pare che l'abbia fatto con la dovuta schiettezza e l'indispensabile solennità.

Il leader del Pidì è il più forte sostegno del governo Prodi o no? Immagino sia questo che i suoi elettori delle primarie vogliono sapere da lui. Il mandato che ha ricevuto è chiaro: non gettare il paese in un'avventura elettorale senza altro sbocco che il trionfo di un centro-destra anch'esso allo sbando e incapace di riformarsi. Veltroni può onorare quel mandato cominciando con il dire quale legge elettorale voglia. E soprattutto iniziando a costruirla in Parlamento.

Se Superwalter non lo fa, può chiudere subito la sua nuova bottega. A quel punto, sarà quasi fatale che si abbia un bis del governo Ciampi, messo in sella dal presidente della Repubblica del tempo, Oscar Luigi Scalfaro. Carlo Azeglio Ciampi, allora alla guida della Banca d'Italia, cominciò a governare il 12 maggio 1993, dopo la caduta del ministero Amato. All'inizio di agosto, era già stata varata dalle due Camere la nuova legge elettorale. Nel gennaio 1994, Ciampi si dimise. E in marzo si tennero le elezioni, vinte da Silvio Berlusconi.

Vogliamo obbligare Giorgio Napolitano a ripetere l'esperimento con un altro governo del Presidente? Dipende dai partiti del centro-sinistra. Possono anche strozzare il governo Prodi. Ma poi non si lamentino di quanto accadrà dopo. Amici e compagni, ricordatevi delle idi di marzo del 1994 dopo Cristo. E meditate, gente, meditate.

(29 ottobre 2007)

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« Risposta #12 inserito:: Novembre 23, 2007, 07:00:30 pm »

Io e il Cavaliere a carte scoperte

di Giampaolo Pansa

Sì al dialogo ma su tutte le riforme. E senza fissare date di scadenza a Prodi. Il leader democratico detta le condizioni. E sul nuovo partito di Berlusconi: 'Per ora lui ha solo cambiato nome a Forza Italia'. Colloquio con Walter Veltroni.

Il cavalier Berlusconi fonda partiti in piazza, arringa le folle dal tetto di una Mercedes, sbrana gli alleati, spacca le parrocchie di Fini e di Casini. C'è in giro un'aria di bufera isterica. La politica italiana sembra trovarsi a una svolta epocale. Qualcuno giura che sta cominciando la Terza Repubblica. Ma in Campidoglio, Walter Veltroni è sempre se stesso. Cordiale e fermo. Soprattutto nel difendere il governo di Romano Prodi: "Nel 2008 non si andrà a votare. E per il governo non c'è nessuna data di scadenza". Sentiamo che cosa ci dice il leader del Partito democratico.

I boatos, le voci, sostengono che fra lei e Silvio Berlusconi c'è già un accordo sulla legge elettorale e sul voto nel 2008. È nato Berlusvalter o Walteroni?
"Senta, Pansa, dopo Dalemoni non ne inventi un'altra. Non c'è nessun accordo. E nel 2008 non si voterà. Il 2008 sarà l'anno delle riforme: quella elettorale, ma anche quella costituzionale già alla Camera e dei regolamenti parlamentari, pure questa importante".

Eppure si dice che il suo Goffredo Bettini e Gianni Letta si siano già visti e abbiano già trattato.
"Con Letta si vedono in tanti. E con lui ci si parla. Però non abbiamo mai affrontato la questione della legge elettorale e della data del voto".

Adesso Silvio dice di essere pronto al dialogo.
"Bene, è un fatto positivo. Sino a domenica scorsa, nessuno del centrodestra voleva parlare con noi. Erano bloccati, guardavano le nuvole. Persino Fini credeva che le divisioni nell'Unione avrebbero fatto cadere Prodi!".

Lei ha detto che la nascita del Partito del Popolo o delle Libertà è il riconoscimento di una sconfitta. Ma adesso il Cavaliere, con uno strumento nuovo in mano, è più temibile o no?
"Io non sottovaluto Berlusconi. Ha una sua missione e molti soldi. Però un partito può nascere una sola volta per impulso personale. Ma farne nascere un altro tredici anni dopo. Non riesco per ora a vedere una grande capacità espansiva di questo nuovo partito".


