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Autore Discussione: DANIELE MASTROGIACOMO.  (Letto 11019 volte)
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« inserito:: Novembre 14, 2008, 10:58:06 pm »

Regge, a Goma, la fragile tregua, ma è necessario spostare più a ovest la gente inerme che rischia di essere travolta da un attacco dei ribelli

Congo, il grande esodo dei profughi

Sfollati in 60 mila per evitare la strage

Confronto acceso tra i leader dei ribelli: Nkunda ferma i suoi


dal nostro inviato DANIELE MASTROGIACOMO


GOMA - Sessantamila sfollati del nord del Kivu verranno trasferiti nella prossime ore in un nuovo campo profughi. E' l'ultima emergenza operativa che l'Unhcr, l'organizzazione per i rifugiati delle Nazioni unite, si trova ad affrontare in queste ore di intesa attività diplomatica e militare per contenere la guerra nell'est del Congo.

Un fiume umano, moltissimi a piedi, altri in bicicletta, carrretti, moto, monopattini, e solo i più anziani a bordo di camion, lascerà la grande pianura dove sorge il campo di Kibati, 20 chilometri a nord di Goma, e si sposterà verso un nuovo accampamento, quello di Muguna, 15 chilometri più a ovest. E' un esodo imponente. Dopo aver tentato inutilmente di allungare la cosiddetta "terra di nessuno" che divide il fronte dei ribelli dai soldati dell'esercito congolese, la Moduc si è rassegnata e ha suggerito alle Nazioni unite di trasferire questo enorme campo di rifugiati per motivi di sicurezza.

La tensione a Goma resta alta, anche se per il quarto giorno consecutivo non ci sono stati scontri tra le forze in campo e non si segnalano sparatorie. La tregua, fragile, regge. Ma esiste il rischio di iniziative unilaterali. Provocherebbero nuove fughe, ondate di panico. Verrebbero travolte decine di migliaia di uomini, donne, vecchi, bambini accampati alla meglio su una radura larga un paio di chilometri. Goma, comunque, non sarà presa dai ribelli del Cnlp. E' stato il generale Laurent Nkunda a stabilirlo dopo accese discussioni con il suo Stato maggiore.

Secondo fonti militari, che abbiamo raccolto stamane in città, nei giorni scorsi ci sarebbe stato un confronto piuttosto acceso tra il leader dei ribelli congolesi e il suo braccio destro, Bosco Ntaganda, capo di Stato maggiore di questo esercito che può contare su seimila soldati perfettamente armati. Già dirigente del Fpr, il Fronte patriottico ruandese ai tempi della prima guerra che travolse e costrinse alla fuga il feroce dittatore dell'allora Zaire Mobutu Sese Seko, poi confluito nelle fila dell'Unione dei ribelli congolesi, infine passato con il Cnlp, il colonnello Bosco Ntaganda, 35 anni, noto come "Terminator", colpito da un ordine del Tribunale penale internazionale per aver arruolato ragazzini di 15 anni tra le fila della guerriglia, sabato scorso aveva dato ordine ai suoi uomini di attaccare Goma.

Ma il generale Laurent Nkunda lo ha fermato. I rischi di una strage erano altissimi. Non tanto per gli scontri con la Moduc, autorizzata ad aprire il fuoco e a difendere la città ad ogni costo. Ma per le reazioni incontrollate dei soldati congolesi. Più volte, in altri distretti e villaggi dove hanno dovuto ripiegare, gli uomini delle Fardc si sono abbandonati a saccheggi e razzie, provocando nuove fughe della popolazione verso i campi rifugiati quasi al collasso. Terminator ha minacciato di dimettersi.

Ma l'autorevolezza e la notorietà internazionale ottenute da Nkunda lo hanno fatto desistere e la conquista della città è stata sventata. Il capo dei ribelli ha mosso le sue truppe più a nord, verso la città di Kanyabayonga, 175 chilometri da Goma. Si tratta di un centro strategico nella mappa del Nord-Kivu. Qui confluiscono tutte le strade che si diramano poi verso l'Uganda. Prendere Kanyabayonga significa tagliare fuori i rifornimenti di armi, munizioni e uomini che possono arrivare da ovest e soprattutto chiudere il cerchio di un territorio che il Cnlp, di fatto, si è conquistato.

Il generale Nkunda già guarda al futuro. Parla di "amministrazione parallela" instaurata nelle sue terre, ha nominato cinque ministri, ha invitato la popolazione a rientrare nelle case abbandonate sotto la furia dei combattimenti. Cosa che migliaia di persone stanno facendo, con lunghe file di profughi che da sud si dirigono verso la città di Rotshuru e il villaggio di Witwanja. Più che a Goma, i ribelli congolesi ora puntano a Kanyabayonga.

La Moduc, con seimila uomini sparpagliati sul terreno, afferma di aver rafforzato le sue posizioni nella cittadina e sembra decisa a resistere. Dopo l'ingresso ufficiale nel conflitto dell'Angola, che ha spedito alcune brigate di soldati, si ha notizia di militari ruandesi che avrebbero varcato il confine con il Congo e si sarebbero infiltrati nel nord del Kivu. Ma si tratta di voci. Nulla di più. Voci inquietanti. Kigali, naturalmente, nega. Continua a sostenere che il conflitto della regione confinante è un problema interno al Congo. In queste ore è impegnata in un'offensiva politico-diplomatica con la Germania: dopo l'arresto del capo del protocollo del presidente ruandese, Rose Kabuje, ha espulso l'ambasciatore di Berlino a Kigali e ha richiamato il suo in patria. Kabuje potrebbe essere presto estradata in Francia che ha emesso nei suoi confronti un mandato di cattura internazionale per concorso nel genocidio del 1994. Una mossa che accenderà nuovi focolai di tensione, mentre Kigali è invasa da cortei che protestano sotto la sede diplomatica tedesca.


(14 novembre 2008)

da repubblica.it
« Ultima modifica: Gennaio 13, 2009, 05:07:10 pm da Admin » Registrato
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« Risposta #1 inserito:: Novembre 16, 2008, 05:32:26 pm »

Laurent Nkunda ha incontrato l'inviato dell'Onu ed ha detto di sì alle richieste di un corridoio umanitario per le migliaia di rifugiati

Congo, il capo dei ribelli pronto ai negoziati di pace

Il presidente Joseph Kabila forse deciso a tagliare il legame con le milizie estreniste Hutu, preludio per una vera distensione


dal nostro inviato DANIELE MASTROGIACOMO
 

GOMA - Forti venti di pace tornano a soffiare sul Nord del Kivu. Il generale Laurent Nkunda, capo dei ribelli congolesi, ha accettato la proposta dell'emissario delle Nazioni unite, l'ex presidente nigeriano Olusegun Obasanjo, di proclamare una tregua duratura e avviare delle trattative con il presidente del Repubblica democratica del Congo, Joseph Kabila. Il leader del Cndp (Congresso nazionale per la difesa del popolo) ha aderito anche alla proposta di aprire da subito un corridoio umanitario per consentire l'invio di soccorsi e di aiuti umanitari al milione e mezzo di profughi sparpagliati nel territorio a causa del conflitto.

Si tratta del primo, importante accordo tre settimane dopo l'inizio delle ostilità. Il lavoro svolto nelle ultime ore dall'emissario Onu spedito nelle regione dal segretario generale Ban ki Moon ha ottenuto risultati che solo stamani apparivano impossibili. Dopo aver incontrato venerdì scorso il presidente ruandese Paul Kagame, Obasanjo è volato a Kinshasa e si è intrattenuto a colloquio per oltre un'ora con il presidente della Rdc Jospeh Kabila. Ha insistito sulla necessità di avviare subito dei negoziati diretti con Nkunda anche per alleviare la sofferenza della popolazione, stremata dai continui scontri e dalle violenze subite durante il ritiro delle truppe regolari congolesi. Il presidente Kabila ha accettato l'idea di un negoziato diretto ed è rimasto in attesa della risposta del generale Laurent Nkunda.

Sostenuto dal clima positivo, l'emissario dell'Onu ha preso un elicottero ed è volato direttamente a Jomba, una cittadina a 80 chilometri a nord di Goma, dove il capo dei ribelli ha installato il suo quartiere generale. Per l'occasione, Nkunda ha smesso la divisa e ha accolto il suo ospite vestito da civile: un completo grigio chiaro su camicia bianca e una cravatta rossa. L'incontro è stato caloroso e cordiale. I due si sono abbracciati, sono sfilati davanti ad una doppia fila di soldati vestiti in alta uniforme. C'è stato il saluto del picchetto, una breve fanfara e alla fine, mano nella mano, Nkunda e Obasanjo si sono avviati verso una chiesa della cittadina dove hanno parlato per circa un'ora e mezza.

La visita dell'emissario Onu era stata preceduta da un violentissimo scambio di artiglieria pesante tra i soldati ribelli schierati attorno a Kanyabayonga, un centro strategico a 180 chilometri a nord ovest di Goma, e le truppe delle Fardc decise a difenderlo. La battaglia, la prima ingaggiata con bombardamenti, colpi di mortaio e di artiglieria dal 28 ottobre scorso, aveva fatto temere un naufragio della mediazione delle Nazioni unite. Ma si è trattato, più che altro, di un segnale lanciato dall'esercito congolese per recuperare terreno e avviare da una posizione di forza un eventuale negoziato. Dopo la sconfitta di tre settimane fa, le Fardc (le truppe regolari congolesi) vivono un momento di grande difficoltà. Disorganizzati, indisciplinati, mal pagati, senza una solida guida centrale, i soldati congolesi hanno subìto il contraccolpo di Nkunda. Spesso hanno agito d'impulso, attaccando quando non dovevano e ritirandosi, sempre prima del tempo, con una fuga che si trasformava in un saccheggio.

