La questione nordista
Roberto Cotroneo
Francesco Totti ha lasciato la nazionale. E ha spiegato i motivi in una conferenza stampa. I giornali hanno costruito pagine sul «caso Totti». E su questo, sui motivi tecnici e personali, c’è poco da aggiungere. Però c’è un elemento che non è stato abbastanza messo a fuoco in questa storia di calcio. E non è un elemento calcistico, ma storico-culturale. Lo dice Totti esplicitamente nella conferenza stampa. «Fossi stato un giocatore del nord sarei stato trattato in modo diverso. Il romano è etichettato così, per invidia. Sono fiero di essere romano. L’Italia è formata da tantissime città, ma non tutti sono trattati e saranno trattati allo stesso modo». La romanità di Totti è qualcosa che fino ad oggi faceva parte del suo personaggio di calciatore e di capitano di una delle due squadre di club della capitale. Totti è il capitano, Totti si ama e non si discute, Totti parla romanesco e si compiace di questo, Totti ama la sua città in un modo viscerale. E naturalmente ama la “sua” Roma. In questo è un giocatore antico, come negli anni Sessanta erano Gianni Rivera per il Milan e Sandro Mazzola per l’Inter. Solo Alessandro Del Piero lo segue per attaccamento al club, e da sempre. Però nessuno prima di Totti ha mai detto: mi invidiano. Nessuno si è mai sentito diverso rispetto a tutti gli altri perché è di Roma. La romanità di Totti poteva sembrare solo un elemento, per quanto importante, del suo essere un calciatore della Roma. In realtà oggi appare come un cardine fondamentale, il più importante di tutti.
Solo che da anni, quell’idea di romanità esistita certamente negli anni Cinquanta, raccontata dal cinema neorealista, poi da attori come Aldo Fabrizi e Anna Magnani, sembrava più un’invenzione costruita a tavolino, e comunque destinata a perdersi. Roma è città di fortissima immigrazione, che specie dal dopoguerra in poi ha visto stemperarsi quell’idea della romanità fino quasi a scomparire. Invece questo episodio che riguarda la cronaca calcistica, mette in luce qualcosa che nessuno si aspettava, un sentimento profondo che esiste al di là dell’essere romani oppure no. Mette in luce un linguaggio, un romanesco tottiano che è imitato pari pari dai ragazzini che vivono a Roma e che magari sono figli di abruzzesi, siciliani, calabresi o magari emiliani. Mette in luce l’idea di Roma che si riscatta da decenni di leghismo esplicito e implicito. Esplicito nella “Roma ladrona” di bossiana memoria. Implicito nell’idea che il nord ha sempre avuto della capitale d’Italia. Ovvero di una città tronfia, superficiale, inefficiente, bella certo, ma non punto di riferimento vero.
Tutti sappiamo quanto tutto questo non sia per nulla vero. E come Roma, soprattutto negli ultimi vent’anni sia cambiata radicalmente. E tutti sappiamo che la romanità di Totti è più un sogno che una realtà, perché quella città lì, di fatto, non esiste quasi più. Ma quello che dice Totti deve far riflettere. La sua Roma, la sua città, è ancora quella che domina il mondo, che insegna alle genti, che fonda un impero immenso. È una Roma che prima di essere la capitale d’Italia è la città che si contrappone al vento del nord, al calcio freddo e persino corrotto dei club interessati da calciopoli, ed è la squadra che per vincere le partite non ha bisogno di schierare dieci stranieri su undici come fa l’Inter. E Totti d’un tratto, con la scelta dell’altro giorno, è diventato una sorta di nouveau philosophe della romanità. Un ambasciatore di una Roma nel mondo che è fatta di estro calcistico, di buoni sentimenti, di spacconate ed espressioni colorite («se poi mi parte la brocca, non lo so...»), di un linguaggio che Carlo Emilio Gadda, se l’avesse potuto sentire, ci avrebbe riscritto per intero Quer pasticciaccio brutto de via Merulana.
In fondo Totti c’è riuscito a diventare lui stesso il «core de ’sta città», come dice l’inno cantato da Antonello Venditti, a scapito dell’Inno di Mameli e della maglia azzurra. A Berlino, l’anno scorso, l’Italia «s’è desta» e ha espugnato l’Olympiastadion e la Porta di Brandeburgo, ma per Francesco, come tutti i romanisti lo chiamano da sempre, conta semmai la sua Porta Metronia e «l’unico grande amore tra tanta e tanta gente che hai fatto innamora’». Da tre giorni le radio romane non fanno altro che esaltare la decisione del capitano per la sua città. Da ora Romolo Augustolo, l’ultimo debole imperatore di un Impero ormai cancellato dai barbari, è soltanto un ritratto sbiadito. Una parentesi della storia. Da ora si torna indietro, perlomeno alle “Memorie di Adriano” se non a Romolo e Remo. E riguardo a quel nord, che a Totti piace molto poco, vale uno striscione della curva romanista, esposto allo stadio di Verona, e che forse è la sintesi geniale dell’ideologia tottiana: «Quando voi eravate ancora barbari, noi eravamo già froci».
roberto@robertocotroneo.itPubblicato il: 23.07.07
Modificato il: 23.07.07 alle ore 7.53
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