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Autore Discussione: DENISE PARDO  (Letto 12288 volte)
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« Risposta #15 inserito:: Novembre 01, 2013, 06:29:07 pm »

Denise Pardo

Pantheon

Franceschini lancia il lavoro immateriale
Il ministro per i Rapporti con il Parlamento pubblicherà un romanzo sui "mestieri immateriali". Eppure manca un mestiere: quello degli spingitori di carro

Visto il tafferuglio politico, meglio pubblicare. Infatti esce in libreria “Mestieri immateriali di Sebastiano Delgado” edito da Bompiani, un nuovo romanzo, meno di cento pagine, si dice perché non se ne sa ancora molto, scritto da Dario Franceschini.

UN CASO RARISSIMO Franceschini, il ministro per i Rapporti con il Parlamento? In persona. Ed è superfluo che supplichi: «Non cercate collegamenti con il politico. Sono un caso rarissimo di omonimia con somiglianza fisica». I collegamenti s’intravedono, e sarà pure probabile che
il politico penalizzi lo scrittore e viceversa. Pazienza, c’è di peggio nella vita. Ma che chiave, quei “mestieri immateriali”!

CHE NOTTE! La storia per sommi capi è questa: una notte, Sebastiano Delgado ha un’illuminazione. Fondare un’agenzia di collocamento di mestieri che soddisfino bisogni d’anima e di cuore. L’idea spopola, Delgado finisce in gloria per aver individuato una specie di quinto settore, l’economia di mestieri immateriali. Obiettivamente, che piaccia o no lo scrittore democratico Franceschini, grandioso vero?

QUESTIONE DI MANTRA Sì. Ma l’autore ha un mantra e cioè che il suo karma di scrittore non si abbevera al demi-monde politico (ma nel romanzo precedente “Daccapo”, un buon libro, c’era un notaio con cinquanta figli avuti da cinquanta prostitute, e coincidenza delle coincidenze era l’epoca del bunga-bunga!). Mantra
a parte, come si fa a non pensare il contrario? Da parte sua, sarà il rifiuto inconscio del Porcellum o di Renato Brunetta, sarà che vuole tenere due vite e due lenti parallele, ma è difficile dargli retta. E non ricollegare l’impianto del romanzo anche alla realtà della politica.

IL MISTERO DEL MINISTERO In primis, a lui e la sua poltrona. Perché ad essere picciosi, il suo ministero, importantissimo per l’azione del governo, rispetto a quello delle Infrastrutture o dell’Economia, è forse il più immateriale che c’è. Così come alcuni di quei lavori immateriali che fanno la fortuna di Delgado, gli Accarezzatori, i Ballisti, i Lettori sono integrati da sempre nei codazzi dei politici, anche se con il significato inverso, prosaicamente materiale.

ANIME PERSE Nel “realismo magico e padano” del ministro, autore tradotto da Gallimard, l’editore di Proust più snob di Francia, per cui conta meno di zero essere un politico italiano, sono professioni estranee al cinismo del potere, appagano l’anima. Nel realismo del palazzo romano, i politici non hanno anima. E nel caso, non è più profonda di quella di una patata.

BENVENUTI A CORTE In compenso, hanno l’ego e quello che per Delgado è tenerezza, nel mondo del ministro è cortigianeria, ci sono gli yes-men, accarezzatori di vanità. Nel libro, i Ballisti sono talentuosi fabbricatori di buon umore. A Montecitorio abbondano pronti a spararla grossa: «Oggi Dario ha fatto un intervento decisivo». Se per il protagonista, i Lettori sono compagni di godimento letterario, per i politici sono fantasmi che preparano loro schede di volumi nemmeno scorsi che hanno preso l’impegno di presentare.

CORSA AL CARRO Nel romanzo, manca di sicuro un neo-mestiere nato alla convention di Matteo Renzi, dove era presente Franceschini. «Sul carro non si salta, si spinge», ha detto il sindaco di Firenze. Debutta così la categoria dello spingitore di carro. Che si tratti di un lavoro materiale o immateriale dipenderà dai punti di vista, ma varrà la pena di tenerlo bene a mente per il prossimo, immaginoso romanzo.