Eppure il suo disegno è lucido anche se cinico: distruggere An e l'Udc e mangiarsene una parte.
"Ha fatto anche di peggio. Per esempio, l'operazione Storace ha l'obiettivo di mettere paura a Fini, di obbligarlo ad arrendersi".

In fondo, il Cavaliere e lei vi assomigliate su un punto: la vocazione maggioritaria.
"No. Noi abbiamo unito due partiti, abbiamo portato un mare di gente alle primarie. La sua operazione è tutta diversa. Lui, per ora, ha cambiato il nome a Forza Italia e basta. Ed è anche molto meno moderato, perché insegue la parte più infuriata del paese".

Però è previdente. Si prepara a una campagna elettorale giocata tutta sull'antipolitica e sui parrucconi dei partiti.
"Era più forte nel 1994, quando è sceso in campo. Adesso sta sulla breccia da tredici anni e si candida a premier per la quinta volta!".

Anche Veltroni è un parruccone della sinistra? Lei è in politica da almeno trent'anni.
"Se me lo dicesse Beppe Grillo, lo capirei. Ma lui non può dirlo. Ha fatto il premier per sette anni. E ha avuto molto più potere di me".

A proposito di parrucconi, non pensa che occorra un profondo rinnovamento nel ceto parlamentare?
"Sì, ci vuole. Ma bisogna puntare sulla qualità. Portare in Parlamento una generazione di pubblicitari è stato un rinnovamento? Mi sembra di no. Mi piacerebbe vedere entrare alla Camera e al Senato delle competenze vere. E non della presunta gente nuova che non sa neppure quando è finita la seconda guerra mondiale, come abbiamo visto in tivù. O pensa che John Kennedy sia morto per un'influenza. Ma anche nel Parlamento di oggi ci sono tante qualità. Ci sono dei Gattuso e dei Totti che lavorano a testa bassa e neanche li conosciamo".

La Casa delle Libertà è morta. Ma Berlusconi è ben vivo. Perché le tante sinistre continuano a prenderlo sottogamba?
"Per la verità, la sinistra parla solo di lui. È ossessionata da lui. È da tredici anni che parliamo soltanto di Berlusconi e dei comunisti. Invece dovremmo parlare di quello che la gente dice nelle case: precarietà, sicurezza, tasse. Dobbiamo avere l'umiltà di capire che la nostra funzione è questa. Bisogna sì andare 'Porta a porta', ma a quelle delle famiglie. Comunque, da Torino in poi, il Cavaliere non l'ho mai citato nei miei discorsi".

Veniamo alla legge elettorale. Berlusconi si è pronunciato per il sistema tedesco: proporzionale pura con sbarramento al cinque per cento. Sta bene anche a lei?
"Non del tutto. Dobbiamo costruire un nuovo bipolarismo, guai a farne a meno. Il sistema tedesco va bene, ma nella sua ispirazione di fondo. Bisogna introdurre dei correttivi, che rafforzino in Parlamento i partiti più rappresentativi. In Germania quel sistema funziona perché i due partiti maggiori hanno già il 35 per cento di voti ciascuno".

Ma si farà mai un nuova legge elettorale? O il sistema è talmente ossificato, ingessato, che non produrrà nulla?
"È difficile rispondere alla sua domanda. Oggi il terremoto è così forte da impedire ogni previsione. Ma se non precipitiamo nelle elezioni anticipate nella prima metà del 2008, e farò di tutto per evitare che accada, siamo nella felice condizione di varare insieme le tre riforme che ci siamo già detti. Se Berlusconi non ci vuole stare, deve spiegarlo al Parlamento e al paese".

È vero che a lei e al Cavaliere conviene arrivare al referendum sulla legge elettorale?
"No. A me conviene lo scenario delle tre riforme. Serve per avere un vincitore certo e dopo per governare. Oggi il sistema scricchiola in modo spaventoso. Cercare soluzioni semplificate aumenta la crisi e avvicina il collasso".

