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Autore Discussione: UMBERTO ECO.  (Letto 143953 volte)
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« Risposta #15 inserito:: Marzo 21, 2008, 07:42:38 pm »

Umberto Eco

C'era una volta Churchill


Tra l'inglese che crede Churchill un personaggio immaginario e Bush che va in Iraq convinto di farcela in quindici giorni non c'è una differenza abissale: sono entrambi casi di offuscamento della dimensione storica  Winston Churchill e sua moglie ClementineLeggevo sul numero de 'L'Internazionale' di inizio marzo un trafiletto dove si racconta di un sondaggio fatto in Gran Bretagna, da cui risulterebbe che un quarto degli inglesi pensa che Churchill sia un personaggio di fantasia, e così accade per Gandhi e Dickens. Molti intervistati (ma non si precisa quanti) avrebbero invece messo tra le persone realmente esistite Sherlock Holmes, Robin Hood ed Eleanor Rigby.

Come prima reazione tenderei a non drammatizzare. Mi interesserebbe anzitutto sapere a quale fascia sociale appartiene il quarto di coloro che non hanno idee chiare su Churchill e Dickens. Se avessero intervistato i londinesi dei tempi di Dickens, quelli che si vedono nelle incisioni delle miserie di Londra di Doré o nelle scene di Hogarth, almeno i tre quarti, sporchi, abbrutiti e affamati, non avrebbero saputo chi era Shakespeare. E neppure mi stupisco che si credano realmente esistiti Holmes o Robin Hood, uno perché esiste un'industria holmesiana che a Londra fa visitare addirittura il suo preteso appartamento di Baker Street, e l'altra perché il personaggio che ha ispirato la leggenda di Robin Hood è esistito davvero (l'unica cosa che lo rende irreale è che al tempo dell'economia feudale si rubava ai ricchi per dare ai poveri, mentre dopo l'avvento dell'economia di mercato si ruba ai poveri per dare ai ricchi). D'altra parte io da bambino credevo che Buffalo Bill fosse un personaggio immaginario sino a che mio padre non mi ha rivelato che non solo era esistito, ma che lui stesso l'aveva visto quando era passato col suo circo nella nostra città, finito per campare dal mitico West alla provincia piemontese.

Però è vero, e ce ne accorgiamo quando si rivolgono domande ai nostri giovani (per non dire a quelli, che so, americani), che le idee sul passato anche prossimo sono molto vaghe. Si è letto di test da cui appariva che qualcuno credeva che Moro fosse un brigatista rosso, De Gasperi un capo fascista, Badoglio un partigiano eccetera. Uno dice: è passato tanto tempo, perché dei diciottenni devono sapere chi era al governo cinquant'anni prima che loro nascessero? Beh, sarà che la scuola fascista ce ne faceva una testa così, ma io a dieci anni sapevo che il primo ministro ai tempi della marcia su Roma (vent'anni prima) era Facta, e a diciott'anni sapevo anche chi erano stati Rattazzi o Crispi, ed era roba del secolo prima.

Il fatto è che è cambiato il nostro rapporto col passato, probabilmente anche a scuola. Una volta ci interessavamo molto al passato perché le notizie sul presente non erano molte, se si pensa che un quotidiano raccontava tutto in otto pagine. Con i mezzi di massa si è diffusa un'immensa informazione sul presente, e si pensi che su Internet posso avere notizie su milioni di cose che stanno accadendo in questo momento (anche le più irrilevanti). Il passato di cui i mezzi di massa ci parlano, come per esempio le vicende degli imperatori romani o di Riccardo Cuor di Leone, e persino la prima guerra mondiale, passano (attraverso Hollywood e industrie affini) insieme al flusso di informazioni sul presente, ed è molto difficile che un utente di film colga la differenza temporale tra Spartaco e Riccardo Cuor di Leone. Parimenti si spappola o perde in ogni caso consistenza la differenza tra immaginario e reale: ditemi voi perché un ragazzo che guarda film alla televisione deve ritenere che Spartaco sia esistito e il Vinicio di 'Quo vadis' no, la contessa Castiglione fosse un personaggio storico ed Elisa di Rivombrosa no, che Ivan il Terribile fosse reale e Ming tiranno di Mongo no, visto che si assomigliano moltissimo.

Nella cultura americana questo appiattimento del passato sul presente è vissuto con molta disinvoltura e vi può accadere persino di incontrare un professore di filosofia che vi dice quanto sia irrilevante sapere che cosa Cartesio abbia detto sul nostro modo di pensare, visto che quello che c'interessa è quanto ne stanno scoprendo oggi le scienze cognitive. Si sta dimenticando che se le scienze cognitive sono arrivate dove sono arrivate è anche perché un certo discorso era iniziato coi filosofi del Seicento, ma soprattutto si rinuncia a trarre dall'esperienza del passato una lezione per il presente.

Molti pensano che il vecchio detto per cui la storia è maestra della vita sia una banalità da maestro deamicisiano, ma è certo che se Hitler avesse studiato con attenzione la campagna di Russia di Napoleone non sarebbe caduto nella trappola in cui è caduto, e se Bush avesse studiato bene le guerre degli inglesi in Afghanistan nell'Ottocento (ma che dico, persino l'ultimissima guerra dei sovietici contro i talebani) avrebbe impostato diversamente la sua campagna afgana.

Può sembrare che tra l'imbecille inglese che crede che Churchill fosse un personaggio immaginario e Bush che va in Iraq convinto di farcela in quindici giorni ci sia una differenza abissale, ma non è così. Si tratta dello stesso fenomeno di offuscamento della dimensione storica.

(21 marzo 2008)


da espresso.repubblica.it
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« Risposta #16 inserito:: Aprile 05, 2008, 11:24:06 am »

Umberto Eco

La nostra ghigliottina quotidiana


Alcune proposte per i quiz finali della trasmissione di Carlo Conti 'L'eredità' su Rai Uno. Se accolti il gioco potrebbe aumentare ancora la sua già alta popolarità. 

