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Autore Discussione: Marco TRAVAGLIO -  (Letto 123169 volte)
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« Risposta #60 inserito:: Agosto 02, 2008, 09:08:53 am »

Marco Travaglio


Tronchetti Dov'era


Se i tuoi collaboratori più fidati ti prendono per il naso, creano un'associazione a delinquere che spia mezzo mondo con migliaia di dossier illegali, un po' ti vergogni e chiedi scusa, o ti lodi e ti lasci imbrodare?  Marco Tronchetti ProveraCominciò Romiti nel '93: confessò che la Fiat pagava i politici, ma lui, l'ad, non ne aveva mai saputo niente. Fu condannato lo stesso. Poi arrivò Berlusconi: era all'oscuro di fondi neri, false fatture, mazzette ai finanzieri, ai politici e persino ai giudici. I suoi manager non gli dicevano mai nulla, anzi carpivano la sua fiducia. Poi confessavano e/o venivano condannati. Ma lui, anziché licenziarli, li ha portati tutti in Parlamento (Sciascia, Berruti, Previti, Dell'Utri).

Ora è la volta di Marco Tronchetti Dov'era. Si dice "molto contento e soddisfatto della conclusione dei giudici di Milano" che, per i dossier illegali di Tavaroli & C., vogliono processare 30 fra dirigenti, dipendenti e consulenti della sua Telecom e della sua Pirelli, nonché le due società, ma non la sua persona fisica. E lamenta "sconcertato" la "campagna" di stampa ai suoi danni. Subito si complimenta con lui la garrula Emma Marcegaglia: "Apprendo con piacere della totale estraneità all'indagine di Tronchetti, vittima di pregiudizi senza un pur minimo beneficio del dubbio. Gli rinnovo l'apprezzamento e la stima come persona e come imprenditore".

I festeggiamenti proseguono su vari giornali, che attaccano chi - come 'L'espresso' - svelò prim'ancora dei pm lo scandalo Security Telecom e costrinsero il pover'uomo a cedere la compagnia. Nicola Porro sul 'Giornale' parla di "storia allucinante", ma per colpa di "carte di Procura, media solerti, politici ostili" e "venticelli accusatori inconsistenti" (sic). Franco Debenedetti, sul 'Sole-24 ore', lacrima perché "a leggere i giornali sembrava che nell'azienda si fosse installata una Spectre". Ma va?

Sergio Romano, sul 'Corriere', esulta col suo editore: "Il 'teorema', direbbe Berlusconi, è stato smontato", nonostante le "responsabilità dei mezzi d'informazione" che alimentano "sospetti e supposizioni". Pigi Battista e Panebianco si uniscono al cin-cin. Per carità, Tronchetti e i suoi corifei fan benissimo a brindare allo scampato pericolo. Ma questa ricorda tanto le assoluzioni per incapacità di intendere e volere. Se i vertici dei primi tre gruppi privati italiani non s'accorgono di quel che accade intorno e sotto di sé, il nostro capitalismo ha poco da stare allegro.


Oltre alla responsabilità penale c'è la 'culpa in vigilando'. Se i tuoi collaboratori più fidati ti prendono per il naso, ti spillano 50-60 milioni di euro l'anno per creare un'associazione a delinquere che spia mezzo mondo con migliaia di dossier illegali "nell'interesse della società", un po' ti vergogni e chiedi scusa, o ti lodi e ti lasci imbrodare? Delle due l'una: o questi top manager proclamano che lo scopo dell'impresa è realizzare la perfetta anarchia, e allora possono continuare a cascare dal pero e a vantarsene in giro; o farebbero meglio a confessare almeno qualcosina, anche se non si son mai accorti di nulla. Così, tanto per evitare la figura dei pirla.


(01 agosto 2008)

da espresso.repubblica.it
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« Risposta #61 inserito:: Agosto 03, 2008, 12:22:34 pm »

L’editoriale preventivo


Marco Travaglio


«Una minoranza prepotente e chiassosa decide per tutti chi debba essere abilitato o meno alla commemorazione delle vittime della strage di Bologna... Esplode il coro minaccioso... Hanno vinto i professionisti della minaccia, le minoranze guastatrici incapaci di rinunciare a un rito violento... lo scatenamento della piazza... chi del fischio in piazza ha fatto un mestiere mediaticamente remunerativo... il pregiudizio e l’odio politico».

Insomma, «il 2 agosto è stato macchiato ancora una volta da una minoranza prepotente. Le vittime della strage non meritavano di essere trattate così nella memoria collettiva».

Uno, magari di prima mattina, magari spaparanzato sulla spiaggia, legge queste allarmanti parole sulla prima pagina del Corriere della Sera di ieri, sotto il titolo «L’arma della minaccia» e a firma nientemenochè del vicedirettore Pierluigi Battista, e si inquieta, si angoscia, si rovina la giornata. Oddìo, dov’è successo il fattaccio? E chi è stato? E ci saranno dei superstiti? E quante le vittime di cotanta, e ovviamente cieca, violenza? Ci saranno dei feriti, dei contusi? E i colpevoli sono già stati assicurati alla giustizia o magari ancora latitano, liberi di ridare sfogo allo scatenamento, alla minaccia, alla prepotenza, al pregiudizio, all’odio politico e ­ Dio non voglia ­ al fischio in piazza? Poi il lettore si inoltra nella lettura del giornale e scopre che non è successo niente di niente. La strage di Bologna non è ancora stata commemorata, Piazza Maggiore è ancora deserta, nessuno ha fischiato nessuno (a parte un paio di vigili urbani alle prese con qualche motociclista in senso vietato). Ma Pigi, sempre previdente, ha pensato bene di anticipare gli eventi con un editoriale preventivo. È, costui, una sorta di estintore a mezzo stampa, sempre intento a spegnere fuochi prim’ancora che le fiamme divampino. Al primo fil di fumo, magari fuoriuscito dal sigaro di un turista tedesco, balza sul primo Canadair disponibile e scarica sul luogo del fattaccio tonnellate d’acqua. Ultimamente lo sgomentano molto i fischi, che nelle democrazie normali, ma anche nei loggioni dei teatri lirici, sono strumenti di ordinaria espressione del dissenso. Ma lui vi intravede “un rito violento” e li denuncia prima ancora che partano. Ricorda un po’ quei ciclisti che s’imbottiscono di Epo in estate, con largo anticipo sulla stagione agonistica, e poi son costretti a dare ogni tanto una pedalata, anche in ferie, per diluire il sangue ridotto a Nutella.

L’altro giorno, da uno delle migliaia di inutili lanci d’agenzia che si ammonticchiano nelle redazioni attanagliate dalla canicola, che alcuni esponenti bolognesi di Rifondazione si appresterebbero a fischiare il ministro Alfano, nel caso in cui si presentasse a commemorare il 28° anniversario della strage di Bologna a nome del governo Berlusconi. E dove sarebbe la notizia? A parte il fatto che uno come Alfano va contestato ogni volta che apre bocca, viste le corbellerie che ne escono a getto continuo, ci sarebbe da meravigliarsi se la sinistra radicale annunciasse per lui applausi e festeggiamenti. Alfano è l’ex segretario di Berlusconi, ora suo ministro della Giustizia ad personam, che gli ha confezionato su misura la legge blocca-processi e poi il Lodo dell’impunità e ora, non contento, annuncia per settembre altre mirabolanti “riforme della giustizia”: dalla separazione della carriere alla fine dell’ obbligatorietà dell’azione penale all’asservimento politico del Csm, tutta roba copiata di sana pianta dal Piano di rinascita democratica della loggia P2. Quella loggia che, col suo maestro venerabile Licio Gelli, depistò le indagini sulle stragi e alla quale erano affiliati il premier Silvio Berlusconi e il capogruppo del Pdl Fabrizio Cicchitto. Ci sarebbe dunque qualcosa di strano se, dalla piazza, si levasse qualche fischio all’indirizzo del signorino? A ciò si aggiunga che uno stuolo di parlamentari di An avevano chiesto ad Alfano di cogliere l’occasione della ricorrenza per ribaltare, in piazza, la sentenza definitiva della Cassazione che ha condannato Giusva Fioravanti e Francesca Mambro come esecutori materiali della strage di Bologna, sposando bislacche “piste alternative” come quella palestinese. Che avrebbero dovuto fare, i bolognesi: annunciare applausi entusiasti, ricchi premi e cotillons?