Lo Stato maggiore delle Fardc ha preso i primi provvedimenti: ieri mattina ha annunciato l'arresto di venti soldati ritenuti colpevoli delle razzie dei giorni scorsi e il recupero della refurtiva. I responsabili compariranno davanti alla Corte militare operativa di Goma. E' un gesto importante. Rientra nell'ottica di "normalità istituzionale" più volte sollecitata dal nuovo emissario dell'Onu. La base per l'avvio del nuovo negoziato è stata costruita anche dalla serie di colloqui che Kigali e Kinshasa hanno tenuto durante tutta la settimana. Si sono delineati i nodi non ancora sciolti e che impediscono l'applicazione dell'accordo del gennaio scorso. Tra questi, forse il più spinoso: la presenza nel Nord del Kivu delle milizie di estremisti hutu protagonisti del genocidio in Ruanda nel 1994. Kigali e Khinshasa hanno deciso di inviare sul terreno una squadra mista delle due rispettive intelligence. Joseph Kabila, di fatto, ha deciso di mollare gli interhamwe, le milizie estremiste Hutu. E' il preludio di una scelta che può davvero aprire le porte alla pace.

(16 novembre 2008)
da repubblica.it
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« Risposta #2 inserito:: Novembre 18, 2008, 09:19:43 am »

ESTERI

Il Paese in crisi profonda. Le milizie religiose controllano gran parte del territorio

Le truppe etiopiche non riescono più a sostenere il governo

Corti islamiche all'attacco e pirati "La Somalia è quasi al collasso"

L'appello disperato del presidente Yusuf Ahmed: "Siamo a un punto di non ritorno"

Non si hanno notizie delle due suore italiane rapite. La difficile lotta alla pirateria


dall'inviato DANIELE MASTROGIACOMO


NAIROBI - "Il paese è quasi al collasso. Bisogna guardarci in faccia: gran parte della Somalia è di nuovo nelle mani delle milizie islamiche". Davanti a 100 parlamentari riuniti qui a Nairobi per cercare di sbloccare la formazione dell'ennesimo governo transitorio, il presidente della Somalia Abdullah Yusuf Ahmed dice quello che tutti pensano ma che nessuno ha il coraggio di ammettere.

Quattro anni dopo la sconfitta delle Corti islamiche, grazie all'intervento delle truppe di Addis Abeba, i grandi notabili, capi clan e uomini d'affari tracciano un bilancio del loro presente e del loro futuro e affidano al presidente le conclusioni. Parlando dal palco di un grande cinema della città, Yusuf Ahmed sprona la platea da mesi impantanata nella ricerca di un compromesso per il varo di un nuovo esecutivo. "Gli islamici - ribadisce - sono ormai presenti un po' ovunque. Mi chiedo e chiedo a voi: vi rendete conto della situazione che abbiamo di fronte? Chi ha causato questi problemi? Non siamo da biasimare?".

Nessuno ha avuto la forza di replicare. Perché la realtà somala è nei termini in cui viene descritta dal capo di uno Stato che fatica a diventare tale. C'è una sorta di "road map" da seguire, ma i tempi previsti sono stati tutti disattesi. Restano in piedi i contrasti tra i vari clan dominanti. Che si riflettono sulla scelta del presidente, per tradizione del Puntland, sul primo ministro e sui membri del suo gabinetto. Punti sul vivo, molti parlamentari gettano acqua sul fuoco. "Più che un allarme", dicono con sarcasmo, "è un canto del cigno".

Il presidente Yusuf è diventato ingombrante, non è amato dalla maggioranza, c'è una chiara volontà di isolarlo. Ma mentre il Parlamento si affanna a tessere continue mediazioni, isolato a Baidoa, città nel nord, e molto spesso a Nairobi, la guerriglia avanza e conquista fette sempre più larghe di territorio. Molte notizie passano inosservate. Ma la presa di Elasha, a pochi chilometri da Mogadiscio e del famoso porto di Merka, cruciale per il commercio e soprattutto per far arrivare gli aiuti alimentari del Pam, ha destato fortissima impressione in Somalia.

Le truppe etiopiche sono stanche di una guerra che ha procurato loro più morti che vantaggi. Si sa che Addis Abeba ha bisogno di uno sbocco vitale sul mare. Ma, da un punto di vista militare, non riesce più a contenere l'avanzata delle Corti islamiche e soprattutto degli studenti di al Shabaab, legati ad al Qaeda. L'Unione africana ha chiesto 8 mila soldati di contenimento. Ne sono arrivati solo 3 mila che il Burundi e l'Uganda hanno fornito con uno sforzo generoso. Fanno quello che possono. Da tre mesi sono bersagliati dai colpi di mortaio fin dentro le loro basi.

Per i civili è davvero un inferno. Chi tiene il conto di questa mattanza e delle fughe di massa, sostiene che dall'inizio dell'anno ci sono state diecimila vittime. Che gli scontri hanno generato un milione di profughi, che altri 3,2 rischiano di morire letteralmente di fame, che su 637 milioni di dollari necessari per assistere questa massa di dannati ne sono stati raccolti solo 200.

Per giovedì prossimo è convocato un nuovo vertice dell'Idag, l'Autorità intergovernativa per lo sviluppo che svolge il ruolo di garante internazionale per il rispetto della road map. Si cercherà di fissare ancora una volta i paletti del percorso e di far valere soprattutto i tempi.

Resta il problema di chi partecipa alle trattative. Le vecchie corti islamiche si sono divise tra duri e flessibili. C'è chi sta con il Gruppo di contatto di Gibuti, chi con quello di Asmara che hanno ovviamente posizioni distanti. Con altri intrecci, alleanze, rotture con i diversi capi clan.

Chi gode di questo disastro sono i pirati. Il business dei sequestri in mare, e quello a terra, è diventato una manna. Si agisce giorno e notte: una vera industria.

Delle due suore italiane rapite si sa poco e niente. Sarebbero tenute prigioniere a cento chilometri dai confini con il Kenya e sarebbero stati avviati dei negoziati. Dall'inizio dell'anno, sostiene l'International maritime bureau, sono stati sequestrati 50 tra cargo e portacontainer. L'Unione europea ha creato un suo team. Al largo delle coste somale incrocia già una nostra nave, il caccaiatorpediniere Luigi Durand de la Penne che giovedì scorso ha sventato un assalto ad un cargo. Ci sono anche unità russe, statunitensi e britanniche. Altre ne stanno arrivando. Si danno un gran da fare. Ogni giorno inseguono, bloccano, sparano sui velocissimi motoscafi dei banditi. Ma è una caccia impossibile. Frustrante.

Ieri mattina è stato lasciato andare un mercantile filippino, il Stolt Valor, dopo il pagamento di un riscatto di 1,1 milione di dollari. Poche ore dopo veniva catturata nel Golfo di Aden un'altra nave, giapponese. A bordo ci sono 23 marinai, di cui 5 sudcoreani. Le trattative sono già a buon punto.

(17 novembre 2008)
da repubblica.it
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« Risposta #3 inserito:: Gennaio 13, 2009, 05:06:54 pm »

Le truppe di Addis Abeba lasciano il Paese fra la gioia della popolazione

La parte più estremista delle Corti destinata a controllare Mogadiscio

L'Etiopia ritira le sue truppe la Somalia in mano agli islamici

di DANIELE MASTROGIACOMO

 
L'ETIOPIA si ritira. Abbandona la Somalia. Lo aveva annunciato più volte. Ma oggi, alle prime luci dell'alba, dopo l'ennesimo scontro a colpi di mortaio con i miliziani islamici degli "al Shabaab" che ha lasciato sul terreno altri 11 civili, i 3000 soldati di Addis Abeba hanno abbandonato la più importante base di Mogadiscio e hanno iniziato a ritirarsi verso nord. L'avvio dell'operazione è stata accolta da manifestazioni di gioia. Centinaia di somali sono scesi per strada tra grida e spari di armi automatiche. La grande base è stata invasa e, ovviamente, saccheggiata.

E' la fine di un'incursione avviata alla fine del 2006, piena di speranze e carica di incognite. L'obiettivo era sbaragliare le Corti islamiche che nel giro di pochi mesi avevano messo in fuga i signori della guerra, rimasti padroni della Somalia per cinque anni tra taglieggi e soprusi. Troppi morti, troppi attentati e soprattutto troppo rancore tra la popolazione somala che aveva visto il proprio Paese invaso dalle truppe di un nemico storico. Così, dopo un accordo raggiunto tra il Governo Transitorio federale e la parte moderata delle Corti islamiche nel novembre scorso a Nairobi, l'Etiopia ha dato il via all'operazione di rientro.

Non si sa cosa potrebbe accadere ora. Per molti analisti, l'assenza delle truppe di Addis Abeba potrebbe facilitare il fragilissimo processo di pace in un paese lacerato da 18 anni di guerra civile. A nessun popolo piace essere dominato da forze straniere. Soprattutto da quelle che appartegono ad uno Stato confinante con cui i rapporti sono stati sempre tesi. Ma la forza dirompente dell'ala radicale delle Corti islamiche, dominata dagli al Shabaab ( "i giovani"), legati ad al Qaeda, ormai padroni di gran parte della Somalia, fa temere il peggio.

Chi ha combattuto in questi 23 mesi, provocando 16 mila morti e la fuga di oltre un milione di persone, chi ha eroso sempre più territorio, costringendo Addis Abeba ad una difesa disperata, sono stati soprattutto gli estremisti islamici. Milizie che asseriscono di voler riportare ordine in questo inferno. Ma applicando in modo radicale la sharia, la legge islamica. Nelle zone già sotto il loro controllo sono state spente le tv, chiusi i piccoli cinema dove i somali amano andare nelle ore più calde, imporre il velo ad una popolazione femminile tradizionalmente laica. Se dovessero prevalere, la Somalia si trasformerebbe nel nuovo avamposto di al Qaeda nel Corno d'Africa.

