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Autore Discussione: Gesualdo Bufalino. Il mio duello con Dio  (Letto 2181 volte)
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« inserito:: Agosto 27, 2008, 07:42:28 pm »

Il mio duello con Dio

Gesualdo Bufalino


Ero ancora ragazzo quando mi venne in mano la prima volta la Bibbia, nella traduzione del Diodati, che posseggo ancora, dopo tanti anni, nella sua solida rilegatura di tela nera. Più, però, m´affascinava, negli scaffali d´un compagno di giochi benestante, l´enorme volume in quarto, illustrato da Gustavo Doré, che in occasioni particolari m´era consentito sfogliare.

Fu attraverso quelle immagini, per non parlare delle altre di più cupa solennità, scoperte in una raccolta di incisioni del Rembrandt, che il libro sacro mi entrò negli occhi, prima ancora che nella mente e nel cuore. Vero è che lo leggevo e lo rileggevo tumultuosamente, cercando con maggiore passione le pagine dell´antico Testamento, specie quelle dove le peripezie romanzesche e le attrattive della paura trovavano varco più favorevole. Non che non mi turbasse, nella sua misteriosa ambiguità, il lamento amoroso della Sulamita, epperò a scolpirsi e a durare nella memoria furono certi solitari frammenti epico-tragici, vere e proprie schegge di folgore: «Ed ecco cantarono le tube delle Tue cataratte!»; oppure: «Passai e l´empio era là. Passai di nuovo e l´empio non c´era più…».

Non saprei certo più ritrovarle, quelle proposizioni. Ricordo solo che ne ricavavo l´impressione di sporgermi da un davanzale vertiginoso su un abisso senza nome, dov´era chiuso il segreto della vita e della morte: mia e di tutti noi. Venne, più tardi, a scoraggiarmi, il Levitico: minuziosa casistica di prescrizioni rituali, grondanti del sangue di bestiole innocenti, sulle cui carni, brandito da un levita-beccaio, un coltello incomprensibile s´affondava coi moti esatti d´una chirurgia professionale… Ebbene, pratiche simili, mi chiedevo, che avevano a fare con Dio? Sebbene ne avvertissi in confuso il nascosto valore simbolico, non perciò cessava di infastidirmi, in esse, l´alleanza della pedanteria più oculata con la ferocia più opaca.

Di conseguenza esclusi dalle mie letture quel libro. Almeno fino a quando non m´avvenne, nella Lettera agli Ebrei, di scoprire un passo (cap. 9), che denunziava nel modo più esplicito il distacco dalle antiche usanze e la loro reinterpretazione quali immagini figurali del sacrificio di Cristo. A ciò s´aggiunse, nella Lettera ai Colossesi (cap. 2), quella stupenda espressione di Paolo, quando definisce i digiuni e le feste giudaiche come solo «ombre delle cose future». Infine mi soccorse quel Salmo 110 che afferma e celebra il sacerdozio eterno e l´universale regalità del Messia. Ciò bastò, non dico a disarmare, ma a disorientare il mio pregiudizio. Ne nacque e crebbe dentro di me la visione della Bibbia come labirinto infinito, dentro i cui meandri ogni parola risponde da lontano alle altre e le propaga, arricchisce, rimodula non diversamente da un organo che di canna in canna moltiplichi una frase di musica eterna. Ne dedussi, obbedendo a un impulso dell´anima e contro ogni filologia, la particolare natura di opus sacrum per un libro così straniero ad ogni altro. Un libro da cui ritengo che nessuno possa prescindere, nemmeno chi (io fra questi) si logora nel suo rapporto col divino come in un duello funesto e interminabile, una notte di Giacobbe perpetua, senza vinti né vincitori.

Poiché, a questo punto, una confessione s´impone: partecipe ormai, come la secolarizzata società odierna pretende, del processo di desacralizzazione che sembra il sigillo oscuro dei nostri tempi; remoto dalla cultura del mondo arcaico, in cui nulla era profano, e la sfera del quotidiano era tutt´uno con la sfera del numinoso… ecco, io sento che mi è negato ogni abbandono in quel senso. Ciò che in me sopravvive - e voglia il cielo che sopravviva sino alla fine - è solo il tremito intermittente d´una nostalgia, d´un rimorso, d´una speranza. Un tremito che pare annunzi l´epifania d´un istante di privilegio. Come chi, espulso da un Eden, nell´esilio della sua cecità, avverte d´un tratto un bagliore tornare a insinuarglisi fra le palpebre cucite e resta, incerto fra riverenza e spavento, a rabbrividire di fronte all´inconoscibile.

Pubblicato il: 27.08.08
Modificato il: 27.08.08 alle ore 12.48   
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