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Autore Discussione: Maria Teresa MELI  (Letto 51698 volte)
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« Risposta #75 inserito:: Ottobre 28, 2015, 06:10:47 pm »

Il retroscena
Manovra, Renzi convoca il Pd: battaglia ideologica solo per logorarmi
Il premier convinto che la Legge di Stabilità appena presentata sia il frutto di un «lavoro straordinario», malgrado le critiche arrivate anche dall’interno del partito.
«L’abbassamento delle tasse è quasi una rivoluzione»

Di Maria Teresa Meli

ROMA La polemica della minoranza sulla legge di Stabilità la dava per scontata: «Vedrete che adesso partirà un nuovo tormentone», aveva avvertito i suoi.

Ma tutto ciò non fa mutare idea a Renzi: la manovra rappresenta un «lavoro straordinario» e sotto il profilo dell’abbassamento delle tasse è quasi «una rivoluzione». Questo non significa che il governo non sia disposto a modificarne alcuni punti, però il premier tiene le carte coperte e assicura ai collaboratori che, almeno al momento, non è prevista la modifica dell’abolizione dell’Imu per le prime case di lusso: «Loro stanno facendo una battaglia ideologica, mentre il punto importante è che riducendo le tasse si consente al Paese di ripartire».

Renzi, comunque, ha chiesto a Zanda e Rosato di indire un’assemblea dei gruppi proprio per discutere in prima persona con tutti della legge.

Il premier è anche convinto che se la Stabilità «verrà spiegata bene» non vi saranno problemi con l’elettorato. E i sondaggi finora sembrano dargli ragione. Ma Renzi è anche amareggiato perché Bersani e altri esponenti della minoranza lo accusano di tradire la Costituzione: «Non parlano mai male di Berlusconi o di Grillo, ma attaccano me. L’intento è quello di logorarmi, ma io tengo duro», si sfoga con i fedelissimi.

Già, il premier è convinto che se non avesse tolto le tasse sulle prime case di lusso o se non avesse alzato a 3.000 euro la soglia del contante, i suoi oppositori avrebbero trovato comunque qualcosa a cui appigliarsi per polemizzare con lui. Ed è sicuro, che, quando si chiuderà la partita della manovra, la minoranza partirà lancia in resta per ingaggiare una nuova battaglia. L’ennesima. Ma adesso lo scontro è sulla legge di Stabilità e il presidente del Consiglio non è preoccupato, anzi intende contrastare la minoranza inchiodandola al ruolo di partito delle tasse.

Ma qualche renziano, a dire il vero, un timore ce l’ha: che alzando in questo modo il livello dello scontro, gli oppositori possano arrivare a un punto di non ritorno. Il premier, in cuor suo, invece non crede che sia in atto una scissione e che persone come Bersani, Speranza e Cuperlo stiano puntando proprio a questo obiettivo. Piuttosto, è convinto che le motivazioni che spingono i suoi oppositori siano sempre le stesse: la «ditta» non sopporta il fatto di non avere più il controllo del partito, che considera come «cosa sua». E perciò sceglie come terreno di battaglia, un terreno che le sembra il più adatto a intercettare certi umori del popolo di sinistra. «Ma - è il succo del suo ragionamento - è profondamente ingiusto bollare questa come una legge di destra, perché non lo è, è una legge che va incontro alle esigenze dei cittadini».

Così il premier, ma secondo Speranza la manovra «è fatta per cercare di attrarre i voti dell’elettorato di Berlusconi». Lo stesso ex capogruppo, comunque, non intende compiere strappi non più ricucibili. Ma gli altri, che cosa faranno? Voteranno tutti questa legge, se, alla fine, il governo dovesse mettere la fiducia? A Palazzo Chigi si ragiona anche su questa ipotesi. E non si esclude che più d’uno, sebbene non tantissimi, decida di non votare la fiducia. Ma quale sarà la reazione dei vertici del Partito democratico nei confronti di coloro che spingeranno il loro dissenso fino in fondo? Niente provvedimenti disciplinari o espulsioni, è la parola d’ordine. Ma gli elettori del Pd dovranno sapere «chi è che cerca di rimettere in piedi il Paese e chi pensa solo ad affossare il proprio governo».

19 ottobre 2015 (modifica il 19 ottobre 2015 | 11:48)
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Da - http://www.corriere.it/politica/15_ottobre_19/manovra-renzi-convoca-pd-battaglia-ideologica-solo-logorarmi-8133b2f4-761e-11e5-9086-b57baad6b3f4.shtml
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« Risposta #76 inserito:: Dicembre 09, 2015, 07:37:02 pm »

L’intervista a Matteo Renzi
«Noi non vogliamo una Libia bis La crescita? Sfideremo Bruxelles»
Ovunque il premier è anche leader del partito.
Non credo che cambierò l’Italicum.
Il salto di qualità sui consumi ci sarà quando si smuoverà il moloch del risparmio privato


Di Maria Teresa Meli

Francia, Germania e Gran Bretagna si stanno muovendo sul fronte della guerra all’Isis. Noi siamo l’unico grande Paese europeo fermo, presidente Renzi qual è la strategia?
«La posizione dell’Italia è chiara e solida. Noi dobbiamo annientare i terroristi, non accontentare i commentatori. E la cosa di cui non abbiamo bisogno è un moltiplicarsi di reazioni spot senza sguardo strategico. Tutto possiamo permetterci tranne che una Libia bis».
Non teme che così l’Italia rischia di avere un ruolo marginale nella partita libica?
«Se protagonismo significa giocare a rincorrere i bombardamenti altrui, le dico: no grazie. Abbiamo già dato. L’Italia ha utilizzato questa strategia in Libia nel 2011: alla fine cedemmo a malincuore alla posizione di Sarkozy. Quattro anni di guerra civile in Libia dimostrano che non fu una scelta felice. E che oggi c’è bisogno di una strategia diversa».
E noi restiamo fermi...
«No, siamo ovunque. L’Italia è una forza militare impressionante. Guidiamo la missione in Libano, siamo in Afghanistan, in Kosovo, in Somalia, in Iraq. Il consigliere militare di Ban Ki- moon per la Libia è il generale Serra, uno dei nostri uomini migliori. Abbiamo più truppe all’estero di tutti gli altri, dopo gli americani e come i francesi. I tedeschi hanno deciso di aumentare i loro contingenti dopo Parigi, ma ancora non arrivano al nostro livello di impegno. E ciò che loro hanno deciso nel dicembre 2015, noi facciamo dal settembre 2014. Sono fiero e orgoglioso dei nostri militari. Ma proprio perché ne stimo la professionalità dico che la guerra è una cosa drammaticamente seria: te la puoi permettere se hai chiaro il dopo. Quando diventi presidente del Consiglio ti guida la responsabilità, non la smania».
Intanto, però, Hollande interviene, e lei no.
«Ho grande rispetto, stima e amicizia personale per François Hollande. È un uomo molto intelligente, la sua reazione è legittima e comprensibile. Ma lui sta guidando una Francia ferita, che ha bisogno di dare risposte a cominciare dal piano interno. Noi vogliamo allargare la riflessione, lottando contro il terrorismo e domandandoci quale sia il ruolo dell’Europa oggi. Doveroso intensificare la lotta a Daesh, discutiamo del come. E non dimentichiamo che gli attentati sono stati ideati nelle periferie delle città europee: occorre una risposta anche in casa nostra. Ecco perché servono scuole e teatri, non solo bombe e missili. È per questo che per ogni euro speso in sicurezza l’Italia investirà un euro in cultura».
Comincia l’Anno Santo, aumentano i rischi di un attentato?
«I rischi ci sono sempre. Non facciamo allarmismi e non sottovalutiamo niente. Speriamo di replicare il successo Expo».
Il «rosso» Corbyn dice no all’intervento, come lei, mentre i blairiani sono a favore, non la imbarazza?
«Blair passerà alla storia come un gigante, non solo nel Regno Unito. Ma questo non significa che le abbia azzeccate tutte. Credo che sull’Iraq siano stati compiuti errori, possiamo dirlo o è lesa maestà? Detto questo davanti a Daesh e tutte le forme di terrorismo noi siamo pronti, anche militarmente. Se ci sarà una strategia chiara ci saremo. Ma perché questo accada adesso è cruciale un accordo a Vienna sulla Siria e uno a Roma sulla Libia: ci stiamo lavorando. Fa meno notizia di un bombardamento, ma è più utile per sradicare il terrorismo».
Lei ha deciso di stanziare 500 milioni per le periferie, ma molti sindaci dicono che sono pochi.
«Non sono pochi. E si sommano ai milioni liberati dal patto di Stabilità, agli investimenti sulle scuole e sugli impianti sportivi. Non servono miliardi per combattere il degrado ma cittadini consapevoli e progetti fatti bene, all’insegna di quell’arte del “rammendo” di cui parla Renzo Piano. Piccoli interventi ma fatti bene possono cancellare il degrado e restituire un senso di comunità. Parola di (ex) sindaco».
Non crede di aver deluso le imprese spostando le risorse stabilite per taglio all’Ires al bonus per i giovani?
«No. Abbiamo eliminato l’Irap costo del lavoro, l’Irap agricola, l’Imu. Abbiamo ridotto in modo strutturale la pressione fiscale sulle imprese e continueremo a farlo. Chi vorrà investire in azienda - anziché mettersi i soldi in tasca - avrà incentivi a cominciare dal superammortamento. E i consumi sono tornati a crescere da quando abbiamo rimesso nelle tasche degli italiani 10 miliardi con gli 80 euro. Nessuno aveva mai fatto così tanto in così poco tempo. Le aziende lo sanno. Si può sempre fare meglio, ma dato il quadro di bilancio - dal prossimo anno il debito finalmente scenderà e questo è un bene per i nostri figli - non possiamo fare di più. Adesso la sfida è soprattutto sui consumi. Gli italiani sono delle formichine e hanno un risparmio privato tra i più alti al mondo. Se smettiamo di piangerci addosso e creiamo un clima che incoraggi a rimettere in circolo i denari, allora l’Italia tornerà locomotiva d’Europa. Il salto di qualità lo faremo quando si smuoverà l’immenso moloch del risparmio privato. E, in misura minore, gli investimenti pubblici».
L’Istat ha rivisto in meglio le stime del Pil che aveva dato l’altro giorno. Ma comunque di uno 0,8 si tratta, cambierà qualcosa nella legge di Stabilità o gli interventi previsti sono sufficienti?
«Non cambia niente. Fino a un anno fa dicevano che avremmo fatto la fine della Grecia e oggi la musica è diversa. In un anno recuperiamo trecentomila posti di lavoro col Jobs act, i mutui crescono del 94%, il Pil torna positivo dopo tre anni. Certo, il quadro internazionale non ci aiuta, ma l’Italia è forte. E se riparte la scintilla che viene solo dai cittadini, dai consumatori, dagli imprenditori, allora altro che Grecia: faremo meglio della Germania».
Il Censis ci descrive come un Paese in letargo...
«Quella del letargo è una immagine che non mi convince. Chi sta tenendo in piedi l’Italia è gente che non dorme. Gente che crede nel merito. Che rischia tutti i giorni».
State preparando un decreto che esclude dall’applicazione del Jobs act il pubblico impiego. Perché questa disparità di trattamento tra pubblico e privato?
«Se sei dipendente pubblico significa che hai vinto un concorso. Non è che se cambia sindaco allora quello ti licenzia. Mi accontenterei di licenziare quelli che truffano, che rubano, che sono assenteisti. Senza che qualche giudice del lavoro li reintegri. Ma nel pubblico è impossibile che, cambiando maggioranza politica, si possa licenziare: sarebbe discriminatorio. In ogni caso le norme sul pubblico impiego saranno interessanti e per certi aspetti rivoluzionarie».
Nonostante gli interventi di Draghi, le cose non sembrano funzionare soprattutto nel nostro Paese, si aspettava di più dalla Bce?
«Draghi sta facendo un lavoro straordinario e chi lo critica non si rende conto che occorre del tempo per gli effetti del Quantitative easing. Per il momento la ripresa si deve principalmente a fattori interni. Quello che serve oggi è una discussione sulla politica economica europea, con la Commissione. Noi abbiamo ottenuto la flessibilità e la stiamo anche utilizzando. Ma la vera domanda da farci è: la linea economica tenuta fino ad oggi è sufficiente a restituire crescita all’Europa? Per me no, c’è bisogno di cambiare rotta. Questa è la sfida a Bruxelles. Difficilissima ma vale la pena farsi sentire. Siamo l’Italia, noi!».
Si è aperta una grande polemica per il salvataggio di quattro banche.
«Se il governo non fosse intervenuto queste banche avrebbero chiuso, i dipendenti sarebbero andati a casa e i correntisti non si sarebbero salvati. Rivendico con orgoglio l’azione del governo per salvare le banche, i lavoratori e i correntisti senza usare denaro pubblico. La vicenda subordinati non è facile, ma cercheremo di aiutare queste persone. Che però non sono truffate: hanno siglato contratti regolari, sia chiaro. Quello che è successo a certe banche è il frutto di venti anni di scelte discutibili. In passato i governi hanno deciso di non intervenire per il consolidamento del sistema bancario: credo sia stato un errore. La Merkel ha messo 247 miliardi per salvare il sistema del credito tedesco (che ancora oggi è peggio del nostro), ma chi ci ha preceduto a Palazzo Chigi ha pensato di rinviare i problemi. Adesso i nodi sono al pettine. Noi non ci tiriamo indietro di fronte alle responsabilità. Abbiamo sistemato le popolari, tra mille polemiche. E dopo Natale vogliamo consolidare le banche del credito cooperativo, facendone uno dei gruppi bancari più solidi sul modello del Crédit Agricole».