Con il ritiro delle truppe etiopiche si crea una vuoto pericolisissimo. Sul terreno restano solo 3500 soldati ugandesi e burundesi che l'Unione africana ha spedito sul posto undici mesi fa. Sia Kampala sia Bujumbura hanno fatto sapere nei giorni scorsi di non essere disposti a restare altro tempo. Temono di rimanere impantanati in un Paese che ha visto fallire ogni missione di pace. Se non arriveranno altri soldatri di rinforzo - ne sono stati chiesti altri cinquemila - lasceranno la Somalia nel giro di un mese. L'Unione africana non ha più soldi. Non è in grado di finanziare altre missioni. Ha chiesto aiuto all'Onu. Gli Usa hanno già pronta la bozza di una risoluzione che chiede l'invio di una forza di pace di altri 6000 caschi blu. Ma si sa che il segretario generale Ban Ki-Moon è contrario: sostiene che la Somalia sia troppo pericolosa.

Mentre il lungo serpentone di carri blindati e di tank iniziava ad attraversare il Paese, nuovi scontri armati, con lanci di razzi e colpi di mortaio, scoppiavano a Gurael, nel cuore della Somalia. In tre giorni di combattimenti di registrano altri 50 morti. Questa volta tra le milizie degli "al Shabaab" e un altro gruppo islamico moderato, gli "Ahlu Sunna Waljamaca".

(13 gennaio 2009)
da repubblica.it
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« Risposta #4 inserito:: Gennaio 27, 2009, 09:58:01 am »

Anche la capitale politica dove ha sede il governo di transizione è stata presa dalle milizie di Al Shabaab, formazione vicina al gruppo terrorista

Gli estremisti islamici a Baidoa

La Somalia nelle mani di Al Qaeda

di DANIELE MASTROGIACOMO

 

ROMA - Anche Baidoa, la capitale del Tng, il Governo nazionale di transizione somalo, è caduta nella mani dei radicali islamici. Con la sua conquista le milizie degli Al Shabaab, formazione islamica legata ad al Qaeda, ottiene forse uno degli obiettivi più ambiti e di grande valenza politica. Sin dai tempi delle Corti islamiche Baidoa è stata la sede del nuovo Parlamento e dei ministeri che tentano da tre anni di costituire una parvenza di istituzioni. Ma con il ritiro delle truppe etiopiche, completato proprio ieri e annunciato ufficialmente da Addis Abeba, l'avanzata degli al Shaabab è stata quasi inarrestabile. Adesso tutto il sud, il centro e gran parte del nord della Somalia risulta nelle mani dei radicali. "La città è completamente sotto nostro controllo", ha dichiarato il portavoce delle milizie, lo sceicco Mukhtar Robow. "Ci sono alcuni miliziani che ci sparano addosso, ma presto li neutralizzeremo".

L'Alleanza per la nuova liberazione della Somalia, l'associazione che raggruppa gli islamici moderati disposti a formare un governo con i laici del Tng, ha confermato solo parzialmente la notizia. Riunti a Gibuti dove si tiene l'ennesimo vertice che cerca di dare corpo ad un progetto di governo, gli esponenti dell'Alleanza sostengono che si combatte ancora strada per strada. Ma tutti sono convinti che si tratta solo di "questione di ore".

Un residente di Baidoa, Ali Abdullahi Hassan, ha dichiarato di aver visto lo sceicco Robow a bordo di un pick up in città. "C'erano numerosi miliziani armati con lui e trovano solo una debole resistenza".

Due giorni fa, il centro di Mogadiscio era stato investito dallo scoppio di un'autobomba che aveva provocato 13 morti e oltre venti feriti. Ieri le milizie degli al Shabaab si erano accanite sui soldati dell'Amisom, la missione di pace dell'Unione africana. Asserragliati nella loro grande base piazzata dentro l'aeroporto erano stati bersagliati da colpi di mortaio e lanci di razzi. Non c'erano state reazioni. Le prospettive per la Somalia diventano sempre più cupe e incerte. La totale conquista del paese da parte dei radicali è ormai imminente. La candidatura a presidente del capo delle formazioni moderate, Sheick Sharif Ahmed, a questo punto appare più un annuncio rituale piuttosto che una scelta strategica.

(26 gennaio 2009)
da repubblica.it
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« Risposta #5 inserito:: Novembre 14, 2009, 04:38:11 pm »

"Sull'Iraq fummo ingannati da chi voleva la guerra. Con Obama le cose sono cambiate"

"Una parte del mondo cerca di procurarsi armi nucleari. Producono potere e prestigio"

El Baradei: "Attenti ai soliti documenti falsi Nessuna prova sulla bomba iraniana"


dal nostro inviato DANIELE MASTROGIACOMO


VIENNA - Il sito nucleare di Qom in Iran è pericoloso?
"Un mese fa ci è stato detto che stavano costruendo un sito per l'arricchimento dell'uranio. Ma hanno subito precisato che si trattava di un piccolo sito, realizzato dentro la montagna, per la difesa pacifica delle tecnologie iraniane che erano finalizzate a produrre solo energia elettrica".

E lei ci crede?
"Lo abbiamo visitato. Secondo l'Iran non si trattava di un'operazione commerciale, ma di un impianto che doveva essere dotato di tremila centrifughe; era strutturato in modo da proteggere tutte le tecnologie presenti in caso di attacco militare".

Non le sembra una violazione che rischia di compromettere i negoziati?
"E' stato un passo falso di Teheran che ha creato attrito e messo di nuovo in dubbio la sua buona fede. I nostri ispettori sono andati sul posto, hanno trovato apparecchiature, cavi, condutture, ma non centrifughe e materiale nucleare. A nostro parere non desta preoccupazione. Le nostre visite sono continue, seguiamo lo sviluppo dei lavori".

Mohamed el Baradei, 67 anni, sposato, due figli, diplomatico egiziano, esperto in diritto internazionale, insignito del Premio Nobel per la pace nel 2005, a fine mese lascia l'Aiea. Lunedì prossimo arriva in Italia per ritirare un riconoscimento che gli ha assegnato l'università di Perugia. Concede questa intervista in esclusiva a Repubblica: l'occasione per fare un bilancio di 12 anni difficili e complessi alla guida dell'Agenzia per l'atomica.

Dottor El Baradei, non crede che l'Iran possa nascondere altri siti segreti?
"Le nostre informazioni sono soltanto confidenziali. Non possiamo basarci su delle congetture ma su dati concreti e questi ci dicono che non esiste altro impianto segreto".

La comunità internazionale è scettica sul negoziato.
"Abbiamo fatto molti progressi sul controllo del programma di arricchimento in Iran. Stiamo procedendo a nuove verifiche per evitare che abbia fini militari. Naturalmente bisogna fare di più, insistere, arrivare a certezze assolute. Diverse intelligence straniere ci hanno fornito documenti su cosa accade in Iran. Si tratta di piani di studio sugli armamenti nucleari; ma dimostrano che tali studi non sono stati sviluppati. Le conclusioni, però, sono differenti. I servizi segreti statunitensi ritengono che l'Iran stia continuando la corsa alla bomba nucleare. Dopo un lavoro accurato di screening l'Agenzia sospetta invece che parte dei documenti sia falsa".

Dottor El Baradei crede che questa corsa infinita alla trattativa sia producente?
"Io sono convinto che bisogna continuare nella trattativa. E' importante ricordare che i negoziati stavano andando molto bene fino al 2003. Poi, sei anni fa, l'Iran ha deciso di sospendere il confronto sul processo di arricchimento. Come reazione, gli Usa per tre anni hanno interrotto ogni rapporto e hanno lasciato agli europei il compito di portare avanti il dialogo. Rispetto il ruolo e il peso dell'Europa. Ma è chiaro che per gli iraniani è molto più importante l'atteggiamento degli Usa. Il nuovo approccio dell'amministrazione di Barack Obama ha cambiato le cose. Ora si negozia senza alcuna preclusione".

La politica della mano tesa ha tuttavia prodotto pochi risultati finora.
"Ma è la sola possibile. Risolvere il problema con l'Iran significa trovare un nuovo equilibrio nell'area. Penso all'Iraq, all'Afghanistan, ai Territori palestinesi. Gli Usa devono considerare l'Iran un partner, non un nemico. E' nel loro interesse comune. Mi auguro che si rompa questo muro e si riprenda subito un negoziato più ampio. Oggi esistono le condizioni per una svolta".

L'Agenzia risente troppo delle pressioni esterne?
"Godiamo della fiducia di tutti i paesi del mondo proprio per la nostra credibilità d'informazione. Ma gli stessi paesi che ci contattano cercano poi di condizionarci. La nostra forza è la neutralità: a questi paesi chiediamo delle prove perché il nostro compito è valutare e indagare".

Ma sono state proprio le Nazioni unite a legittimare la guerra in Iraq.
"L'Iraq è stato invaso perché si sosteneva che nascondesse delle armi di distruzione di massa. Ma siamo stati raggirati e ingannati con falsi documenti. La decisione di dichiarare la guerra dipendeva dalla nostra verifica sui luoghi. Avevamo chiesto ancora di due mesi per completare i nostri controlli. Ma non ci sono stati concessi. Poi abbiamo scoperto che la decisione di dichiarare la guerra era stata già presa almeno un anno prima della nostra verifica".
Non ritiene che questo dimostri che l'Agenzia non ha potere? "Questa domanda andrebbe rivolta al Consiglio di sicurezza con tutti i suoi 15 membri".