Anche per sfuggire alla campagna elettorale è aumentato il numero delle persone che tra le sette e le otto di sera seguono sul primo canale 'L'eredità', che per chi non lo sapesse è un divertente programma quiz. Molti, anche se si trovano ancora per strada, si affrettano a rientrare entro le otto meno dieci per non perdersi la parte finale, che si chiama 'La ghigliottina'. Ancora per chi non lo sa, al concorrente vengono proposte coppie di parole (e se sceglie quella sbagliata essa cala come una mannaia e dimezza il suo monte premi). Alla fine il concorrente dispone di cinque parole e deve indovinare una sesta parola che in qualche misura sia legata alle cinque proposte, per esempio perché vi appare insieme in una frase fatta.

Per non tirarla in lungo faccio un esempio: sere fa le cinque parole finali erano golfo, archi, prova, San Remo, italiana, e in fondo era facile per una mente sveglia individuare la parola nascosta che era 'orchestra'. Infatti c'è la 'Prova d'orchestra' di Fellini, esistono le orchestre d'archi, ci sono l'orchestra del Festival di San Remo e l'Orchestra Italiana di Arbore. Ma il riferimento più arguto era quello al golfo, perché come è noto nei teatri l'orchestra sta nel cosiddetto golfo mistico.

'La ghigliottina' provoca frenetiche telefonate tra amici, che fanno a gara in tempo reale (come si dice) a chi indovina per primo, e poco manca che gli affezionati vadano in giro con dei nastrini sul petto, come i militari che esibiscono le campagne a cui hanno partecipato.

Salvo che da un po' di tempo il gioco si è fatto sempre più difficile e quando Carlo Conti rivela la parola giusta a tutti cadono le braccia perché appare quasi impossibile che un essere umano (sia pure con una mente educata a cogliere i rapporti tra le cose e le parole) potesse arrivarci. E non si vede perché, non credo per risparmiare quel poco di premio che alla fine (dopo molte ghigliottinature) il concorrente potrebbe aggiudicarsi. Ma, se questo deve essere il gioco, indubbiamente ispirato a profondo sadismo, mi permetto di suggerire alcune versioni capaci di sfidare il più allenato degli adepti.


Propongo per esempio che appaiano in dirittura finale 'fondo, canone, occhi pinti, Gradara, caos'. La soluzione sarebbe 'enfiteusi'. Infatti, potrebbe spiegare Conti, l'enfiteusi è notoriamente il diritto di godimento su un fondo altrui, implica il pagamento di un canone, nel 1561 tal Josepe Ochipinti dal Conte di Modica ebbe concesse in enfiteusi 88 salme di terre a Candicarao, nel diciassettesimo secolo i papi concessero il castello di Gradara in enfiteusi ai signori di Pesaro, e Pirandello è nato nella contrada detta Caos, acquisita dai suoi avi in enfiteusi. Facilissimo.

Altra possibilità: 'Dante, sesquipedale, sontuoso, endecasillabo, convertita'. La soluzione, che quasi viene da sé, sarebbe 'sovramagnificentissimamente'. Infatti questo termine è coniato da Dante nel 'De vulgari eloquentia', è un termine sesquipedale (se questo aggettivo definisce anche - vedi il De Mauro - scritto, discorso eccetera esageratamente lungo e altisonante), significa 'in modo molto sontuoso', è certamente un endecasillabo e con le sue ventisette lettere è più lungo di 'precipitevolissimevolmente', introdotto da Francesco Moneti nel Settecento, nel suo 'La Cortona convertita'.

Propongo anche 'felicita, emetico, farmacista, iperacidità e sotterfugi'. Basta che il concorrente capisca che la prima parola non è felicità bensì il nome della signorina Felicita, e nella poesia che le dedica Gozzano abbandona il negozio di un farmacista uscendo dall'odor d'ipecacuana, l'ipecacuana è un emetico, iperacidità è il sostantivo che nello Zingarelli 2008 segue ipecacuana e infine una storia di ipecacuana appare nell'episodio 'Sotterfugi' della serie del dottor House. Altri termini facili da far indovinare potrebbero essere lucumone, strofanto, zeugma, tyrannosaurus rex, aspidistra, uracile, culleo, monocotiledone, poliorcete.

Ma forse bisogna osare di più. Si potrebbero dare al concorrente da scegliere le coppie tuono-lampo, veglia-sonno, monosillabo-polisillabo, novantanove-cento e allitterazione-onomatopea. La serie finale dovrebbe essere 'tuono, veglia, lungo, novantanove e onomatopea'. Non vedo chi non comprenderebbe subito che si tratta di una onomatopea che definisce il tuono, parola polisillaba di novantanove lettere che appare ne 'La veglia di Finnegans' di Joyce. La soluzione, che mi pare intuitiva, è: 'bababadalgharaghtakamminarronnkonnbronntonnerronntuonnthunntrovarrhounawn-kawntoohoohoor-denenthurnuk'.

Una volta soccorso il concorrente dall'attacco d'asma che conseguirebbe al proferimento del termine risolutivo, e superato l'intasamento delle linee telefoniche dovuto alla soluzione contemporanea di milioni di telespettatori trionfanti, il gioco avrebbe acquistato maggiore popolarità.

(04 aprile 2008)

da espresso.repubblica.it
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« Risposta #17 inserito:: Aprile 18, 2008, 12:20:45 am »

Umberto Eco




Le gazzette hanno perso la funzione che avevano all'inizio degli inizi. Una trasformazione che non è colpa di nessuno, è un fatto come il buco nell'ozono. Ma è un fatto imbarazzante  Una coppia legge un quotidianoChissà quanti lettori si sono domandati perché il sommario de 'L'espresso' appare dopo una trentina o una quarantina di pagine dall'inizio, e questa notizia viene data solo a pagina 13. Ma guardate bene cosa c'è prima della pagina del sommario: oltre a pubblicità e alla vignetta di Altan, ci sono le rubriche fisse, una serie di curiosità che vanno sotto il titolo di 'Riservato' e l'annuncio di libri o dischi in vendita con la rivista. Adesso sollevate tutto il fascicolo che inizia col sommario, come se doveste strapparlo via, e vedete che cosa rimane nelle pagine finali: ancora rubriche di vario genere e posta, per finire con Scalfari o con questa Bustina.