Di tutte queste provocazioni, però, Battista s’è dimenticato di scrivere. Anzi, forse non se n’è neppure accorto. La sua concezione pompieristica del giornalismo lo porta a tralasciare le travi governative per concentrarsi sulle pagliuzze dell’opposizione. Non vede nulla di quel che accade (Lodo, impunità, revisionismo, razzismo, piduismo di ritorno), ma in compenso vede benissimo quel che non accade (i fischi). Tant’è che sul Lodo, la bloccaprocessi, la legge bavaglio alla stampa, la schedatura dei bambini rom, le denunce dell’Europa contro l’Italia e le altre vergogne dei primi tre mesi di governo non ha ancora scritto una riga, mentre agli eventuali fischi non ancora accaduti ha già dedicato un vibrante editoriale. Berlusconi chiama “eroe” Mangano e “metastasi” la magistratura, Gasparri dà della “cloaca” al Csm, Bossi infila il dito medio nell’Inno nazionale e annuncia 300 mila fucili pronti a sparare, ma Pigi si sveglia soltanto quando un anonimo rifondarolo bolognese annuncia qualche fischio al ministro Alfano: questa sì è “violenza”, questa sì è “minaccia”. Si ripete così, paro paro, la pantomima della presunta “cacciata del Papa dalla Sapienza”: un gruppo di studenti e insegnanti annunciò di voler contestare il Pontefice, il quale preferì rinunciare alla visita, e subito il coro dei tromboni cominciò a suonare la grancassa su una “censura” mai avvenuta. Ora Alfano, ben sapendo di essere quello del Lodo e della guerra alla Giustizia, annusa l’aria che tira a Bologna e, coraggiosamente, se la dà a gambe di fronte al rischio di quattro fischi in piazza. Il governo gli copre la ritirata con un tragicomico comunicato in cui gli chiede “il sacrificio di rinunciare”. E, al suo posto, manda l’incolpevole ministro Rotondi, nella speranza che non venga riconosciuto. Per chi non lo sapesse, è quello che l’altro giorno svelava a La Stampa il principio ispiratore della prossima riforma della magistratura: «Colpirne uno per educarne cento». Un “uomo del dialogo”, direbbe Battista. Oggi si prega vivamente di applaudirlo. Anzi, possibilmente, di fargli la ola.

Pubblicato il: 02.08.08
Modificato il: 02.08.08 alle ore 12.46   
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« Risposta #62 inserito:: Agosto 03, 2008, 07:51:05 pm »

Lavoro duro giovedì gnocca

Marco Travaglio


Questo è un elogio sperticato a Silvio Berlusconi. Una dichiarazione, se non d’amore, di ammirazione totale, sincera e incondizionata al politico più trasparente che l’Italia abbia mai avuto. Più trasparente e più frainteso.

Lui fa di tutto per mostrarsi per quello che è. E quelli che gli stanno intorno fanno a gara a scambiarlo per un altro.

Così l’altroieri, stufo dei continui equivoci che lo gabellano ora per uno statista, ora per un riformatore, ora per un cultore del dialogo sulla giustizia e sulla legge elettorale, ora per un marito modello e un padre esemplare, ha voluto smentirli tutti insieme mostrando ai fotografi l’agenda di una sua giornata-tipo a Palazzo Chigi (quella di mercoledì 30 luglio). Una sorta di auto-intercettazione in diretta: non potendo più esser processato grazie all’auto-immunità, ha pensato bene di auto-intercettarsi, divulgando il calendario della dura vita da premier (“Vedete come mi fanno lavorare!?”). “Berlusconi ­ diceva Montanelli - non delude mai: quanto ti aspetti che faccia una scempiaggine, la fa”. Ma sempre oltrepassando le peggiori aspettative. Non si riesce mai a pensarne abbastanza male: lui riesce sempre a trasformare il più accanito detrattore in un ingenuo minimalista. L’Agenda del Presidente è doppia, nel solco della tradizione di Milano2, della P2, di Olbia2 e prossimamente di Arcore2.

L’Agenda 1, curata dal suo staff, è riconoscibile da due caratteristiche: è scritta al computer e contiene appuntamenti con soggetti di esclusivo sesso maschile, in genere molto noiosi (Schifani, Letta, Fini, Scajola). Nell’Agenda 2 invece, annotata di Suo pugno, gran preponderanza del genere femminile. Pochissimi i maschi, perlopiù avvocati (Ghedini) o pregiudicati (Bossi e Previti). Col vecchio Cesarone, che si ripropone sempre come la peperonata, l’appuntamento è alle ore 16. Seguono un paio d’ore di assoluto relax con “Manna”, nel senso di Evelina, la grande attrice oggetto di frenetiche trattative con Saccà; e poi con “Troise”, nel senso di Antonella, la nota artista anch’essa raccomandata a Raifiction perché stava “diventando pericolosa” (s’era messa a parlare). Così ritemprato dal doppio incontro al vertice, il premier ha potuto affrontare alle 19 un altro summit: con Nunzia Di Girolamo, la procace neodeputata di 32 anni, già destinataria di pizzini amorosi in pieno emiciclo. Completa la giornata dell’insigne latrin lover, alle 20.30, una tipa dal nome più che promettente: Selvaggia. Manca la Carfagna, ma è anche vero che la settimana è fatta di sette giorni e questo è solo il programma del mercoledì.

Segue il giovedì (gnocca). Chi aveva pensato di agevolargli il Lodo Alfano perché “un primo ministro non ha tempo per governare e seguire i processi”, è servito: ora che è libero dai processi, egli si dedica come prima e più di prima al suo passatempo preferito. Che non è proprio quello di governare. Così la stampa della servitù, tipo “Chi” e “Il Giornale”, la pianterà finalmente di screditarlo con quelle umilianti foto della Sacra Famiglia piccolo-borghese, lui mano nella mano con Veronica e tutto il cucuzzaro riunito intorno al focolare. Marito esemplare un par di palle, lui riceve anche quattro ragazze al giorno, alla facciazza dei bacchettoni che gli ronzano intorno. Ce n’è anche per la cosiddetta opposizione che astutamente ha smesso da un pezzo di ricordargli il conflitto d’interessi perché pare brutto demonizzare. Ad essa ha dedicato un paio di appuntamenti: quello col produttore di Endemol Marco Bassetti e quello con il consigliere Rai Marco Staderini (Udc), incerto fino all’altroieri sul caso Saccà. Come a dire: lo vedete o no che continuo a occuparmi delle mie tv, Mediaset e soprattutto Rai?

Devo proprio insegnarvelo io come si fa l’opposizione? Completa il papello una noticina autografa a pie’ di pagina: “Il Presidente N°1. Al Presidente con più vittorie/più vittorioso nella storia del calcio. Milan A.C. Campione del Mondo. N°1 nella storia del calcio”.

Se l’è scritto da solo: un caso di auto-training vagamente inquietante, almeno dal punto di vista psichiatrico.

In compenso, nemmeno un cenno ai temi che tanto appassionano il resto, cioè la parte inutile, del mondo politico e della stampa al seguito: dialogo sulle riforme, modello alla tedesca corretto all’austro-ungarica, bicameralismo imperfetto, federalismo fiscale, simposii e seminari delle fondazioni, patti della spigola sulla “fase costituente”.

Lui non ha tempo per simili menate. “Ore 16, Previti”. Poi “Manna-Troise”. La sua Bicamerale. La sua fase ricostituente.

Pubblicato il: 03.08.08
Modificato il: 03.08.08 alle ore 14.25   
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« Risposta #63 inserito:: Agosto 05, 2008, 10:35:46 pm »

Forza Israele

Ora d'aria


L’altra sera, in quella parodia di telegiornale che si fa chiamare Tg1, il ridanciano Attilio Romita annunciava giulivo come quarta notizia del giorno che “prende sempre più piede la moda dell’aperitivo in spiaggia… e allora cin-cin in riva al mare!”. In compenso, a una settimana di distanza, si attende ancora un servizio che metta a confronto Italia e Israele in relazione a una straordinaria coincidenza (entrambe le democrazie hanno il premier sott’accusa per corruzione) e a un’altrettanto straordinaria differenza: in Israele salta il premier sotto processo, in Italia saltano i processi al premier. Per legge.

Ora, visto che i servi sparsi per giornali e tg hanno raccontato per un mese che il Lodo Alfano “esiste in tutte le democrazie del mondo”, il giornalismo anglosassone di cui Johhny Raiotta è maestro (come si può notare dalla camicia bianca) imporrebbe una qualche rettifica. Del tipo: “Gentili telespettatori, vi è stato raccontato che, nelle altre democrazie, il premier è coperto da immunità: bene, siamo lieti di informarvi che non è vero, l’immunità ce l’ha solo il nostro”. Lo stesso potrebbero fare i giornali, come il Corriere, popolato di fans sfegatati di Israele nonché denunciatori indefessi della presunta “anomalia” costituita dai processi a Berlusconi. Invece niente, silenzio di tomba. E dire che, tra il caso Olmert e il caso Al Tappone, c’è un abisso. Il primo avrebbe mille ragioni in più del secondo per restare al suo posto. Olmert non è stato ancora formalmente incriminato, Al Tappone è imputato in seguito a due rinvii a giudizio e a una terza richiesta di rinvio a giudizio. Il reato contestato a Olmert è infinitamente meno grave di quelli contestati ad Al Tappone: nessuna corruzione di testimoni o di dirigenti televisivi, nessuna compravendita di senatori, nessuna frode fiscale, ma una modesta vicenda di finanziamenti elettorali non dichiarati (la miseria di 150 mila dollari ricevuti, secondo l’accusa, dal magnate americano Morris Talsunky). L’indagine a suo carico è nata dopo la sua ascesa alla guida del governo, non prima. I fatti contestati riguardano la sua attività politica, non i suoi affari privati (Olmert non ne ha). Israele, poi, è un paese in guerra da quand’è nato e nei prossimi mesi potrebbe giungere finalmente alla pace con i palestinesi.