Lei insiste sulla vocazione maggioritaria del Partito democratico. Ma nel 2006 l'Ulivo ha ottenuto soltanto il 31,3 per cento dei voti. Per avvicinarsi al 50 per cento, occorrono almeno sei milioni di elettori in più. È un'impresa titanica.
"Ma no! Quando dico vocazione maggioritaria non penso al 51 per cento dei voti. Penso a un programma che punti a conquistare il governo. E poi stia attento: i flussi elettorali sono molto più veloci e forti di quel che pensiamo. L'opinione pubblica ha una grande mobilità. Giudica l'offerta. Valuta il leader. L'elettorato di appartenenza va diminuendo. Quindi avere un grosso risultato elettorale è possibile. A condizione di essere quello che si è deciso di essere. Me lo dicono i voti che ho ricevuto nelle primarie".

Lei pensa di poter vincere, ma in Italia soffia un vento di centrodestra. Lo segnalano dei sintomi: le elezioni dei magistrati e quelle degli studenti universitari.
"Lo vedo anch'io. E le dirò di più: quel vento soffia in tutta Europa. In Francia, Belgio, Danimarca, Grecia. In Germania e in Austria si sono dovute fare grandi coalizioni. Il vento tira a destra per un grande problema irrisolto: la sicurezza. Che vuol dire anche sicurezza sociale, per esempio contro la precarietà. Perché da noi dovrebbe essere diverso?".

Ma allora non c'è il rischio che molti elettori del centrosinistra si spostino sul centrodestra?
"Certo che c'è. È già accaduto nella campagna elettorale del 2006. Ricorda la discussione sulla tassa di successione? Le sinistre sparavano cifre sempre diverse, come Nanni Moretti in 'Ecce bombo'. Abbiamo perso una montagna di voti. E siamo riusciti a vincere per un pelo".

Oggi rischiate la sconfitta sulle tasse.
"Succede perché non affermiamo il principio giusto: pagare di meno e pagare tutti. Si continua a dire il contrario: pagare tutti per pagare di meno. Ci sono troppe tasse. Non è di destra dirlo. Lo stesso vale per la sicurezza. Quando ho spiegato che la sicurezza non è di destra né di sinistra, Piero Sansonetti su 'Liberazione' mi ha dato del fascista! Invece la sicurezza deve diventare il tema centrale della sinistra".

Forse anche i politici di sinistra dovrebbero ridurre le loro scorte. E consentire che gli agenti e i carabinieri vadano sul territorio.
"Sono assolutamente d'accordo. Bisogna limitare al massimo soprattutto le scorte sotto casa".

Molti pensano che il Partito democratico cercherà un'alleanza diversa da quella che oggi regge, malamente, il governo Prodi.
"Sì. Siamo stati il primo partito che avuto il coraggio di dire che il re è nudo. Ossia che è sbagliato fare un'alleanza contro qualcuno. E farla prima del programma. Noi seguiremo la strada opposta. Quella di indicare al paese le cose fondamentali da fare, per garantire cinque anni di serenità. E soltanto dopo cercare chi è disposto a realizzarle con noi".
Oliviero Diliberto, il leader dei Comunisti Italiani, l'ha già avvisata: "Senza di noi, non governerete". È una minaccia a vuoto?
"Sono parole. Dobbiamo arrivare alla fine della legislatura con questa alleanza. Poi vedremo se Diliberto, e altri come lui, ci staranno o no al nostro programma".

Come alleato è meglio Bertinotti o Casini?
"Ma parliamo sempre e soltanto di schieramenti! Allora le rispondo così: il miglior alleato sarà quello che lavora per la crescita economica e per la coesione sociale del paese".

