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Autore Discussione: Khaled Fouad Allam: «Ankara è preziosa, l’Europa non deve perderla»  (Letto 3770 volte)
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« inserito:: Luglio 22, 2007, 10:42:52 pm »

Khaled Fouad Allam: «Ankara è preziosa, l’Europa non deve perderla»
Umberto De Giovannangeli


«Nel sistema della globalizzazione la Turchia è un laboratorio politico-culturale di grande importanza, e per l’Europa è un “ponte” di dialogo che sarebbe gravissimo perdere». La Turchia al voto: ne parliamo con Khaled Fouad Allam, tra i più autorevoli studiosi del mondo islamico.

Qual è il segno prevalente delle elezioni politiche in Turchia?
«Queste elezioni rappresentano una verifica sulla capacità, oltre che sulla volontà, della Turchia di lottare per entrare in Europa. Ma dalle urne può uscire anche un Paese che rischia di ripiegare su se stesso e suna certa visione dell’Islam. Una Turchia euro-islamica o una Turchia che proietta la sua identità islamista verso l’Asia: il voto può sciogliere questo dilemma. Un dilemma che non oscura un dato di fondo di straordinaria importanza...».

Qual è questo dato?
«La Turchia resta un Paese fondamentalmente democratico, forse fra i più democratici fra tutti i Paesi islamici...».

Ciò si deve anche all’evoluzione del partito per la Giustizia e lo Sviluppo (l’Akp) del premier Erdogan?
«Fino ad oggi possiamo dire di sì. La Turchia non ha dato libero corso all’applicazione della “sharia” (la legge islamica, ndr.), come è avvenuto in tutti i Paesi islamici dove c’è una forte tendenza radicale di tipo neofondamentalista. Certamente il partito di Erdogan è stato originariamente una forza politica di matrice islamista, ma poi ha è stato segnato, positivamente, dall’esperienza politica e dalla pratica di governo. Perchè un conto è agitare parole d’ordine, fare ideologia, e un altro ritrovarsi in ciò che è la complessità della politica; una complessità che pone a tutti gli attori di obbedire a delle scelte che possono essere diversificate. La politica del reale ha obbligato anche l’Akp a laicizzarsi, a rendersi conto che la realtà non è più quella del 1868, e che quel mondo è totalmente cambiato. Il problema sta semmai nell’Europa...».

In che senso, professor Allam?
«Nel senso che la difficoltà che l’Europa mostra nel relazionarsi con la Turchia, fa sì che esista un grave rischio che la Turchia ripieghi su se stessa. Resta il fatto che il partito di Erdogan abbia rappresentato un’esperienza importante che ha contribuito a democratizzare radicalmente una parte importante dell’Islam».

Come spiegare che in questa campagna elettorale, il tema del rapporto tra la Turchia e l’Europa sia rimasto in ombra?
«Di fronte alle resistenze dell’Europa ad affermare la natura anche europea della Turchia, era inevitabile che questo tema fosse il grande assente nella campagna elettorale. Queste resistenze hanno fatto si che le stesse élite politico-culturali turche abbiano ritenuto che l’esperienza della laicità resti fondamentale ma che al cospetto del rifiuto dell’Europa, questa laicità debba volgere il suo “sguardo” altrove, cercando un’altra sponda, ad esempio nell’Asia centrale, nel Sudest asiatico e anche verso l’India. Per la Turchia può essere una scommessa, per l’Europa sarebbe certamente una enorme perdita, perché nel sistema della mondializzazione, l’Europa ha un bisogno vitale di interfacce e di “ponti”: la Turchia poteva svolgere questo ruolo di “ponte”. Di certo, era meglio averla che non averla in una Europa sempre più multietnica e pluri-identitaria. I perdenti siamo noi».

Quando si fa riferimento alla laicità della Turchia si chiama in causa anche l’esercito.
«Questo ruolo è innegabile, ed è vero che fino agli anni Ottanta l’esercito sia stato il guardiano del “mausoleo della laicità” a fronte della minaccia del radicalismo islamico. Ma attenzione a non confondere laicità con secolarizzazione- che per determinarsi implica un divorzio molto profondo tra l’identità religiosa e l’identità del sé - , e soprattutto, a non ritenere che una “secolarizzione democratica” della Turchia abbia sempre e comunque bisogno di una “protezione” militare.