Insomma, almeno per i canoni italioti, non sarebbe stato affatto scandaloso se Olmert si fosse presentato in tv per annunciare che sarebbe rimasto al suo posto per non lasciare senza guida il suo Paese in un momento così delicato. Invece il pensiero non l’ha neppure sfiorato. Con un discorso pieno di dignità e di senso dello Stato, che andrebbe affisso su tutte le pareti del Parlamento e del governo italiano e studiato a memoria dai nostri sedicenti rappresentanti, il premier israeliano ha detto quanto segue: “Sono fiero di appartenere a uno Stato in cui un premier può essere investigato come un semplice cittadino. Un premier non può essere al di sopra della legge, ma nemmeno al di sotto. Se devo scegliere fra me, la consapevolezza di essere innocente, e il fatto che restando al mio posto possa mettere in grave imbarazzo il Paese che amo e che ho l’onore di rappresentare, non ho dubbi: mi faccio da parte perché anche il primo ministro dev’essere giudicato come gli altri. Dimostrerò che le accuse di corruzione sono infondate da cittadino qualunque. Errori ne ho commessi e me ne pento. Per la carica che occupo ero consapevole di poter finire al centro di attacchi feroci. Ma nel mio caso si è passata la misura”.

Parole nobili che, dunque, non sono piaciute al Foglio di Giuliano Ferrara. Ammiratore fanatico di Israele, stavolta il Platinette Barbuto commenta incredulo: “La stampa israeliana è terribile, quando ha un pezzo di carne tra i denti è difficile che lo molli. Neppure se si chiama Olmert. Maariv e Yedioth Ahronot hanno pubblicato le deposizioni del premier, parola per parola… Verbali devastanti per Olmert… Dalla procura spiegano che le prove acquisite vanno ben oltre la testimonianza di Talansky... Olmert dovrà testimoniare per la quarta volta”.

Capite la gravità della situazione? La stampa israeliana fa il suo dovere e pubblica i verbali senza che nessuno chieda una legge per silenziarla. La procura spiega le prove senza che nessuno chieda l’arresto o il trasferimento dei pm. Il premier viene convocato per quattro volte dai magistrati senza che nessuno strilli all’”uso politico della giustizia”, anzi Olmert si presenta ogni volta dinanzi ai suoi accusatori anziché rispondere che ha di meglio da fare. Il capo dello Stato, anziché tuonare contro la “giustizia spettacolo” o salmodiare su presunti “scontri fra politica e magistratura”, se ne sta zitto e buono. E, udite udite, sia le opposizioni sia i vertici del partito Kadima premevano da tempo perché Olmert si dimettesse. Roba da matti. In Israele gli oppositori si oppongono senza che nessuno si sogni di accusarli di giustizialismo, dipietrismo o anti-olmertismo. Anche perché Israele non conosce fenomeni come Galli della Loggia, Panebianco, Ostellino, Battista, Romano, Franco & Franchi, Polito El Drito e gli altri trombettieri del Lodo. Che infatti, alla notizia delle dimissioni di Olmert, si son subito messi in ferie.


da unita.it
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« Risposta #64 inserito:: Agosto 05, 2008, 10:39:13 pm »

Marco Travaglio


Lodo Thailandia

"Il tribunale criminale tailandese ha dichiarato colpevole di evasione fiscale la moglie dell'ex Primo ministro Thaksin Shinawatra, la signora Pojaman, condannandola a tre anni di detenzione. La sua cauzione è stata fissata a circa 220.000 euro. La moglie di Thaksin avrebbe evaso le tasse, nel 1997, per milioni di dollari. Coinvolti anche suo fratello, Bhanapot Damapong e la segretaria, condannati rispettivamente a tre e due anni di prigione. Si è così concluso il primo dei numerosi casi di corruzione che coinvolgono Thaksin - al potere in Thailandia dal 2001 al 2006 - e la sua famiglia" (Ap, Bangkok, 31 luglio 2008).

"Ieri il tribunale penale ha riconosciuto la colpevolezza di Khunying Potjaman (moglie dell'ex Primo ministro Thaksin Shinawatra), di suo fratello Bannapot Damapong e della sua segretaria Karnchanapa Honghern per il reato di associazione a delinquere finalizzata all'evasione fiscale, nel corso di un passaggio di azioni. La corte ha stabilito che la transazione non è effettivamente avvenuta sul mercato azionario, ma è stata simulata per evitare il fisco. Bannapot e Khunying Potjaman sostenevano che le azioni fossero un dono, ma il tribunale ha dichiarato che l'affermazione non è plausibile. Anche se Bannapot non era ricco tanto quanto Khunying Potjaman, il tribunale non si è convinto che avesse bisogno di aiuto finanziario. Secondo la Corte, Khunying Potjaman e Bannapot avevano volontariamente omesso di pagare 546 milioni di Baht di tasse per il trasferimento di 4.5 milioni di azioni nella Shinawatra Computer and Communications, ora Shin Corp. Entrambi sono stati condannati a due anni di prigione per associazione finalizzata all'evasione fiscale e ad un ulteriore anno per aver fornito false testimonianze alle agenzie statali allo scopo di evadere le tasse... La Corte ha anche ammonito i tre imputati, e in modo particolare Khunying Potjaman, per non aver dato un buon esempio al pubblico: 'I tre imputati sono di alto status economico e sociale. Al tempo in cui il reato é stato commesso il secondo imputato [Khunying Potjaman] era la moglie del detentore di una carica politica. Gli imputati non solo dovrebbero essere tenuti a comportarsi da cittadini per bene, ma da loro ci si aspetterebbe anche che dessero il buon esempio. Eppure gli imputati si sono accordati per evadere le tasse, agendo contro la legge e in modo disonesto nei confronti della società e del fisco'. Un portavoce di Mr Thaksin Shinawatra ha confermato l'intenzione di proporre appello e di battersi fino ad arrivare alla Corte Suprema" (BangkokPost.com, 31 luglio 2008).

"Il rilievo dato alle attuali condizioni di vita sociale ed individuale del soggetto (Silvio Berlusconi, presidente del Consiglio, ndr) valutato dalla Corte come decisivo (per concedere le attenuanti generiche e la conseguente prescrizione del reato, ndr), non appare per nulla incongruo" (dalle motivazioni della sentenza della Corte di Cassazione che rende ddfinitiva la prescrizione per Silvio Berlusconi, imputato di corruzione giudiziaria nel caso Mondadori, 2002).

da repubblica.it
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« Risposta #65 inserito:: Agosto 09, 2008, 06:43:02 pm »

da Marco Travaglio


Dal Loft al Lost


Veltroni stronca Di Pietro sul referendum per abrogare il lodo Alfano, ma delle motivazioni addotte nessuna convince realmente  Antonio Di Pietro ha depositato il quesito referendario per abrogare il lodo Alfano: servono 500 mila firme entro il 30 settembre per votare nel 2009 insieme al referendum elettorale, altrimenti tutto slitta al 2010. Intanto il Pd tenta di raccogliere 5 milioni di firme sotto l'appello 'Salva l'Italia'. In un paese serio le due opposizioni si aiuterebbero nelle rispettive raccolte. Invece Uòlter ha subito stroncato l'iniziativa dell'(ex?) alleato, che pure nel Pd aveva già riscosso importanti adesioni (Parisi e Monaco) e pre-adesioni (Bersani e Tenaglia). Le spiegazioni del Loft, sempre più Lost, sono curiose.

1. "Non si deve ridare centralità alla polemica antiberlusconiana". Chissà perché: da novembre, quando scelse il dialogo con Berlusconi, il Pd non ha avuto che guai. Il dialogo porta sfiga;

2. "Le priorità sono altre: salari, crescita". Sta di fatto che, sondaggi alla mano, la misura più impopolare del governo è stata finora l'impunità alle alte cariche osteggiata dal 70-80 per cento degli italiani, che ha fatto crollare del 10 per cento la fiducia nel premier;

3. "La giustizia nel suo complesso non si affronta coi referendum". Ma qui nessuno vuol affrontare la giustizia nel suo complesso: solo cancellare una legge immonda con l'unico strumento possibile, visto il rapporto di forze in Parlamento;

4. "Poi non si fa il quorum e lui diventa invincibile". Più invincibile di così, sarà difficile. E poi perché non provarci? Un pacchetto referendario per restituire potere di scelta agli elettori e per una giustizia uguale per tutti diventerebbe un formidabile testa d'ariete contro i privilegi di Casta. Schiaccerebbe sulla Casta la destra, che prevedibilmente tra pochi mesi sarà in difficoltà per la crisi economica. Mobiliterebbe un fronte trasversale di cittadini. E riconcilierebbe il Pd con elettori insoddisfatti, girotondi e grillini, bollati come 'antipolitici' sol perché chiedono una politica diversa;


5. "Non si va a rimorchio di Di Pietro". Ma, se sposasse il referendum, sarebbe il Pd ad assumere il comando, visto che Idv ha (per ora) un settimo dei suoi voti. Perché non usare per le firme 'utili' del referendum la macchina organizzativa messa in piedi dal Pd per una petizione inutile?