Oggi il mondo è più sicuro?
"Il mondo deve capire che non è possibile soffermarsi solo sul tema dell'insicurezza. Questo è il sintomo di un malessere più grande. Una parte del mondo si limita ad aver paura perché teme di essere attaccata. Forse è per questo che cercano di procurarsi delle armi nucleari: sono una sorta di garanzia, producono potere e prestigio. La Nato arriva a considerarlo un concetto strategico neutrale: l'arma nucleare è un ottimo deterrente per mantenere la pace. Per me è una tesi orribile".

Il mercato clandestino parallelo delle armi atomiche che faceva capo all'ingegnere pachistano Abdul Qader Khan è stato smantellato?
"Era un network delle armi atomiche mondiali che coinvolgeva molti paesi. Sappiamo che oggi non esiste più. Ma questo non esclude che ne siano sorti altri, uguali. Costituisce forse la minaccia più grave per la sicurezza del mondo. All'Agenzia spetta il compito di neutralizzarla".

© Riproduzione riservata (14 novembre 2009)
da repubblica.it
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« Risposta #6 inserito:: Dicembre 18, 2009, 04:43:50 pm »

La Danimarca libera in Somalia 13 predoni che avevano tentato l'assalto a una nave del Togo: molti Paesi temono ritorsioni

Pirati catturati e rilasciati nessuno vuole processarli

di DANIELE MASTROGIACOMO


Nessuno li vuole.
Giudicarli e processarli è troppo complicato ma soprattutto protrebbe innestare altri ricatti e lunghi bracci di ferro. Così, con un comunicato amaro e pieno di frustrazione, il ministro della Difesa danese ha gettato la spugna. Tredici pirati somali, catturati due settimane fa dopo aver tentato di assaltare una nave che batteva bandiera del Togo da un'unità militare danese impegnata nei pattugliamenti della taskforce europea al largo delle coste del Corno d'Africa, sono stati rilasciati e trasferiti a terra in Somalia.

I 13 pirati erano stati bloccati a bordo di un barchino dove erano state trovate armi automatiche, rampini, bazoka e numerose munizioni. "L'Unione europea", si legge nel comunicato del ministero della Difesa danese, "ha cercato invano sin dal loro arresto di trovare un paese che fosse disposto a incriminarli e a giudicarli. Questo ministero si rammarica che l'Unione europea non abbia individuato una soluzione".

Perfino le Seychelles e il Kenya si sono rifiutati di prendere in carico il gruppo di pirati. Hanno respinto la proposta del governo danese di trasferire i 13 arrestati sostenendo che "non erano in condizioni di giudicarli". Si sono giustificati spiegando che i loro differenti sistemi giuridici non consentivano di istruire un processo per il caso specifico.

Il rifiuto di tutti i paesi europei, impegnati in prima linea nella difesa del traffico commerciale marittimo nel golfo di Aden e al largo della lunghissima costa somala, pone ovviamente un problema di credibilità. Sia sul piano del diritto internazionale, sia su quello pratico. Appare del tutto inutile sostenere uno sforzo militare ed economico come quello messo in campo dalla task force mondiale se i responsabili degli assalti ai cargo e alle petroliere di ogni stato restano impuniti.

L'atteggiamento prudente dell'Unione europea è dovuto alle più recenti esperienze, prima fra tutte quella spagnola. Madrid, un mese fa, si trovò ad affrontare una crisi difficile e complessa dopo il sequestro della sua nave Alakrana, assaltata il 2 ottobre scorso in pieno Oceano indiano con 30 uomini di equipaggio. Dopo una lunga e drammatica trattativa e continue minacce di morte nei confronti dei marinai, la Spagna è stata costretta a cedere. E' un precedente che pesa. Venne pagato un riscatto ma soprattutto furono rilasciati sette pirati catturati nel maggio scorso e trasferiti in cella a Madrid dei quali era stata richiesta la scarcerazione.

© Riproduzione riservata (18 dicembre 2009)
da repubblica.it
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« Risposta #7 inserito:: Gennaio 04, 2010, 06:22:48 pm »

La città di Dhuusa Mareeb è caduta nelle mani degli insorti di al Shabaab

Cinquanta le vittime. Residenti in fuga, miliziani pattugliano la zona

Somalia, scontri nel centro del paese prosegue l'avanzata delle milizie filo al Qaeda

di DANIELE MASTROGIACOMO


BRUCIA il Corno d'Africa. Spinte da successi che sembrano legati da una precisa strategia militare, le milizie filo al Qaeda degli al Shabab conquistano ancora una volta la città strategica di Dhuusa Mareeb, 500 chilometri a nord di Mogadiscio. Per tre giorni si sono scontrati con i guerriglieri di Ahlu Sunna, un gruppo islamico moderato che si ispira a principi sufisti, tendenzialmente pacifico, che due mesi fa ha deciso di imbracciare le armi e di opporsi all'avanzata del gruppo radicale degli "studenti".

La battaglia, una delle più violente e sanguinose degli ultimi sei mesi, ha lasciato sul terreno 47 morti e oltre cento feriti. Le notizie sono scarne e contraddittorie. Ma diverse fonti confermano che dopo un continuo capovilgimento di fronti, i miliziani degli al Shabab sono riusciti a prendere nuovamente possesso della cittadina e adesso pattugliano le strade praticamente deserte in mezzo alle case e alle costruzioni distrutte dai colpi di obici e razzi Rpg.

Dhuusa Mareeb è considerata un crocevia strategico per l'avanzata verso il Puntland, la regione semiautonoma del Corno d'Africa che adesso teme di essere assediata. Il gruppo di Ahlu Sunna è alleato del Governo di transizione federale (Ftg) guidato dal leader moderato delle vecchie Corti islamiche - per un anno padrone della Somalia ma poi sbaragliate dall'esercito etiopico - Sheick Sharif Sceick Ahmed. Il loro intervento è riuscito a contenere l'avanzata dei radicali islamici. Ma solo per un paio di settimane.

La superiorità militare e organizzativa degli al Shabab alla fine è prevalsa. Decine di migliaia di civili sono costretti a fuggire da un territorio all'altro, spesso senza cibo e soprattutto medicine. Ali Yasin Gedi, portavoce del gruppo dei diritti umani Elam, conferma l'esodo massiccio anche da Dhuusa Mareeb.

I pochi rimasti non possono far altro che accettare passivamente la presenza dei miliziani radicali che impongono da subito l'applicazione rigida della sharia. In molti centri della Somalia si amputano mani e piedi ai presunti ladri e più volte si sono lapidate le coppie accusate di adulterio. Squadre della polizia religiosa girano a bordo di potenti jeep e verificano che gli uomini indossino vestiti tradizionali, abbiano la barba lunga e i capelli corti. Sembra di vivere l'Afghanistan ai tempi dei Taliban.

Nel sud, nella città di Buaale, gruppi armati hanno fatto irruzione negli uffici del Pam, il programma alimentare mondiale, e li hanno saccheggiati. Oltre alle derrate di cibo e medicine, sono stati portati via pc, computer, materiale tecnico e i 50 mila dollari che si trovavano in una cassaforte. I caschi blu dell'Amisom, la missione dell'Unione africana, sono la unica forza di contrapposizione.

L'offensiva del gruppo legato ad al Qaeda ha costretto le Nazioni unite a cambiare le regole d'ingaggio. Ora anche i peacekeeping possono difendersi usando armi leggere e pesanti. In otto mesi ci sono stati 50 morti. Ma nonostante la presenza di 2700 soldati dell'Uganda e di altri 2550 del Burundi ( i soli paesi che hanno risposto alla richiesta d'aiuto della Ua), la situazione sul terreno sembra ormai precipitare.

I paesi limitrofi sono in allarme, si rafforzano i controlli alle frontiere. L'Eritrea, sospettata di finanziare e spesso addestrare le milizie radicali degli studenti, alza la voce e accusa l'Etiopia di aver violato i suoi confini. La tensione alimenta vecchie rivendicazioni e accende conflitti mai sopiti. Molti analisti ritengono che l'avanzata degli al Shabab verso nord e verso est preluda ad un attacco generalizzato che farebbe cadere anche il restante 20% del paese nella mani dei filo al Qaeda.

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« Risposta #8 inserito:: Gennaio 17, 2010, 04:26:22 pm »

Nel Duomo molti più fedeli del solito e il sacerdote sottolinea che mancano gli immigrati

"Erano come voi, con la pelle più scura, venivano dall'Africa. Non ci sono perché li hanno cacciati"

Rosarno, l'omelia di don Pino "I cristiani aiutano chi sbaglia"

"Se siamo pronti alle violenze nei confronti dei più deboli, allora non veniamo più in chiesa"

dal nostro inviato DANIELE MASTROGIACOMO


ROSARNO  -  E' domenica, giorno di festa ma anche di preghiera. E di riflessione. La città si sveglia un po' stordita, confusa e incerta. Le violenze dei giorni scorsi, la caccia all'emigrante che è proseguita ancora nella notte hanno lasciato il segno. Nella parte bassa di Rosarno, le ruspe dei vigili del fuoco sono già al lavoro. Smantellano con i loro lunghi bracci dentati le mura fatiscenti di Rognetta, il piccolo campo dove vivevano trecento immigrati africani. Nella parte alta, davanti al palazzo del Comune, spicca il Duomo. Sono le 10 e per la prima volta, dopo tante settimane, la chiesa torna a riempirsi di fedeli. I bambini, a decine, nelle prime file. Gli adulti, molti anziani, dietro. Sulla sinistra c'è ancora il presepe, la grotta, Giuseppe e Maria piegati su Gesù, il bue e l'asino. Sui nastri rossi che l'avvolgono ci sono  parole che in queste ore acquistano ancora più valore. Solidarietà, tolleranza, rispetto, pace, uguaglianza.