Pubblicato il: 22.07.07
Modificato il: 22.07.07 alle ore 17.39   
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« Risposta #1 inserito:: Luglio 23, 2007, 07:29:23 pm »

Ora la partita sulla presidenza
Gabriel Bertinetto


Una cosa è chiara. Una buona metà, più o meno, dei cittadini turchi non condivide l’allarme sulla minaccia che il partito di Recep Tayyip Erdogan rappresenterebbe per la laicità dello Stato. L’hanno visto all’opera nell’ultimo quadriennio ed evidentemente ne hanno apprezzato i discreti anche se controversi risultati. In particolare nel rilancio economico del Paese. Solo una minoranza di costoro ha votato Akp sperando che riesca ad islamizzare lo Stato.

La vittoria di Giustizia e sviluppo (Akp) è netta. In percentuale i consensi aumentano di molto rispetto al 2002. Ma non in misura tale da tradursi nella temuta abbuffata di seggi. Al contrario, pur ottenendo la maggioranza assoluta dei posti in Parlamento, si fermano sotto quota 367. Non raggiungono cioè la maggioranza dei due terzi. E questo è l’elemento che davvero conta, per capire quale futuro attenda ora la Turchia. La dimensione della vittoria di Erdogan è tale da riprodurre sostanzialmente in Parlamento la stessa situazione attuale. Le differenze, certo importanti, riguardano piuttosto una diversa articolazione dell’opposizione, visto che oltre alla sinistra del Chp (Partito repubblicano del popolo) anche la destra dell’Mhp (Movimento nazionalista) ha superato il quorum del 10%. Altra importante differenza sarà la presenza di deputati curdi, eletti come indipendenti.

Ma l’elemento fondamentale da valutare in queste ore è che alla guida della Turchia ritroviamo di nuovo un monocolore Akp, frutto di un successo netto e chiaro, ma non debordante, e proprio per questo tale da non risultare potenzialmente destabilizzante né in patria né sul terreno dei rapporti di Ankara con il mondo esterno. Nei quattro anni e mezzo in cui gli islamici di Giustizia e sviluppo hanno governato il Paese, la democrazia ha retto, l’economia è almeno per certi aspetti progredita, il dialogo con l’Europa è proseguito e sono state fatte alcune riforme importanti per rendere in futuro compatibile il sistema politico nazionale con l’adesione alla Ue.

Sono stati anche anni però, in cui l’establishment laico, gli apparati militari, la magistratura, parte della burocrazia statale, e larghe fette della società civile colta hanno guardato con sospetto e timore alle intenzioni, ai progetti, alle iniziative dell’Akp in tutti i campi dove religione e politica vengono a contatto. E qui bisogna dire che il comportamento del governo Erdogan non è sempre stato lineare. Pur facendo di tutto per accreditarsi come una moderna forza di centrodestra, moderata, liberalconservatrice, i dirigenti dell’Akp sono stati troppo spesso ambigui quando si trattava di dissipare del tutto i dubbi sui loro presunti piani di «islamizzazione strisciante» delle istituzioni.

L’esempio tipico è l’atteggiamento oscillante dello stesso premier sulla dibattutissima questione dell’uso del copricapo che la tradizione musulmana imporrebbe alle donne. Le leggi turche vietano severamente di indossarlo in tutti gli uffici pubblici, università comprese. È una delle disposizioni che i difensori dell’ordinamento «kemalista» (dal nome del padre della Turchia post-ottomana Kemal Ataturk) ritengono intangibili, perché non sia intaccato il principio della rigida separazione delle attività e degli organismi che competono allo Stato rispetto alle manifestazioni della fede ed ai luoghi di culto.

Le oscillazioni dei dirigenti Akp su questa ed altre questioni in cui si gioca la loro credibilità come partito religiosamente ispirato ma non confessionale, si spiegano in parte con le pressioni cui sono sottoposti da una parte dei militanti. Ma lasciano inevitabilmente aperto l’interrogativo sulla sincerità dei loro propositi. Chi temeva un loro cedimento alla spinta della base integralista o magari semplicemente all’impeto di convinzioni non più dissimulate, nel momento in cui l’Akp fosse dilagato oltre i due terzi dei seggi parlamentari, sarà rassicurato. A Erdogan mancheranno i numeri per tentare nuovamente il colpo fallito in aprile, e cioè far eleggere a capo di Stato una personalità vicina agli islamici o addirittura un membro del partito. Il giorno prima del voto, mettendo da parte i toni prudenti degli ultimi mesi, il premier aveva lanciato la sfida: «Se risulteremo superiori politicamente, il presidente dovrà essere eletto fra i deputati del nostro partito».