6. "È un autogol che fa il gioco di Berlusconi". Strano: i leader e gli house organ del Pdl sparano a palle incatenate su Di Pietro e sul referendum, mentre elogiano il Pd che si oppone. Sanno bene che, da imputato, il premier ha sempre dato il peggio di sé: dal 2004, cassato il lodo Schifani, perse tutte le elezioni fino al 2006. Tutt'oggi la sola idea di tornare imputato lo fa uscire di testa. Dice: "Mi hanno assolto per gli abusi a Villa Certosa e in Spagna per Telecinco". Ma nel primo processo lui non era nemmeno imputato (lo era un amministratore, Giuseppe Spinelli, che l'ha sfangata grazie ai condoni); e nel secondo hanno assolto solo i coimputati, mentre la sua posizione, stralciata nel 2002, è ancora da giudicare. Insomma, lodo o non lodo, millanta processi e sentenze inesistenti. Per fargli perdere definitivamente la trebisonda, nulla di meglio che restituirlo al suo habitat naturale: i tribunali.

(08 agosto 2008)

da espresso.repubblica.it
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« Risposta #66 inserito:: Agosto 11, 2008, 10:25:40 am »

Marco Travaglio


Un Lodo tira l'altro


"L'immagine dell'Italia nel mondo sono io" (Silvio Berlusconi, 15 luglio 2008).



"Un politico sudafricano, Jacob Zuma, accusato di corruzione, vorrebbe evitare il processo e far poi approvare una legge costituzionale che garantisca
l'immunità al capo dello Stato in modo da non aver nulla da temere qualora dovesse vincere le prossime elezioni presidenziali.

Zuma - presidente del partito Congresso Nazionale Africano (African National Congress, Anc, ndr) - è apparso ieri davanti all'Alta corte di Pietermaritzburg e ha cercato di dichiarare nullo il processo per corruzione nei suoi confronti, un caso che potrebbe bloccargli la strada verso la presidenza, essendo egli il candidato del partito alle elezioni presidenziali
del mese di aprile 2009... Gli avvocati di Zuma insistono sul fatto che il caso dovrebbe essere annullato, sostenendo che la Procura nazionale non ha informato il politico che era sotto indagine, una indagine in realtà partita nei confronti del suo ex consulente finanziario. I legali affermano che tale azione dei magistrati è in contrasto con la Costituzione.

Il consulente finanziario di Zuma è stato condannato a 15 anni di carcere per frode e corruzione. Lo scandalo ha indotto il Presidente sudafricano, Thabo Mbeki, a destituire Zuma da vicepresidente a giugno 2005 e, sei giorni dopo, il giudice nazionale ha portato accuse contro di lui... Se la richiesta di Zuma non sarà accolta dalla Corte di Pietermaritszburg, egli probabilmente
chiederà alla Corte Suprema di respingere il caso di corruzione. Dopo la sua comparsa dinanzi al giudice, Zuma ha affrontato migliaia di sostenitori che
aveva raccolto per protestare in suo favore, ha cantato, ballato e arringato la folla.

Secondo i commentatori locali, la strategia di difesa di Zuma è di prolungare il processo oltre le elezioni di aprile 2009, in modo da approfittare del nuovo
governo - molto probabilmente diretto da lui - per sollecitare in Parlamento una riforma costituzionale che conceda l'immunità per il Capo dello Stato"
(osservatoriosullalegalita.org, 4 agosto 2008)

"Il "principio Berlusconi" é il titolo di un articolo firmato da Raenette Taljaard per il Times/South Africa.
Due i sottotitoli in evidenza. Il primo: 'Vi sono richieste per ottenere una qualche forma di sospensione del procedimento giudiziario che coinvolge Jacob Zuma, presidente dell'ANC'. Quindi il secondo: 'Il primo ministro italiano, con l'approvazione di nuove regole sull'immunità, ha stabilito un preoccupante
precedente'.

La Taljaard é attualmente Senior Lecturer presso la University of the Witwatersrand ed è stata la più giovane donna mai eletta al parlamento sudafricano, dove ha ricoperto l'incarico di portavoce dell'opposizione in importanti commissioni, prima di lasciare la carica, nel 2004.

Spiega Raenette Taljaard che 'il primo ministro italiano Silvio Berlusconi ha ringraziato i politici italiani con le parole: "Mi avete liberato", e prosegue:
'Il principio Berlusconi, che è stato approvato definitivamente in Italia la settimana scorsa, potrebbe avere gravi conseguenze per la lotta alla corruzione
in tutto il mondo. Esso non solo stabilisce un preoccupante precedente in un paese sviluppato, che sarebbe tenuto ad adottare standard più elevati nella
vita pubblica, ma crea ora un esempio da prendere come scusa per i leader dei paesi in via di sviluppo che desiderassero emulare tale principio, i quali
potrebbero usare come pretesto il fatto che si é creato un precedente, in termini di diritto comparato, che si può e si deve imitare".

L'autrice dell'articolo stabilisce poi un paragone con il proprio paese: "Questi fatti avvenuti in Italia ricordano alcuni sviluppi in Sudafrica, in particolare riguardo alle indagini sulla corruzione nel traffico di armi... si
sente parlare di richieste di amnistia, di accordo con modifica dell'imputazione o di qualche altra forma di sospensione del procedimento per il presidente dell'ANC Jacob Zuma, accusato di corruzione".

Taljaard aggiunge, caso strano: 'Recentemente, Zuma, davanti all'Alta Corte di Pietermaritzburg, non é riuscito a dimostrare con prove valide l'esistenza di
una congiura politica contro di lui".
(osservatoriosullalegalita. org, 7 agosto 2008)

"Pietermaritzburg (Sudafrica). È stato aggiornato al 12 settembre il processo per corruzione, frode e riciclaggio contro Jacob Zuma, in pole position per
diventare il prossimo presidente sudafricano nonché popolare leader dell'African National Congress (Anc), il partito al potere in Sudafrica.

Il giudice della corte di Pietermaritzburg, Chris Nicholson, nella seconda udienza del processo ha detto che si riserverà di decidere per quella data in merito al ricorso presentato dalla difesa di Zuma, che chiede l'annullamento del procedimento adducendo presunte 'irregolarità procedurali'. La decisione sul ricorso 'é in fase di deliberazione e sarà proclamato il 12 settembre', ha detto il giudice.

Zuma, 66 anni, ex vicepresidente sudafricano che in dicembre ha umiliato il rivale Thabo Mbeki nella corsa per la leadership dell'Anc, è accusato di aver
intascato centinaia di migliaia di dollari in tangenti dal gruppo francese Thales quand'era vicepresidente (1999-2005). Se verrà condannato, Zuma, già
assolto nel 2006 in un processo per stupro, ha promesso che si ritirerà dalla politica. I sostenitori di Zuma ritengono il loro beniamino vittima di un
complotto politico per impedirgli di essere eletto presidente. La difesa cerca di dilazionare il processo per evitare una possibile condanna prima delle
elezioni presidenziali della primavera 2009" (swissinfo. ch, 5 agosto 2008).

(8 agosto 2008)

da repubblica.it
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« Risposta #67 inserito:: Agosto 14, 2008, 05:23:06 pm »

Marco Travaglio


La bomba venusiana


Il revisionismo dell'editoriale di Piero Ostellino sulla strage di Bologna lascia perplessi. Non meno curioso che il giornalista, tra una sentenza della Cassazione e una congettura di Paolo Guzzanti, scelga di delegittimare la prima  L'esplosione del 2 agosto 1980
alla stazione di BolognaPiero Ostellino merita le nostre scuse. Ultimamente, soprattutto quando annunciava urbi et orbi la morte del suo cane o collegava l'arresto di Del Turco alla storica inimicizia tra Pci e Psi, l'avevamo un po' preso in giro. Ma ora, dopo lo strepitoso editoriale sulla strage di Bologna, abbiamo finalmente capito la sua diabolica manovra. Lui non crede a una parola di quel che scrive: le spara sempre più grosse apposta per vedere fin dove può arrivare la deriva revisionista del 'Corriere della Sera'.

Sinora nessuno se n'era accorto, tant'è che gli avevano sempre pubblicato tutto. Così ha deciso di esagerare, anche rispetto ai suoi notevoli standard di delirio. Ha esordito elogiando Rossana Rossanda e gli altri esponenti della "sinistra radicale" che non credono alla colpevolezza dei neofascisti Fioravanti, Mambro e Ciafardini (condannati in Cassazione), rifuggendo dalla "visione ideologica della storia" e dall'"ortodossia ufficiale" comunista. Fin qui tutto normale, a parte il fatto che non si capisce cosa c'entrino l'ideologia e l'ortodossia con le otto sentenze sulla strage.
 
Poi Ostellino fa una capatina in Urss, nella "Berlino del 1953", nell'"Ungheria del 1956", nella "Praga del '68", che per lui sono intercalari fissi: li cita anche in gelateria, quando ordina un doppio cono. Poi il colpo da maestro: "Oggi, come dice Paolo Guzzanti.". Qualunque cosa dica Guzzanti su Bologna o su qualsiasi altro argomento, è chiaro che qui si cela la trappola ostelliniana. Pare di vederlo, il vecchio Piero, tutto compiaciuto davanti al computer: "Ora gli cito Guzzanti, così finalmente lo capiranno al 'Corriere' che li sto prendendo per i fondelli".