Don Pino Varrà, parroco di Rosarno, parte da lontano. Afffronta la parabola del Vangelo dedicata al battesimo. La nascita, il riconoscimento ufficiale, l'eguaglianza di tutti i bambini di fronte a Dio. Parla ai più piccoli che gli siedono davanti. Parte da loro per arrivare agli altri. Che lo ascoltano, che intuiscono, che si aspettano qualcosa. Nelle ultime file sostano gli uomini del paese. Molti, in questi  giorni, hanno partecipato alle violenze, hanno brandito bastoni e catene. Hanno dato man forte ai blocchi sulla statale per Gioia Tauro. Giù alla vecchia fabbrica di Rognetta e poi più in là, verso l'altro campo dei dannati, all'ex oleificio trasformato in un campo di disperati.  Adesso sono qui. Cercano conforto e comprensione.

"Bisogna aiutare i fratelli che sbagliano", spiega il sacerdote. "E in questi giorni che stiamo vivendo qualcuno ha sbagliato. Ma questo non ci autorizza a colpirlo, a inseguirlo, a ucciderlo, a cacciarlo. Ci obbliga a capire, a fermarci. Per non sbagliare più. Questo dobbiamo fare se vogliamo essere dei cristiani". Il parroco lascia l'altare, scende tra la gente. Parla a braccio, stringe con le mani il microfono. "Se ho un fratello in famiglia non posso picchiarlo o cacciarlo di casa perché ha rotto un vaso. Devo andargli incontro, sostenerlo, capire cosa è accaduto". Allarga le braccia, sorride: "Vedo finalmente questa chiesa piena, sono contento che moltissimi tra voi sono tornati. Ma vedo anche che manca qualcuno". Don Pino sospira, si rivolge ai bambini. "Lo vedete anche voi. Non c'è John. Vi ricordate di lui? Veniva ogni domenica". I bambini annuiscono. I genitori, dietro, restano in silenzio. Tesi e consapevoli. "Mancano anche Christian, Luarent. E Didou, il piccolo Didou. Mancano i suoi genitori. Erano come voi, con la pelle più scura, venivano dall'Africa. Non ci sono perché li hanno cacciati".

E' il culmine dell'omelia. E' il momento dell'appello. E del rimprovero: "Mi rivolgo ai più grandi, ai genitori. Perché loro hanno un ruolo importante, formativo. A voi dico: non vi fate trascinare verso ragionamenti e reazioni che non sono da cristiani. E' facile dire: abbiamo ragione noi. Quando siete nati, Dio è stato chiaro: questo è mio figlio. Lo siamo tutti. Tutti abbiamo diritto alla vita, una vita dignitosa, che non ci umili. Anche quelli di un altro colore, anche quelli che sbagliano sempre. Se vogliamo essere cristiani noi non possiamo avere sentimenti di odio e di disprezzo".

Il parroco adesso è al centro della navata. Si rivolge al suo gregge che appare ancora più smarrito. Alza la voce, come un tuono: "Possiamo anche dire che abbiamo sbagliato. Che i miei fratelli, bianchi e neri hanno sbagliato. Ma lo dobbiamo dire sempre. Non solo quando qualcuno ci sfascia la macchina. Lo dobbiamo sostenere con  forza anche quando altri fanno delle cose ancora più gravi. Cose terribili. Dobbiamo avere il coraggio di gridare e denunciare". Il sacerdote indica il presepe: "Non avrebbe senso aver allestito questa opera. Non avrebbe senso festeggiare il Natale. Meglio distruggerlo e metterlo sotto i piedi. Dobbiamo celebrarlo convinti dei valori che lo rappresentano. Perché crediamo nella misericordia e nella solidarietà. Se invece non abbiamo la forza di ribbellarci ai soprusi e alle ingiustizie e siamo pronti alle violenze nei confronti dei più deboli, allora non veniamo più in chiesa. Dio saprà giudicare. Saprà chi sono i suoi figli".

Il Duomo è avvolto da un silenzio pesante. Molti muovono nervosi le gambe. Don Pino è stato chiarissimo. Ha colpito nel segno. E' riuscito a scavare nell'animo della Rosarno ferita e confusa. "Non mi ero preparato alcuna omelia. Ho detto queste cose perché le sentivo. Perché mi sono state suggerite. Non da qualcuno tra voi. Ma da Dio. Potrò sembrarvi presuntuoso. Ma Dio, che ha assistito alle violenze di questi giorni, mi ha chiesto di dirle ai suoi figli. Figli come voi. Figli che hanno sbagliato e che vanno aiutati a non sbagliare più".
 

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« Risposta #9 inserito:: Febbraio 13, 2010, 04:54:44 pm »

Più di 3000 soldati dell'Anisom si preparano a sferrare un attacco in grande stile per strappare ai radicali islamici i quartieri della capitale conquistati di recente

Somalia, nuovi scontri e migliaia in fuga

A Mogadiscio si prepara la battaglia finale

I caschi blu rispondono col fuoco al flusso inarrestabile di combattenti

Più di ottomila persone in fuga dai sobborghi.

L'Ufficio rifugiati dell'Onu al collasso

di DANIELE MASTROGIACOMO


E' la resa dei conti finale, l'inizio dell'ultima battaglia. Quella definitiva, per il controllo di Mogadiscio. La Somalia vive ore di attesa e di fortissima tensione. Spinti dall'Unione africana che sostiene a spada tratta il barcollante Governo di transizione federale, 3500 soldati burundesi e ugandesi dell'Amisom si preparano a sferrare un attacco in grande stile per strappare ai radicali islamici degli al Shabab i quartieri della capitale conquistati negli ultimi mesi. Il gruppo legato ormai ufficialmente ad al Qaeda ha raccolto la sfida e da giorni migliaia di mujaheddin provenienti da ogni regione del paese si sono concentrati a Mogadiscio, assieme a armi pesanti, tank, cannoni, rpg e mortai.

Il flusso di combattenti, sostengono i pochi abitanti rimasti in città ma costretti a vivere tappati in casa la maggior parte del tempo, è inarrestabile. Sono arrivati a bordo di camion, jeep, vecchi bus e furgoni. Per saggiare il terreno hanno subito lanciato una pioggia di colpi di mortaio e di cannone lungo il perimetro che costeggia il quartier generale delle forze delle Nazioni unite. I caschi blu, forti delle nuove regole d'ingaggio che li autorizza a rispondere al fuoco, hanno reagito a cannonate. Gli obici cadono alla rinfusa su aree rimaste ancora neutrali. In due giorni di scambio di armi pesanti sono morti 24 civili e altri 40 sono rimasti gravemente feriti. I pochi ospedali ancora funzionanti accolgono le persone che cercano soprattutto scampo da una mattanza che appare inevitabile e inesorabile. Ma non ci sono medicine e soprattutto riserve di plasma. Il più delle volte si muore dissanguati o per setticemia.

L'atmosfera è pesantissima. Migliaia di abitanti, senza più nulla, hanno lasciato i sobborghi settentrionali di Haliwaa, Yaaqshiid e Wardhiigleey. Almeno 8 mila si sono diretti verso il corridoio di Afgooye, una fetta di territorio lungo una trentina di chilometri che costituisce l'unica via di fuga verso est da Mogadiscio. Hanno raggiunto l'enorme accampamento che si è formato in questi mesi dove sono presenti altri 366 mila sfollati, reduci da precedenti battaglie. L'ufficio rifugiati delle Nazioni unite è esasperato. Non è in condizione di operare per motivi di sicurezza e teme che il nuovo, imminente conflitto possa causare altre vittime tra la popolazione. In un mese ha lanciato sette appelli alle parti in conflitto. Chiede il rispetto dei diritti umani e la salvaguardia dei civili. Ma sono appelli che cadono sempre nel vuoto.

Tutte le ong hanno lasciato il paese. Solo alcune, presenti in precarie strutture sanitarie, sono attive grazie al duro e pericoloso lavoro dei volontari locali. La Somalia è ormai abbandonata a se stessa, nonostante gli impegni della comunità internazionale che appare rassegnata. Qualsiasi straniero che si avventura nel paese rischia di essere rapito. Sulla costa agiscono indisturbati i pirati che - stando ad un calcolo ufficiale - hanno incassato 40 miliardi di dollari in riscatti per le navi assaltate nel 2009. Gran parte della Somalia è dominata dai radicali islamici che applicano la più rigida sharia. Lapidano i sospetti di adulterio, amputano mani e piedi ai presunti ladri, frustano le donne che girano troppo scoperte e gli uomini che non hanno la barba abbastanza lunga.

Il Governo di transizione esiste solo sulla carta. Non ha centrato nessuno degli obiettivi che la comunità internazionale gli aveva fissato. E' lacerato dalle ataviche divisioni che sussistono da secoli nei clan; gran parte dei deputati del Congresso vivono all'estero, soprattutto a Nairobi, e si sfiancano in lunghe e inutili discussioni. I pochi ministri presenti a Mogadiscio resistono asserragliati nei due hotel vicini al quartiere generale dell'Amisom ma appaiono impotenti. Non hanno più fondi: prima hanno sospeso gli stipendi dei parlamentari assenti dalla capitale, poi hanno deciso di tagliare le spese estere chiudendo tutte le ambasciate in giro per il mondo.