Per avere più sicurezza, meno tasse, maggior crescita economica e coesione sociale, l'Italia ha bisogno di un decisionismo rinnovatore. E di leader capaci di attuarlo. Ho scritto in un Bestiario che Veltroni dovrà cercare di essere un leader monocratico, un uomo solo al comando. Senza gli intralci che oggi vengono dai gruppi dirigenti di tanti partiti.
"La democrazia deve avere una grande capacità di decisione. La paura del decisionismo è un tabù che va rimosso, altrimenti qualunque sistema salta per aria. È vero: l'Italia ha bisogno di più decisione democratica. Il Partito democratico sarà capace di decidere. Poi sono una persona ragionevole. E so che l'esercizio della leadership non è mai un esercizio solitario. È giusto ascoltare gli altri. E io avrò il mio ruolo nella decisione finale. È il mandato che ho ricevuto".

Qualcuno ritiene che lei sarà non soltanto decisionista, ma autoritario. Anna Serafini, parlamentare e moglie di Piero Fassino, ha detto che nel Partito Democratico chi la pensa in modo difforme dal vertice rischia di subire "una pulizia etnica".
"È esattamente il contrario. Io lavoro in squadra e non chiedo a nessuno da dove viene, ma solo dove vuole andare. Il Partito democratico non farà mai pulizie etniche".

Lei ha il favore dei media più importanti, a cominciare dai due quotidiani più forti, il 'Corriere della sera' e 'la Repubblica'. Per un partito e un leader sono decisivi i media, a cominciare da quelli televisivi?
"No. Sono assolutamente convinto della limitata capacità di influenza dei media sull'opinione pubblica. Oggi c'è la Rete, c'è Internet. Su cento giovani, novantotto stanno sul computer e solo due, se va bene, leggono i giornali. Sta crescendo una generazione che non dipende dai media. La politica ha sbagliato nel credere che la società fosse quella raccontata dai giornali e non quella reale. La gente vera dice: mia cognata mi ha detto che. Non dice mai: Pansa mi ha detto che.".

Quale sarà la struttura mediatica del Partito democratico?
"Ci sarà un grande portale web. Poi un canale tivù sul satellite. Infine un quotidiano stampato. Ma non sappiamo ancora come sarà e quale sarà. Mi dispiace per un giornalista con i capelli bianchi come lei, però siamo sempre in meno a leggere la carta stampata. Il tempo per farlo non c'è".

Tornando da dove siamo partiti, la mossa di Berlusconi accorcia la vita del governo Prodi o l'allunga?
"Ad allungare la vita a Prodi è stata l'azione del suo governo e il voto positivo sulla legge finanziaria. E a questo proposito voglio dire con estrema chiarezza una cosa: non tratterò con Berlusconi nessuna legge elettorale che preveda una data di scadenza per il governo Prodi. Non lo farò mai. Il governo deve poter lavorare sino al 2011".

Ma il governo potrebbe cadere per un incidente al Senato. Per esempio sul protocollo del welfare e sulle pensioni.
"Bisogna lavorare perché non succeda".

E se invece accadesse?
"Non voglio nemmeno prendere in considerazione questa eventualità. Sarebbe una vittoria differita di Berlusconi. E un disastro per l'Italia andare a votare con la legge elettorale in vigore. È un'ipotesi che rifiuto".

Un'ultima domanda. Per quanto tempo ancora farà il sindaco di Roma?
"Fino a quando non sarà incompatibile con un altro incarico istituzionale. Invece posso fare il sindaco pur avendo una responsabilità politica, come quella di segretario del Partito democratico".

Significa che se dovrà candidarsi a premier del governo si dimetterà subito?
"Sì. Me ne andrei dal Campidoglio prima del voto".

Bene, caro Veltroni. L'ho vista tranquillo e di ottimo umore.
"Sono uno di buon carattere. Se non avessi questa fortuna, con la vita che faccio sarei già andato in tilt".


22/11/2007

da espresso.repubblica.it


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« Risposta #13 inserito:: Dicembre 14, 2007, 05:08:37 pm »


Grande puffo grande tuffo

Dopo 10 anni la storia si ripete: Fausto Bertinotti torna a minacciare il governo Prodi.

Ma questa volta lui e la Cosa Rossa rischiano di rompersi la schiena

Per Fausto Bertinotti, la presidenza della Camera è un elisir di giovinezza.