Si tratta insomma di pezzi non legati all'attualità strettissima (e cioè ai fatti del giorno prima) e che possono essere inviati, impaginati e stampati con qualche anticipo, perché 'L'espresso' conta più di 200 pagine e, se lo trovate in edicola di solito alla mattina del venerdì, non si può pensare che sia stato stampato tutto la notte precedente. Invece dal sommario in avanti ci sono gli articoli di più stretta attualità, e nel numero che state leggendo vi saranno (presumo) i commenti sulle elezioni appena avvenute. Tutta roba che spesso viene mandata in macchina all'ultimo minuto, insieme al sommario, che deve tener conto di queste 'ultimissime'.

Ed ecco perché questa Bustina ha l'aria di ignorare che ci siano state le elezioni e come siano andate. Semplicemente sto scrivendo e inviando prima del fatale 13 aprile. Ma ecco un vantaggio di tutte queste costrizioni: il settimanale che state leggendo, anche se non può fingere di ignorare quello che è appena avvenuto, e si è affrettato a uscire in anticipo per parlarvi dei risultati elettorali, non essendo di solito obbligato a dire col fiatone quello che è successo il giorno prima, può dedicarsi a inchieste e ad articoli di riflessione e approfondimento. Una volta si diceva: per la strettissima attualità c'è il quotidiano.

Ma davvero il quotidiano ha ancora questa funzione? Già nel 1962 l'immortale Achille Campanile aveva detto che mentre il telegiornale serale, rispetto al quotidiano del giorno dopo, era come un telegramma che si concludesse con 'segue lettera', il quotidiano del giorno dopo era una lettera che avrebbe dovuto concludersi con 'segue telegramma' (ma in verità dovrebbe dire 'vedi telegramma già inviato').

Sto sfogliando un quotidiano che reca in ultima pagina le notizie 'in due minuti'. Davvero si potrebbe evitare di leggere il resto del giornale, perché in quella colonnina si dice tutto quello che occorre sapere. Purtroppo però questo tutto io lo sapevo già perché mi era stato detto la sera prima dal telegiornale. Se la situazione è questa, di che cosa parla allora un grande quotidiano, che conta circa 80 pagine, se non di più, e non può averne di meno per poter ospitare abbastanza pubblicità?

Da un lato deve ripetere ampliandole le notizie date dal telegiornale, tenendo conto che tanti lettori non avranno visto la televisione la sera prima. Ma anche così se la caverebbe in quattro o cinque pagine. Per il resto potrebbe dedicarsi all'approfondimento, alla riflessione sui fatti, alle inchieste, e lo fa (tra l'altro rubando il mestiere ai settimanali). E infine abbonda in pettegolezzo.

Si badi che il pettegolezzo non riguarda solo gli amorazzi di una fotomodella o i tic di un politico rimbambito. Si può fare del pettegolezzo sul dibattito elettorale, sul più atroce dei delitti, si può spettegolare enfatizzando una mezza battuta detta per caso da un ministro, o chiedendosi perché il comune di Roma non chiede scusa alla Chiesa per i cristiani divorati dai leoni al Colosseo. E soprattutto si è portati a far diventare pettegolezzo anche la notizia vera e propria, quando a un fatto rilevante (terremoto, incidente mortale sul lavoro, crisi di compagnia aerea) si dedicano non uno ma almeno quattro articoli, in cui fior di inviati sono obbligati a raccontare e a commentare l'evento da quattro punti di vista diversi - ma essendo fatalmente condotti a ripetere in quattro modi diversi la stessa cosa. E noi leggiamo, spesso soddisfatti di ascoltare queste quattro voci, ma di fatto perdendo tempo per apprendere quattro volte quello che (oltretutto) sapevamo già. Così il giornale diventa come una serata in famiglia, dove il nonno ripete per la milionesima volta la storia di quando aveva subito i bombardamenti, il babbo snocciola i suoi luoghi comuni sulla situazione economica, poi si parla un po' male del vicino notoriamente cornuto, o si commenta la trasmissione televisiva appena vista. Niente di male, anzi bellissima situazione di socializzazione, ma non era questa, all'inizio degli inizi, la funzione delle gazzette, finestre che di colpo e inopinatamente si spalancavano ogni mattina sull'imprevisto.

Su questa trasformazione del giornalismo non si tratta di moraleggiare: non ne ha colpa nessuno perché è un fatto, come il buco dell'ozono, dovuto allo sviluppo tecnologico. Ma è un fatto imbarazzante.

(17 aprile 2008)

da espresso.repubblica.it
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« Risposta #18 inserito:: Maggio 03, 2008, 04:03:47 pm »

Umberto Eco.

Un non-compagno che sbaglia


Da una premessa tutto sommato accettabile, sullo Stato imperialistico delle multinazionali, le Brigate Rosse traevano tre conclusioni sbagliate e deliranti  In un sito Internet che si intitola 'La storia nascosta' si virgoletta una mia presunta dichiarazione a 'El Pais' e mi si fa dire:"Le Brigate rosse avevano un'idea giusta di combattere le multinazionali, ma hanno sbagliato nel credere nel terrorismo". Se ne deduce pertanto che io condividerei la formula 'compagni che sbagliano', e che sosterrei che "le idee erano condivisibili, erano i metodi che non andavano". E conclude: "Se è questo il contributo di riflessione della cultura italiana, a trent'anni dall'assassinio di Aldo Moro, è un film già visto. Purtroppo".

Il sito raccoglie tuttavia anche i commenti dei visitatori e trovo sensato l'intervento di un anonimo che scrive "ho qualche dubbio che il Prof. Eco abbia pronunciato parole così banali. Nel 'Pendolo di Foucault' c'è (tra mille altre cose) una sua personale valutazione degli anni di piombo, che di certo non esalta il mondo del terrorismo. Sarei curioso di sentire le sue parole esatte, e non la versione che ci arriva dai giornali". Invece il tenutario del sito non solo non ha letto né il mio 'Pendolo di Foucault' né gli articoli che scrivevo su 'Repubblica' ai tempi dell'affare Moro e che ho poi ripubblicato nel mio libro 'Sette anni di desiderio' (ed è suo diritto, che difenderò sino alla morte), ma ho il sospetto che non abbia letto neppure la mia intervista al 'Pais' e si sia basato su alcuni trafiletti italiani che ne riassumevano alcune battute. Dedurre da premesse incomplete e fallaci è errore di logica, e non può essere riconosciuto come diritto.