Gli al Shabab, dopo mesi di scontri con gli altri gruppi musulmani, hanno raggiunto un accordo e si sono fusi con gli avversari di Hezb al-islam. Di fronte al vuoto del Governo di transizione appaiono sempre più forti. Molti dei soldati somali addestrati nei paesi limitrofi, in base ad un accordo internazionale, finiscono per raggiungere le fila dei radicali. Del resto non hanno scelta: vengono trasportati a Mogadiscio e qui restano allo sbando, senza più un lavoro e soldi. Ma sanno combattere. Facile arruolarsi tra gli al Shabab che sono invece ben armati e in grado di fornire un salario e cibo una volta al giorno. Adesso si preparano all'offensiva finale. "Chiamiamo ad una guerra totale", ha annunciato lo sceicco Robow Abu Mansur, uno dei comandanti della milizia islamica davanti a centinaia di combattenti piazzati attorno al perimetro della città.

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« Risposta #10 inserito:: Giugno 02, 2010, 12:04:10 pm »

AFGHANISTAN

Tra polemiche e molte defezioni inizia la "Loya jirga della pace"

La tradizionale assemblea, sponsorizzata dal presidente Karzai, dovrebbe stilare una sorta di road map.

Non parteciperà l'ex ministro degli Esteri Abdullah. E non ci saranno i Taleban

di DANIELE MASTROGIACOMO


Doveva essere il momento centrale del dibattito interno sul futuro dell'Afghanistan, la prima e più tradizionale forma di discussione su come uscire dallo stato di guerra. Ma la Loya Jirga, massimo organo di consultazione tra tutti gli anziani, capi clan e signori locali, inizia domani nel peggiore dei modi. Sponsorizzata dal presidente Hamid Karzai che ha tentato fino all'ultimo di coinvolgere anche i capi Taleban moderati, l'assemblea parte con la defezione ufficiale dell'ex ministro degli Esteri Abdullah Abdullah, avversario di Karzai alle recenti elezioni 1. Il leader dell'Alleanza nazionale per una nuova speranza ha detto di essere stato invitato ma di non voler partecipare perché la "Jirga non ha legittimità". E ha aggiunto che non il suo non è "un boicottaggio". Sia lui sia i suoi uomini non prenderanno parte ai lavori "perché mentre il governo non ha mantenuto gli impegni con il suo popolo, questa assemblea suona più che altro come un'operazione di relazioni pubbliche".

Secondo gli organizzatori, alla riunione parteciperanno 1600 tra deputati, capi di consigli provinciali, leader tribali, capi religiosi e esponenti della società civile. A loro si dovrebbero unire 300 osservatori e invitati, tra cui molti diplomatici stranieri. Entro il 4 giugno, ultimo giorno dell'assemblea, le parti dovranno elaborare un testo che dovrà suggerire una sorta di road map per il processo di pace, il dialogo con gli insorti e la pacificazione del paese.

Ma il lungo e complesso lavoro di tessitura svolto in questi mesi da Karzai non sembra aver prodotto grandi risultati. La convocazione della Loya Jirga era stata accolta all'inizio con favore. Da sempre è la forma assembleare utilizzata in Afghanistan per discutere il futuro del paese e prendere le decisioni più importanti. Poteva essere un momento tutto interno all'Afghanistan, senza interferenze straniere, senza condizionamenti. Avrebbe potuto portare a dei risultati. Così speravano e credevano in molti. Ma l'andamento oscillante della guerra, la presenza da nove anni delle truppe straniere, le contestate elezioni presidenziali, con i sospetti di brogli mai smentiti dai fatti, l'offensiva imminente nella regione di Kandahar hanno finito per svuotare la Jirga dal suo peso politico e decisionale.


I Taleban erano stati invitati ufficialmente un mese fa. In mattinata, attraverso una dichiarazione pubblicata sul suo sito Internet, l'Emirato islamico dell'Afghanistan - come la galassia del movimento degli studenti coranici usa chiamare la parte del paese sotto il suo controllo - svilisce il senso dell'Assemblea che "fornirà un altro pretesto agli Usa per continuare la guerra, piuttosto che portare la pace nel paese". I Taleban continuano a  sparare, colpire, uccidere. Ieri, l'ennesimo soldato della coalizione è morto per l'esplosione di una mina artigianale piazzata sul ciglio di una strada nel sud del paese. E' il 224mo caduto sul campo dall'inizio dell'anno, il periodo più sanguinoso dall'inizio del conflitto.

Parole durissime contro la Loya Jirga arrivano anche da Malalai Joya, giovane deputata afgana, considerata la donna più coraggiosa del suo paese, espulsa dalla Wolesi Jirga (Camera bassa) nel 2007 per aver definito alcuni suoi colleghi "trafficanti e signori della guerra". "E' un'iniziativa ridicola", sostiene Joya, "perché in un paese materialmente occupato non sarà un'espressione democratica, tanto più che è nelle mani del ministro della Istruzione, Mohammad Rahim Wardak, uomo del leader oppositore Gulbuddin Hekmatyar". La parlamentare contesta anche il dato secondo il qualeil 21 per cento dei partecipanti all'Assemblea è costituito da donne. "E' una palese bugia. Le donne in Afghanistan sono sempre state relegate in un angolo. Nel Parlamento ce ne sono 68. Ma hanno un ruolo prevalentemente formale, quasi di arredamento. Lo stesso accadrà in questa Jirga. Si cercherà comunque un dialogo con i Taleban e i diritti delle donne non saranno certo un argomento prioritario".

(01 giugno 2010) © Riproduzione riservata
http://www.repubblica.it/esteri/2010/06/01/news/loya_jirga-4502962/?ref=HREC1-3
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« Risposta #11 inserito:: Ottobre 15, 2010, 10:43:55 pm »

L'ANALISI

Trattare con i Taleban

di DANIELE MASTROGIACOMO


Adesso anche la Nato è pronta a sostenere il dialogo con i Taleban. Con un'accelerazione più tattica che strategica, tutti gli attori presenti sul teatro afgano si allineano a quella che sembra la strada più veloce per cercare una pace possibile e gettare le basi per un'exit strategy onorevole e non più rinviabile.

 Fa impressione registrare la dichiarazione ufficiale del segretario generale della vecchia alleanza atlantica durante il vertice di Bruxelles, quello chiamato a fissare l'agenda della riunione della prossima settimana a Lisbona quando i paesi impegnati in Afghanistan decideranno se far prevalere la politica alle armi. Il processo di riconciliazione e pacificazione è un processo "a guida afgana" ha premesso Andres Fogh Rasmussen, "ma la Nato è pronta a fornire assistenza al dialogo con i Taleban". Di quale tipo di assistenza non viene precisato. Ma i corsi e ricorsi della storia ci hanno insegnato che anche l'impossibile alla fine si può realizzare. Se fino a qualche mese fa parlare solo di dialogo con gli studenti coranici equivaleva ad un'eresia, in queste ore si arriva a ufficializzare una trattativa iniziata in gran silenzio in Arabia Saudita e proseguita con l'aiuto di emissari, capi clan, signori della guerra, vecchi saggi nelle scorse settimane.

Hamid Karzai sembra incassare un importante risultato. Forse il primo da quando è stato eletto nuovamente alla guida del paese. Ha fortemente voluto la nascita di una Commissione, composta da settanta personalità influenti e di spicco dell'Afghanistan, per avviare un dialogo di pace con gli insorti. E' stato osteggiato a lungo. Dagli stessi Taleban che non hanno esitato a lanciare una selva di razzi mentre si svolgeva l'assemblea costituente a Kabul. E dalle forze Isaf, ma soprattutto Usa, alle prese con una doppia esigenza: cercare una soluzione militare in un momento di grande difficoltà sul terreno, giustificare un dialogo con responsabili di oltre 800 militari uccisi in dieci anni di guerra. Ma alla fine ha prevalso la real politik. Tutti, con molti distinguo e tante perplessità, hanno dovuto accettare l'unica, apparente soluzione ad una disfatta imminente. Gli stessi Taliban cedono alle pressioni dell'Arabia Saudita. Per la prima volta non hanno replicato all'ennesimo appello al dialogo di Karzai. Non c'è stata alcuna reazione, non è stato respinto al mittente il messaggio conciliante. Il silenzio è stato interpretato come un nuovo segnale di disponibilità.

Restano, sullo sfondo, le dichiarazioni roboanti di alcuni capi militari dei Taliban. Reazioni scontate che rispondono più a interessi di bottega, agli equilibri interni alla Shura di Quetta, l'organo esecutivo del Movimento degli studenti coranici, che a una strategia complessiva. La data dell'inizio del ritiro delle truppe Usa resta confermata. A fine agosto 2011 mancano poco più di dieci mesi: il tempo necessario per mettere a punto un accordo tra Taleban e governo centrale di Kabul e avviare un processo di pace su cui nessuno, per il momento, è in grado di scommettere. L'ex presidente afgano Burhanuddin Rabbani, attuale capo della nuova Commissione per la conciliazione, si dice fiducioso. "I Taleban hanno posto alcune condizioni per iniziare il processo di pace", ha spiegato, "questo ci ha dato la speranza che vogliono dialogare e negoziare. Stiamo facendo i primi passi. Credo che ci siano persone tra i Taleban che vogliono il dialogo. Loro sono pronti".

Tra le condizioni posti dagli insorti c'è ovviamente la sospensione delle operazioni militari. Il segretario generale della Commissione, Mashsoom Stanikzai lo ha spiegato chiaramente. "Il sostegno della Nato al processo di pace è essenziale. Deve sospendere le operazioni militari in una regione dove gli insorti sono pronti a negoziare". Ma i 15 ministri degli Esteri e della Difesa della Nato hanno comunque deciso di appoggiare la decisione del Consiglio di sicurezza che estende per un anno la missione della Forza Internazionale di assistenza e per la Sicurezza (Isaf) in Afghanistan. L'ala dura dei Taleban, quella contraria ad ogni forma di dialogo, ne ha approfittato per stigmatizzare la decisione. "Rinnovare il mandato", hanno fatto sapere, "significa gettare benzina sul fuoco. Il Consiglio di sicurezza dovrebbe lavorare per mettere fine alla guerra e all'occupazione. Solo in questo modo ritroverà la sua credibilità perduta e salverà gli afgani dalla angosce di una guerra ingiustificata".