Il Pd sembra in grande affanno, basti pensare a come si divide a Milano tra Sala e Balzani.
«Il sindaco di Milano lo scelgono i milanesi, non i rignanesi. Saranno delle primarie bellissime, che vinca il migliore. Tutto il resto è dietrologia, noia, autoreferenzialità. I candidati parlino con i cittadini e chi è più convincente sarà il candidato».
Intanto la prossima settimana ci sarà la Leopolda, non è in contraddizione con la mobilitazione dei banchetti pd di oggi?
«Nessuna contraddizione, anzi: iniziative complementari. La Leopolda è uno straordinario incubatore di talenti e di idee. Chi ironizza sulla classe dirigente uscita dalla Leopolda dovrebbe verificare i risultati. Un anno fa Jobs act, legge elettorale, riforma costituzionale, riforma della Pubblica amministrazione, buona scuola, riduzione delle tasse sembravano sogni impossibili da raggiungere. A distanza di 12 mesi per noi parlano i risultati. La generazione Leopolda adesso è al potere: dobbiamo dimostrare di cambiare la politica senza permettere alla politica di cambiare noi. Sono stato a Rignano, nel mio paese, per il banchetto del Pd. Mi fa piacere che alla fine, ritrovandosi con gli amici di sempre, ti rendi conto che alla fine dei conti non siamo cambiati, che noi siamo sempre noi, persone semplici, chiamate per un po’ a servire il Paese e poi pronte a tornare al proprio ruolo. Nei fatti la Leopolda ha rivoluzionato il sistema politico».
In momenti come questi in cui per forza è molto impegnato sul fronte del governo, non pensa che il doppio incarico sia un errore?
«No. Ovunque il capo del principale partito è anche leader del governo».
Le Amministrative non si profilano vittoriose per il Pd, per questo dite già che non sono un test per il governo?
«È banalmente una questione di serietà. Se eleggi un sindaco che c’entra il governo? Le Comunali scelgono i primi cittadini, non i primi ministri. E comunque da qui alle Amministrative ci sono 6 mesi: con tutto il rispetto, noi nel frattempo vogliamo governare».
È una domanda posta un po’ in anticipo ma da tempo se la fanno tutti o quasi: cambierà l’Italicum?
«Credo proprio di no».

6 dicembre 2015 (modifica il 6 dicembre 2015 | 08:28)
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Da - http://www.corriere.it/politica/15_dicembre_06/noi-non-vogliamo-libia-bis-crescita-sfideremo-bruxelles-97bed6ea-9be7-11e5-9b09-66958594e7c5.shtml
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« Risposta #77 inserito:: Dicembre 17, 2015, 07:30:38 pm »

Caso banche, il retroscena
Matteo Renzi preoccupato per l’impatto sui consensi: «Dobbiamo dare un segnale»
Ma il leader Pd è convinto che la mossa della mozione di sfiducia di FI sarà un boomerang.
A preoccuparlo è piuttosto il possibile calo di consensi nel suo elettorato.
Per questo punta a spingere per la commissione di inchiesta parlamentare

Di Maria Teresa Meli

«Bisogna circoscrivere questa vicenda e voltare pagina». Anche se davanti alle telecamere di Porta a Porta fa mostra di non essere preoccupato, con i collaboratori Matteo Renzi non nasconde di nutrire qualche timore. A impensierirlo non sono certo le mozioni. Anzi. Vorrebbe «votarle il prima possibile» per «lasciarsi questa storia alle spalle». Il presidente del Consiglio sa bene di avere un’ampia maggioranza alla Camera, e sa che anche al Senato i parlamentari di Denis Verdini, checché ne dicano i grillini, non saranno necessari perché la sinistra interna «si sta comportando in maniera seria e leale». Perciò un voto del genere, tanto più dal momento che le opposizioni non si esprimeranno tutte in maniera compatta per la sfiducia, può solo «rafforzare» il governo e la posizione della ministra Maria Elena Boschi. È questa la ragione per cui lo vorrebbe subito.

Non solo, c’è un altro aspetto di questa storia delle mozioni di sfiducia che secondo Renzi gioca in suo favore. L’uscita di FI, che ha deciso di rincorrere la Lega e il Movimento cinque stelle, viene infatti vista dal premier come un «vero e proprio boomerang», perché dimostra che quel partito è «garantista a corrente alternata», cioè solo quando ci sono in ballo questioni che riguardano Silvio Berlusconi. È una mossa, quella di Forza Italia, che secondo Palazzo Chigi creerà sconcerto nell’elettorato azzurro, in quell’elettorato al quale Renzi non nasconde di puntare in vista delle elezioni amministrative, ma, soprattutto, delle politiche, che il premier ritiene si debbano tenere nel febbraio del 2018. Un pezzo di quell’elettorato, del resto, stando ai sondaggi che arrivano con regolare frequenza al Pd, è già stato conquistato e Renzi è convinto che lo spettacolo di una FI appiattita sulle posizioni di Grillo contribuirà a provocare altre fughe.

Ma allora che cosa preoccupa il presidente del Consiglio? Non il «solito teatrino» allestito alla Camera e al Senato, bensì l’impatto che questa vicenda può avere sugli italiani. «I risparmiatori sono molti in Italia e dobbiamo evitare che non si fidino più di noi per colpa di tutto il clamore mediatico che viene dato a questa vicenda...», riflette il premier con i fedelissimi. I sondaggi riservati di Palazzo Chigi, finora, sono confortanti da questo punto di vista. Da quei dati emerge che per il 70 per cento degli italiani la colpa della situazione in cui si trovano le quattro banche salvate è degli stessi istituti bancari, mentre solo per il 13 per cento la responsabilità è da attribuirsi al governo. Quanto alle intenzioni di voto, il Pd è stabile al 33,6, mentre i grillini perdono lo 0,2 rispetto alla settimana scorsa, attestandosi sul 26,5 per cento. Ma il problema è che non è affatto detto che la vicenda giudiziaria si chiuda qui. Nel Pd sono preoccupati che possa arrivare un avviso di garanzia al padre della ministra Boschi. Il che comporterebbe nuove polemiche e nuovi

contraccolpi. Per questa ragione il presidente del Consiglio continua a ripetere ai suoi che occorre «voltare pagina».

Il premier, però, sa anche che questo non basta: non è sufficiente cercare di rassicurare i risparmiatori. Ci vuole «un intervento forte per cambiare il sistema bancario», bisogna dimostrare che questo governo «al contrario dei precedenti» non intende «lasciare le cose come stanno»: «I miei predecessori - ragiona Renzi con i collaboratori - hanno fatto un grosso sbaglio a non consolidare il sistema bancario italiano e ora noi non possiamo sottrarci a questa responsabilità. Tocca al nostro governo provvedere in questo senso». E con la stessa determinazione, secondo il presidente del Consiglio, bisogna spingere per la costituzione di una commissione parlamentare di inchiesta monocamerale, composta da una ventina di esponenti. In questo modo si darà il segnale che l’esecutivo «non ha paura di accertare la verità, perché ha sempre agito con trasparenza ed è quindi suo interesse che questo organismo prenda vita».