Se avesse ottenuto più dei due terzi dei deputati, avrebbe preso corpo uno scenario inquietante. Difficilmente i militari avrebbero accettato passivamente che tutti i principali poteri dello Stato venissero assorbiti nelle mani di un’unica forza politica. L’Akp avrebbe assunto il controllo del legislativo, la gestione dell’esecutivo, e si sarebbe impadronita anche delle delicate funzioni di equilibrio attribuite al capo di Stato. Con un suo uomo alla presidenza della Repubblica, l’Akp avrebbe vanificato il rischio di vedersi respingere con l’arma del veto sia le leggi del Parlamento sia le nomine governative in posizioni chiave: capo di stato maggiore delle forze armate, giudizi costituzionali e di Cassazione, governatore della Banca centrale. A quel punto la tentazione di giocare il tutto per tutto, imporre leggi «islamiche» e sottrarre ai laici il controllo delle loro roccaforti nella magistratura e nell’esercito, poteva diventare irresistibile. Ma il clima nel Paese sarebbe diventato rovente. E non è affatto detto che gli avversari, i vertici militari soprattutto, non avrebbero giocato d’anticipo, mandando all’aria quei piani. Nessuno ignora che, benché le prerogative dei militari siano state parzialmente circoscritte per adeguarsi agli standard democratici europei, essi non rinunciano al tradizionale ruolo di tutori delle fondamenta secolari della Repubblica. Quando in aprile Erdogan tentò di far eleggere presidente il proprio ministro degli Esteri Abdullah Gul, il capo di stato maggiore Yasar Buyukanit emise un comunicato in cui esprimeva allarme e preoccupazione. Fu il là ad una serie di oceanici raduni laici di protesta. Fu la sponda all’annullamento del voto parlamentare pro-Gul, prontamente deliberato dalla corte costituzionale.

Pubblicato il: 23.07.07
Modificato il: 23.07.07 alle ore 7.52   
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« Risposta #2 inserito:: Luglio 24, 2007, 06:10:21 pm »

Erdogan, un vincitore post-islamico
Gabriel Bertinetto


Alcuni commentatori già appiccicano a Recep Tayyip Erdogan l’etichetta di post-islamico. Leader di un partito nato solo dieci anni fa sulle ceneri di un’organizzazione inquinata da tendenze integraliste, il trionfatore delle elezioni turche sarebbe ormai secondo alcuni approdato sulle sponde della democrazia e del pluralismo di stampo occidentale.

A sostegno del positivo giudizio su Erdogan vengono evocate le importanti dichiarazioni distensive da lui rese domenica sera davanti ai militanti in festa per la vittoria nella sede dell’Akp (Giustizia e sviluppo) ad Ankara. «State certi che chiunque abbiate scelto, i vostri voti contano anche per noi -ha detto il premier-. Rispettiamo la vostra opzione, abbiamo valori comuni e obiettivi che ci uniscono tutti».

Parole rivolte all’altra metà del Paese, che ha risposto numerosa al richiamo delle forze d’opposizione, le quali della conversione laica di Erdogan e dei suoi uomini non si fidano affatto. Forze che trovano appoggi ed incoraggiamenti nei centri di potere tradizionalmente legati ai principi fondanti della Repubblica «kemalista», in particolare la rigida separazione tra politica e religione.

Non a caso, rivolgendosi materialmente ai seguaci acclamanti, ma idealmente lanciando il messaggio di conciliazione soprattutto ai milioni di assenti e di dissenzienti, il primo ministro ha citato il nome, riverito dall’establishment laico, di Mustafa Kemal Ataturk, padre della patria repubblicana. «Non devieremo dai valori fondamentali della Repubblica, ne saremo anzi i custodi». Frasi che avremmo potuto ascoltare dai sospettosi e vigili ufficiali delle forze armate, sempre pronti a rivendicare il ruolo loro riconosciuto dalla Costituzione turca, come «tutori» dei caratteri secolari dello Stato.