Guzzanti è il leggendario presidente della commissione Mitrokhin che pendeva dalle labbra del 'superconsulente' Mario Scaramella a proposito del ruolo-chiave di
Romano Prodi nel Kgb e nel delitto Moro. Scaramella, per un'altra impresa truffaldina, ha poi patteggiato quattro anni per calunnia. Ma che dice Guzzanti? Che "alla sentenza per la strage di Bologna nessuno crede". E Ostellino lo cita come un ipse dixit.
Ora, è mai possibile che, tra le Sezioni unite della Cassazione e Guzzanti, uno sano di mente scelga Guzzanti? Anche un bambino fiuterebbe la provocazione e gli farebbe uno squillo: "Scusa, Piero, ma ti senti bene?". Invece niente: anche stavolta il 'Corriere' pubblica tutto. Così i lettori apprendono dalla penna di Ostellino che la Rossanda, contestando la sentenza di Bologna, "si sottrae all'uso strumentale delle verità giudiziarie e si interroga in piena libertà su cosa sia realmente accaduto", mentre "la sinistra ufficiale (cioè, par di capire, la Cassazione, ndr.) resta preda dell'obiettivo di delegittimare chi governa (Fioravanti e Mambro, com'è noto, sono ministri, ndr.)".
 
È una bella idea, comunque: sottrarre i processi per strage alle corti d'Assise e di Cassazione per affidarli a Ostellino, giudici a latere Rossanda e Guzzanti. Ne verrà fuori che la bomba a Bologna la piazzarono i Venusiani. La sentenza la pubblicherà il 'Corriere', a puntate. Ma, stavolta, dopo ampio dibattito.

(14 agosto 2008)


da espresso.repubblica.it
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« Risposta #68 inserito:: Agosto 25, 2008, 06:22:49 pm »

L'editorialista attacca Veltroni e il Pd

Travaglio: «Non ho capito il motivo del cambio di direttore dell'Unità»

Spera di continuare ancora la collaborazione, ma ci sono voci di un progetto di un settimanale

 

«Scusate, ma non ho capito». Il titolo già dice molto, se non tutto. Marco Travaglio, sull'Unità di lunedì, ha scritto un lungo articolo in cui spiega di non riuscire a trovare una ragione del cambio di direzione del quotidiano, da Antonio Padellaro a Concita De Gregorio, «ottima giornalista e persona squisita». Travaglio afferma di non capire il motivo del cambio di panchina, visto che il giornale, «morto nel 2000, è risorto grazie al duo Colombo-Padellaro» nonostante «il partito che l'aveva ucciso». Secondo Travaglio le «chiacchiere» sulla scarsa «multimedialità» di Padellaro sono solo una scusa.

NORMALIZZAZIONE - Travaglio fa risalire la decisione del cambio di direttore a un lavoro «negli ultimi tre mesi sottotraccia e negli ultimi tre giorni alla luce del sole» direttamente ai vertici del Partito democratico e in particolare al suo segretario Walter Veltroni. Per il giornalista tutto parte dall'intervista rilasciata da Veltroni al Corriere della Sera dopo l'acquisizione dell'Unità da parte di Renato Soru. Veltroni, dice Travaglio, già allora «auspicava un "direttore donna". Perché, si chiede Travaglio, il segretario di un partito avanza la proposta di un cambio di direzione di un giornale che «non appartiene né a lui né al suo partito»? Secono il giornalista è il completamento di un «disegno avviato nel 2005, quando Furio Colombo fu defenestrato dopo mesi di mobbing praticato da ben noti ambienti Ds, insofferenti per la linea troppo autonoma, troppo aperta, diciamo pure troppo libera del giornale».

I VERI NOMI DELLE COSE - E per quale motivo ai Ds, e ora al Pd, non andava bene questa linea? Perché, secondo Travaglio, l'Unità è l'unica «a dire le cose che non si possono dire e a vedere le cose che si preferisce non vedere». In particolare a chiamare «le cose con il loro nome e non con gli pseudonimi berlusconiani e "riformisti». Tra questi «chiamare guerra la guerra e non missione di pace; separatismo il separatismo e non federalismo fiscale; razzismo il razzismo e non sicurezza; inciucio l'inciucio e non riformismo», e così via. Travaglio dice quindi che l'Unità è l'unica a fare una vera opposizione «al Caimano», tanto che lo stesso Berlusconi «riconosce subito i veri oppositori» e lo dimostrò «nei giorni delle ultime elezioni» quando «tornò a sventolare minacciosamente l'Unità additandola a nemico pubblico numero uno... anziché Il riformista o Europa». Poi l'accusa politica più dura nei confronti del Pd e di Veltroni: «Mentre la gran parte dell'opposizione dialogava o andava a rimorchio, l'Unità ha continuato pervicacemente a proporre un'altra agenda, un altro pensiero, un altro vocabolario».

COLLABORAZIONE - Continuerà Travaglio a collaborare con l'Unità? Il giornalista non si chiude tutte le porte alle spalle: «È stata una splendida avventura. Speriamo che continui ancora a lungo», termina l'articolo, anche perché prima aveva scritto che la neodirettrice De Gregorio gli aveva «garantito massima continuità e libertà». In ogni caso, le lettere dei lettori pubblicate dall'Unità sono in gran parte schierate con l'ex direttore Padellaro, e non sanno spiegarsi le ragioni del cambio. La stessa tesi di Travaglio. Del futuro di Travaglio ne parla Repubblica: il direttore di Chiarelettere, Lorenzo Fazio, starebbe lavorando al progetto di un «settimanale di denuncia» che dovrebbe «riunire Di Pietro e i transfughi dell'Unità, gli ex direttori Colombo e Padellaro». Fazio afferma a Repubblica che «con Travaglio ne abbiamo parlato tante volte e ci siamo detti che sarebbe bello avere anche uno strumento giornalistico per ospitare reportage critici contro il potere».


25 agosto 2008

da corriere.it
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« Risposta #69 inserito:: Agosto 25, 2008, 06:28:25 pm »

Scusate ma non ho capito

Marco Travaglio


Leggo e rileggo il comunicato dell’editore e, lo confesso, continuo a non capire. Una sola cosa capisco: il licenziamento di Antonio Padellaro da direttore de l’Unità non dipende dal fatto che Padellaro non è abbastanza «multimediale». Sgombero subito il campo da un paio di equivoci.

Primo: sono molto affezionato al principio di autorità, nonché al motto lombardo "offelè, fa el to mestè". Dunque riconosco agli editori il potere di nominare i direttori che più li aggradano e non penso affatto che l'umile collaboratore di un giornale debba metter becco nelle loro decisioni. Ma, siccome a questo giornale collaboro fin dal 2002, avrei preferito che qualcuno spiegasse ai lettori e ai giornalisti dell'Unità perché l'avventura di questo giornale morto nel 2000 e risorto nel 2001 grazie al duo Colombo-Padellaro, a una redazione tenace disposta a ogni sacrificio e a un pugno di editori coraggiosi debba concludersi così bruscamente e inspiegabilmente.

Secondo: sono abituato a basarmi sui fatti e dunque non farò processi alle intenzioni, ergo non dirò una parola sul nuovo direttore, Concita De Gregorio, se non che è un'ottima giornalista e una persona squisita, che ho avuto modo di sentirla un paio di volte nelle ultime settimane, che mi ha garantito massima continuità e libertà, che le auguro i migliori successi.

Ma il punto è ciò che è accaduto finora, negli ultimi tre mesi sottotraccia e negli ultimi tre giorni alla luce del sole. Prima le voci. Poi l'intervista di Walter Veltroni al Corriere della Sera che, all'indomani dell'acquisto dell'Unità da parte di Renato Soru, auspicava un "direttore donna", cioè il licenziamento di Padellaro (che purtroppo è maschio). Lì s'è avvertita la prima, violenta rottura: non è usuale che un segretario di partito licenzi un direttore di giornale e indichi le caratteristiche del successore, specie se quel giornale non appartiene né a lui né al suo partito. Se, nell'autunno del 2002, pur provenendo da tutt’altra storia e tradizione, accettai con gioia la proposta di Colombo e Padellaro, mediata dal comune amico Claudio Rinaldi, di collaborare all'Unità con una rubrica quotidiana, fu proprio perché l'Unità non era più un giornale di partito, ma un giornale libero, che rispondeva soltanto ai suoi editori, direttori e lettori. Infatti in questi sei anni mi sono sentito libero di scrivere in assoluta autonomia, senza mai subire la benchè minima censura. Ora quel fatto da troppi trascurato -­ l'intervista di Veltroni - comporta una svolta non da poco, un peccato originale destinato inevitabilmente a incombere sul futuro.

Il secondo fatto è che l'uscita di scena di Padellaro segue, a tre anni di distanza e in qualche modo completa, quella di Colombo, l'altro direttore che aveva resuscitato l'Unità. E attende spiegazioni più plausibili delle chiacchiere sulla "multimedialità". Il giornale va male? Pare di no, anche se paga le scarse risorse finanziarie (e pubblicitarie) e, politicamente, la grande depressione seguita al biennio della cosiddetta Unione al governo. Se dunque non è un problema di copie (la media giornaliera di 48 mila, con 274 mila lettori, è tutt'altro che disprezzabile, visti i chiari di luna, e speriamo di non doverla mai rimpiangere), è un problema "di linea". Lo stesso che era stato sollevato nel 2005, quando fu allontanato Colombo.