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16 dicembre 2015 (modifica il 16 dicembre 2015 | 11:42)

Da - http://www.corriere.it/politica/15_dicembre_16/matteo-renzi-preoccupato-l-impatto-consensi-dobbiamo-dare-segnale-93856b40-a3bf-11e5-900d-2dd5b80ea9fe.shtml
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« Risposta #78 inserito:: Gennaio 17, 2016, 05:37:27 pm »

Lo scontro
La strategia di Renzi sul Fiscal compact
Il premier punta alla revisione del Patto sui bilanci e tiene alti i toni con la Ue contro l’«austerità» «Nessuna paura, non ci telecomandano».
E ai suoi dice di non trovare «sponde» in Mogherini

Di Maria Teresa Meli

Finora è una suggestione. Un’idea che Matteo Renzi sta accarezzando. Cioè quella di porre agli alleati europei la questione di una revisione o, meglio, una reinterpretazione del Fiscal compact , cioè dell’accordo europeo che impone agli Stati alcuni vincoli per contenere il debito pubblico nazionale. Revisione, non cancellazione, ovviamente. Al ministero dell’Economia, a dire il vero, sono piuttosto pessimisti sul fatto che la Commissione Ue assecondi tale ipotesi. Eppure il presidente del Consiglio non ha abbandonato questa idea. Anche perché, in mancanza di una maggiore flessibilità su questo punto, per il premier diventerebbe difficile riuscire a mantenere le promesse fatte per il 2017 e per il 2018.

L’offensiva di Renzi
L’offensiva europea di Renzi, quindi, non è un capriccio. Come sempre, quando vuole trattare, il presidente del Consiglio alza i toni dello scontro per poi trovare un punto di caduta e arrivare a una mediazione il più favorevole possibile dal suo punto di vista. Se poi l’Europa si dovesse dimostrare impermeabile su quel fronte, il premier ne aprirebbe un altro. Con lo stesso obiettivo: «Farla finita con l’austerità che rischia di uccidere la Ue». Perciò, di qui a fine gennaio, quando incontrerà Angela Merkel, e poi a febbraio, quando vedrà il presidente della Commissione Ue Juncker, il premier proseguirà nella sua offensiva europea. E anche dopo, naturalmente. Ma il problema di Renzi è quello di riuscire a tessere delle alleanze con i suoi partner europei, tanto più che l’inquilino di palazzo Chigi ha confessato di non trovare mai delle «sponde efficaci» nella rappresentante dell’Italia in Commissione, Federica Mogherini.

«Non ci facciamo telecomandare»
Il presidente del Consiglio, comunque, appare molto determinato nella sua offensiva: «Questi non mi fanno paura. Io rappresento l’Italia, spero che lo capiscano tutti». E infatti anche ieri, in visita alla Reggia di Caserta, è tornato sull’argomento: «È finito il tempo in cui qualcuno poteva immaginare di telecomandare l’Italia. Ci dobbiamo far sentire, con gentilezza e con garbo, ma dobbiamo farci sentire». E per far capire bene che cosa intende dire, Renzi è stato molto netto. Riferendosi a Juncker, ha osservato: «Può essere normale fare polemiche assurde sul niente? L’Europa non è un’accozzaglia di regole, l’Europa non si salva con le discussioni sullo zero virgola».




«Non è una battaglia contro l’Europa»
Insomma, la posizione del presidente del Consiglio lascia adito a poche ambiguità. La sua - Renzi ci tiene a precisarlo - «non è una battaglia contro l’Europa». Già, il premier non considera la Ue «cattiva», ma, spiega: «Noi non possiamo vivere come in una condizione di subalternità psicologica nei confronti dell’Europa o della Germania. Noi non siamo subalterni a nessuno». Renzi vorrebbe fosse chiaro che la sua non è una polemica pretestuosa, e men che meno una mossa «elettorale». Le elezioni amministrative di giugno, precisa in questi giorni ai suoi interlocutori, non sono l’obiettivo di questa offensiva. E non lo è nemmeno il voto politico anticipato.

Ciò a cui mira il presidente del Consiglio è un traguardo più ambizioso: riuscire veramente a dare una «svolta» all’Europa: «Per questo - dice ai fedelissimi - occorre pronunciare delle parole chiare». Parole che, nel vocabolario del premier, a quanto si è visto in questi giorni, non mancano. E non mancheranno nemmeno in futuro, dal momento che il presidente del Consiglio è sinceramente convinto di fare ciò che gli impone il suo ruolo: «Io sto difendendo l’Italia».

17 gennaio 2016 (modifica il 17 gennaio 2016 | 08:24)
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Da - http://www.corriere.it/politica/16_gennaio_17/strategia-renzi-fiscal-compact-09c51e12-bce9-11e5-9ebd-3d31e1693d62.shtml
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« Risposta #79 inserito:: Marzo 12, 2016, 09:48:41 am »

Il retroscena
L’accusa del presidente Renzi: qualcuno vuole solo lo sfascio
Il premier si è stufato delle polemiche quotidiane della minoranza del partito
«Il Paese è altrove e i soliti si impegnano in ridicole divisioni correntizie»

Di Maria Teresa Meli

Miracoli renziani: il presidente del Consiglio è riuscito a mettere insieme Walter Veltroni, Massimo D’Alema, Pier Luigi Bersani, Achille Occhetto e Antonio Bassolino. Tutta gente che si prende poco, che ha litigato e che, in alcuni casi, non si parla addirittura da anni.

Ma due cose accomunano queste figure: l’aver fatto parte del vecchio Pci e l’avversione maturata in questo periodo nei confronti del segretario- premier. C’è Veltroni, per esempio, che si tiene lontano dalla politica, ma se qualche vecchio amico gli chiede di Renzi, risponde così: «Non se ne può più». E c’è D’Alema, secondo il quale il nuovo leader del Pd «è un pericolo per la democrazia».

Poi c’è Bassolino, profondamente «offeso» perché «Matteo non ha fatto nemmeno un gesto nei miei confronti». E c’è pure l’ottantenne Occhetto, che parla male di tutti questi esponenti del Partito democratico, ma se sente nominare il presidente del Consiglio gli viene il fumo agli occhi.

Infine, c’è Bersani, che in un’intervista al Corriere della Sera è stato gelido con il candidato ufficiale del partito a Roma, Roberto Giachetti, mentre ha mostrato una certa simpatia per l’eventuale discesa in campo dell’ex ministro dei Beni culturali, Massimo Bray. La qualcosa, come era ovvio, non è piaciuta al premier. Che ha deciso di prendere le sue contromisure e di passare all’offensiva.

Domenica, infatti, Renzi farà un discorso alla scuola dei giovani democratici sulle primarie e sui rapporti interni al partito. E lì, assicurano i renziani, «interverrà pesantemente», perché si è stufato delle polemiche quotidiane della minoranza.

Con i collaboratori il presidente del Consiglio è stato esplicito: «Il Paese è altrove e i soliti si impegnano in ridicole divisioni correntizie. Giocano al tanto peggio, tanto meglio e sanno solo parlare male di me, del partito e del governo. Non hanno un obiettivo politico, non hanno un progetto alternativo, non hanno il leader, non hanno i numeri. Il loro obiettivo è solo lo sfascio, la sconfitta del Pd alle amministrative».

Poi, pubblicamente, il presidente del Consiglio si è espresso così: «La politica politicante, quella che è sui giornali e nei programmi televisivi, le discussioni interne tra i partiti e tra gli addetti ai lavori, sono tutte cose che agli italiani non interessano. Mentre i soliti vivono di polemiche, noi ci occupiamo delle cose concrete».

Ma in realtà l’attenzione di Renzi e dei suoi uomini è rivolta anche al Pd. C’è la «pratica Bassolino» da sistemare. Raccontano che il vicesegretario Lorenzo Guerini, che ha l’animo del mediatore, si stia dando da fare per tentare un incontro di riappacificazione tra il premier e l’ex sindaco di Napoli. Ci riuscirà?

E poi ci sono le elezioni. Nel quartier generale renziano si studia come evitare che il fiorire delle candidature a sinistra e la polemica continua della minoranza interna possano nuocere e influire negativamente sul risultato delle amministrative. Perciò ci si sta muovendo anche a sinistra.

Il che significa che sia a Milano che a Roma i candidati del Partito democratico dovrebbero essere affiancati da liste di sinistra. Quella arancione nel capoluogo lombardo, che verrà presentata nonostante il forfait di Francesca Balzani e un’altra formazione simile nella Capitale, a sostegno di Roberto Giachetti. Ciò comporterà, inevitabilmente, la spaccatura di Sel che, a Roma come a Milano, non è tutta allineata e coperta con i vertici nazionali. Una parte di quel movimento, infatti, vorrebbe allearsi con il Pd.

Ma anche nella sinistra interna del Partito democratico qualcosa si sta muovendo. La componente di minoranza che fa capo a Gianni Cuperlo ieri ha preso le distanze dai bersaniani, presentando un documento che è un appello all’unità nel tentativo di rilanciare il Pd. Su questo punto Cuperlo è stato molto chiaro: «Noi siamo leali», ha ripetuto più volte nel corso di una conferenza stampa. E poi ha precisato: «Non vogliamo lasciare nessun margine all’ambiguità». Cosa che, invece, secondo i renziani, Pier Luigi Bersani ha ampiamente fatto nell’intervista al Corriere.

10 marzo 2016 (modifica il 10 marzo 2016 | 22:06)
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Da - http://www.corriere.it/politica/16_marzo_11/accusa-presidente-renzi-qualcuno-vuole-solo-sfascio-bee23c2e-e702-11e5-877d-6f0788106330.shtml
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« Risposta #80 inserito:: Giugno 13, 2016, 12:55:50 pm »

Renzi: «Devo cambiare di più il Pd Le critiche? Perché l’ho fatto poco»
Il presidente del Consiglio e leader dem: «Queste elezioni sono soltanto locali
Uno schieramento trasversale mi attacca? Non temo chi fa politica contro qualcuno»

Di Maria Teresa Meli

Presidente Renzi, partiamo dai fischi di oggi. È finita la sua luna di miele con il Paese?
«Non vorrei deluderla troppo. Ma io ho preso i fischi dal primo giorno e continuerò a prenderli, mettendo la faccia ovunque. Nella campagna delle Europee 2014, quelle del mitico 41%, ho fatto comizi interi da Palermo a Napoli fino a piazza della Signoria nella mia Firenze dove c’erano centinaia di fischietti, striscioni e contestazioni. E governavamo da due mesi appena, altro che luna di miele. Il 2015 è stato un lungo elenco di fischi dal Jobs act, con la Fiom in tutti i miei eventi a contestare, fino alle proteste dei professori. Non è una novità. Sono invece molto contento del fatto che chi ieri contestava da Confcommercio alla fine è sceso a discutere e con un paio di loro è scattato persino l’abbraccio. Hanno ragione a chiedere meno tasse, ma sanno anche che stiamo riducendo ogni anno la pressione fiscale. Certo, loro non vogliono che diamo gli 80 euro a chi guadagna meno di 1.500 euro netti. Li rispetto, ma non sono d’accordo: io penso che sia una misura di giustizia sociale e non torno indietro».