Tuttavia rispondo per rispetto di quel prudente anonimo che invece usa leggere, e per altri che dalla visita a questo sito malizioso potrebbero essere condotti (in buona fede) sul sentiero dell'errore.

Le cose che avevo detto nel corso di quell'intervista spagnola erano le stesse che avevo scritto trent'anni fa. Dicevo che i giornali definivano 'deliranti' i comunicati delle Brigate rosse quando sostenevano che esisteva il cosiddetto Sim, ovvero lo Stato imperialistico delle multinazionali, mentre questa (anche se espressa con una formula un poco folkloristica) era l'unica idea non delirante di tutta la faccenda, salvo che non era la loro, ma l'avevano presa a prestito da molte pubblicazioni europee ed americane, in particolare dalla 'Monthly Review'. Parlare allora di Stato delle multinazionali voleva dire ritenere che gran parte della politica del globo non era più determinata dai singoli governi, bensì da una rete di poteri economici transnazionali che poteva decidere persino delle guerre e delle paci. A quei tempi l'esempio principe era quello delle Sette Sorelle petrolifere, ma oggigiorno anche i ragazzini parlano di globalizzazione e globalizzazione vuole appunto dire che noi mangiamo insalata coltivata nel Burkina Fasu, lavata e impacchettata a Hong Kong, e spedita in Romania per essere distribuita poi in Italia o in Francia. Questo è il governo delle multinazionali, e se l'esempio vi pare banale, pensate come grandi compagnie aeree transnazionali possano determinare le decisioni del nostro governo circa il destino dell'Alitalia.


Quelle che erano veramente deliranti nel pensiero delle Brigate rosse e dei gruppi terroristici affini erano le conclusioni che ne traevano: primo, che per battere le multinazionali si dovesse fare una rivoluzione in Italia, secondo che per metterle in crisi si dovessero ammazzare Moro e tante altre brave persone, terzo che le loro imprese avrebbero spinto le masse proletarie a fare la rivoluzione.

Queste idee erano deliranti anzitutto perché la rivoluzione in un solo paese alle multinazionali non avrebbe fatto né caldo né freddo, e in ogni caso la pressione internazionale avrebbe rapidamente ristabilito l'ordine; secondo perché il peso di un politico italiano, in questo gioco di interessi, era del tutto irrilevante; e terzo perché si doveva sapere che, per quanta gente i terroristi avessero ammazzato, la classe operaia non avrebbe fatto la rivoluzione. E per sapere questo non era necessario prevedere lo svolgimento degli eventi, ma bastava vedere quello che era successo nell'America Latina coi Tupamaros uruguayani e movimenti analoghi (che al massimo avevano convinto i colonnelli argentini a fare non la rivoluzione ma il colpo di Stato), mentre le masse proletarie non muovevano un dito.

Ora chi trae tre conclusioni sbagliate da una premessa tutto sommato accettabile non è un compagno che sbaglia. Se un mio compagno di scuola avesse affermato che il sole gira intorno alla terra o che due più due fa cinque non lo avrei definito un compagno che sbagliava bensì un coglione. Il fatto che oggi ritroviamo persino un terrorista rosso occupato a fare attentati alle moschee nel nome della Lega, mostra appunto che non erano molto assennati.

Pertanto l'unico compagno (ma di chi?) che sbaglia è il signore che gestisce quel sito.

(02 maggio 2008)

da espresso.repubblica.it
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« Risposta #19 inserito:: Maggio 13, 2008, 03:57:23 pm »

VERSO L'EXPO 2015


«Il grattacielo storto? Prenderà il viagra»

Lo scrittore Umberto Eco ha risposto così a chi gli chiedeva un parere sul progetto di Libeskind

MILANO - «Milano è piena di gente che ha il membro storto: ce ne sarà uno in più e prenderà il viagra».

Si è affidato a espressioni di questo tipo lo scrittore Umberto Eco per rispondere a chi gli chiedeva un parere sul grattacielo storto di Daniel Libeskind, che vedrà la luce nel nuovo quartiere di Citylife, a poche centinaia di metri dal giardino intitolato alla memoria dell'editore Valentino Bompiani.

Proprio domenica si è appreso che è allo studio un leggero raddrizzamento della sagoma della torre; ma all'esplicita domanda sul reale gradimento del progetto di Libeskind, sul quale sono piovute le critiche di numerose personalità politiche, tra cui quelle del presidente del consiglio Silvio Berlusconi, Eco ha risposto: «Non mi occupo di membri».


12 maggio 2008(ultima modifica: 13 maggio 2008)

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« Risposta #20 inserito:: Maggio 25, 2008, 05:29:54 pm »

Considerazioni attuali

Umberto Eco


Il telefonino fatto ingoiare a un marocchino poi salvato dalla polizia. Un brano di de Tocqueville per le prossime antologie. Il 'Giuramento di Pontida' e l'increscioso Alemanno  Primo pensierino. Ho letto su un quotidiano della settimana scorsa questa notizia straordinaria: "A Roma marocchino ingoia un telefonino e viene salvato dalla polizia". Cioè la polizia passa di lì a tarda sera, vede un tizio per terra che sputa sangue, circondato da connazionali, lo tira su, lo porta all'ospedale, e là gli estraggono dalla gola un Nokia.

Ora mi pare impossibile che (a parte trovata pubblicitaria della Nokia) un essere umano, per quanto alterato, possa ingoiare un cellulare. Il giornale avanzava l'ipotesi che l'episodio fosse avvenuto durante un regolamento di conti tra spacciatori e dunque è più verosimile che il telefonino gli sia stato cacciato in bocca a viva forza, non come ghiottoneria bensì come contrappasso (forse il punito aveva telefonato a qualcuno qualcosa che non doveva).

Il sasso in bocca è sfregio di origine mafiosa e viene ficcato tra le fauci del cadavere di qualcuno che ha rivelato segreti a estranei (c'è anche un film di Giuseppe Ferrara con questo titolo) e non c'è nulla di stupefacente che il costume sia passato ad altri gruppi etnici - d'altra parte la mafia è fenomeno talmente internazionale che anni fa a Mosca qualcuno aveva chiesto alla mia traduttrice russa come si dice 'mafia' in italiano.

