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Autore Discussione: CARLO OLMO. Atenei: i tre compromessi da spezzare  (Letto 2301 volte)
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« inserito:: Novembre 08, 2008, 09:13:38 am »

8/11/2008
 
Atenei: i tre compromessi da spezzare
 
 
CARLO OLMO*


 
Desta grande inquietudine un governo che critica così aspramente due fondamentali istituzioni, scuola e università, mentre emana un decreto che non ne intacca i problemi fondamentali. L’inquietudine cresce quando si approfondiscono gli argomenti usati. Solo tre esempi per avviare una riflessione più serena e di merito.

La proliferazione di corsi e sedi universitarie. C’è stata, è indubbio e va riportata ai principi che più di quindici anni fa la avviarono: avere sedi decentrate dove vi fossero corsi e ricerche assenti e non reiterabili nella sede centrale. Così non è stato, ha vinto l’impostazione generalista che affligge gran parte dell’università italiana. Ma questi corsi sono nati da una singolare alleanza tra politici e amministratori locali, docenti universitari e famiglie che desideravano avere vicini i figli a studiare, ma che, anche, non potevano pagare gli affitti davvero scandalosi richiesti nelle città. È quell’alleanza che va smontata, rispondendo al bisogno di una diversa accoglienza che le università metropolitane dovrebbero offrire. E la piega che sta prendendo il dibattito sul federalismo non rassicura in questa direzione.

La condizione dei servizi allo studio e all’accoglienza è tuttavia quanto di più arretrato l’Europa civile oggi conosca. Si citano in continuazione graduatorie di università europee o mondiali e la penosa performance di quelle italiane. Se si prendono le più serie e si scompongono i dati che portano alla formazione della graduatoria, si scoprirà che il tracollo delle università italiane è in gran parte legato a servizi e accoglienza: collegi e biblioteche, laboratori e sedi d’incontro, mense e impianti sportivi sono sotto standard in maniera impressionante. Il vero piano delle opere pubbliche dovrebbe essere lanciato in questo settore: la qualità della vita è ragione fondamentale di scelta anche per gli studenti stranieri più bravi, non intenzionati a studiare nel loro Paese.

L’università è popolata di baroni, molto prolifici e molto mafiosi. Certo, sarebbe sbagliato negarlo, ne esistono, ma altre sono le condizioni che rendono didattica e ricerca affidata alla buon volontà dei singoli, condizione che si ritrova in quasi tutte le strutture pubbliche italiane. L’Italia è l’unica nazione che penalizza i suoi giovani, che non li forma alla responsabilità (di programmi didattici e di ricerca), che non offre occasioni certe per sapere se, con vagli che rivorrebbero meritocratici, essi possano procedere: e li s’induce a cercarsi condizioni di questo tipo all’estero.

Ma quella italiana è anche l’unica università europea in cui avviene ancora uno scambio tra uno stipendio ridotto e la libertà di fare altro e altrove (negli studi professionali, nelle imprese, in altre istituzioni). Un mix che fa sì che a dirigere l’università siano o convinti martiri o persone che non hanno altre alternative. Il tutto con un altro scambio perverso. Non solo i docenti non sono valutati, ma non sono valutati i dipartimenti e le facoltà, o, quando lo sono, le valutazioni non contano nulla. La filosofia italiana, condivisa da sistema politico, professioni, accademici è, per tutti, bassi stipendi in cambio di scarsi controlli, nessuna valutazione e libertà di impiegare il proprio tempo altrove. Le finestre da aprire sono tante, ma tanti sono anche i compromessi tra politica, società civile, professioni e università che bisogna intaccare: e non lo si fa certo con semplificazioni e strumentalizzazioni. Ricordandosi che i primi a dovere essere salvaguardati sono i giovani, soprattutto in un Paese che, ancor più nell’università, è davvero troppo vecchio.

* facoltà di Architettura, Politecnico Torino

da lastampa.it
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