Se le Amministrative andassero male per il Pd, si aprirebbe un periodo di grande fibrillazione...
«Ho legato la mia permanenza al governo all’approvazione delle riforme nel referendum di ottobre e mi hanno accusato di aver personalizzato. Adesso gli stessi vorrebbero legare il governo al voto di alcune realtà municipali? Ma non scherziamo. Nessun Paese del mondo civile fa così. Si rassegnino: le elezioni amministrative sono un passaggio locale. Utili tutte le riflessioni sociologiche di questo mondo. Ma che vada in un modo o in un altro stiamo parlando di episodi territoriali, non di un voto nazionale».

Ma se il Pd perdesse a Roma e Milano per lei sarebbe un brutto colpo.
«È ovvio che preferisco che vinca. È ovvio anche che il Pd — anche in caso di vittoria — deve affrontare un problema interno perché non è possibile continuare con un gruppo dirigente che tira e altri che tutti i giorni lavorano per dividere. Ci parliamo tra noi e invece dovremmo parlare alla gente. Ma uno alla volta, per carità. Adesso lavoriamo sui ballottaggi, poi discuteremo. Oggi ho visto l’ennesima perla del gruppo dirigente Cinque Stelle: la senatrice Taverna, membro dello staff cui deve rispondere l’eventuale sindaco Raggi, propone di posticipare le Olimpiadi. Dal baratto alle Olimpiadi una volta ogni tanto, dopo averci deliziato con le sirene, i complotti americani sull’allunaggio e altre amenità. Non è un problema di Pd: davvero i romani vogliono questo gruppo dirigente?».

Il 5 giugno si è visto che c’è un ampio schieramento trasversale contro di lei, non ha paura che si rinsaldi e si allarghi al referendum?
«Io credo che sia poco corretto fare analisi di politica nazionale sul voto amministrativo. Ma se proprio si deve fare, dico che non mi fa paura chi fa politica contro qualcuno. Se c’è una novità che ho portato — fin dall’inizio del travagliato rapporto con Berlusconi — è stata quella di fare politica per un’idea e non contro un nemico. Io penso che gli italiani siano molto maturi, più dei politici e più dei raffinati commentatori. Al referendum sulla scheda c’è la possibilità di avere un Paese più semplice o di mantenere il sistema com’è. Di superare finalmente le storture del bicameralismo paritario e dare governabilità o continuare con inciuci, larghe intese e piccoli cabotaggi. Di attaccare quella che viene ritenuta la casta della politica riducendo le spese per parlamentari e consiglieri regionali o tenersi il sistema politico più costoso d’Occidente. Io credo che un elettore deluso, che magari vota 5 Stelle o Lega, al referendum voterà sì. Poi alle politiche del 2018 magari sceglierà un altro premier. Ma quel premier, ammesso che vinca, potrà governare».

Bersani le chiede di non far mettere i banchetti per il Sì alle feste dell’Unità.
«È un atteggiamento che non capisco e mi colpisce molto. Ci siamo giocati tutta la legislatura, nata dal fallimento elettorale, sulla possibilità di fare le riforme. Abbiamo fatto sei letture cambiando più volte il testo per venire incontro alle esigenze di tutti e segnatamente della minoranza del Pd. Sappiamo che se la riforma non passa l’Italia tornerà a ballare per l’instabilità e l’ingovernabilità e torneremmo a essere il problema dell’Europa. E io dovrei vergognarmi di quello che abbiamo fatto? Qui sta il punto. La nostra comunità rispetta chi vuole votare in altro modo, noi non espelliamo nessuno. Ma una cosa è il rispetto per chi non la pensa come la maggioranza, altra cosa è annullarsi, vergognarsi delle nostre riforme, nascondere i nostri tavolini e le nostre bandiere».

Quindi non accetta la richiesta di Bersani?
«Me lo lasci dire: facciamo il Jobs act con 455 mila posti di lavoro in più e stiamo zitti in pubblico per paura di irritare qualche sindacalista. Riduciamo il precariato nella scuola come nel privato con i nuovi contratti a tempo indeterminato e non lo rivendichiamo perché temiamo le polemiche. Eliminiamo l’Imu e non possiamo dirlo perché lo voleva anche Berlusconi. Eliminiamo la componente costo del lavoro dell’Irap e ci vergogniamo perché è una richiesta di Confindustria. Otteniamo il doppio turno e le preferenze e non ci va bene perché il premio alla lista e non alla coalizione mette in crisi la sinistra radicale. Facciamo la legge sui diritti civili e non va bene perché la vota anche Verdini. Otteniamo la flessibilità e non lo diciamo perché il problema è il Fiscal Compact, che peraltro il precedente gruppo dirigente ha ratificato in silenzio. Le feste dell’Unità sono le feste del Pd. Non le feste di una corrente minoritaria del Pd. Se ci togliamo la politica, cosa rimane? E la proposta di dire “Sì al referendum” alle feste viene dal segretario regionale dell’Emilia-Romagna, non dal nazionale».

Anche ieri alla Confcommercio vi hanno chiesto di ridurre le tasse. Almeno a questa richiesta dirà di sì?
«Certo. Se vanno avanti le riforme, avremo ancora margini di azione per ridurre ulteriormente le tasse. Ma non voglio parlare di nessuna ipotesi fino al giorno dopo il referendum. Altrimenti mi diranno, come in passato, che si tratta di una mancia elettorale».

Dopo il 5 giugno se la sente di dire che aveva ragione la minoranza? L’alleanza con Verdini non paga.
«L’alleanza parlamentare con Verdini nasce dal fatto che nel 2013 si sono perse le elezioni. E con Verdini quel gruppo dirigente ha già governato votando insieme la fiducia a Monti e a Letta. Quel gruppo dirigente ha scelto Migliavacca e Verdini per fare un accordo — poi saltato — sulla legge elettorale. E adesso se Verdini — che non è ovviamente rappresentato al governo — vota con noi in Parlamento questo sarebbe un problema? Quanto alle Amministrative, l’alleanza a Napoli e Cosenza, perché queste erano le due città interessate, mi pare che avesse carattere locale. E che non abbia funzionato per nessuno. Nel 2018 il Pd si presenterà da solo, un partito a vocazione maggioritaria come previsto dallo statuto. Punto».

Il Pd non sembra attrarre l’elettorato di sinistra...
«Sinceramente non mi pare questo il punto. Io almeno non vedo un trasloco di voti verso Fassina e Airaudo. Quelli che invece votano Cinque Stelle — meno comunque del passato — sono diversi. Chi non ci ha votato, non ci ha votato per problemi sul territorio, sui singoli candidati. Ma se proprio vogliamo trasformarlo in un voto di protesta contro di me, ok, diciamola tutta: chi non ci vota più per colpa mia non mi accusa di aver cambiato troppo nel Pd. Mi accusa di aver cambiato troppo poco. Mi accusano di aver mediato fino allo sfinimento con tutte le correnti e le correntine del Pd. Ogni giorno ho cercato di mediare, di discutere, di tenere buoni tutti. Dobbiamo cambiare di più, non di meno».

Lei ha detto di voler «usare il lanciafiamme» nel Pd e la minoranza si è sentita nel mirino. Che cosa intendeva dire?
«Il problema non riguarda solo la minoranza. Ma il modo con il quale vogliamo usare questi diciotto mesi che ci separano dal congresso. Vorrei che ci occupassimo del futuro del Paese, non del futuro dei parlamentari. Il male della politica italiana è di avere troppi partiti e troppi politici. Ci vogliono invece più idee nei partiti e più buona politica».

Perché è così contrario all’idea di attribuire il premio di maggioranza alla coalizione vincente e non al partito?
«Mi sembra di essere stato chiaro. Ma le sembra normale che mentre il mondo fuori discute di Trump, mentre l’Europa riconosce il nostro passo in avanti sul Mediterraneo e l’Africa con il Migration Compact, mentre finalmente si passa dalla cultura dell’austerity a una stagione di investimenti, la preoccupazione principale della classe politica italiana sia capire se il premio di maggioranza lo diamo alla lista o alla coalizione?».

I 5 Stelle sembrano pronti a passare dalla protesta alla proposta. Non la spaventa il fatto che Grillo potrebbe rappresentare la novità che prima sembrava rappresentata da lei?
«Quando ci saranno le elezioni politiche la partita sarà una partita a tre. Il Pd, un candidato del Movimento 5 Stelle e vedremo chi sarà, un candidato del centrodestra, e vedremo chi sarà. Gli italiani sceglieranno, a quel punto. Ma se ci sarà un sistema istituzionale finalmente funzionante l’Italia avrà fatto un passo avanti chiunque vincerà quelle elezioni. Io personalmente rispetto tutti e non ho paura di nessuno».

L’hanno criticata perché va da Putin quando in Italia ci sono i ballottaggi...
«Sta scherzando spero. Scusi, che facciamo? Siccome ci sono le amministrative smettiamo di governare il Paese? Non partecipo al Forum di San Pietroburgo su cui ho garantito la presenza da mesi? Ma ci rendiamo conto che in questi anni l’Italia ha recuperato credibilità a livello internazionale? E dovremmo tornare alla piccola guerriglia politica locale, con decine di partiti che si scontrano tutti gli anni in elezioni territoriali mentre gli altri Paesi fanno politica internazionale? Spiacente, io non ci sto. Sono il leader pro-tempore di uno dei Paesi più importanti del mondo, l’Italia che parla con Obama e con Putin. Non l’Italietta che spende settimane a discutere della percentuale di due liste civiche».