Però questa volta non si tratta di un sasso bensì di un cellulare e questo mi sembra altamente simbolico. La nuova criminalità non è più rurale ma urbana, e tecnologica, è naturale che l'ucciso non venga più incaprettato ma, diciamo, 'incyborgizzato'. Non solo, ma cacciare un telefonino in bocca a qualcuno è come cacciargli i testicoli, vale a dire la cosa più intima e personale che possiede, il complemento naturale della sua fisicità, prolungamento dell'orecchio, dell'occhio e spesso anche del pene (vedi la storia del professore pedofilo telefonico). Soffocare qualcuno con il suo telefonino è come strangolarlo con le sue stesse viscere. Tieni, c'è posta per te.


Secondo pensierino. Un senatore della maggioranza vincente ha proposto di rivedere i testi scolastici e, ritengo, anche le antologie. Inizio a raccogliere alcuni brani che dovranno apparire nelle antologie del futuro. L'amico Diego Marconi mi segnala questo interessantissimo brano di Alexis de Tocqueville da quel gran libro che è 'La democrazia in America', ancora buono oggi sotto tanti profili, anche se è stato scritto 173 anni fa. Trascrivo.

"Può tuttavia accadere che un gusto eccessivo per i beni materiali porti gli uomini a mettersi nelle mani del primo padrone che si presenti loro. In effetti, nella vita di ogni popolo democratico, vi è un passaggio assai pericoloso. Quando il gusto per il benessere materiale si sviluppa più rapidamente della civiltà e dell'abitudine alla libertà, arriva un momento in cui gli uomini si lasciano trascinare e quasi perdono la testa alla vista dei beni che stanno per conquistare.

Preoccupati solo di fare fortuna, non riescono a cogliere lo stretto legame che unisce il benessere di ciascuno alla prosperità di tutti. In casi del genere, non sarà neanche necessario strappare loro i diritti di cui godono: saranno loro stessi a privarsene volentieri... Se un individuo abile e ambizioso riesce a impadronirsi del potere in un simile momento critico, troverà la strada aperta a qualsivoglia sopruso. Basterà che si preoccupi per un po' di curare gli interessi materiali e nessuno lo chiamerà a rispondere del resto. Che garantisca l'ordine anzitutto! Una nazione che chieda al suo governo il solo mantenimento dell'ordine è già schiava in fondo al cuore, schiava del suo benessere e da un momento all'altro può presentarsi l'uomo destinato ad asservirla. Quando la gran massa dei cittadini vuole occuparsi solo dei propri affari privati i più piccoli partiti possono impadronirsi del potere.

Non è raro allora vedere sulla vasta scena del mondo delle moltitudini rappresentate da pochi uomini che parlano in nome di una folla assente o disattenta, che agiscono in mezzo all'universale immobilità disponendo a capriccio di ogni cosa: cambiando leggi e tiranneggiando a loro piacimento sui costumi; tanto che non si può fare a meno di rimanere stupefatti nel vedere in che mani indegne e deboli possa cadere un grande popolo".

Terzo pensierino. Naturalmente ci sono brani che dovranno scomparire dalle stesse antologie. Nel sito ufficiale dei Giovani Padani trovo per esteso, come era pensabile, il 'Giuramento di Pontida' di Berchet. Ma credo che ora andranno censurati questi versi, che metterebbero in seria crisi la Lega, o come minimo renderebbero la nuova alleanza governativa tanto fragile quanto la precedente: "Su! Nell'irto, increscioso Alemanno, - su! Lombardi, puntate la spada: - fate vostra la vostra contrada, - questa bella che il Ciel vi sortì".

(16 maggio 2008)


da espresso.repubblica.it
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« Risposta #21 inserito:: Giugno 06, 2008, 04:56:25 pm »

Umberto Eco

I ''dottori'' del triennio


La maggior parte delle deprecazioni della nostra università riguardano l'invenzione delle lauree triennali. Ma il problema non è la brevità bensì l'intensità della frequenza. Che da noi non è obbligatoria  L'Università "La Sapienza" di RomaSi addensano sempre più articoli apocalittici sullo sfacelo dell'università italiana. Certamente non è in buona salute l'università di un paese in cui i fondi per la ricerca sono così esigui, e dove gli obblighi di frequenza sono aleatori (siamo uno dei pochi paesi dove ci si può presentare a un esame di fine anno senza aver mai visto il professore - e non perché lui non si è fatto mai vedere, ma perché lo studente non veniva alle lezioni). È vero che certi articoli sono poco attendibili perché sono scritti da raffinati intellettuali che non fanno lo sporco mestiere d'insegnare e quindi parlano di un universo che gli è estraneo - ma cosa non si fa per farsi pagare un'articolessa. Infine la maggior parte delle deprecazioni riguardano l'invenzione della laurea breve.

Si critica la laurea breve perché si seguono una serie di cosiddetti 'moduli' didattici brevissimi, valutati fiscalmente in 'crediti', per i quali non si devono portare più di un dato numero di pagine (a tal punto che gli editori sono stati costretti a ripensare dei manuali a dimensione d'analfabeta) così che la laurea breve si riduce quando va bene a un super liceo.

La laurea breve esiste in tutti i paesi e l'Italia doveva uniformarsi. Quando si legge che John Kennedy era laureato a Harvard questo significa che aveva fatto i suoi tre anni di laurea breve al college. Ora in un triennio universitario americano s'impara poco più di quello che s'imparava da noi in un buon liceo di una volta (là le scuole medie sono pessime). E tuttavia si ritiene che una formazione universitaria di tre anni consenta a un cittadino di realizzare quella 'istruzione superiore' indispensabile per inserirsi poi in una professione. Perché allora tre anni di college in America sono meglio di una nostra laurea breve?