01 novembre 2013 © Riproduzione riservata
http://espresso.repubblica.it/opinioni/pantheon/2013/11/01/news/franceschini-lancia-il-lavoro-immateriale-1.139688   
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« Risposta #16 inserito:: Marzo 21, 2014, 11:53:47 pm »

Sinistra
Com'era bella la politica quando c’era Berlinguer
Esce nelle sale il film firmato Veltroni. Che racconta il leader del Pci scomparso nel 1984. Tra ricordi vivi e valori perduti. Nell’era di Renzi. E di un Pd un po’ smemorato. Una clip in esclusiva per l'Espresso

di Denise Pardo
   
Giorgio Napolitano che si commuove. La grandezza di Pietro Ingrao. La voce di Toni Servillo. Il Pci in bianco e nero. E soprattutto le parole e la fascinazione di Enrico Berlinguer, l’ultimo grande della sinistra italiana, come disse Sandro Pertini, forse il suo unico vero mito. “Quando c’era Berlinguer” è il docufilm di Walter Veltroni sul segretario più amato del Pci con il ritmo delle testimonianze e il peso dei ricordi, persino un tramonto su una spiaggia sarda con la bandiera rossa, e le onde contro il gozzo celeste di Berlinguer. Nel trentennale della scomparsa, Veltroni non risparmia nulla, tantomeno i sentimenti. E alla fine viene fuori anche il “selfie” impietoso di una generazione, il pugno alzato di Giuliano Ferrara, i baffi di Nando Adornato dietro a una falce e martello, e di quella parte del Paese, (nel ’76 un italiano su tre) che non è riuscita a diventare quello che sperava. Veltroni regista tocca un tasto dolente filmando il memo di un’eredità accantonata con gli occhi di un ragazzo che amava il cinema e Berlinguer. Il fondatore del Pd parla con “l’Espresso” del film, della scommessa di Matteo Renzi e di come si possa ritrovare il senso di una politica perduta.
      
Veltroni, quanto c’è di lei in questo docufilm?
«Ci sono i miei due grandi amori, la politica, in particolare Enrico Berlinguer, e il cinema: a 18 anni era quello il mio progetto. La vita mi ha portato a vivere altro, meravigliose giornate. Ma ora queste strade parallele hanno trovato il punto d’incontro. È stato quasi un miracolo, parlarne come un’idea ad Andrea Scrosati, direttore di Sky, e il suo via, subito. Una settimana dopo ero al lavoro».

La politica al tempo di Enrico Berlinguer: com’era?
«Sua figlia Bianca mi ha consegnato una lettera inedita. È una difesa della politica come una delle forme più nobili e alte del vivere: spendersi per gli altri. Da sindaco, da scrittore, da segretario ho sempre cercato di comunicare il valore della politica e della memoria, l’essenzialità del rapporto tra la propria coscienza di oggi e il senso della storia».

Come tanti ragazzi, lei si è innamorato della politica per Berlinguer.
«Quando dissi che non ero mai stato comunista ci fu qualche polemica. Ma il senso era quello che Gaber, Jovanotti, Pasolini raccontano nel film: solo chi non sa la storia non capisce che la grandezza di Berlinguer - e in qualche modo quella delle origini del Pci, da Gramsci in poi - è stata riuscire a costruire un partito nel quale militarono persone che non erano ideologicamente comuniste. Io non ero per la dittatura del proletariato. Non ero per la nazionalizzazione dei mezzi di produzione. Consideravo l’Urss un nemico, ero dalla parte di Kennedy. Eppure stavo nel Pci, un posto, dice Gaber, dove si pensava che si potesse vivere bene solo se anche gli altri potevano farlo. Sostiene Jovanotti che la parola comunista si identifica con Berlinguer, con la sua onestà, il suo rigore. Questo era il Pci che, secondo Napolitano, nonostante questo non è riuscito a reggere al crollo di un mondo di ideologie; ma proprio per questo, per la sua storia originale, ha potuto generare una sinistra che è andata al governo».

Berlinguer era un miscuglio di forza e timidezza.
«Le racconto un episodio inedito. Una sera a casa di Tonino Tatò invitai, insieme a lui, Lucio Dalla e Francesco De Gregori. Una saga della timidezza: Berlinguer timido, io timidissimo anche se camuffato - solo io conosco la sofferenza per riuscire a superarla - e ovviamente ancora più timido al cospetto di Berlinguer, Dalla e De Gregori inevitabilmente intimiditi dalla sua personalità. A un certo punto Berlinguer pose ai due il quesito che tutti avremmo voluto porre da sempre e che nessuno aveva mai avuto il coraggio di formulare: “Scusate, ma voi scrivete prima le parole o la musica?”. Una domanda meravigliosa in cui c’era tutta la sua sincerità».