Visto in tivù alla convention della Cosa Rossa, ha un volto disteso e paffuto. Un viso da puffo. Anzi, dato il peso politico, da Grande Puffo. Con quel facciotto ci ha offerto una frase storica: "Oggi è il giorno del Grande Tuffo. Per imparare a nuotare, bisogna gettarsi in acqua". Già, il Grande Tuffo del Grande Puffo. Ma la faccenda del puffo e del tuffo mi ricorda qualcosa di lontano e, insieme, di vicino. Vediamo un po'.

Siamo a dieci anni fa, al 1 ottobre 1997. Il primo governo Prodi sta per morire. Chi ha deciso di ucciderlo è Rifondazione Comunista: lo appoggia dall'esterno, ma ha i voti decisivi. Quel giorno, Rc boccia la legge finanziaria del Professore. Il 7 ottobre il premier ulivista si appella a Bertinotti, il segretario di Rc, perché eviti la crisi. Non viene ascoltato. E il 9 ottobre Rc vota contro il governo che si dimette.

A Montecitorio, qualche rifondarolo piange. Lucio Manisco, per esempio, o Nerio Nesi. Ma c'è pure chi ride. Stravaccato in Transatlantico, un sogghignante Oliviero Diliberto dice al pidiessino Antonio Soda: "Anto', ho paura che la prossima volta il collegio di Reggio Emilia bassa non me lo date più!".

A pugnalare Prodi è stato Bertinotti, su mandato di Armando Cossutta, presidente del partito. Il pomeriggio del 7 ottobre, prima del colpo di grazia al governo, Fausto ha letto all'Armando la parte più delicata del discorso. Lo si è visto grazie alla diretta tivù: il Parolaio recita sotto voce il compito scritto sui foglietti e l'Armando annuisce in silenzio, tamburellando con le dita sulla tavoletta dello scranno.

Tutto finito? Per niente. Il primo segnale viene da Diliberto, costretto a disdire il pranzo di seconde nozze nel castello di Sorci, in quel di Anghiari. Glie l'ha ordinato Cossutta, il vero padrone del partito, quello che nel gennaio 1994 ha assunto Fausto per farne il segretario di Rc. D'improvviso, l'Armando ha cambiato programma. E va diffondendo il nuovo verbo: "Trattare si può e si deve!".


È accaduto che sul vertice di Rifondazione sta piovendo la reazione furiosa di tanti elettori e iscritti neo-comunisti. Tra giovedì 9 e venerdì 10, Cossutta viene sommerso da un'imprevista ondata di fax. E si spaventa. Persino 'il Manifesto' gli si rivolta contro, roba da non credere. Si può deludere i compagni faxisti? Giammai.

E così, il pomeriggio del 10, Cossutta riceve nel suo quartiere presidenziale un giornalista del 'Corriere della sera', Massimo Gaggi. L'Armando lo accoglie con sussiegosa cortesia. Alle sue spalle campeggiano un ritratto di Marx con didascalie in cirillico e la vetusta bandiera rossa della sezione Pci di Sesto San Giovanni.

Dapprima, Cossutta mitraglia con parole in apparenza d'acciaio il governo caduto e "la presenza sempre più soffocante di un sindacato collateralista". Poi, di colpo, si mette a concionare come un qualunque Vittorio Emanuele II. Gli mancano i baffoni a manubrio e il pizzone, ma la sostanza è la stessa. Dice: "Non sono insensibile all'allarme che c'è nel paese. E non sono di quelli che alzano le spalle davanti ai fax!".

L'Armando si è pentito d'aver fatto la crisi, però Fausto no. Va di tivù in tivù, sempre più farraginato, attaccando la Cgil di Sergio Cofferati. Mostra i denti al 'Costanzo Show', poi al 'Porta a porta' di Vespa e infine al 'Moby Dick' di Santoro. Ma Cossutta riesce a rammollirlo. Fausto comincia a cedere. Dice a Felice Saulino del 'Corriere: "La nostra è soltanto legittima difesa".

La sera di venerdì 10 ottobre, appena ventiquattro ore dopo la pugnalata, ecco un Bertinotti impassibile offrirsi alle telecamere del Tg1. Sta nel suo ufficio, protetto da un incolpevole Antonio Gramsci in fotografia. E al governo ucciso il giorno prima, offre un accordo di programma addirittura per un anno.