A parte il fatto che là non dicono ai ragazzi che dopo tre anni sono 'dottori' (ma pazienza, per incoraggiare gli studi si potrebbe conferire anche il titolo di Eccellenza o di Satrapo), laggiù si è obbligati a frequentare tutte le lezioni, si vive insieme agli altri ogni giorno, si è in contatto quotidiano e continuo coi professori. Sembra poco ma è tutto. Quindi il problema non è la brevità della laurea bensì l'intensità della frequenza.


Come si può ovviare al fatto che da noi la frequenza non è obbligatoria? Mi rifaccio alla mia esperienza di studente di filosofia negli anni Cinquanta. Anche allora potevi non frequentare, ma ciascuno dei diciotto esami richiesti era estremamente impegnativo. I nostri professori (che, detto incidentalmente, si chiamavano Abbagnano, Bobbio, Pareyson, eccetera) si erano messi tutti d'accordo in modo che alla fine dei quattro anni, tra un esame e l'altro, si fossero portati quasi tutti i classici della filosofia, da Platone a Heidegger. A seconda degli anni poteva capitarti di saltare, che so, Hegel, ma avevi portato Spinoza, Locke e Kant (tutte e tre le critiche) e quando ti sei scozzonato su autori di quel calibro sei poi in grado di leggere da solo quelli che hai per caso saltato.

Considerando che alcuni esami implicavano almeno mille pagine e altri un poco meno, alla fine dei diciotto esami si era lavorato su almeno dodicimila pagine, e per un ragazzo che si forma la quantità conta molto. Erano diciotto esami, e per laurearsi entro il quadriennio (chi andava fuori corso era considerato un sottosviluppato) se ne davano cinque in ciascuno dei primi tre anni, e tre nell'ultimo, per avere tempo da dedicare alla tesi, molto impegnativa. Nessuno è mai morto.

Ora, se quei quattro anni dovevano formare un esperto in filosofia, c'erano molti esami che con la filosofia non c'entravano, come latino, italiano, o quattro di storia. Per quanto fosse eccitante e più formativo di diciotto mesi di militare dare latino con Augusto Rostagni (che richiedeva un corso monografico sulla letteratura della decadenza, con tutti i testi di Ausonio, Claudiano, Rutilio Namaziano e via dicendo, più tutto - dico tutto - Virgilio o tutto Orazio da tradurre all'impromptu), visto che all'epoca si erano già fatti italiano, storia e latino alle medie, si sarebbero potuti eliminare almeno tre di quegli esami. Ed ecco che si sarebbe arrivati a quindici esami di materie filosofiche, liquidabili in tre anni (senza tesi finale), imparando tutto quello che c'era da imparare, leggendo i classici, e senza moduli ridotti. Perché non si è fatto così? Perché si è data un'interpretazione restrittiva e fiscale dei 'crediti', mentre non era indispensabile. Ma questo è un altro discorso.

(30 maggio 2008)


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« Risposta #22 inserito:: Giugno 21, 2008, 05:05:56 pm »

Umberto Eco.

Il "cuore" e lo zingaro


Proposte per i compilatori di antologie revisioniste a proposito dei nomadi: un testo di Lombroso e alcuni brani tratti dalla rivista 'La difesa della razza' a cui collaborava anche Giorgio Almirante  Rom e sinti manifestano contro le discriminazioni
a Roma, domenica 8 giugnoContinuo con la proposta di testi da inserire nelle nuove antologie revisioniste per la gioventù italiana. Tema di questa puntata, lo zingaro.

"Sono l'imagine viva di una razza intera di delinquenti, e ne riproducono tutte le passioni ed i vizi. Hanno in orrore (.) tutto ciò che richiede il minimo grado di applicazione; sopportano la fame e la miseria piuttosto che sottoporsi ad un piccolo lavoro continuato; vi attendono solo quanto basti per poter vivere; sono spergiuri anche tra loro; ingrati, vili, e nello stesso tempo crudeli, per cui in Transilvania corre il proverbio, che cinquanta zingari possono esser fugati da un cencio bagnato; incorporati nell'esercito austriaco, vi fecero pessima prova. Sono vendicativi all'estremo grado: uno di questi, battuto dal padrone, per vendicarsene, lo trasportò in una grotta, ne cucì il corpo in una pelle, alimentandolo colle sostanze più schifose, finché morì di gangrena. Per poter saccheggiare Lograno avvelenarono le fonti del Drao: e quando li credettero morti i cittadini entrarono in massa nel paese che fu salvato da uno che l'aveva saputo.

Dediti all'ira, nell'impeto della collera, furono veduti gettare i loro figli, quasi una pietra da fionda, contro l'avversario; e sono, appunto come i delinquenti, vanitosi, eppure senza alcuna paura dell'infamia. Consumano in alcool ed in vestiti quanto guadagnano; sicché se ne vedono camminare a piedi nudi, ma con abito gallonato od a colori, e senza calze, ma con stivaletti gialli. Hanno l'imprevidenza del selvaggio e del delinquente. Si racconta, come una volta, avendo respinto da una trincea gl'Imperiali, gridassero loro dietro: "Fuggite, fuggite, ché se non scarseggiassimo in piombo, avremmo fatto di voi carnificina". E così ne resero edotti i nemici, che ritornando sulla loro via, ne menarono strage.

Senza morale eppure superstiziosi (Borrow) si crederebbero dannati e disonorati se mangiassero anguille o scojattoli, eppure mangiano... carogne quasi putrefatte. Amanti dell'orgia, del rumore, nei mercati fanno grandi schiamazzi; feroci, assassinano senza rimorso, a scopo di lucro; si sospettarono, anni sono, di cannibalismo. Le donne sono più abili al furto, e vi addestrano i loro bambini; avvelenano con polveri il bestiame, per darsi poi merito di guarirlo, o per averne a poco prezzo le carni; in Turchia si danno anche alla prostituzione. Tutte eccellono in certe truffe speciali, quali il cambio di monete buone contro le false, e nello spaccio di cavalli malati, raffazzonati per sani, sicché come fra noi ebreo era, un tempo, sinonimo di usurajo, così, in Spagna, gitano è sinonimo di truffatore nel commercio di bestiame.

Lo zingaro in qualunque stato o condizione si trovi, conserva la sua abituale e costante impassibilità, senza sembrar preoccupato dell'avvenire, vivendo giorno per giorno in una immobilità di pensiero assoluta, ed abdicando ad ogni previdenza". (Cesare Lombroso, L'uomo delinquente, 1876, I, 2).