La sua forza era anche l’autorevolezza, qualità assai rara nei politici di oggi.
«È vero. Ma era anche un altro mondo: Berlinguer andava in televisione tre volte l’anno, non sarebbe stato un tipo da Facebook, né un tipo da Twitter. L’autorevolezza è andata perduta non solo nella politica, ma anche nel giornalismo e tra gli industriali. Siamo diventati una società di fratelli, non di padri: Berlinguer, invece, conquista sul campo il ruolo di padre».

Oggi chi ha tenuto le fila del Paese è stato proprio un padre, Giorgio Napolitano.
«Ha ragione. È un mondo che tende a non avere genitori, ma poi ne ha necessità. Si ha sempre bisogno di un padre, glielo dice chi non l’ha avuto».

Come spiega il fatto che la sinistra non abbia nutrito il mito di Berlinguer tanto che è quasi sconosciuto alle nuove generazioni, come dimostrano le interviste nel film?
«Viviamo in un clima e in una società dell’istante. Il passato non esiste, il futuro fa paura, si consuma il presente, tutto è bulimicamente offerto a grande velocità. Diventa difficile, per una politica in cui i partiti cambiano ogni tre giorni, trovare il filo razionale di legame con la propria storia».

Ma lei è stato un importante dirigente, dunque questa mancanza è anche responsabilità sua…
«Tra le responsabilità che mi posso attribuire questa non c’è. Ho cercato di tenere viva la memoria e di unire, per alcuni in modo ossessivo. Nel film anche la sequenza di Giorgio Almirante che rende omaggio alla salma del segretario ha questo significato. Quando avvisò del suo arrivo ricordo la preoccupazione che suscitò perché sotto Botteghe Oscure c’erano migliaia di persone e non sapevamo quale potesse essere la loro reazione. A un certo punto Giancarlo Pajetta che pure era stato in galera sotto il fascismo, si alzò: “Lo vado ad accogliere io”, disse. E la discussione si chiuse. In questo episodio non c’è solo il segno di quello che suscitava Berlinguer. C’è anche la grandezza di una certa Italia politica».

Come recuperare questa eredità?
«Prendo in prestito la risposta di Gérard Depardieu nella scena del film “Novecento” di Bertolucci. Qualcuno gli chiede: “Chi è il partito?”. E lui: “Sei tu”, e indica i nomi di tutti i contadini. Il recupero deve partire da ciascuno di noi. Ci siamo assuefatti alla rappresentazione della politica come un talk show, una corrente di partito, un modo per arricchirsi. Tutto questo mi preoccupa molto. La velocità della società e della comunicazione rispetto alla lentezza pachidermica dei partiti può portare a una soluzione autoritaria, Putin sta diventando un modello. È vitale avere coraggio del futuro e coscienza del passato».

Matteo Renzi va veloce e mostra coraggio.
«Doti importanti. Anche se per me contano anche profondità, inclusività, senso della storia. Molti tifano contro Renzi come prima hanno tifato contro di me, contro Bersani, contro Prodi. Io tifo per, anche per ragioni sentimentali, visto che molte cose dette oggi somigliano a quello che ho sempre sostenuto. Bisogna che la sinistra si abitui a sostenere positivamente anche chi si trova a governare non avendo avuto un proprio consenso. È più importante che vincano le idee riformiste e democratiche della persona che le fa vincere».

Le lotte fratricide sono il vizio della sinistra post Berlinguer.
«Non mi sono mai piaciuti i colpi sotto la cintura. Maurizio Crozza per cui ho simpatia, ha preso in giro il mio “ma anche”. Eppure Berlinguer prospettò il partito di governo ma anche di lotta, il partito rivoluzionario ma anche conservatore. Il “ma anche” è la vita che non è solo sì e no, ma una costante ricerca della comprensione delle ragioni degli altri. Questo è il senso della laicità. Berlinguer propone il compromesso storico e in contemporanea sconfigge la Dc sul referendum per il divorzio».