Sembra un trucco da Prima Repubblica. Ma la verità è che Rifondazione teme l'azzardo di una nuova campagna elettorale. Tutti quei fax sono un grande uccello padulo che vola all'altezza ben nota. Domenica 12 ottobre, Fausto, in casual elegante, va alla Marcia della pace Perugia-Assisi. E si fa un bagno di fischi e di insulti. Comunque, i cossuttisti sono già al lavoro, con la tenacia delle vecchie talpe. Sempre strillando: "Trattare si può e si deve!".

L'accordo matura sotto il sole malato di una legge per le 35 ore di lavoro, che Prodi promette a Rifondazione. La sera di lunedì 13 ottobre, il Professore lo annuncia uscendo dal Quirinale, dopo un colloquio con Oscar Luigi Scalfaro. Prodi non sembra per niente felice. Ha il viso pesto, le guancione cascanti da bulldog sfibrato. Accanto a lui, il sottosegretario Enrico Micheli mostra il pallore del mutuato in fila dal dentista.

La stessa sera, a 'Porta a Porta', Massimo D'Alema ha una faccia tutta l'opposto. È sereno, quasi felice, mentre cucina il risotto in casa del segretario del sottosegretario Antonio Bargone. Poi nello studio esplode la telefonata di Fausto. Parla come se la crisi non ci fosse mai stata. Il birignao è compiaciuto. Il tono da narcisista astuto. Lui è già pronto a celebrare il proprio trionfo: la rinascita del governo. Cossutta lo bacerà in pubblico. E Diliberto proclamerà la "straordinaria abilità politica" del compagno segretario.

Un anno esatto dopo, nell'ottobre 1998, la storia di ripete. Con qualche variante. Il governo Prodi cade e non risorge. L'Armando e Fausto si lasciano. Dal loro partito ne nascono due. A non cambiare sono gli slogan bertinottiani: il governo era centrista e il Prof un servo della Confindustria. Guarda caso, sono gli stessi di oggi, sempre contro Prodi.

L'unica vera differenza è che adesso Rifondazione sta al palo: perde militanti e voti. Per questo il Grande Puffo esorta al Grande Tuffo. A gettarsi dal trampolino dovrebbero essere i quattro della Cosa Rossa. Ma non sembrano d'accordo su niente. Neppure se cantare o no 'Bella ciao'. Si romperanno la schiena, i nostri eroi? Speriamo di sì.

(14 dicembre 2007)

da espresso.repubblica.it

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« Risposta #14 inserito:: Dicembre 21, 2007, 06:50:33 pm »

Gianpaolo Pansa

Un Natale del diavolo

Troppo di troppo. Tutti che vogliono tutto. Case strapiene di inutile merce costosa. Se ci sarà una vera crisi, cosa accadrà? Mangeremo cellulari?


Un telefonino, a volte due o anche tre. Un videotelefonino. Un navigatore satellitare. Un I-Pod. Una play station. Un televisore al plasma. Un computer per mandare in rete le foto del telefonino. E tanti aggeggi come questi, sempre capaci di svuotarti le tasche. Tutta merce che si sarà venduta molto per Natale. E anche prima. Basta entrare in una famiglia qualsiasi, anche di persone senza stipendi grassi, per rendersi conto che tante case assomigliano a supermarket di elettronica superflua.

Nello stesso tempo, i giornali scrivono che il potere d'acquisto delle famiglie non è per niente aumentato, come sostengono il governo e la Confindustria. Anzi, sul finire del 2007 i bilanci famigliari risultano infelici per l'aumento del costo del denaro e per la stangata fiscale della prima finanziaria by Prodi. Tanto che quest'anno il numero delle famiglie in difficoltà ha toccato il massimo storico dal 1999, ossia da quando esiste questa statistica.