Ora l’esperienza nata sette anni fa dalla straordinaria alchimia di questi due direttori, capaci di coinvolgere e coalizzare in una sorta di campo-profughi collaboratori delle più varie provenienze e culture, oggettivamente si chiude. Si finisce il lavoro e si completa il disegno avviato nel 2005, quando Furio fu defenestrato dopo mesi di mobbing praticato da ben noti ambienti Ds, insofferenti per la linea troppo autonoma, troppo aperta, diciamo pure troppo libera del giornale. Tre anni fa il disegno si compì a metà, magari nella segreta speranza che Antonio capisse l’antifona e riconsegnasse il giornale al partito che l'aveva ucciso. Padellaro, pur con la sua diversa sensibilità rispetto a Colombo, l'antifona non la capì. Continuò a scrivere e a farci scrivere in assoluta libertà. Beccandosi le reprimende più o meno sotterranee di molti politici del Pd e quelle pubbliche del Caimano. Il quale avrà tanti difetti, ma non quello di nascondere simpatie e antipatie. Lui i veri oppositori li riconosce subito e, a suo modo, li onora molto meglio di chiunque altro. Infatti, a dimostrazione del nostro successo, nei giorni delle ultime elezioni tornò a sventolare minacciosamente l'Unità additandola a nemico pubblico numero uno (chi sostiene che l'antiberlusconismo fa il gioco di Berlusconi, mentre le vere spine nel fianco del Cavaliere sono i "riformisti", spiegherà forse un giorno perché lui abbia continuato a sventolare l’Unità, anziché Il Riformista o Europa, semprechè ne abbia notata l'esistenza).

Ora, è evidente che la chiusura di questo ciclo non si deve a lui. E’ il padrone di quasi tutto, ma non ancora di tutto. Lo si deve a chi, nel centrosinistra, vedeva in questa Unità una minaccia. Salvo poi, si capisce, meravigliarsi insieme a Nanni Moretti se l'opinione pubblica latita (o forse, più propriamente, non trova sponde politiche, punti di riferimento, occasioni di manifestarsi e manifestare). Nell'Agenda Unica del Pensiero Unico del Padrone Unico, mentre la gran parte dell'opposizione dialogava o andava a rimorchio, l'Unità ha continuato a proporre pervicacemente un'altra agenda, un altro pensiero, un altro vocabolario. A dire le cose che, altrove, non si possono dire e a vedere le cose che, altrove, si preferisce non vedere. Nel paese dove, come ha detto efficacemente Gianrico Carofiglio all’Espresso, «da 15 anni Berlusconi è il padrone delle parole della politica», perché «ha scelto lui i nomi con cui chiamare le cose e gli argomenti», l’Unità portava ogni giorno in prima pagina altre parole, continuando ostinatamente a chiamare le cose col loro nome, non con gli pseudonimi berlusconiani e dunque "riformisti": su questa Unità la guerra è guerra, non missione di pace; il separatismo è separatismo, non federalismo fiscale; il razzismo è razzismo, non sicurezza; il monologo è monologo, non dialogo; l’inciucio è inciucio, non riformismo; il regime è regime, non governo di destra con cui dialogare; i mafiosi sono mafiosi e i corrotti corrotti, non vittime del giustizialismo; i processi sono processi, non guerra tra giustizia e politica; le leggi incostituzionali sono leggi incostituzionali, non risposte eccessive a problemi reali; Mangano era un mafioso e chi lo beatifica non «fa una gaffe»: è come lui.

Mentre scrivo, ho appena letto l'addio di Padellaro. E mi tornano alla mente le nostre mille telefonate all'ora di pranzo (mi sveglio tardi) per decidere insieme la rubrica del giorno. Scambi di battute e trovate che nascevano cazzeggiando e ridendo fra noi fino alle lacrime e poi finivano regolarmente nel "Bananas", poi nell'"Uliwood Party", infine nell'"Ora d'aria". Articoli che, come spesso ci ripetevamo, potevano uscire su un solo quotidiano: questo. Quello che dava il nome alle celebri feste estive, dalle quali sono bandito da quattro anni, pur scrivendo sull'Unità quasi ogni giorno da sei (ma ora han cambiato opportunamente nome). «Un giorno - mi diceva spesso Antonio, tra il serio e il faceto - me le faranno pagare tutte insieme, le tue rubriche, insieme al resto. Ma scrivi tutto, è troppo divertente». Ora che quel giorno è arrivato, mi sento soltanto di dirgli grazie. Per avermi sopportato, da gran signore e da liberale autentico, a suo rischio e pericolo. È stata una splendida avventura. Speriamo che continui ancora a lungo.

Pubblicato il: 25.08.08
Modificato il: 25.08.08 alle ore 13.26   
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« Risposta #70 inserito:: Agosto 26, 2008, 06:39:34 pm »

I dolori del giovane Letta


Per il politico è ora archiviare l'antiberlusconismo. Ma non si accorge che in questo modo si rischia di dimostrare ancora di più la vitalità del berlusconismo   Il giovane Enrico Letta lancia due idee fulminanti per "una opposizione netta e intransigente". 1. "Prendere Pippo Baudo come portavoce". 2. "Archiviare l'antiberlusconismo", perché "con l'antiberlusconismo non vinceremo più: tutti si interrogano sul post berlusconismo e noi dobbiamo essere tra quelli".

La prima è notevole, specie per un politico di 42 anni: affidare un partito neonato a un signore di 72, coetaneo del premier. La seconda ricorda il 'fàmolo strano' di Carlo Verdone: opporsi a Berlusconi, ma senza opporsi. Il Cavaliere ha stra-rivinto le elezioni, ha approvato la Finanziaria in 9 minuti netti, s'è autoimmunizzato dai processi in 25 giorni, dispone di una maggioranza schiacciante e di una opposizione inesistente, prende applausi persino quando finge di spazzare Napoli con la ramazza (passo successivo, come da profezia di D'Alema, lo scolapasta in testa). Intanto dal Pd si librano Amato e Bassanini, atterrano nei pressi di statisti come Alemanno e Calderoli e vincono l'oro nello sport nazionale del salto sul carro del vincitore.

In questo panorama Letta jr. che t'inventa? La fine del berlusconismo, ergo dell'antiberlusconismo. Senza accorgersi che proprio chi parla di antiberlusconismo dimostra la vitalità del berlusconismo. L'ha detto Gianrico Carofiglio a 'L'espresso': "Il Cavaliere è padrone di tutto, anche delle parole". I democratici Usa sono contro Bush, i popolari spagnoli contro Zapatero, i socialisti francesi contro Sarkozy. Ma nessuno s'interroga sull'antibushismo, antizapaterismo, antisarkozismo delle opposizioni. In Italia, oltretutto, l'establishment di centrosinistra non è mai stato antiberlusconiano. Mentre Silvio & C. fabbricavano calunnie contro i leader del centrosinistra (campagne anti Di Pietro, commissioni Telekom Serbia e Mitrokhin) o tentavano ribaltoni comprando ministri e senatori, l'altra parte predicava il dialogo. Per cinque volte Berlusconi è stato eletto sebbene ineleggibile: nel '96 e nel 2006 la maggioranza di centrosinistra ratificò la sua elezione illegittima. La fine dell'antiberlusconismo data almeno dal 7 luglio '95, quando Berlusconi, Previti e Letta senior furono invitati al congresso del Pds. "Basta demonizzare l'avversario", disse D'Alema, "basta cultura del nemico. Col Polo ci vuole rispetto e dialogo sulle regole". "Basta uso strumentale della magistratura", fece eco Veltroni, "mai più alleanze contro Berlusconi". Infatti, nel 1996-2001 e nel 2006-2008, Ulivo e Unione vararono tutte le leggi contro la Giustizia richieste dal Cavaliere, promosso padre costituente in Bicamerale, ed evitarono di risolvere il conflitto d'interessi e di attuare le sentenze della Consulta sull'antitrust tv. Il giovane Letta, politicamente più anziano dello zio Gianni, c'era già. Vuol essere così gentile da indicarci quando mai il centrosinistra fu antiberlusconiano? Se poi si dovesse scoprire che non lo è mai stato, il Pd potrebbe provare a diventarlo almeno una volta. Tanto per cambiare un po'. E vedere di nascosto l'effetto che fa.

(26 agosto 2008)

da espresso.repubblica.it
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« Risposta #71 inserito:: Agosto 29, 2008, 11:26:12 pm »

Marco Travaglio


Garanti a modo loro


Il Garante della Privacy ha stabilito che periti e consulenti tecnici non possono conservare informazioni acquisite durante l'incarico. Una decisione discutibile perchè le idagini si possono riaprire  Il Tribunale di MilanoI periti dei tribunali e i consulenti tecnici dei pm non possono più tenere nei loro archivi i dati e i documenti raccolti per un'indagine dopo che questa è terminata, ma devono restituirli ai magistrati o 'cancellarli'. Rigorosamente vietato "conservare, in originale o in copia, in formato elettronico o su supporto cartaceo, informazioni personali acquisite nel corso dell'incarico".