Cos’è rimasto di quella politica?
«Il bisogno. Il bisogno di quella carica ideale e morale. Berlinguer ha interrotto i finanziamenti dell’Urss al Pci, ha preso le distanze dai sovietici che hanno cercato di ammazzarlo, ha aperto ai cattolici. Aveva l’intensità strategica di sfidare il proprio mondo. Di certo il sostegno ad Andreotti o l’affermazione che si stava meglio sotto la Nato che nel patto di Varsavia non piaceva alla sua gente. Nel discorso sull’austerità, pronunciò tre parole: “Moralità, sacrificio e ordine”, rendiamoci conto, a parlare era il segretario del Pci. Ripenso a quando ero segretario io, e so quello che dev’essergli costato. Voglio raccontare soprattutto questo nel film».

Cosa?
«Mettere a fuoco il giugno del ’76, quando dopo tre vittorie – divorzio, elezioni regionali e politiche – il Paese è attraversato dall’ondata di speranza che il tappo possa saltare e il Pci andare al governo. Lì si consuma la tragedia umana di Berlinguer, perché anche la Dc aumentò i voti e vinse e così l’Italia rischiava di essere ingovernabile. Berlinguer non si sentì di far precipitare il Paese verso nuove elezioni, con l’inflazione a due cifre. Il suo assillo era evitare uno sbocco autoritario. Così arriva l’appoggio ad Andreotti e tutto cambia. Sei mesi dopo, compagni che erano stati in Fgci incontrandomi mimavano il segno della P 38».

Qual è stato, invece, il momento più delicato dopo le elezioni 2013?
«La mancata elezione del presidente della Repubblica. Da segretario Ds mi ero trovato a gestire la successione di Scalfaro e alla prima votazione abbiamo eletto Carlo Azeglio Ciampi. Non trovare un accordo sul capo dello Stato è stato un momento di sbandamento molto rischioso per la democrazia».

Come vive oggi senza politica?
«Al tempo della scelta mi sono chiesto come sarebbe stato il rapporto tra pieno e vuoto. Ma l’aver coltivato altre passioni, i libri, il cinema, cose sulle quali si faceva anche dell’ironia, non mi ha fatto entrare nel cunicolo nero».

Intanto però ha dato una mano a Renzi.
«Sì, ma da lontano, solo con le idee perché sono le stesse idee in cui credevo prima. Per me la politica, come il potere, è un mezzo, non un fine. Nel 2007, nel punto più alto della mia popolarità, mi sono detto: “Adesso prova a fare il Pd nel quale hai sempre creduto, ma non restare aggrappato alla politica come Francesca Bertini a una tenda se vuoi averne un buon ricordo”. In questo l’esempio di tanti dirigenti del Pci mi è servito».

Quello dei Tortorella, dei Macaluso che ha intervistato nel film?
«Ma anche dei Chiaromonte, degli Occhetto: si sono tutti fatti da parte con serenità».
Davvero la politica non le manca? Il film su Berlinguer direbbe il contrario.
«Non ho rancori, non ho conti da saldare, lo dico sul serio, non per fare il bravo ragazzo. Tengo molto al film, è un inno alla politica, bella, faticosa, profonda, vorrei che commuovesse e facesse pensare. Per il resto, spero il meglio per il Paese per le ragioni, direbbe Napolitano, per le quali ho identificato la mia vita».
21 marzo 2014 © Riproduzione riservata

Da - http://espresso.repubblica.it/attualita/2014/03/20/news/com-era-bella-la-politica-quando-c-era-berlinguer-walter-veltroni-racconta-il-suo-docufilm-1.157838?ref=huffpo
« Ultima modifica: Marzo 21, 2014, 11:55:29 pm da Admin » Registrato
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« Risposta #17 inserito:: Marzo 21, 2014, 11:55:10 pm »

Denise Pardo
Pantheon
Sisto, nome da papa e figura di anguilla
Chi è l'avvocato Francesco Paolo Sisto, devoto berlusconiano, vicino a Verdini e oggi presidente della Commissione Affari

Italicum oppure Sistum? Nell’infinita serie delle burlesque berlusconiane passano, occupando la scena, figure non retoriche ma meteoriche, a uso delle circostanze, vedi l’avvocato Maurizio Paniz, braccatissimo dalle telecamere al tempo della zuffa sul “processo breve”, poi inghiottito per sempre dalle tenebre dell’anonimato.