"Esiste un punto di spiccata analogia fra la loro vita e quella degli ebrei, in quanto ebrei e zingari rappresentano gli unici gruppi etnici costituiti senza espressione alcuna di vita agricola che esistano in Europa. Ma se gli zingari dividono con gli ebrei questa originale prerogativa di assenteismo per tutto ciò che è lavoro agricolo, una profonda diversità intima li contrappone. L'uno, un popolo che ammassa per dominare; l'altro che mendica per vivere". (Vincenzo De Agazio, 'Gli ultimi nomadi', Difesa della razza , 20 giugno 1939).

"Gli zingari appartengono quasi sempre alla razza orientale e i loro meticci sono quasi sempre degli individui asociali, tanto più pericolosi in quanto difficilmente distinguibili dagli europei....

È necessario quindi diffidare di tutti gli individui che vivono vagabondando alla maniera degli zingari e che ne presentano i sopraricordati tratti somatici. Si tratta di individui asociali, differentissimi dal punto di vista psichico dalle popolazioni europee e soprattutto da quella italiana di cui sono note le qualità di laboriosità e attaccamento alla terra. Data l'assoluta mancanza di senso morale di questi eterni randagi si comprende come essi possano facilmente unirsi con gli strati inferiori delle popolazioni che incontrano peggiorandone sotto ogni punto di vista le qualità psichiche e fisiche". (Guido Landra, 'Il problema dei meticci in Europa', Difesa della razza, 5 novembre 1940).

Faccio notare che se Lombroso potrebbe suscitare qualche riserva da parte dei compilatori delle antologie revisioniste, date le sue propensioni socialiste, non dovrebbero esserci diffidenze per gli scritti apparsi su 'La difesa della razza', rivista assai seria a cui collaborava anche Giorgio Almirante, futuro titolare di strada urbana.

(13 giugno 2008)

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« Risposta #23 inserito:: Giugno 27, 2008, 11:42:35 am »

Umberto Eco

Io essere ballerino riusso...


È proprio il testo della poesia di Montale scelto per la maturità a suggerire che il destinatario sia un uomo, con quel 'o lontano'. Quindi gli esperti ministeriali non hanno letto il testo, mentre dal testo potevano capire di che cosa si stava parlando  Ormai la storia del tema su Montale la sanno tutti ma, visto che questa Bustina uscirà otto giorni dopo gli eventi fatali, riassumiamo brevemente. Viene data agli studenti per il tema della maturità una poesia di Montale su un misterioso sorriso. Tutto il ragionamento che segue non vale se non si ha sott'occhio la poesia e pertanto la trascrivo:

Ripenso il tuo sorriso, ed è per me un'acqua limpida
scorta per avventura tra le petraie d'un greto,
esiguo specchio in cui guardi un'ellera i suoi corimbi;
e su tutto l'abbraccio d'un bianco cielo quieto.
Codesto è il mio ricordo; non saprei dire, o lontano,
se dal tuo volto s'esprime libera un'anima ingenua,
o vero tu sei dei raminghi che il male del mondo estenua
e recano il loro soffrire con sé come un talismano.
Ma questo posso dirti, che la tua pensata effigie
sommerge i crucci estrosi in un'ondata di calma,
e che il tuo aspetto s'insinua nella mia memoria grigia
schietto come la cima d'una giovinetta palma.

Francamente, di tutte le rime montaliane, questa è una delle più 'petrose', e già pretendere che un ragazzo della maturità, a cui forse non hanno fatto studiare Montale, possa commentarla mi pare esagerato. Ma come è noto la commissione ministeriale ha fatto di peggio, ha fornito una 'traccia' che (così come accadeva a me nella scuola di un tempo) prescrive praticamente quello che lo studente dovrebbe dire: che la poesia esalta il ruolo salvifico della donna, che il ricordo della donna si condensa nel suo sorriso, eccetera eccetera sino a terminare con l'esortazione a fare osservazioni originali - e quali mai, visto che le cose più originali le ha dette proprio il ministero.

Infatti il lato gustoso della faccenda, come ormai tutti sanno, è dovuto al fatto che il destinatario di quella poesia ('a K.') non era una donna bensì un uomo, e bastasse:
era un ballerino russo e benché tutti ora dicano che era conclamatamente eterosessuale si sa che l'idea del ballerino russo suscita sempre pesanti cachinni e ce n'era sempre uno nei film comici degli anni Cinquanta.

La mia prima reazione, quando ho letto le notizie dei giornali, senza ricordare bene la poesia (so a memoria moltissime liriche di 'Ossi di seppia' ma questa no, segno appunto che è meno cantabile delle altre) è che dovremmo smetterla con i pettegolezzi biografici sugli autori. Gli autori sono, come in questo caso, defunti mentre quello che rimane è il testo. E se il testo parla di un sorriso, senza specificare di chi, il lettore ha il diritto di attribuire quel sorriso a chi vuole, così come chi legge i sonetti shakespeariani sulla 'dark lady' non è obbligato a sospettare che quella signora fosse un giovanotto.

Ma è che, proprio mentre rimuginavo tra me e me sui diritti del testo, sono andato a cercarmi la poesia per intero e ho visto che è proprio il testo a suggerire che il destinatario sia un uomo, con quel 'o lontano' che certamente è un vocativo e neppure con la maggiore buona volontà può essere interpretato come 'da lontano' o 'benché tu stia lontano'. Quindi gli esperti ministeriali non hanno letto il testo, mentre dal testo potevano capire di che cosa si stava parlando anche senza andare a consultare, come suggerisce Mario Baudino su 'La Stampa', l'edizione critica Contini-Bettarini, che mette la poesia a pagina 30 e fornisce avaramente l'informazione su K solo a pagina 872.

Trovo anche esagerate le accuse di omofobia rivolte da qualcuno ai responsabili ministeriali. Se non volevano che gli studenti pensassero che quella poesia era dedicata a un uomo, bastava che ne scegliessero un'altra. No, si è trattato proprio di una lettura insufficiente del testo proposto.