Il momento è delicato e decisivo. Le dichiarazioni restano contrastanti. Il segretario di Stato Hillary Clinton ha offerto una mano. "Se guardiamo ai conflitti  in giro per il mondo", ha detto in un'intervista alla Abc, ", non si fa la pace con i propri amici": Ma non ha nascosto il suo scetticismo: "Stiamo assistendo al tentativo da parte  dei combattenti di livello più basso di lasciare la battaglia. Ma credo che sia molto improbabile che la leadership talebana che ha rifiutato di consgenare Bin Laden nel 2001 possa mai partecipare alla riconciliazione". Robert Gates, segretario alla Difsa, si è spinto oltre: "Siamo consapevoli che il processo di riconciliazione è una parte della soluzione. faremo tutto quello che possiamo fare per sostenere questo processo".

La Nato continuerà con le sue incursioni e i suoi bombardamenti "mirati". Si colpiranno i santuari di al Qaeda e dei gruppi più ostici tra i Taleban. Il Pakistan vuole fare la sua parte. Non ha nessuna intenzione di uscire dalla partita. Con la sua strategia ondivaga fatta di incursioni armate e di consigli, discreti, al vertice dei Taleban. Oggi il capo dell'esercito di Islamabad, Ashfaq Pervaiz Kayani, si dice pronto a "sradicare i terroristi nel nord Waziristan": un modo di colmare le gravi accuse dei giorni scorsi che vedevano il Pakistan agire in combutta con gli insorti. La partita è in pieno svolgimento. Ma non è escluso che presto vedremo trasportare con gli aerei della Nato una delegazione di Taleban, avvolti nei loro turbanti neri, a Kabul. E magari scoprire che gli stessi marines, finora impegnati in battaglie furibonde, costretti a contare sempre più morti, verranno spiegati attorno al palazzo presidenziale per difendere la trattativa finale.

(14 ottobre 2010) © Riproduzione riservata
http://www.repubblica.it/esteri/2010/10/14/news/trattare_con_i_taleban-8061751/?ref=HREC1-8
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« Risposta #12 inserito:: Novembre 29, 2010, 11:46:19 am »

ELEZIONI IN SPAGNA

Catalogna, crollo socialista maggioranza ai nazionalisti

Il peggior risultato per il partito di Zapatero, dopo sette anni di governo locale

dal nostro inviato DANIELE MASTROGIACOMO
 

BARCELLONA  -  E' un vero trionfo del nazionalismo catalano, la sconfitta sonora del socialisti, la fine di una gestione tripartitica senza più idee e programmi. Dopo appena un'ora dalla chiusura dei seggi, il grande favorito delle elezioni per il rinnovo del governo 1 della regione più eclettica, vivace e tollerante della Spagna si concede il bagno della vittoria. Convergenza e Unione (CiU) di Artur Mas si assicura 62 seggi e punta alla conquista della maggioranza assoluta. A tarda notte le schede scrutinate erano il 95 per cento, ma l'andamento dello spoglio faceva ben sperare i dirigenti del partito fondato da Jordi Pujol. Artura Mas si prepara adesso a diventare il prossimo presidente della Catalogna.

Se la CiU dovesse raggiungere la fatidica cifra di 68 scranni alla Generalitat la regione inaugurerebbe una stagione del tutto nuova. Niente più coalizioni tra forze diverse ma un governo di maggioranza privo di condizionamenti, veti e  compromessi. I socialisti (Psc) di José Montilla, protagonisti discussi e contestati degli ultimi sette anni di governo in Catalogna, dimezzano le loro forze e conquistano solo 28 seggi. Una sconfitta andata oltre le più cupe previsioni, ammessa con rara onestà politica dallo stesso segretario generale ed ex presidente del Governo catalano. Dopo la consueta telefonata ad
Arturo Mas, con il quale si è complimentato per il sucesso ottenuto, Montilla si è subito proiettato nel futuro. "Le mie attenzioni politiche", ha assicurato, "saranno adesso concentrate nei confronti di quanti ci hanno votato. Abbiamo perso delle elezioni ma non sono riusciti a sconfiggere le nostre convinzioni". Il dirigente del Psc aveva considerato questa consultazione come un momento decisivo per la regione. Tanto da spingersi ad una valutazione che peserà decisamente nei programmi dei vincitori. Chiudendo l'ultimo comizio, Montilla aveva invitato la gente ad andare a votare con un appello quasi drammatico. "Stiamo decidendo  il futuro di un'intera generazione" .

Ed è stata probabilmente questa stessa generazione che, con il suo voto, ha finito per pesare sull'esito dello scrutinio. La crisi economica, le mancate riforme strutturali, la bocciatura da parte della Corte Costituzionale del referendum sulla indipendenza della Catalogna, vinto dai promotori, sono stati fattori determinanti sulla scelta del voto. La voglia di un cambiamento, del resto, era nell'aria. Tutti i sondaggi attribuivano una vittoria a Convergenza e Unione: per l'immobilismo del Partito socialista catalano e per una gestione del potere, durata sette anni, che si affidava ad un accordo, spesso contrastato, tra tre diversi partiti.

L'atmosfera che si respira in casa dei nazionalisti è naturalmente di festa. Poche e caute le prime dichiarazioni.
Anche se David Macrì, il regista vincente di questa campagna elettorale e la numero due del partito, Joana Ortega, cedevano all'ottimismo e si vedevano ad un passo dalla conquista della maggioranza assoluta dei voti. "Se i dati definitivi lo confermeranno", sostenevano entrambi nel quartiere generale del partito, "possiamo dire con orgoglio che il popolo catalano ha decretato la chiusura del tripartito.

Stiamo assistendo ad una vittoria storica della Catalogna". Una vittoria con cui dovrà fare i conti Luis Rodriguez Zapatero e che influenzerà le scelte delle candidature per le elezioni amminsitrative del prossimo anno e quelle politiche del 2012. Il Partito popolare paga la sua ottusa battaglia contro gli immigrati. Ha puntato sulla paura: del diverso che ti ruba il posto di lavoro e che mette a repentaglio la sicurezza. Ma è stata una scelta miope che non ha pagato: si è fermato a 18 seggi; Icv e Sinistra verde, alla ricerca di un'identità, prive di programmi chiari e di strategie vincenti, al governo assieme ai socialisti nelle ultime due legislature, perdono due scranni in Parlamento e ne raccolgono solo 10.

(28 novembre 2010) © Riproduzione riservata
http://www.repubblica.it/esteri/2010/11/28/news/elezioni_catalogna-9618371/?ref=HREC1-12
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« Risposta #13 inserito:: Gennaio 01, 2015, 04:35:44 pm »

La guerra (in)finita dell'Afghanistan
Pubblicato: 29/12/2014 13:54 CET Aggiornato: 29/12/2014 13:54 CET

CERIMONIA ADDIO FORZE NATO
Di Daniele Mastrogiacomo

La Nato e gli Usa il prossimo 31 dicembre chiudono formalmente la guerra in Afghanistan ma si apprestano a restare nel paese centroasiatico per il tempo che riterranno necessario. Eppure ci sono voluti oltre 13 anni, dal 2001 a tutto il 2014, per lasciare il campo e affidare il destino afgano ai suoi abitanti. Il prezzo pagato per un conflitto, il più lungo nella storia degli Usa, che non ha cambiato di molto le cose e che si trascina ancora tra centinaia di attentati e di incursioni è altissimo: 3.485 soldati uccisi, 2.356 dei quali americani. Senza contare le vittime civili. Negli ultimi mesi gli agguati dei Taliban sono aumentati, rispetto all'anno scorso, del 19 per cento e questo ha portato nel 2014 a 3.188 morti e 6.429 feriti, secondo le cifre ufficiali fornite dall'Onu.

Dopo aver arrotolato la bandiera verde e bianca della Forza internazionale di assistenza per la sicurezza dell'Afghanistan (Isaf), il comandante della missione internazionale, il generale John Campbell ha dispiegato quella della nuova forza di intervento che si chiamerà "Resolute support". "Oggi è la fine di un'era", ha twittato il generale sul suo account, "e l'inizio di una nuova". Entrerà in vigore del prossimo primo gennaio e assorbirà i 10.800 soldati americani che resteranno in Afghanistan, affiancati da altri, tra i 3 e i 4.000, dell'Alleanza atlantica. Un calo vistoso, rispetto ai 140 mila effettivi presenti nel paese nel 2011.

Come è accaduto in Iraq - un precedente che si è dimostrato un disastro - i militari avranno compiti di addestramento e di sostegno. Non interverranno in operazioni di sicurezza e se lo faranno sarà solo su specifica richiesta del governo di Kabul. Ma è chiaro che la presenza di unità militari di eserciti stranieri non allenterà la tensione che rimane tra la stessa popolazione. Se la sconfitta del regime Taliban venne subito accolta con favore, quasi una liberazione, dalla stragrande maggioranza degli afgani, sono stati l'andamento del conflitto e la permanenza di soldati stranieri a creare le più forti critiche alla missione Isaf vista da tutti come una fastidiosa interferenza negli affari interni di un paese.

Non solo per il traffico di mezzi, di divise e di uomini armati. Ma per i disagi che le esigenze di sicurezza imponevano a tutti. Le strade sempre costellate di buche che si trasformavano in pozzanghere; i muri in cemento armato che riducevano le corsie. I percorsi obbligati, i divieti, le aree protette e isolate. E poi, la stessa sicurezza che si dimostrava inefficace e mostrava molte falle, con le incursioni dei Taliban fin dentro il cuore di Kabul tra sparatorie e esplosioni devastanti delle autobomba.