TOCCA A SISTO Questa volta, in mezzo al desolante iter della bocciatura a larghissima intesa della rappresentanza femminile, c’è un altro avvocato estratto dalla cabala dei devoti del Cavaliere. È Francesco Paolo Sisto, un nome da papa, al momento solo presidente Commissione Affari Costituzionali di Montecitorio, primo relatore della legge elettorale, uomo chiave della riforma (e di Denis Verdini), giunto alfine ad alti compiti, dopo le pene dell’inferno provate un governo fa. Quando nell’auge maxima c’era il suo rivale-collega giurista Gaetano Quagliariello, nominato perfino saggio, adesso assai evaporato.

IN AULA Il momento è d’oro, l’occasione grande. E Sisto, deputato barese, compagno di Raffaele Fitto e di Niccolò Ghedini, non fa affatto la figura del carciofo. Tutt’altro. Molto più quella dell’anguilla parlamentare di razza: i suoi estimatori fanno notare, per esempio, come, approfittando dei disordini grillini, la sua Commissione non si sia quasi riunita, facendo approdare l’Italicum direttamente in aula. Ma è soprattutto sullo snodo delle quote rosa che il prescelto dal Signore di Arcore ha saputo impersonare al meglio l’indulgenza e la posizione berlusconiana nei confronti delle pari opportunità.

QUOTE GALANTI Non seggi, per le donne bastano gli omaggi. E infatti ecco Sisto in preda a uno dei suoi frequenti raptus da baciamano, mentre atterra schioccando baci sessisti sull’arto superiore destro di un’imbarazzatissima presidente della Camera, Laura Boldrini. E poi di nuovo il 6 marzo a “Omnibus” su La 7 a salutare dicendo che sarà sempre lieto di partecipare al programma soprattutto se insieme a lui saranno invitate delle «signore così b…», e Alessia Morani e Annalisa Chirico, sedute al suo fianco, sbarrano gli occhi. «B ...cosa?», ci si domanda, pensando al tipico complimento trasteverino «...bbbbrave», si riprende lui, ma proprio in corner.

GENERE FRANCESCO Perfetto. Chi meglio di uno così, con un tratto sì delicato, che aspira perfino a cambiare la Carta, poteva gestire una spinosa e dolorosa questione come quella delle quote rosa secondo lui, come ha tuonato in aula, «del tutto incostituzionale?». Chi meglio di Sisto, che per evitare equivoci ha dichiarato: «La parità di genere non la si può imporre per legge». Fin qui, il concetto è opinabile ma semplice. Il problema è che, andando avanti con il Sisto-pensiero, si entra in uno spaziotempo da buco nero: «Per esempio», spiega, «se volessi fondare il Partito delle donne separate, qualcuno mi deve spiegare perché dovrei essere costretto a metterci un uomo». Un uomo tra le donne separate parabola per le quote rosa? La mente vacilla, a dir poco.

S.O.S ISTITUZIONALE Il presidente della Commissione Affari Costituzionali sprizza talento nell’esporre tesi ardite. Sarà stato di sicuro questo a impressionare il Cavaliere. Strabiliante, ad esempio la spiegazione di Sisto sulla nascita dell’asse Pd-Fi. Secondo lui, Renzi ha lanciato a Berlusconi un S.o.s istituzionale sulla legge elettorale: «E così si è quindi attivato il 118 di Forza Italia» Il 118 di Forza Italia? «Si, sì. Il 118 ha chiamato il primario del Pronto soccorso». Il primario? «Certo, il primario Berlusconi che ha deciso la terapia con l’équipe operatoria». Verdini, Brunetta, Biancofiore, Santanchè in camice verde e mascherina? Per forza che la prognosi, Italicum-Sistum, è riservata.

14 marzo 2014 © Riproduzione riservata

Da - http://espresso.repubblica.it/opinioni/pantheon/2014/03/12/news/sisto-nome-da-papa-e-figura-di-anguilla-1.156895
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« Risposta #18 inserito:: Aprile 11, 2014, 11:23:40 pm »

Denise Pardo
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Papa Francesco e i deputati
Sua Santità, ma non troppo
La posizione esternata ai deputati accorsi per una messa privata in Vaticano non lascia dubbi. Papa Bergoglio ha lanciato ai politici un durissimo "tif": trattamento a pesci in faccia
   
Papa Francesco e i deputati Sua Santità, ma non troppo
La classe politica, in buona parte, non andrà certo in Paradiso.