10 giugno 2016 (modifica il 10 giugno 2016 | 15:29)
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Da - http://www.corriere.it/amministrative-2016/notizie/renzi-devo-cambiare-piu-pd-critiche-perche-l-ho-fatto-poco-821f86a6-2e7f-11e6-ba60-ddaed83f69c5.shtml
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« Risposta #81 inserito:: Giugno 22, 2016, 06:37:20 pm »

Elezioni Amministrative
Renzi e i ballottaggi: vedremo che cosa sanno fare i grillini Dimettermi? Non ci penso
Il premier resta convinto che il voto non sia stato contro il governo, ma determinato dai problemi delle città.
«Roma sarà il vero banco di prova del Movimento 5 Stelle»

Di Maria Teresa Meli

ROMA - «Non mi dimetto da niente». Sono giorni he Matteo Renzi va ripetendo mestamente, ma anche realisticamente: «Roma non la recuperiamo più». E quando arrivano gli exit poll, a confermare le sue parole, il presidente del Consiglio scuote il capo e dice: «Ora vedremo che cosa sanno fare i grillini». Già, perché secondo il premier gestire la Capitale, ridotta così com’è, non sarà facile e sarà quello il vero banco di prova del “Movimento 5 stelle”.

Su quella ribalta Virginia Raggi e il direttorio che la segue passo passo avranno tutti i riflettori accesi, e, chissà, «quella vittoria potrebbe rivelarsi anche un boomerang». Ma Renzi non crede che quello di Roma sia stato un voto contro di lui. O contro la riforma costituzionale: «Lì abbiamo perso le elezioni nelle periferie non perché si sono espressi sul bicameralismo o sul sistema elettorale. Abbiamo perso perché quelle periferie erano piene di immondizia e problemi e perché la Capitale è stata governata male. Ho visto le immagini dei telegiornali sul voto a Roma. Si vedevano i cassonetti che straripavano di rifiuti davanti ai seggi...».

Il Nord, invece, tiene sospeso sino all’ultimo il Partito democratico e il premier. Nel settentrione, a Torino e a Milano, «può succedere di tutto», spiega il presidente del Consiglio nel tardo pomeriggio, dando per scontato che a Torino «vincerà Appendino» e a sera ne avrà la riprova.

Ciò a cui però Renzi non crede è che quel voto rappresenti la prova generale della Santa Alleanza contro di lui, quella che tenterà l’assalto al palazzo coagulandosi attorno al “No”, il giorno del referendum istituzionale. «A Milano come a Torino - è il ragionamento del premier - non c’è nessuna Santa Alleanza contro di me. Basti pensare che tra chi vota Appendino a Torino c’è, ahimè, anche gente che poi dirà “si” alla riforma e che addirittura vota e ha votato per me. Si tratta di gente (molti giovani) che si esprime contro quella che considera la vecchia politia». Per questa ragione, il presidente del Consiglio dice di non temere per le conseguenze che le elezioni amministrative, qualsiasi sia il risultato definitivo, potranno avere sul voto di ottobre: «Io aspetto tutti al varco del referendum e lì ci divertiremo».

Il premier ragiona anche sull’offensiva che la minoranza interna potrebbe mettere in atto all’indomani del voto delle amministrative. E’ convinto che diranno che «ci vuole un segretario che lavori a tempo pieno» e che, quindi, chiederanno la modifica di quell’articolo dello Statuto del Pd secondo il quale il leader del partito è automaticamente il candidato premier. Ma per raggiungere questo obiettivo «ci vuole un congresso», spiega ai collaboratori il presidente del Consiglio. E aggiunge: «Ma comunque bisogna passare prima per il referendum e io quello sono sicuro di vincerlo. Stavolta ci sarò io in campo e quella sarà una sfida fantastica». «Io comunque non mi dimetto da niente». Ma una registrata al partito, Renzi la vuole dare sul serio e «la si darà - ha annuncia il premier ai suoi già nei giorni scorsi- a prescindere dai risultati elettorali». Come intende procedere il premier in questo senso? «Partendo dall’organizzazione del referendum», precisano i renziani. Sarà quello, infatti, lo strumento che il presidente del Consiglio utilizzerà «per capire chi lavora nei territori, chi sono gli alleati interni di cui ci si può fidare» e per comprendere anche «come funziona effettivamente la rete renziana». Insomma, di fatto il referendum costituzionale sarà lo strumento attraverso il quale il premier preparerà il “suo” partito. Dopo si svolgerà il Congresso nazionale e, quindi, verrà il tempo delle elezioni politiche. Perciò la “macchina elettorale” che verrà creata per far vincere i “Si” al referendum sarà la stessa “macchina” che, per dirla con le parole di un renziano molto influente, «terrà il motore acceso per il dopo...». Insomma, mentre si prepara a parare gli attacchi interni ed esterni, il premier di una cosa è assolutamente certo: «Che fine farò io dipenderà dal referendum, non dalle amministrative”. Da aggiungere dove sarà al momento del voto

20 giugno 2016 (modifica il 20 giugno 2016 | 04:02)
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Da - http://www.corriere.it/amministrative-2016/notizie/renzi-ammette-batostaho-rottamato-troppo-poco-5c942204-3675-11e6-88d7-7a12a568ff47.shtml
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« Risposta #82 inserito:: Settembre 01, 2016, 07:31:44 pm »

Il retroscena
Trovata l’intesa con Merkel, ora il piano casa può partire
Il premier ha margine per trattare
L’obiettivo di Palazzo Chigi è di rinegoziare la soglie del deficit del 2,3%.
La cancelliera punta su Roma e Parigi come alleati stabili dopo il voto della Gran Bretagna su Brexit

Di Maria Teresa Meli

«Meglio di così non poteva andare. È stato un ottimo vertice»: Matteo Renzi è più che soddisfatto dell’esito del «bilaterale» con la Germania. Angela Merkel gli ha assicurato che non metterà i bastoni tra le ruote all’Italia quando il nostro Paese chiederà alla Commissione europea la flessibilità necessaria per provvedere alla ricostruzione del dopo-terremoto e alla realizzazione del progetto di «Casa Italia».

«Matteo, non vi faremo la guerra su questo», ha detto la cancelliera al premier. E Renzi, da parte sua, ha precisato: «Chiederemo tutta la flessibilità necessaria, rispettando le regole».

È ovvio che Merkel in pubblico preferisca parlar poco dell’argomento e si limiti a delegare la «soluzione» alla Commissione europea. Ma la cancelliera deve pensare al suo elettorato assai poco propenso all’allentamento dei vincoli di bilancio europei. Riservatamente, però, è più esplicita, anche perché sa che ormai, nello scenario Ue il partner più affidabile, oltre che stabile, è Renzi.

François Hollande, infatti è in difficoltà, oltre che in uscita, e la Gran Bretagna ha detto addio all’Europa. Perciò, nella conferenza stampa che precede la cena con gli imprenditori italiani e tedeschi, la Cancelliera si spinge fino al punto di augurarsi un successo delle riforme di Renzi. «Quasi una sorta di “endorsement” referendario», scherzano i renziani.

Il presidente del Consiglio italiano è ben conscio della situazione europea e dei mutati rapporti con i tedeschi. Non a caso è solito ripetere: «Ci sono due Paesi-guida in Europa, la Germania e noi».

Dunque, dopo questo incontro, il premier, che sul tema «flessibilità» in conferenza stampa sfoggia sobrietà e misura, anche per non mettere in difficoltà l’alleato tedesco, ha capito di poter andare avanti nelle trattative che aprirà con la Commissione europea per raggiungere il suo obiettivo. Non è un mistero ciò che ha in mente il presidente del Consiglio: «Voglio andare oltre l’1,8 per cento del rapporto deficit-Pil fissato per il prossimo anno». Al 2,3 almeno, se non di più.

Del resto, per Renzi «l’Europa non può essere solo burocrazia, austerity e finanza, altrimenti non ha futuro». Ma il premier non sceglierà la via degli ultimatum o dei pugni sul tavolo per ottenere la «flessibilità necessaria», come ha fatto la volta scorsa. O, quanto meno, non si metterà contro la Germania che in questa fase può rivelarsi un prezioso alleato. Le relazioni tra i due Paesi, a suo dire, sono «buonissime» e il presidente del Consiglio non intende guastarle. Senza contare il fatto che anche il suo rapporto personale con Merkel negli ultimi tempi si è rafforzato.

Sul «migration compact» proposto dall’Italia il premier e la cancelliera sembrano trovare grande sintonia anche pubblicamente. E infatti non è escluso che Germania e Italia possano lavorare insieme in Africa (nel Mali e nel Niger, per esempio) a missioni diplomatiche congiunte con l’obiettivo di mettere in piedi dei campi dell’Onu per accogliere i profughi.

Quindi l’umore del premier, ieri, era decisamente alto. E come gli accade in questi casi, Renzi non ha risparmiato battute scherzose all’indirizzo degli altri partecipanti al vertice bilaterale nella sede della Ferrari di Maranello. All’inizio della riunione plenaria con i ministri di entrambi i Paesi, il presidente del Consiglio era in compagnia di Merkel, Schäuble e Alfano (tutti e tre appartenenti al Partito popolare europeo) e allora, rivolto ai socialdemocratici Gabriel e Steinmeier ha chiesto scherzosamente aiuto: «Sigmar, venitemi a dare manforte, che sono circondato...».

Il buonumore non lo ha abbandonato nemmeno durante la cena con gli imprenditori dei due Paesi. Dando la parola al presidente di confindustria tedesca, Ulrich Grillo, il presidente del Consiglio ha fatto questa premessa: «È l’unico Grillo che apprezzo».

Dunque, un incontro proficuo per il premier, ma questo non significa che la strada sia in discesa. Nonostante la Germania abbia intenzione di non ostacolare le richieste di flessibilità italiane, la partita si giocherà a Bruxelles, con la Commissione europea, ed è una partita è ancora tutta da giocare.

«Sarà lunga», ha confidato Renzi ai collaboratori. E non sarà facile piegare i falchi della Ue.

31 agosto 2016 (modifica il 31 agosto 2016 | 23:47)
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Da - http://www.corriere.it/esteri/16_agosto_31/ora-piano-casa-puo-partire-premier-ha-margine-trattare-039e83a2-6fbd-11e6-856e-2cdca5568f05.shtml
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« Risposta #83 inserito:: Novembre 05, 2016, 10:41:25 am »

LA SETTIMA «LEOPOLDA»
La strategia del premier sull’Italicum una legge che piaccia ad alleati e FI
Renzi pensa già a una nuova kermesse dopo il voto. «Crescita del Sì nei sondaggi netta e implacabile. Ci saranno fuochi d’artificio»

Di Maria Teresa Meli

FIRENZE «Prima votiamo meglio è. Il rinvio non esiste, si va avanti tutta. Per noi sarebbe dannoso far slittare il referendum e infatti questa ipotesi per quanto mi riguarda non esiste». Matteo Renzi non ha dubbi. Nessun rinvio: «La exit strategy è da persone senza coraggio. E perciò non ho un piano B. La crescita dei Sì nei sondaggi è netta e implacabile e io me la gioco tutta». Il presidente del Consiglio non demorde e rilancia. Tant’è vero che in questa settima Leopolda pensa già all’ottava. «Che vinca il Sì, che vinca il No, ci ritroveremo qui a fare i fuochi d’artificio», si lascia sfuggire David Ermini. Un’altra Leopolda. Per sancire la vittoria, o per dare battaglia in caso di sconfitta. Perché anche in caso di insuccesso il premier ritiene che occorra andare avanti e «non mollare».