L'ha stabilito il Garante della Privacy con la delibera n. 178, pubblicata sulla 'Gazzetta ufficiale' il 31 luglio scorso. La decisione è molto discutibile: chiusa o archiviata un'indagine, se ne può sempre aprire un'altra se emergono elementi nuovi. E spesso è molto utile che il consulente conservi i dati vecchi per riusarli e incrociarli con quelli nuovi, senza dover ripartire da zero. Ora non si potrà più farlo. Chissà perché: le banche dati dei periti non presentano alcun rischio per la privacy, visto che questi sono pubblici ufficiali tenuti alla massima riservatezza.

Ma le perplessità aumentano se si guarda al relatore della delibera destinata a svuotare le indagini cancellando la memoria storica di tanti scandali: quella del vicepresidente dell'Autorità garante, Giuseppe Chiaravalloti. Ex magistrato, ex governatore forzista della Calabria, Chiaravalloti è indagato a Catanzaro per associazione a delinquere nell'inchiesta Poseidone del pm Luigi de Magistris (anche se il nuovo pm ha chiesto la sua archiviazione) e a Salerno per corruzione giudiziaria e minacce. Ora, si dà il caso che a entrambe le indagini abbia collaborato uno dei più celebri consulenti giudiziari d'Italia: il vicequestore Gioacchino Genchi, un mago nell'incrocio dei tabulati telefonici, già preziosissimo nei processi sulle stragi mafiose del 1992-93, più volte attaccato da politici e imputati, soprattuttoda politici imputati.


Ed è piuttosto curioso che a impartire le nuove direttive ai consulenti, lui compreso, sia proprio uno dei suoi 'clienti' più illustri. Possibile che il Garante Franco Pizzetti abbia designato proprio Chiaravalloti come relatore, in barba al suo plateale conflitto d'interessi? Forse la scelta è caduta su di lui per la competenza maturata in fatto di indagini giudiziarie (a carico). O magari per le sue doti profetiche. In una telefonata intercettata due anni fa con la segretaria, Chiaravalloti così parlava di De Magistris: "Questa gliela facciamo pagare. Lo dobbiamo ammazzare. No, gli facciamo cause civili per danni e ne affidiamo la gestione alla camorra napoletana... Saprà con chi ha a che fare... C'è quella sorta di principio di Archimede: a ogni azione corrisponde una reazione... Siamo così tanti ad avere subìto l'azione che, quando esploderà, la reazione sarà adeguata!. Vedrai, passerà gli anni suoi a difendersi". Infatti De Magistris è stato trasferito dal Csm lontano da Catanzaro. I pm che l'hanno rimpiazzato hanno subito revocato ogni incarico a Genchi. In compenso l'indagato Chiaravalloti continua imperterrito a vice-garantire la nostra privacy, e soprattutto la sua. E ora dà perfino gli ordini ai consulenti dei giudici. Giustizia è fatta.

(29 agosto 2008)


da espresso.repubblica.it
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« Risposta #72 inserito:: Agosto 30, 2008, 11:44:02 pm »

30 agosto 2008, in Marco Travaglio


I Mastella’s

Ora d'aria
l'Unità, 29 agosto 2008

Un caso umano si aggira per le cronache politiche. Il suo nome è Clemente Mastella. Lo statista ceppalonico, in astinenza da poltrone da quando in gennaio rovesciò il governo Prodi abboccando alle lusinghe del Cainano (che poi non candidò neppure lui e la sua signora), ha lanciato dal suo blog uno straziante appello: “Chi crede nel Centro si faccia avanti”. Nemmeno un commento. Allora s’è trasferito in Abruzzo, proponendo un “patto” al Pd per una candidatura innovativa (la sua), come se il Pd abruzzese non avesse abbastanza noie giudiziarie. Infatti, nessuna risposta. “La campagna elettorale dell’Udeur inizia da Ovindoli”, ha annunciato indomito in un comizio dinanzi a se stesso.

Anche la sua signora, Sandrina Lonardo, indagata a Napoli per tentata concussione e dunque regolarmente al suo posto di presidente del consiglio regionale della Campania, miete successi a piene mani. La Cassazione ha appena respinto il suo ricorso contro l’ordinanza del Gip di Napoli, che le aveva trasformato gli arresti domiciliari (disposti al Gip di S.M.Capua Vetere) in obbligo di dimora, poi revocato. La signora chiedeva di dichiarare quel provvedimento infondato, per farsi risarcire dallo Stato i danni per l’ingiusta detenzione. Purtroppo la Corte ha stabilito che la detenzione era giusta e “tutte infondate” erano le sue lagnanze, condannandola a pagare le spese processuali: avevano ragione i pm e i giudici di Santa Maria, vilipesi da Mastella & C. come “macchiette politicizzate” e complottarde.

Purtroppo, a parte qualche cittadino armato di microscopio elettronico, nessuno ha saputo della sentenza, relegata in alcuni trafiletti comparsi su un paio di quotidiani (dai principali tg, invece, silenzio di tomba). La sentenza integrale illustra il sistema clientelare illegale messo in piedi dai Mastella’s. E fa a pezzi le scombiccherate teorie con cui fior di politici e commentatori assolsero l’allora ministro della Giustizia e i suoi cari nella standing ovation in Parlamento e in decine di editoriali. La tesi è nota: raccomandare e lottizzare non è reato perché “così fan tutti” e se i magistrati se ne occupano “invadono il campo” della politica. Secondo la Cassazione invece “sussistono i gravi indizi di colpevolezza richiesti dall’ art. 273 Cpp sull’ipotizzato reato di tentata concussione”. Lady Mastella è “accusata di avere, nella sua qualità di presidente del Consiglio regionale della Campania, in concorso con il marito Clemente Mastella” e di altri esponenti Udeur, “tentato di costringere Luigi Annunziata, direttore generale dell’azienda ospedaliera S.Sebastiano di Caserta, nominato nel 2005 su indicazione dell’Udeur, a sottostare alle indicazioni del partito”. Ma Annunziata rifiuta e nomina gente brava, anziché di partito. Apriti cielo. “Quello è un uomo morto”, strilla la signora al telefono col consuocero. E tenta di “defenestrarlo”, “anche con una campagna di stampa”.

Nell’aprile 2007 promuove un’interpellanza Udeur “con cui si chiedono spiegazioni al governo regionale circa il possesso dei requisiti dell’Annunziata per la nomina a dg”. Poi però l’interpellanza viene congelata: “la Lonardo e gli altri coindagati fanno giungere all’Annunziata un messaggio di possibile riconciliazione, facendogli intendere che l’interpellanza può essere ritirata qualora nomini De Falco e Viscusi, ‘graditi’ alla Lonardo, primari di neurochirurgia e cardiologia del S.Sebastiano. Annunziata non accetta l’imposizione. In risposta, la Lonardo ripropone l’interpellanza”. E incontra l’assessore alla Sanità per far cacciare Annunziata. “Nella ricostruzione appaiono tutti gli elementi costitutivi del reato di concussione. L’abuso consiste nella strumentalizzazione da parte dell’indagata dei suoi poteri di presidente del Consiglio regionale: in tale veste ha esercitato in maniera distorta le attribuzioni del suo ufficio, piegandone finalità e obiettivi per interessi particolari, estranei all’interesse pubblico, violando i principi di imparzialità e buon andamento dell’amministrazione pubblica posti dall’art. 97 della Costituzione”, il tutto per “rafforzare la presenza del partito nelle istituzioni pubbliche, perpetuando una politica di occupazione e spartizione clientelare nei posti di responsabilità nelle pubbliche amministrazioni, secondo criteri di appartenenza politica e non di competenza tecnica”. Ecco perché è stata arrestata e dovrebbe risarcire lo Stato, anzichè batter cassa dallo Stato. Ed ecco perché si vuole riformare la Giustizia e la Costituzione.
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« Risposta #73 inserito:: Agosto 31, 2008, 10:37:03 pm »

31 agosto 2008, in Marco Travaglio

Al cittadino non far sapere

Ora d'aria
l'Unità, 31 agosto 2008

Grazie alle intercettazioni giustamente pubblicate da Panorama, sappiamo come si comportava il premier Romano Prodi dinanzi a richieste di raccomandazione. Cioè all'opposto di Berlusconi. Quando il consuocero, primario a Bologna, chiese fondi pubblici per una struttura pubblica di ricerca biomedica, Prodi girò la pratica al ministro competente Mussi, che liberamente decise di no. Idem quando un amico industriale farmaceutico chiese agevolazioni fiscali per una fondazione scientifica: la pratica passò al Tesoro che, avendo già deliberato per il 2007, suggerì di rifarsi vivo nel 2008 (nulla di fatto anche in quel caso). Quando invece un nipote chiedeva consigli privati per una società privata, Prodi privatamente glieli dava. Grazie, poi, alle dichiarazioni di Prodi, abbiamo almeno un politico (purtroppo in pensione) che non ha nulla da nascondere e dunque chiede di pubblicare tutte le sue telefonate intercettate. E rifiuta la solidarietà pelosa di chi, a destra e a sinistra, vorrebbe il silenzio stampa per legge: così si saprà che esistono intercettazioni su Tizio o Caio, ma queste resteranno nel cassetto, così Tizio o Caio rimarranno sospettati a vita anche se non han fatto nulla di male.