PESCI VATICANI. E chi proverà a imbucarsi non potrà contare su una raccomandazione di papa Francesco. La posizione esternata ai deputati accorsi per una messa privata in Vaticano non lascia dubbi. Sua Santità ha lanciato ai politici un durissimo “tif”. Cos’è? L’acronimo in uso al Quirinale, ex palazzo di papi e simbolo dell’altro potere, inventato da Antonio Ghirelli, capo ufficio stampa dell’allora presidente Sandro Pertini, preda di furie e collere. Nel raffinato gergo del Colle il “tif” è un trattamento ittico facciale. Traducendo per il volgo, trattasi del più pop “a pesci in faccia”.

PIETRE NON PAROLE. Lo storico avvenimento ha rappresentato una doppia prima volta. Per i politici e per il Pontefice. Come hanno riportato i media in toto, nell’omelia il Papa ha scagliato pietre più che parole all’indirizzo delle pecorelle corrotte che, ha detto lui con il suo accento da Antonio Banderas, non saranno perdonate. Seduto in posizione strategica c’era la pecorella ciellina Roberto Formigoni. Bergoglio avrà avuto un’ispirazione Celeste?

SACRO SNOBISMO. È stata la prima volta che il Papa ha mostrato un volto diverso da quello bonario, accogliente, umile che fa impazzire le folle. Ma anche storcere il naso ad alcuni esponenti della nobiltà nera - troppo «parroco di campagna», mormorano, e ci sono voluti i sali per rinvenire dopo l’augurio plebeo «Buon pranzo»- desiderosa di un po’ più di snobismo. “Sembrava un altro: ostile, serio, gli occhi minacciosi», commentava la folla parlamentare con le pive nel sacco. Finalmente l’altra faccia di Bergoglio, qualcuno ha esultato, la severa virtù del gesuita.

SANTA CASTA. Tutto prevedibile, secondo fonti informate, visto che il fastidio papalino è stato grande. Non solo per lo stravolgimento dell’idea originale, una messa per pochi devoti e incensurati nelle Grotte vaticane, mica si pensava alla vastità di San Pietro. Non solo per l’adesione di 518 parlamentari desiderosi di non perdersi un’occasione, secondo loro, mondana e di potere.
A montare più di un soufflé il fastidio pontificio è stata la lista dei nomi: la casta al gran completo, il rango e la vanità più forti di fedine e coscienze.

TWEET CON PAPA. Va detto che i politici hanno soffiato sul fuoco. Non car sharing solidali o gambe in spalla. Macché! Auto blu con sirene a decine, e chi se ne importa se erano già finite nel mirino degli strali papali. Ci sono molti ritardatari; l’ora è perfida: le sette. Marianna Madia con pancia da ottavo mese si arrangia da sola per trovare una sedia. Ad accompagnare l’omelia un rumore metallico: sono i tasti degli smart phone per tweet, video e foto onde divulgare urbi et orbi lo spirituale momento. Non mancano gli ex Responsabili Mimmo Scilipoti e Antonio Razzi in versione estatica.

MESTO RITORNO. Per la prima volta la classe politica viene condannata pubblicamente da un Papa che non perdona la sua corruzione. Incurante del tutto, il noto teologo Formigoni arriva a commentare cordiale. «Ha detto: “tutti noi che siamo qui siamo peccatori”. Ed era evidente che parlava anche di sé». Interpretazione: il Papa e Formigoni pari sono. Ma per (quasi) tutti gli altri il ritorno a Palazzo è mesto dopo il sacrosanto “tif” papalino.

Una sorta di moltiplicazione dei pesci.
In faccia, però.