Tredici anni di guerra sono costati un patrimonio agli Usa. Si stima 1000 miliardi di dollari; altri 100 milioni sono stati destinati per la ricostruzione del paese. La gente è come sempre divisa: molti sono convinti che la fine ufficiale del conflitto può aprire le strade verso la pace; altri temono che il paese non sia ancora pronto per garantire la sicurezza a tutti. Sanno che i Taliban continuano ad essere forti nelle regioni dove sono nati e hanno sempre vissuto. Soprattutto quelle meridionali, dell'Helmand e di Kandahar, lungo i confini settentrionali del Pakistan dove sono presenti altre formazioni Taliban. Il segretario generale della Nato, Jens Stoltenberg, sostiene che i 350 mila soldati e poliziotti afgani sono pronti ad assumere il controllo delle sicurezza del paese. Ma i vertici delle Forze armate afgane nutrono forti dubbi. Ammettono di non essere ancora pronti. Di non avere armamenti adatti e di soffrire vistose lacune nell'intelligence e nel soccorso aereo. Lacune che senza il contributo economico degli Usa e della Nato si accentueranno.

Il nodo è soprattutto politico. Non c'è stabilità. A tre mesi di distanza dal risultato delle ultime elezioni, l'Afghanistan è ancora senza un governo. Il presidente Ashraf Ghani non è riuscito a formare un gabinetto e continua a trattare con le forze dell'opposizione per la nomina dei ministri. Non si sa quale sarà la strategia futura dell'esecutivo. Ma è indubbio che si dovrà arrivare ad una sorta di compromesso con gli insorti del Movimento degli studenti coranici. I negoziati in corso in Qatar, l'unico paese dove è presente una rappresentanza dei Taliban, non hanno portato a risultati concreti. Molto dipenderà dai prigionieri. Il loro rilascio potrebbe essere una contropartita: libertà di vecchi combattenti in cambio di una tregua da usare per nuovi negoziati in vista perfino di un ingresso della componente meno radicale del Movimento fondato dal mullah Omar. La base-prigione di Baghram, a nord di Kabul, è già finita sotto il controllo del governo afgano. Ma la partita più importante si potrebbe giocare a Guantanamo, dove sono ancora rinchiusi 149 detenuti, tra i quali 12 afgani. Ancora pochi giorni fa il presidente Obama ha ribadito la sua ferma intenzione di chiudere il super carcere sull'isola di Cuba. Ma deve fare i conti con l'opposizione della maggioranza repubblicana al Congresso fortemente contraria. Soprattutto perché tra i prigionieri ci sono 72 yemeniti che potrebbero ritornare a casa e raggiungere la sezione locale di al Qaeda: la vera, attuale spina nel fianco degli Usa.

Da - http://www.huffingtonpost.it/daniele-mastrogiacomo/guerra-infinita-afghanistan_b_6389646.html?utm_hp_ref=italy
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« Risposta #14 inserito:: Gennaio 22, 2015, 05:42:07 pm »

Due italiani sono ancora prigionieri degli jihadisti
"Da tre anni nessuna notizia di Giovanni Lo Porto"
Assieme al cooperante palermitano, scomparso nel nulla nel nord del Pakistan, c'è il gesuita Paolo Dell'Oglio. I pochi segnali sostengono che sia rinchiuso in un carcere di Raqqa, la capitale del Califfato nero

Di DANIELE MASTROGIACOMO
18 gennaio 2015

ROMA - Sono esattamente tre anni che non si hanno più notizie di Giovanni Lo Porto. Assieme a padre Paolo Dall'Oglio sono gli ultimi due italiani ancora prigionieri di bande di sequestratori.  Del gesuita romano, rifondatore del monastero cattolico siriano Mar Musa, a nord di Damasco, le poche informazioni che filtrano periodicamente sostengono sia rinchiuso in una delle tante prigioni del Califfato nero ad al-Raqqa; sul giovane e brillante operatore umanitario palermitano si riesce a sapere pochissimo.

Una grande esperienza alle spalle, con missioni in Centro Africa, Haiti e due volte in Pakistan, Giovanni, 39 anni, Giancarlo per gli amici e i familiari, non ha mai dato alcun segno da quando quattro uomini armati, il 19 gennaio del 2012, lo hanno portato via, insieme con il collega tedesco Bernd Muehlenbeck, 59 anni, dal compound di Multan: una città di un milione e cinquecento mila abitanti del Punjab, nel nord del Pakistan a cavallo del confine con l'Afghanistan.  Entrambi lavoravano per la ong tedesca "Wel Hunger Hilfe", nell'ambito di un progetto finanziato dall'Ue per soccorrere la popolazione del Pakistan sconvolta da un violento terremoto a cui era seguita un'alluvione.

L'unico segnale indiretto dell'esistenza in vita di Giovanni Lo Porto risale all'ottobre del 2012 quando venne postato sul web un video nel quale Muehlenbeck sosteneva che entrambi erano in pericolo di vita e chiedeva un intervento urgente per ottenere la loro liberazione. Un video breve e drammatico nel quale il giovane cooperante italiano non appariva né veniva menzionato. Ma il fatto che l'ostaggio usasse il plurale fu considerata una prova dell'esistenza in vita di Giovanni.

Da quel momento sull'intera vicenda è calato il silenzio. I familiari, gente umile e senza molti contatti con il mondo della cooperazione, ha sempre scelto la linea del silenzio, incoraggiata tra l'altro dall'Unità di crisi della Farnesina. Solo alcuni colleghi di Giovanni si sono attivati per rompere uno stallo che non sembrava produrre qualche risultato. Ma lo hanno fatto con cautela, quasi pudore, rispettando quella volontà della famiglia che non volevano certo infrangere. Scegliere come agire, quando e in che modo, non è facile. Soprattutto se si tratta di un sequestro avvenuto in un'area complessa come il nord del Pakistan.

La liberazione di Bernd Muehlenbeck, avvenuta nell'ottobre del 2014, ha tuttavia riacceso le speranze. L'uomo è stato abbandonato in una moschea di Kabul e consegnato dai mediatori ai servizi segreti tedeschi. Questo fa supporre che Lo Porto si trovi in Afghanistan. Ma dal cooperante tedesco non sono arrivate informazioni utili. Change. org ha lanciato una nuova campagna per la sua liberazione con la raccolta di firme sulla rete. Ma ogni tentativo di illuminare il buco nero che avvolge Giovanni si scontra con un muro di ipotesi, bisbigli, speranze. L'Unità di crisi della Farnesina chiede ancora pazienza. Ma non lascia filtrare alcun commento. "Tutto questo", ci dice Andrea Parisi, anche lui volontario del Cesvi, una ong di Bergamo, " lascia perplessi. Il silenzio a volte aiuta. Ma il buio così intenso rischia di essere controproducente. La cosa che colpisce di più in questa vicenda è che le poche notizie ottenute in questi tre anni sono sempre state incoraggianti. Nulla di decisivo. Ma niente di allarmante".

Andrea conosce Giovanni; conosce soprattutto l'area e l'ambiente dove entrambi lavoravano. Ricorda che la città di Multan non era considerata pericolosa, a differenza di Peshawar, il Baluchistan, la stessa Karachi. Le misure di sicurezza erano efficaci ma non ossessive. "Fu proprio Giovanni", ci racconta oggi, " a passarmi le consegne. Era capo del progetto del Cesvi in Pakistan e aveva una grande preparazione, anche sul piano delle sicurezza. Quando ritornò per conto della "Welt Hunger Hilfe", vivevamo a un chilometro di distanza. Il loro sequestro fece scalpore perché non c'erano stati segnali di nuove tensioni o minacce nei confronti dei cooperanti stranieri. Gli stessi servizi segreti pachistani rimasero sorpresi. Due funzionari venivano a trovarci ogni due settimane per sapere se c'erano dei problemi e non abbiamo mai dovuto denunciare allarmi".

Perché questo sequestro? Andrea non se lo spiega. Ricorda però molto bene di essere andato il giorno dopo a fare un sopralluogo nel compound di Lo Porto. C'era una cooperante tedesca che non era stata portata via. I rapitori, disse la donna, erano molto determinati. Veri professionisti. Nessuna violenza, ordini secchi e precisi. Chiesero dei soldi. Ma era una scusa. La donna salì al piano di sopra della casa per prenderli. Ma quando tornò erano già andati via con Giovanni e il suo collega tedesco. "Due giorni dopo", racconta Andrea Parisi, "venne anche uno dei capi dei servizi segreti pachistani. Si guardò in giro, con superficialità. Aveva già chiaro chi fosse stato. Era scuro in volto. Sembrava quasi umiliato da quell'azione. I sequestratori avevano beffato la sicurezza e quel funzionario la considerava una vera sfida. Del resto, i quattro uomini si erano mossi con disinvoltura; avevano anche lasciato dei segnali: un cellulare, delle siringhe con ancora dentro del narcotico da usare per sedare gli ostaggi. Volevano far sapere chi erano. Ma l'intelligence, almeno ufficialmente, ha sempre negato di sapere chi fossero".

Il mistero continua. Tra l'angoscia della famiglia e quella degli amici. Giovanni Lo Porto e padre Paolo dall'Oglio sono cittadini italiani. Riportarli a casa, come Greta e Vanessa, è un imperativo per il nostro governo. Ottenere un segnale sulle loro condizioni è un dovere. Soprattutto adesso. Per chiudere definitivamente questo cerchio di dolore e sofferenza e restituire alla vita due prigionieri di quella galassia fatta di banditi e jihadisti.
 
© Riproduzione riservata 18 gennaio 2015

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