Nessuna «coercizione»
Il presidente del Consiglio è convinto della strada che deve intraprendere, quale che sia: «Faccio Renzi fino all’ultimo. Preferisco morire da Renzi che vivere da pecora», dice il premier ai collaboratori. Sarà quel che sarà ma il referendum si svolgerà secondo i tempi prestabiliti. E se perderà, se i No avranno la meglio, Renzi accetterà le conseguenze del caso. Non lo dice più palesemente, il premier, perché si è ripromesso di non parlare più del suo caso personale. Ma lo sa il presidente della Repubblica, come lo sanno i suoi alleati, che pure hanno cercato di fargli cambiare idea: se il referendum dovesse andare male Matteo Renzi si dimetterebbe. E anche la decisione di aprire un tavolo di trattativa sulla legge elettorale riguarda il referendum, anche se non è una contrattazione interna che riguarda solo il Partito democratico. È chiaro che il premier non vuole più subire l’accusa di aver fatto l’Italicum a sua immagine e somiglianza. Ed è per questa ragione che ha fatto istituire una commissione elettorale del Partito democratico. Per dimostrare che da parte sua non c’è nessun intento «coercitivo». Ma gli interlocutori sono al di fuori del Pd. L’unico problema del presidente del Consiglio non riguarda la minoranza del Pd. Quella la dava per persa da tempo. Tant’è vero che le trattative sulla riforma elettorale non sono mai state volte a convincere la sinistra del Pd: «Quelli pur di farmi perdere, preferiscono dare il Paese a Di Maio».

La ricerca di una «quadra»
Dunque, quelle trattative avevano l’unico scopo di dimostrare che Bersani e soci hanno già deciso di votare No al referendum, e in questo senso il Gianni Cuperlo che approva l’accordo interno serve a dimostrare questo assunto: se non si è contro Renzi per principio si riesce a trovare un compromesso onorevole all’interno del Pd. In realtà, il lavorìo sulla riforma dell’Italicum riguarda gli alleati di governo. Cioè il Nuovo centrodestra di Angelino Alfano e Scelta civica, che fanno pur parte della maggioranza di governo. E poi, ovviamente, c’è Forza Italia con cui bisogna trattare. È a loro, a Ncd, a FI, a Sc, in realtà, che è rivolto questo sforzo per trovare una quadra sulla legge elettorale. E non a caso il presidente del Consiglio pronuncia parole quanto mai vaghe sulla revisione dell’Italicum. Dice che il ballottaggio non è più un tabù, ma non precisa i contorni di una possibile riforma della riforma, anche perché il secondo turno continua a non dispiacergli. Eppoi, come ha spiegato ai collaboratori, la materia è quanto mai complicata: «Alfano è contro il ballottaggio, Franceschini è a favore, Napolitano vuole il turno unico, Prodi ritiene che invece ci debba essere il secondo turno». E ancora: «Forza Italia ci ha chiesto di trattare solo dopo il referendum». Quindi è pensando alle «divisioni nel centrosinistra» e alle «posizioni attendiste» di Berlusconi che Matteo Renzi calibra i suoi interventi. Con un unico obiettivo: «Referendum avanti tutta».

5 novembre 2016 | 00:54
© RIPRODUZIONE RISERVATA

Da - http://roma.corriere.it/notizie/cronaca/16_novembre_05/strategia-premier-sull-italicum-legge-che-piaccia-ad-alleati-fi-357b4706-a2e5-11e6-9bbc-76e0a0d7325e.shtml
 
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« Risposta #84 inserito:: Dicembre 10, 2016, 09:37:41 am »

Il retroscena
Crisi di governo, Matteo Renzi: «Faccio quel che serve al Colle»
E i suoi pensano a un partito
Il premier dimissionario potrebbe accettare il bis per poi votare.
E bloccherebbe Franceschini

Di Maria Teresa Meli

Il leader è a Pontassieve (dovrebbe tornare a Roma oggi pomeriggio) e il Partito democratico si interroga sulle sue mosse future. Lo fanno anche i renziani che ieri erano particolarmente interessati a un sondaggio di Nicola Piepoli, secondo il quale un partito dell’ex premier avrebbe più consensi del Pd. È un’idea che stuzzica una fetta dei sostenitori del segretario. Per intendersi, quella che vede con maggior fastidio le manovre di Franceschini e compagni. Il «capo», però, almeno per ora, continua a guardare dentro i confini del Pd, tant’è vero che sta già preparandosi al Congresso, che vorrebbe tenere «subito», per «rimettere le cose a posto» e poi «rilassarmi un annetto e prepararmi alla sfida delle prossime elezioni».

«Quello che serve a Mattarella io faccio»
Ma potrebbe esserci un altro scenario nel futuro dell’ex premier, soprattutto dopo le dichiarazioni di ieri di Luigi Di Maio, il quale ha detto che pur di andare alle elezioni i Cinque stelle sarebbero disposti ad arrivare al voto con il governo Renzi. Già, si sta parlando della possibilità che il segretario del Pd resti in carica. In quel caso Franceschini dovrebbe accodarsi, anche perché, secondo Renzi, non ha comunque la maggioranza dei gruppi parlamentari, tanto più dopo che Orlando non ha accettato la sua proposta di fare asse per stringere in un angolo il segretario. «Conviene a tutti fare gioco di squadra, soprattutto a chi ora è ministro», commenta il leader con i suoi.

Ma quello della sua permanenza a Palazzo Chigi è uno scenario di cui al momento il segretario non vuole parlare. Eppure c’è. E anche Renzi sa che se Mattarella glielo chiedesse gli sarebbe difficile dire di no. Soprattutto nel caso in cui sia la Lega che i grillini facessero capire al capo dello Stato che sono favorevoli ad andare alle elezioni velocemente anche con questo governo: «Quello che serve a Mattarella — spiega infatti il leader ai suoi — io faccio. È l’abc della politica. In una situazione di crisi si aiuta il presidente della Repubblica, perciò da parte mia c’è la massima disponibilità».

Il rischio Verdini
Fino a un certo punto, naturalmente: «Bersani — ragiona con i collaboratori l’ex premier — dice che non bisogna andare al voto, ma allora devi fare un governo con Verdini. Bersani ci sta? Eppoi Denis a questo giro non si accontenterà di stare fuori dal governo. Chiederà un ministero. E io in questo cul de sacnon mi ci voglio mettere. Non ci sto a farmi insultare da leghisti e grillini che ci accusano di avere una maggioranza non legittima, figlia di un parlamento illegittimo... In questo caso preferisco dire avanti il prossimo». In molti ieri hanno cercato il segretario pd per avere la linea, ma lui ha ripetuto a tutti la stessa frase: «La politica non è più “renzicentrica”. Per cui aspettiamo quello che dicono gli altri e ascoltiamo Mattarella». Ma sono in pochi a credere che il leader non stia studiando una nuova mossa per «sparigliare».

© RIPRODUZIONE RISERVATA
8 dicembre 2016 (modifica il 9 dicembre 2016 | 01:00)

Da - http://www.corriere.it/la-crisi-di-governo/notizie/faccio-quel-che-serve-colle-f08e188e-bd84-11e6-bfdb-603b8f716051.shtml
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« Risposta #85 inserito:: Marzo 14, 2017, 06:08:59 pm »

LE CONCLUSIONI DELL’EX PRESIDENTE DEL CONSIGLIO

Renzi condanna il giustizialismo
Agli scissionisti: nessuno ci distrugge
L’ex premier al Lingotto lancia la generazione dei quarantenni.
«Essere di sinistra non significa rincorrere un totem del passato».
Orlando: no a strette sugli avvisi di garanzia

Di Maria Teresa Meli

«Vi voglio bene anche io»: Matteo Renzi chiude così il suo discorso al Lingotto, mentre la platea, la cui età media è scesa in questo ultimo giorno di convention dedicato al suo discorso, si spella le mani. L’ex segretario vuole lanciare pochi, chiari, messaggi. Rivolti al suo popolo più che ai giornali. Il primo riguarda la vicenda Consip: «Noi siamo per la giustizia giusta, che qualcuno, anche nel nostro campo, ha confuso con il giustizialismo». E ancora: «La Costituzione dice che un cittadino è innocente fino a sentenza passata in giudicato. I processi si fanno nei tribunali, non sui giornali, e le sentenze le fanno i giudici, non i commentatori». La platea applaude. In modo insistito. Da Roma il suo sfidante, il ministro della Giustizia Andrea Orlando, fa sapere di essere d’accordo: «Contenimento del clamore dei processi». Però niente stretta sugli avvisi di garanzia, come qualcuno ipotizzava, perché «rischia di ledere i diritti della difesa».

Momento di debolezza
Però non è solo sulla giustizia che l’ex segretario vuole mandare dei messaggi al suo partito. Nel mirino, ora, gli scissionisti: «Nelle scorse settimane qualcuno ha cercato di distruggere il Pd perché c’è stato un momento di debolezza, soprattutto mia. Ma non si sono accorti che c’è una forza, c’è una solidità, che vengono espresse dalla comunità del Pd, indipendentemente dalla leadership. Si mettano il cuore in pace: il Pd c’era prima, ci sarà dopo e ora cammina con noi». Già, la sinistra, avverte Renzi, è il Partito democratico. Se ne facciano una ragione Bersani e D’Alema: «Essere di sinistra non significa rincorrere un totem del passato, andare sul palco con il pugno alzato cantando bandiera rossa. Quella è una macchietta non è politica».