Come la mettiamo, allora? Io la metto come mi suggerisce la piccola storia seguente. Un giorno chiamo un muratore per un lavoro in casa. Per tutto il tempo lui si lamenta di trovarsi al verde. Ma ogni poco cava di tasca un cellulare ultimo tipo, parecchio costoso. Fa una telefonata, poi due, poi tre, poi quattro. Gli chiedo: chi sta chiamando? Lui spiega: mia moglie e i tre ragazzi. Hanno tutti dei cellulari come il suo? In famiglia ne abbiamo cinque. Non sono troppi cinque? E lui: sì, forse sono troppi, ma come si fa a negare a un ragazzo il suo telefonino?

Da anziani, si è inclini a riandare al passato. Quando ero ragazzo, mi sentivo sempre dire di no, mai di sì. I miei genitori erano dei super-specialisti del Super-No. Il loro slogan preferito era: questo costa troppo e non possiamo permettercelo. Ce lo ripetevano senza nessun rammarico. Per un motivo ben piantato nella memoria: anche loro avevano sempre ricevuto dei no. Erano bambini poveri. Mio padre, poi, aveva trascorso l'infanzia nella miseria: penultimo di sei ragazzini orfani, figli di un bracciante a giornata. Morto di colpo mentre zappava il campo di un altro: Giovanni Pansa, classe 1863, di Pezzana, provincia di Vercelli.


Mia nonna, Caterina Zaffiro, classe 1869, anche lei vercellese di Caresana, non aveva voluto affidare i bambini alla carità pubblica. E li aveva tirati su da sola, con la ferocia di una leonessa. Per farli mangiare, andava a rubare. Il suo motto diceva: la roba dei campi è di Dio e dei santi, dunque pure di una disgraziata come me. Ha patito la fame, come tutti i suoi figli. Ma è vissuta molto e ha allevato anche mia sorella e me. Era analfabeta, però amava i fotoromanzi di 'Bolero Film': lì capiva tutto senza leggere. Nello stesso momento, recitava il rosario e squartava le rane per il pranzo.

Tutto accadeva nella cucina di casa. Era l'unica stanza riscaldata dell'alloggio. È in cucina che ho scritto la tesi di laurea. Sorvegliando il minestrone messo sulla stufa economica da mia madre, prima di andare al lavoro. D'inverno, nelle altre stanze si gelava. La sera toccava a me di mettere il prete nel letto, con la brace e un filo di cenere. Quando nevicava duro, non avevamo i problemi di chi possedeva l'automobile o la motocicletta: noi si andava sempre a piedi.

La stanza da bagno non esisteva. C'era soltanto il cesso, in un casottino sulla ringhiera, costruito da papà. Si faceva la doccia di domenica: nel mastello, con la mamma che ti rovesciava addosso l'acqua scaldata sul fuoco del camino. Non c'era telefono. E neppure la radio. Non si andava mai in vacanza. L'unica volta che sono riuscito a fare un po' di montagna, nella colonia dei postelegrafonici, è stato nel luglio 1943. Ma è caduto Mussolini, accidenti! E la vacanza è finita in anticipo.

Tuttavia, a Natale i regali non mancavano. Le matite colorate. Due quaderni speciali. Il teatrino dei burattini. Una bambola per mia sorella. E dei libri, tanti libri. Papà e mamma erano arrivati soltanto alla quarta elementare lui e alla quinta lei. Per poi andare subito al lavoro: come guardiano delle mucche e come piccinina in una pellicceria. Ma volevano che i figli studiassero. Dovevamo conquistare un'esistenza migliore della loro. Dunque, per prima cosa niente dialetto, si parla soltanto italiano. E poi leggere, leggere, leggere. Infine, un altro verbo implacabile: arrangiarsi. Sì, arrangiatevi da voi, perché nessuno vi regalerà mai niente!

Ecco perché i Natali di oggi mi sembrano una festa del Diavolo. Troppo di troppo. Tutti che vogliono tutto. Case strapiene di inutile merce costosa. Se ci sarà una vera crisi, che cosa accadrà? Mangeremo cellulari e ci scalderemo con le play station? Per quel che mi riguarda, sto tranquillo. Ad avere pochi soldi in tasca ci ho già provato. E siccome lo eravamo in molti, non ci ho fatto caso.

(20 dicembre 2007)

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