Del resto segnali di una propensione a passare il guado e recidere i legami con ambienti e posizioni integraliste, si potevano cogliere ultimamente nell’attenta selezione dei candidati alle parlamentari. Fuori molti elementi vicini ai circoli ed alle confraternite religiose, e vari personaggi legati al presidente uscente del Parlamento Bulent Arinc o all’ex-portavoce governativo Cemil Cicek, protagonisti di battaglie ideologiche di stampo islamista. Dentro molti laici dal profilo politico vicino a quello che Erdogan tenta da tempo di disegnare per l’Akp, cioè quello di una forza democratica conservatrice, di centrodestra liberale. E spazio perfino a transfughi della sinistra, come Ertugrul Gunay, ex-dirigente del più laico dei partiti turchi, il Chp (Partito repubblicano del popolo), fondato precisamente da Ataturk, ed evoluto dal nazionalismo originario verso una commistione di kemalismo e socialdemocrazia.

Ci si chiede allora dov’è l’Erdogan che nel 1999 finiva in prigione e perdeva temporaneamente i diritti politici per avere inneggiato all’Islam militante e militare: «Le moschee sono le nostre caserme, i minareti le nostre baionette, le cupole sono elmi, i fedeli sono soldati». Non era farina del suo sacco. Erano i versi di un poema nazionalreligioso del primo novecento, ma lui li aveva letti durante un raduno pubblico, e tanto bastò perché un tribunale speciale lo incriminasse per incitamento all’odio confessionale.

Allora Erdogan era il sindaco di Istanbul e apparteneva al Refah (Prosperità), partito islamico che la pressione dei «tutori» in divisa della Repubblica laica aveva costretto due anni prima ad abbandonare il governo. Necmettin Erbakan, premier dell’epoca, aveva dovuto piegarsi e rassegnare le dimissioni. Il Refah fu sciolto, ma l’ala meno intransigente, i cui membri amavano definirsi «islamici modernisti», decise di riprovarci e dar vita ad un nuovo partito.

Erdogan era tra loro e fu tra i primi a lanciare l’idea di un parallelismo fra il progetto politico del neonato Akp con l’esperienza europea dei partiti di massa di tradizione cristiana. «Siamo democratici-musulmani», ripeteva, in cerca di comprensione e solidarietà in Occidente, e cercando di smussare la diffidenza dei laici di casa. Qualche tempo dopo ancora coniò una nuova formula in cui il termine «islamico» non compariva nemmeno più, come attributo qualificante la nuova organizzazione. L’Akp diventava un partito «democratico-conservatore».

Il dubbio sulle vere inclinazioni e tendenze di Erdogan e dei suoi ovviamente rimane. Anche perché i loro comportamenti su certe materie, nei quattro anni in cui hanno governato, sono stati contradditori ed altalenanti. Erdogan non mancava di far rilevare il paradosso per cui le sue due figlie che studiano negli Stati Uniti, possono andare al college con il capo coperto, mentre in Turchia questo è severamente vietato. Né ha mai ceduto alle proteste di chi vede nel copricapo di foggia islamica ostentato in pubblico da sua moglie una sfida alla laicità che le sarebbe imposta dal suo ruolo semi-ufficiale. Questo sarebbe stato poco, se non si fosse accavallato ad intermittenti campagne dell’Akp per una revisione della legge che proibisce di vestire simboli confessionali negli uffici statali e nelle università, e per innalzare lo status giuridico delle scuole coraniche.

Ecco, se c’è una ragione per non accantonare definitivamente gli interrogativi sulla natura dell’Akp, essa sta nei sussulti integralisti che periodicamente ne scuotono le membra. Al punto che l’apparentemente legittima rivendicazione del diritto ad eleggere in Parlamento il capo di Stato fra le fila dei propri dirigenti è stata interpretata come il tentativo di mettere le mani su tutti gli apparati dello Stato al fine di stravolgerne la fisionomia istituzionale. Avendo mancato seppure di poco il traguardo dei due terzi dei deputati, Erdogan non avrà nemmeno in questa legislatura i numeri per cercare la prova di forza nell’elezione presidenziale. Ma sicuramente l’immagine di post-islamico non è consolidata dall’evocazione della propria intenzione a ritentarci, che ha pensato bene di mettere a verbale proprio alla vigilia del voto.

Pubblicato il: 24.07.07
Modificato il: 24.07.07 alle ore 13.51   
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