Esperti di Xylella
Ma è soprattutto D’Alema, l’uomo che da due anni preparava la scissione e che ha convinto Bersani e Speranza ad accodarsi, il bersaglio di Renzi: «Tanti oggi parlano di Ulivo, gli stessi che lo hanno segato, che hanno contribuito a far cadere Prodi. Sono esperti di Xylella, più che di Ulivi...». Ma per questo Pd, che ha resistito alla scissione e alla bufera giudiziaria, e che adesso è al Lingotto, ci sono altri messaggi. L’ex segretario vuole far capire che con il governo non ci sono tensioni. E infatti accoglie Paolo Gentiloni, salutato da una standing ovation, con queste parole: «Bentornato a casa, lavoriamo insieme». Il premier, che l’ex segretario fa salire sul palco, a fine comizio, insieme a Martina, aveva preannunciato la sua presenza al Lingotto con questo tweet: «Con Renzi, più forza al Pd per il futuro dell’Italia». Ed è una grande prova di forza, per il leader, avere con sé non solo la maggior parte dei ministri, ma anche il premier, che volendo avrebbe potuto non schierarsi per mettere al riparo il governo.

Millennial da conquistare
Dopo un ringraziamento al popolo del Pd, Renzi esalta «la generazione Lingotto»: i quarantenni del partito, ma anche i Millennial che vuole conquistare. L’ex segretario evita di attardarsi sul tema delle alleanze: è «politichese». «La prima alleanza che dobbiamo fare — dice — è con i milioni di cittadini che credono in noi». Già, «non è possibile replicare i modelli del passato». Quindi Pisapia e compagni dovranno attendere: del resto, «senza il Pd non si va da nessuna parte» e nessuno può pensare di condizionare il Partito democratico, perché, come dice Orfini, «la sinistra siamo noi». Ma quale sinistra? Renzi la spiega così: «Siamo noi, siamo una forza tranquilla». Lo slogan coniato da Mitterrand, l’uomo che rese vincente il partito socialista in Francia, mandando in soffitta i comunisti d’Oltralpe.

12 marzo 2017 (modifica il 13 marzo 2017 | 00:42)
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Da - http://www.corriere.it/politica/17_marzo_12/renzi-condanna-giustizialismo-d7914842-0767-11e7-96f4-866d1cd6e503.shtml
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« Risposta #86 inserito:: Luglio 04, 2017, 05:17:56 pm »

Renzi e quei sospetti su D’Alema. Poi dà la linea: non inseguiamo Insieme
I sospetti sull’ex leader dei Ds e sulle manovre per un’altra scissione, lo scetticismo nei confronti della piazza di Pisapia, l’autodifesa sulla grande coalizione

Di Maria Teresa Meli

ROMA — All’indomani di quello che nel Pd qualcuno, scherzando, ha definito il «vaffa-day» di Matteo Renzi, i toni si fanno più contenuti anche se lo spirito resta quello del Forum di Milano. E una coltre di silenzio avvolge le esternazioni di Pisapia.

Niente pubblicità
La linea l’ha decisa il leader e i suoi luogotenenti la portano avanti. Ed è questa: «Non inseguiamo quella che è solo un’operazione mediatica, ma che non ha grandi consensi, replicando, potremmo solo valorizzarla». Insomma, l’impressione, nel quartier generale del Pd, è che a Santi Apostoli vi fosse «molto ceto politico», «poca società civile» e «pochi giovani» e che quindi sia controproducente puntare i riflettori su Pisapia facendogli pubblicità. «Non parliamo di lui, parliamo del Paese», ripeteva già l’altro ieri sera Orfini. Del resto, l’impressione del segretario, ma anche di tutti gli altri dirigenti a lui vicini, è che riuscire a dialogare con quella piazza «sia molto complicato». Non sono perciò alle viste colloqui, nonostante sia da una parte che dall’altra vi siano i pontieri sempre speranzosi di ritagliarsi un ruolo e di arrivare a una mediazione.

L’ombra di Bersani
Renzi non ha in programma incontri con Pisapia, anche perché rifugge dai «riti della vecchia politica». Con l’ex sindaco di Milano, comunque, il segretario non ha mai avuto cattivi rapporti nemmeno quando Pisapia si opponeva alla candidatura di Giuseppe Sala, ma sicuramente i due hanno impostazioni politico-culturali assai diverse. In più non è sfuggita alla dirigenza del Pd la piega che ha preso il processo per la costruzione di un soggetto politico unitario di sinistra. Anche i renziani, in Transatlantico, hanno sentito Bersani spiegare ai suoi che «Pisapia segue i miei consigli». Consigli che, provenendo dall’ex segretario, puntano ovviamente a mettere l’accento sulla natura alternativa al Pd del nascituro cartello elettorale.

D’Alema e i caminetti
Certo, Pisapia, nel comizio di sabato, ha utilizzato toni molto diversi da quelli di Bersani, ma al Nazareno l’impressione è che la componente di Articolo 1-Mdp abbia preso il sopravvento rispetto a quella dell’ex sindaco. Non solo, Renzi ritiene che la «vera mente» di tutta l’operazione sia Massimo D’Alema. Il sospetto è che l’ex ministro degli Esteri stia lavorando per riuscire a mandare in porto due obiettivi. Primo, convincere Sel a fare parte del futuro soggetto politico. Secondo, favorire una nuova scissione del Pd. Ufficialmente, sia Andrea Orlando che Gianni Cuperlo continuano a dire di non volersene andare, ma per quanto terranno questa posizione? Tanto più che Renzi ha lasciato chiaramente capire che non intende riunire «caminetti» per fare le liste elettorali o trattare le candidature con i «capicorrente». E infatti Speranza invita Orlando a scegliere con chi stare: «Ma Andrea si è candidato a segretario del Pd», gli replica Ugo Sposetti.

La grande coalizione
Renzi, comunque, non vuole attardarsi oltre in «dibattiti che interessano solo gli addetti ai lavori». E non commenta pubblicamente nemmeno la richiesta di Orlando di un referendum tra gli iscritti nel caso in cui nella prossima legislatura si debba andare a un governo di grande coalizione. Questa è una cosa di cui Renzi non si capacita: «Io con il leader di Forza Italia non ho mai governato, loro sì: che vogliono da me?», si è sfogato con i suoi il segretario, che ieri si è complimentato con il sindaco di Modena, Gian Carlo Muzzarelli, per la «perfetta» organizzazione del concerto di Vasco Rossi. Un’implicita critica alla prima cittadina di Torino, Chiara Appendino (Movimento 5 Stelle) sugli incidenti del dopopartita di Champions.

2 luglio 2017 (modifica il 2 luglio 2017 | 23:11)
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Da - http://www.corriere.it/politica/17_luglio_03/renzi-sospetti-d-alema-insieme-e052a1f2-5f63-11e7-8241-893ad62f90c4.shtml
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« Risposta #87 inserito:: Dicembre 15, 2017, 09:35:02 am »

Boschi si difende in TV: «Vegas mi invitò a casa sua, ma non lo vidi lì»

La sottosegretaria a duello con Travaglio: «Non mollo».

E racconta di un sms con cui il presidente Consob l’avrebbe invitata a casa sua per un incontro di prima mattina

Di Maria Teresa Meli

«Purtroppo c’è un accanimento incredibile nei miei confronti, ma se pensano che questo mi possa far mollare si sbagliano di grosso, non hanno capito chi sono. Ora si combatte»: nel suo giorno più difficile Maria Elena Boschi si confida con gli amici e fa sapere che giocherà all'attacco.

Nel primo pomeriggio scorre sul cellulare gli sms che il presidente della Consob Giuseppe Vegas le ha mandato. E trova quello che le interessa. Il 29 maggio del 2014 lui le chiede, in modo che lei poi definirà «inusuale», di andare a casa sua alle otto del mattino. Lei risponde: «Ci vediamo in Consob o al ministero».

La sottosegretaria decide quindi la strategia: andrà in tv, ospite di Lilli Gruber, con Marco Travaglio e parlerà anche di quel messaggino. Intanto posta su Facebook il suo intervento del 18 dicembre del 2015 alla Camera, quando venne presentata una mozione di sfiducia contro di lei sul caso Etruria, per dimostrare che non ha mentito: «Non è giusto subire aggressioni sul nulla, ma non mi fanno certo paura. Dopo due anni di strumentalizzazioni, adesso basta». Poi Boschi duella con Di Battista su Twitter. Il deputato grillino la accusa di non dire la verità, lei replica a brutto muso: «Il bugiardo sei tu».

Si fanno le sette di sera, è ora di andare da Lilli Gruber su La7 a Otto e mezzo. Sulle agenzie di stampa nel frattempo sono uscite altre dichiarazioni di Vegas, quelle in cui dice che l’allora ministra del governo Renzi non ha mai fatto pressioni. In tv la sottosegretaria chiarisce subito: «Non mi dimetto, non ho mai fatto nessun favoritismo nei confronti di mio padre, che se ha sbagliato pagherà». Nel Pd qualcuno ritiene che Boschi dovrebbe fare un passo di lato, ma lei non è della stessa opinione: «Non sono attaccata alla poltrona ma alla verità, e non è giusto lasciare solo perché ci sono persone che dicono bugie». E ancora: «Contro di me c’è un attacco, ci si nasconde dietro l’alibi Boschi per non individuare i responsabili veri, c’è qualcosa che non torna».

Tocca a Marco Travaglio, che attacca e la accusa di mentire. La sottosegretaria preannuncia un’azione civile contro di lui e gli dà del «bugiardo». Quindi, il colpo di teatro: «Ho un sms di Vegas, mi chiese addirittura di incontrarlo a casa sua, in modo inusuale. Io gli dissi di non vederci lì, tra l’altro da soli, ma al ministero o alla Consob». Poi aggiunge: «Ho incontrato più volte Vegas, abbiamo parlato del sistema bancario e ho espresso anche preoccupazioni sull’aggregazione di Vicenza e Arezzo, ma nulla di strano, nessuna pressione». Dunque, è la sua conclusione, «non ho sbagliato a parlarne con Vegas perché non ho chiesto nulla che eccedesse il mio ruolo istituzionale». Travaglio riparte all’attacco: «In un altro Paese la sua carriera politica sarebbe finita». Ma lei replica: «Se fossi stato un uomo non mi avrebbe riservato questo trattamento. Ha fatto i soldi andando nei teatri italiani con un’attrice poco vestita che mi scimmiottava». Non è disposta a mollare di un millimetro, la sottosegretaria. Si ricandiderà, anche se premette che «lo deciderà il Pd»: «Mi auguro in Toscana, alla Camera». E nega che Renzi dovrebbe prendere le distanze da lei. Poi annuncia una querela anche verso Di Maio che l’ha paragonata a Mario Chiesa.

