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Autore Discussione: Il futuro? Nero. E questo potrebbe non essere solo il ...  (Letto 2354 volte)
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« inserito:: Novembre 11, 2008, 12:34:12 am »

Il futuro? Nero. E questo potrebbe non essere solo il ...



Il futuro? Nero. E questo potrebbe non essere solo il presagio per ciò che attende l’economia italiana nei prossimi mesi. Nero è anche il colore del lavoro sommerso, quel fenomeno particolarmente diffuso in Italia (tra le nazioni europee con la più alta incidenza del fenomeno) e che potrebbe acuirsi in tempi di crisi. Abbigliamento, calzature, pelletteria, edilizia, agricoltura risultano essere i settori più a rischio (non solo al Sud) e la tentazione sarà ancora più forte durante mesi in cui tutti proveranno a tagliare alla voce «spese». Non a caso il costo del lavoro risulta essere proprio una delle voci più rilevanti nel bilancio di un’azienda. Ma il punto è che l’economia in nero (oltre a danneggiare il fisco) ha una prima vittima di mercato: tutte quelle aziende che restano a norma di legge sostenendo il peso di notevoli costi di produzione. Concorrenza sleale che rischia di «mettere fuori gioco» le imprese sane. È il caso dell’azienda di Fabrizio Mancini è un’imprenditore edile romano che si è aggiudicato un premio per la sicurezza sul lavoro nel 2007. «Un operaio in nero — afferma — guadagna nel centro Italia dai 40 ai 120 euro al giorno, uno regolarmente inquadrato, come nel mio caso, tra i 50-60 euro netti. In pratica un irregolare guadagna il doppio di un contrattualizzato.
Il lavoro nero si va ad intrufolare tra il lordo e il netto che percepisce un dipendente. Un operaio che guadagna 50 euro a me ne costa 100. A questi vanno aggiunti gli oneri aziendali (formazione, sicurezza, visite mediche) che fanno si che il costo aziendale di un dipendente arrivi a 160. Inps, Inail e cassa edile incidono sul netto di un salariato tra il 100 e il 120%. Una follia. Siamo al punto che i rumeni mi dicono: dammi 80 euro tanto so che se mi metti in regola te ne costo 100».
L’edilizia lavora poi sulle commesse. «Se vinci un appalto, in poco tempo devi trovare un surplus di manovali. Questo può agevolare il ricorso al sommerso». Per risolvere il problema «bisogna regolamentare meglio l’accesso di chi intende aprire un’azienda e rivedere i Ccnl in particolare nello scarto che c’è tra costo aziendale (lordo) e il netto effettivamente percepito in busta paga».
Problemi molto simili vive anche l’agricoltura, settore «tradizionalmente» vocato al lavoro nero, spesso retaggio di un antico caporalato che stenta a scomparire.
Ne sa qualcosa Marina Colonna, imprenditrice che produce olio da 22 anni in provincia di Campobasso. «Un operaio assunto mi costa 50 euro al giorno, di cui 10 di contributi. In nero solo 35. Per legge un bracciante agricolo deve lavorare minimo 150 giorni l’anno. Ma è come se ne lavorasse 365. Appena terminano i 150 giorni ottengono la disoccupazione dello stato (4-5 mila euro l’anno) ed in contemporanea iniziano a lavorare in nero». Come uscirne? «Andrebbe abolita la disoccupazione, abbassati i contribuiti e snelliti gli oneri sulle aziende». L’imprenditrice agricola, che esporta per il 90% ed ha un fatturato di 800 mila euro l’anno, ha 6 dipendenti assunti, di cui un macedone, un albanese ed un marocchino ed ingaggia una ventina di stagionali per lo più dell’Est.
«Arrivano in primavera e ritornano nel loro paese a novembre, a fine raccolta. Senza bulgari e rumeni non saprei come fare. La manodopera manca, costa troppo ed il bracciante ormai non esiste più. In più le derrate costano sempre meno. Le olive le vendo alla metà dello scorso anno». Come si infiltrano gli irregolari in azienda? «Ti vengono a bussare e poi c’è il passaparola. Che siano italiani o stranieri c’è sempre il caporalato. Gli extracomunitari che tornano sono gli stessi ogni anno. Ma io li regolarizzo».


da corriere.it
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