04 aprile 2014 © Riproduzione riservata

Da - http://espresso.repubblica.it/opinioni/pantheon/2014/04/03/news/sua-santita-ma-non-troppo-1.159536

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« Risposta #19 inserito:: Aprile 25, 2014, 06:33:50 pm »

Denise Pardo
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C’è un po’ di Renzi in tutti loro

Da Alfano a Bonaiuti, passando per Napolitano, vezzi detti e abitudini del neo premier contagiano il Palazzo. Ecco come
   
Nell’antropologia estetica in divenire del Palazzo, al di là di scelte, adesioni e compromessi politici, si notano manifestazioni fondamentali e marginali della “renzizzazione” anche nella fascia più alta e istituzionale. Tracce sacre e profane, camaleontiche e non gattopardesche per una volta-svolta, si spera.

ALFANO IN DIVISA. Il più soggiogato dall’effetto Renzi è Angelino Alfano. Da delfino spontaneo come un surgelato, stressato dall’handicap del “quid”, si è trasformato in giulivo politico che ce la mette tutta a messaggiare la giravolta. Ecco che nei manifesti appare un Alfano ridens in divisa renziana, camicia bianca, blazer, no cravatta, mentre agita i pugni per aria (il premier ne alza uno; lui è più generoso), in posa da vincitore ma anche da colica neonatale.

DERBY DA BALLO. «Non s’immagini un derby tra sostenitori dell’abolizione dell’Irap e quelli dell’Irpef», dice Alfano a Sky Tg24 e la parola derby è fra le preferite di Matteo. Poi, all’assemblea costituente Ncd, l’exploit: il ballo da sellerone attorniato da tutti i suoi. C’è anche Renato Schifani a dondolarsi come un vice Gabibbo. Tra gli effetti collaterali del renzismo c’è pure questo, ma non è mortale, ci vuole pazienza.

GUERRA DA SOLO. Non solo comportamenti, anche oggetti. Come quello con cui viaggia Andrea Guerra, plenipotenziario di Luxottica, timbratore del cartellino alla mitica Leopolda 2013, l’uomo più desiderato dal seduttore Renzi, che gli ha offerto di tutto senza centrare il bersaglio. È passato da Roma per presentare all’Istituto Sturzo il libro “Riaccendere i motori” di Gianfelice Rocca, ottavo signore più ricco d’Italia secondo “Forbes” e presidente del Gruppo Techint (papabile per future corse confindustriali, oltre che attuale capo di Assolombarda). Finito il dibattito, Guerra, senza uno straccio di uomo delle relazioni esterne, perfino senza la fretta dei potenti terrorizzati da questuanti e scocciatori, se n’è andato non con una vetusta cartella da professore Tre-Montiano. Né con un borsone-borsello d’epoca bersaniana.

CODICE ZAINO. No. Si è infilato su una spalla l’accessorio principe del Codice Renzi, uno zainetto da autostoppista pieno da scoppiare, segno della mancanza di dolori cervicali, supplizi da rottamandi. Buona parte della sala ha registrato. E si è precipitata all’assalto del reparto zainetti di un vicino negozio da turisti gestito da un indiano, prima allibito poi molto soddisfatto.

LINEA COLLE. Effetto Renzi perfino sul Colle più alto? Nell’intervista fatta da Fabio Fazio in occasione dell’uscita del libro “La via Maestra-L’Europa e il ruolo dell’Italia nel mondo “, conversazione di Giorgio Napolitano con Federico Rampini, il presidente, a proposito della necessità di ridurre il debito, ha detto: «Si deve fare, non perché ce lo chiede l’Europa ma perché è un dovere verso i giovani». È lì che l’entourage renziano ha sobbalzato, visto che era la stessa frase pronunciata dal premier nella conferenza stampa con Angela Merkel. Un riferimento benevolo non casuale: cosa c’è mai di fortuito nei saloni del supremo palazzo?

PARADOSSO PAOLO. Per finire, l’effetto paradosso. Paolo Bonaiuti, ombra dell’ex Cavaliere per quasi un ventennio, spesso incudine del martello Berlusconi, messo nel cono d’ombra dal perfido neo cerchio luciferino dell’anziano leader, ha avuto un’alzata di scudi imprevedibile e ha lasciato Silvio Berlusconi, scegliendo Ncd. È Bonaiuti il rottamatore dell’anno. C’è un po’ di Renzi in tutti noi, perfino in tutti loro.

18 aprile 2014 © Riproduzione riservata

DA - http://espresso.repubblica.it/opinioni/pantheon/2014/04/16/news/c-e-un-po-di-renzi-in-tutti-loro-1.161509
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