Ma c’è un’altra audizione su cui sono puntati i riflettori. Quella di Ghizzoni, ex ad di Unicredit. Boschi ribadisce di averlo incontrato. E ha discusso con lui di Banca Etruria? «È capitato di parlarne. Ma non ho mai chiesto niente che potesse favorire la Banca. Non ho fatto nessuna pressione. Come lui ho incontrato pure i suoi successori e i vertici di altre banche». Al termine della trasmissione, Boschi è soddisfatta, anche se la tensione della giornata non scivola via. A sera arriva la solidarietà del premier Paolo Gentiloni. Secondo il premier «Maria Elena ha chiarito tutto».

14 dicembre 2017 (modifica il 15 dicembre 2017 | 00:11)
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Da - http://www.corriere.it/politica/17_dicembre_15/boschi-si-difende-tv-vegas-mi-invito-casa-sua-ma-non-vidi-li-79872d0c-e114-11e7-acec-8b1cf54b0d3e.shtml
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« Risposta #88 inserito:: Marzo 03, 2018, 11:12:11 pm »

Renzi: chiunque dovrà passare dal Pd
E chiude con le accuse al M5S
Il segretario dem chiude la campagna a Firenze: Grillo fa schifo e Di Maio ci ha insultati e ora chiede voti? Comunque vada resterò fino al 2021

  Di Maria Teresa Meli

«Ho cominciato a far politica sognando la democrazia americana...e mi ritrovo la Democrazia Cristiana»: prima dell’ultimo sforzo elettorale Matteo Renzi recupera - seppure per po’ - il sorriso. Succede quando gli raccontano che molti dei professori-ministri del governo Di Maio lavorano all’Università “E Campus”, invenzione dell’ex maggiorente democristiano Vincenzo Scotti. Il segretario del Partito democratico è immerso nella giornata finale della campagna elettorale. Con i sostenitori non si risparmia: «Qualsiasi sia il risultato elettorale, io resterò segretario fino al 2021, come hanno deciso le primarie». Con gli amici commenta l’ultima indiscrezione: il governo Pd, Leu e Cinque stelle. E’ un’ipotesi che Romano Prodi ha illustrato a qualche amico. «D’altra parte - sottolinea un renziano di rango - già nel 2013 Prodi pensava di potersi far eleggere al Quirinale con i voti di Grillo, è possibile che stia preparando il terreno per il 2022, quando scadrà Mattarella».

Quella di un governo D’Alema-Di Maio-Pd è’ un’ipotesi che vede contrario il segretario del Partito democratico: «Una cavolata, i numeri in Parlamento li ho io, quindi non si faranno giochetti a prescindere da me». E per chiarire bene come la pensa anche ai vari “padri nobili” del Pd che sperano in una riunificazione della sinistra, Renzi spiega: «Grillo ci fa schifo. E Di Maio dopo averci insultato per anni con quale faccia ci chiede ora i voti per il suo governo? Prima di votare il principe degli impresentabili noi andiamo all’opposizione» Renzi alla vigilia del voto appare realista se non pessimista: «Il Pd non farà un grande risultato», dice il segretario agli amici. Ma poi aggiunge, con un sorriso: «Comunque vada dovranno passare per il Pd. Per fare qualsiasi governo, per fare qualsiasi cosa dovranno rivolgersi a noi. Sia Di Maio che Berlusconi». A meno che...». A meno che «non facciano un governo grillini - Lega. In questo caso l’Italia sarà affidata agli apprendisti stregoni dei 5 stelle e del Carroccio». E’ una prospettiva, questa, che preoccupa Renzi: «Il sorpasso della Lega su Forza Italia è possibile», ammette il segretario del Partito democratico. Renzi punta ancora a fare del Pd il primo partito al Senato, mentre sembra dare per scontato che il Movimento 5 stelle sarà il primo alla Camera: «Se fosse così non sarebbe male - confida ai collaboratori - perché dovrebbero venire comunque a cercarmi, e alla fine, inevitabilmente, il Partito democratico sarebbe il baricentro di qualsiasi equilibrio politico». Ovviamente, sempre che i grillini nono ottengano un successone e e non aspirino a fare un governo con Matteo Salvini e Giorgia Meloni. «Sarebbe un danno per l’Italia, ma è sempre un’eventualità che anche Berlusconi teme», confessa un esponente del governo Gentiloni. «Ma forse - ironizza Renzi con i fedelissimi - Gigino si accontenterebbe di fare il presidente della Camera». Quindi il segretario del Pd aggiunge, sempre rivolto ai suoi in questo venerdì di passione e di attesa: «E su questo potrebbe trovare anche delle sponde dal Quirinale. Del resto in questa vicenda del suo ridicolo governo le ha già avute in qualche modo». Dunque Renzi sta già preparando le possibili contromosse rispetto a una eventuale vittoria grillina alle elezioni di domani.

Eppure il clima dentro il Partito democratico non sembra dei migliori. Ieri non c’è stata nessuna manifestazione di chiusura unitaria. Niente palco per la squadra del Pd e men che meno per i leader della coalizione di centrosinistra. Ognuno ha chiuso la campagna elettorale per conto suo. Renzi nella sua Firenze. Gli altri nei loro collegi. E a Roma non c’è stato nessun evento conclusivo, nessun finale con i fuochi d’artificio, come si usa in questi casi, sebbene i Cinque stelle abbiano chiuso nella Capitale la loro campagna elettorale. Eppure a Roma, nel collegio Roma uno, si presenta il presidente del Consiglio. Ma il Pd capitolino, che pure aveva prenotato una piazza a Trastevere, ha preferito cambiare rotta e organizzare una mobilitazione con gazebo e circoli aperti nella speranza di sollecitare gli indecisi. Gentiloni ha perciò preferito chiudere la sua campagna in un centro anziani all’Esquilino: «Speriamo di avere l’occasione, per me e per il Pd, di andare avanti», ha detto il presidente del Consiglio, che è ancora in testa a tutti i sondaggi di popolarità e che ha appena ricevuto la “benedizione” dell’Economist, che lo ha definito il miglior premier possibile per l’Italia.

2 marzo 2018 (modifica il 3 marzo 2018 | 16:11)
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Da - http://www.corriere.it/elezioni-2018/notizie/renzi-chiunque-dovra-passare-pd-elezioni-2018-pd-204345f8-1e5b-11e8-af9a-2daa4c2d1bbb.shtml
 
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« Risposta #89 inserito:: Marzo 09, 2018, 05:34:26 pm »

Renzi, ecco la lettera di dimissioni
La guida del partito va a Martina

La lettera nelle mani di Orfini: «Le mie dimissioni sono esecutive, sono già fuori senza scontri e polemiche, con grande serenità»

  Di Maria Teresa Meli

La lettera di addio di Renzi è datata 5 marzo. L’ha in mano Orfini, a cui il segretario l’ha consegnata quello stesso giorno perché venga ufficializzata lunedì prossimo in Direzione. Non ci sono ambiguità: «Le mie dimissioni sono esecutive, sono già fuori senza scontri e polemiche, con grande serenità», ha spiegato Renzi ai colleghi di partito. La delegazione E in quella missiva l’ex premier chiede di «convocare l’Assemblea nazionale». Non ci sarà nessun reggente fino ad allora. Il partito sarà guidato dal vice segretario Martina. E saranno loro a formare, con i capigruppo, la delegazione che andrà al Quirinale per le consultazioni. Poi a metà aprile, l’Assembla nazionale deciderà se eleggere un segretario lì, senza primarie, o fare un congresso vero e proprio. Renzi preferirebbe la seconda ipotesi, è ovvio, ma non si impunterà sulla prima, che, al momento, gli pare la più probabile. Guarda anzi con un certo distacco alla pletora di possibili candidati: Martina, Chiamparino, Calenda, Zingaretti. Chissà, forse ce ne sarà anche uno renziano, ma il nome è ancora coperto. Il bilancio Non c’è rancore in questo addio, forse un po’ di amarezza.

Renziano d’alto rango
Ieri Renzi era a Firenze, a palazzo Vecchio, prima, da Nardella, e poi a fare scuola guida al figlio con il motorino. Ai suoi ha raccomandato di evitare scontri e conflitti. Intende andarsene con serenità, anche se lo accusano di voler preparare il terreno per un partito tutto suo e individuano nell’associazione che ha detto di voler fare il germe di questo nuovo soggetto. La serenità è dovuta anche al fatto che la linea che lunedì verrà certificata in Direzione è la sua: niente governo con i grillini o con la destra. È quello su cui ha insistito sin dopo le elezioni: facciamo esporre la Lega e i 5 Stelle, non possiamo essere noi il partito delle poltrone. Racconta un renziano d’altro rango. «Anche se Franceschini smentisce, noi sappiamo che aveva parlato con i grillini e voleva un accordo con loro. Pure Gentiloni era su questa linea. Senza parlare di Zanda, lui che ha cassato la legge anti-vitalizi ora vuole fare l’intesa». Un’intesa pressoché impossibile, alla Camera, per una banale questione di numeri: per avere la maggioranza un governo del genere dovrebbe ottenere il voto di più del 90 per cento del gruppo pd. Peccato, però, che metà di quel gruppo sia composto da renziani. E l’intesa con i grillini è stata al centro di un diverbio, a margine dell’ultimo Consiglio dei ministri, tra Lotti e Franceschini: vediamo se nei gruppi hai i numeri per fare un accordo con loro, è stato l’avvertimento del ministro dello Sport. Che sarà il vero regista dei renziani, ora che il leader ha fatto un passo di lato. I maggiorenti Ma comunque gli altri maggiorenti del Pd dovranno scendere a patti con il segretario uscente. Al Senato, visti i numeri, verrà eletto un suo pasdaran. Alla Camera si troverà un nome di mediazione e non quello di Maria Elena Boschi, come si era vociferato, perché la sottosegretaria si è sfilata da qualsiasi incarico. Le truppe renziane in Parlamento non faranno sconti e si muoveranno compatte. Per l’elezione dei presidenti delle Camere, ma anche quando si affronterà la questione del governo. «Pensano di aver fatto fuori Renzi, ma sottovalutano che ci sono comunque i renziani», avverte un deputato.

7 marzo 2018 (modifica il 8 marzo 2018 | 09:21)
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Da - http://www.corriere.it/politica/18_marzo_07/pd-orfini-renzi-si-dimesso-formalmente-lunedi-martina-apre-direzione-1af1ce6e-2241-11e8-a665-a35373fafb97.shtml
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