Anche stavolta, come ciclicamente accade da qualche anno, cioè da quando le intercettazioni hanno svelato ai magistrati (e ai cittadini italiani) gravissimi scandali, s’è messa in moto la compagnia di giro di politici e commentatori specializzati nell’invocare “una legge sulle intercettazioni”: guinzaglio ai giudici e bavaglio ai cronisti. Solo che stavolta lorsignori non si sono accorti di un particolare non da poco: quelli pubblicati da Panorama non sono atti pubblici, cioè già depositati a indagati e avvocati, dunque raccontabili dalla stampa. Sono atti ancora coperti da segreto, custoditi - come scrive un po’ comicamente Panorama - in una cassaforte della Procura di Roma, cui li ha trasmessi per competenza quella di Bolzano che indaga su tutt’altro (Siemens-Italtel). Dunque chi li ha passati a Panorama - Guardia di Finanza, o magistrati o personale di Procura - ha commesso un reato: art. 326, rivelazione e utilizzazione di segreti di ufficio da parte del pubblico ufficiale o dell’incaricato di pubblico servizio. Il quale è punito col carcere da 6 mesi a 3 anni, insieme al giornalista che concorre nel suo reato (questi però è tenuto al segreto professionale e non rivela la fonte, difficilissima da individuare). Dunque è già vietato dalla legge vigente divulgare notizie segrete e non c’è bisogno di farne un’altra per vietarlo di nuovo. Si dirà: ma le notizie segrete continuano a uscire. Vero: il mondo è pure pieno di rapinatori, stupratori, spacciatori, scippatori, omicidi che continuano a delinquere anche se è già vietato rapinare, stuprare, spacciare, scippare, ammazzare. Ma a nessuno salterebbe in mente di fare ogni volta una nuova legge che proibisca comportamenti già proibiti.

Resta da capire, allora, di che vadano cianciando Sergio Romano sul Corriere e il consueto stuolo di politici bipartisan che anche ieri hanno invocato una nuova legge: il ddl Berlusconi-Alfano varato in giugno dal governo (fino a 5 anni di galera per i giudici che dispongano intercettazioni per reati puniti fino a 10 anni; fino a 3 anni di galera per i cronisti che le raccontino), o qualcosa di simile. Quella legge infatti, che per i giornalisti riprende peggiorandola la Mastella votata un anno fa da tutta la Camera (447 sì e 9 astenuti), non vieta di pubblicare atti segreti (è già vietato). Vieta di pubblicare atti pubblici: cioè verbali, avvisi di garanzia, ordini di cattura, decreti di perquisizione anche contenenti intercettazioni, già depositati alle parti, dunque non più segreti, dunque raccontabili. Atti che non c’entrano con le telefonate di Prodi, ancora segrete, come lo era la famosa conversazione Fassino-Consorte sul caso Unipol, anche allora in mano alla Guardia di Finanza e pubblicata dallo stesso cronista Nuzzi sul Giornale allora diretto dallo stesso Belpietro.

La nuova legge guinzaglio-bavaglio non servirà a impedire l’uscita di atti segreti (già vietata e punita col carcere), ma di atti pubblici. Come quelli che hanno consentito ai cittadini di essere doverosamente e tempestivamente informati sui casi Telecom, Calciopoli, Bancopoli, Sismi, Cuffaro, Del Turco e persino sui delitti nella clinica Santa Rita. Con la legge che Berlusconi da destra, l’avvocato Calvi da sinistra e Romano sul Corriere invocano a gran voce, non sapremmo ancora nulla di nulla, visto che (Cuffaro a parte) i processi non sono ancora iniziati. E i vari Moggi, Fazio, Fiorani, Consorte, Gnutti, Pollari, Pompa sarebbero ancora tutti ai posti di combattimento, liberi di continuare indisturbati, come prima e più di prima. Per la serie: al cittadino non far sapere quanti scandali nasconde il potere.
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« Risposta #74 inserito:: Settembre 03, 2008, 12:13:09 pm »

2 settembre 2008, in Marco Travaglio

Basta leggi, per carità

Ora d'aria
l'Unità, 2 settembre 2008


Dice bene Anna Finocchiaro all’Unità: “Il Pd non deve andare a rimorchio di Berlusconi”. L’agenda delle priorità e delle emergenze, finora, l’ha dettata Al Tappone, che se le canta e se le suona (anzi, ce le suona) grazie a tv e giornalisti al seguito. Resta allora da capire perché mai il Pd si sia affrettato a presentare in Parlamento un ddl sulle intercettazioni, visto che nessun italiano onesto e sano di mente ne avverte il bisogno. In Italia ogni anno vengono intercettate 15-20 mila persone, lo 0,02% della popolazione. Se si pensa che ogni anno nei tribunali giungono 3 milioni di notizie di reato, se ne deduce facilmente che le intercettazioni sono troppo poche, non troppe. Il Pd, per differenziarsi dal Pdl, sostiene che i magistrati devono continuare a farle con le regole attuali (per i reati puniti con pene superiori ai 5 anni, mentre il Pdl porta il tetto a 10 anni, con durata massima di 3 mesi). E, fin qui, ok. Ma aggiunge che bisogna impedire di pubblicarle fino al processo, non è chiaro se tutte o solo quelle che riguardano persone non indagate.

Il programma elettorale del Pd copiava pari pari la legge Mastella (approvata da destra e sinistra un anno fa alla Camera): fino a 100 mila euro di multa a chiunque pubblichi atti di indagine, anche non segreti (intercettazioni comprese), prima del processo. Ora il ddl sembra restringere il divieto alle intercettazioni che riguardano persone estranee all’inchiesta. E’ già qualcosa, ma non basta. Intercettazioni o altri atti investigativi possono contenere notizie interessanti su vicende pubbliche di personaggi pubblici che magari non costituiscono reato, ma che i cittadini han diritto di conoscere e i giornalisti hanno il dovere di raccontare. Come dice il lettore citato nell’ultimo editoriale di Concita De Gregorio, “male non fare, paura non avere”. Se un estraneo alle indagini viene intercettato indirettamente a colloquio con un indagato, e non dice e non fa nulla di male, nell’eventualità che la conversazione venga pubblicata risulterà che s’è comportato bene. E morta lì. Il caso Prodi è emblematico: non è indagato, qualche sua telefonata col consulente Ovi (intercettato) viene ascoltata e finisce sui giornali, ma lui ci fa un’ottima figura: amici e i parenti che chiedevano favori non hanno avuto alcun favore. Tant’è che lui stesso ha chiesto di pubblicare tutto: una richiesta che può essere avanzata solo da chi se lo può permettere. Dunque, per dire, non Al Tappone.

Nell’inchiesta Abu Omar, la spia del Sismi Marco Mancini tenta di salvarsi dai magistrati raccomandandosi a due ex capi dello Stato, Cossiga e Scalfaro. Cossiga, contattato direttamente, si mobilita subito attaccando e denunciando a Brescia i pm Pomarici e Spatato che indagano sul sequestro. Scalfaro, contattato tramite un amico agente di scorta, non muove un dito: anzi fa sapere a Mancini che, se ha qualcosa da dire, lo riferisca ai magistrati, che lo ascolteranno. Forse che Scalfaro si lamenterà perché, pur non essendo indagato, ha visto pubblicate le sue conversazioni? No, perché s’è comportato bene, da vero uomo delle istituzioni.

Nell’inchiesta campana sui coniugi Mastella, il consuocero della coppia è accusato di aver pilotato il concorso per l’assunzione di geologi in un consorzio, vinto da alcuni somari raccomandati, grazie all’esclusione truffaldina di un giovane geologo molto competente, risultato il migliore all’esame e dunque bocciato. Si chiama Vittorio Emanuele Iervolino (omonimo della sindaca di Napoli). Il quale non solo non è indagato, ma è addirittura vittima del reato. La sua vicenda finisce nelle intercettazioni e dunque, quando le carte diventano pubbliche, sui giornali. Lui potrebbe lagnarsi per il suo nome sbattuto in prima pagina. Invece è felicissimo. Non ha fatto nulla di male, anzi ha subìto un abuso e ora tutti sanno che era il più bravo. Tant’è che ha ricevuto diverse offerte di lavoro da aziende private (il settore pubblico quelli bravi non li vuole). Fosse già in vigore la legge del Pd, non sapremmo nulla di lui, di Scalfaro, di Prodi. Ma sapremmo che sono stati intercettati o citati nelle intercettazioni senza conoscerle, così un alone di sospetto li avvolgerebbe ingiustamente per anni, fino al processo a carico degli indagati. Insomma, la vecchia normativa va bene così: la privacy è già tutelata dalla legge sulla privacy, il segreto investigativo e la reputazione già preservati dal Codice penale. Se Al Tappone vuol intervenire, lo faccia senza proposte “migliorative” del Pd. Più le sue leggi sono incostituzionali, più aumentano le speranze che la Consulta le rada al suolo.
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