Ma se cerchiamo di essere severi coi ministeriali, non dobbiamo neppure essere indulgenti coi loro critici. Ed ecco che un importante quotidiano nazionale, nel giro di due pagine, in un articolo dice che la poesia è del 1975, mentre come si sa gli 'Ossi di seppia' sono degli anni Venti (e tra l'altro viene precisato altrove nella stessa pagina), e poi dice che la rivelazione su K sarebbe stata fatta a Silvio Ramat dopo che si era laureato 'con' Montale, cosa improbabile perché Montale non è mai stato professore universitario (e infatti Ramat si è laureato, credo, 'su' Montale).

Questo per dire che la disattenzione è un vizio diffuso e un altro quotidiano on line asseriva, sia pure nella fretta del momento, che questo K era un compagno di scuola del poeta. Che dire? Facciamoci quattro sorrisi.

(27 giugno 2008)


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« Risposta #24 inserito:: Luglio 02, 2008, 06:21:11 pm »

POLITICA

LA LETTERA

Umberto Eco: "La minoranza ha il dovere di manifestare"


Umberto Eco ha inviato questa lettera a Furio Colombo, Paolo Flores d'Arcais, Pancho Pardi, promotori della manifestazione dell'8 luglio in Piazza Navona.



Cari Amici,

mentre esprimo la mia solidarietà per la vostra manifestazione, vorrei che essa servisse a ricordare a tutti due punti che si è sovente tentati di dimenticare:

1) Democrazia non significa che la maggioranza ha ragione. Significa che la maggioranza ha il diritto di governare.

2) Democrazia non significa pertanto che la minoranza ha torto. Significa che, mentre rispetta il governo della maggioranza, essa si esprime a voce alta ogni volta che pensa che la maggioranza abbia torto (o addirittura faccia cose contrarie alla legge, alla morale e ai principi stessi della democrazia), e deve farlo sempre e con la massima energia perché questo è il mandato che ha ricevuto dai cittadini. Quando la maggioranza sostiene di aver sempre ragione e la minoranza non osa reagire, allora è in pericolo la democrazia.

Umberto Eco

(2 luglio 2008)

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« Risposta #25 inserito:: Luglio 12, 2008, 11:44:22 pm »

Umberto Eco.

Chi ha ucciso il mastino di Baskerville?


In questi tempi di demonizzazione del dannato relativismo, teniamoci cari gli enunciati narrativi, gli unici che dicono verità che non possono essere revocate in dubbio.

 L'estate scorsa recensivo in questa Bustina 'Come parlare di un libro senza averlo mai letto', di Pierre Bayard, il quale diceva quanto chiunque pratichi la lettura sa, e cioè che al mondo ci sono più libri importanti di quanto possiamo leggere nel corso di una vita, e spesso siamo influenzati profondamente da libri che non abbiamo mai letto e di cui tuttavia sappiamo l'essenziale perché ci è giunto per varie fonti.

Ma la parte più intrigante di quel pamphlet era che, anche dei libri che abbiamo letto davvero, ricordiamo non ciò che dicevano, bensì ciò che leggendoli gli facevamo dire. Bayard, il quale oltre che docente di letteratura è anche psicoanalista, mi pareva non tanto interessato al problema se la gente legga o non legga, quanto piuttosto al fatto che ogni lettura abbia aspetto creativo, e in ogni caso ri-creativo.

Si veda ora questo suo 'Il caso del mastino dei Baskerville' (Excelsior, 15,50 euro) libretto appassionante dove egli, psicoanalizzando punti oscuri del testo di Arthur Conan Doyle, cerca di mostrare come un lettore abbia il diritto di ritenere significative molte ambiguità o reticenze del testo (come fanno del resto gli psicoanalisti) e di concluderne che Sherlock Holmes si era sbagliato nel risolvere quel mistero. Bayard astutamente sceglie un testo che è davvero pieno di punti oscuri e in cui tra l'altro le osservazioni non appaiono fatte direttamente da Holmes ma dal dottor Watson che Bayard definisce senza ambagi come un perfetto idiota. E d'altra parte il 'Mastino' è stato scritto dopo che Doyle aveva fatto morire Holmes, ed era stato poi costretto a risuscitarlo a causa di un plebiscito di folla (belle le pagine su queste forme di identificazione collettiva con personaggi che si sanno fittizi) e pertanto molti imbarazzi di quel libro sembrano dovuti a complessi dell'autore.


Bayard ha fatto lo stesso lavoro su 'The murder of Roger Ackroyd' di Agatha Christie, e anche lì lavora sul velluto perché, come si sa, l'assassino è il narratore, e si ha diritto di prendere con le molle quanto racconta un malandrino di quella fatta. Si noti che quello che fa Bayard è diverso da ciò che ha fatto Philippe Doumenc in 'Lo strano caso di Emma Bovary' (Castelvecchi 2008) in cui l'autore riprende l'indagine dalla morte di Emma per provare che non si era suicidata bensì che era stata uccisa.

Doumenc aggiunge nuovi fatti a quelli raccontati da Flaubert ed è come se avesse scritto (che so) Pinocchio palombaro, un libretto tra i mille che riprendevano le avventure di Pinocchio. Bayard invece non 'riscrive' il libro di Doyle, lo 'rilegge' alla luce di una idea sospettosa. E ritiene di avere il diritto di farlo perché pensa non solo che i personaggi fittizi acquisiscono una vita indipendente dalla volontà del loro autore, ma che ogni lettore esegue un testo a modo proprio - a tal punto che è da mettere in dubbio "una reale comunicazione tra i lettori di uno stesso libro, in quanto costoro effettivamente non stanno parlando del medesimo libro".

Io ritengo che non si debba confondere la lettura globale di un testo (che certamente permette e spesso incoraggia interpretazioni diverse, che riguardano lo stile, le sfumature psicologiche e mille altre cose) e l'atteggiamento che si assume rispetto agli enunciati narrativi (del tipo 'Emma Bovary si è avvelenata' o 'Pinocchio è stato inghiottito da un pescecane'). E tra l'altro Bayard mostra di conoscere molto bene le discussioni in materia. Il problema è che gli enunciati narrativi, all'interno del mondo possibile di un romanzo, vengono presi dal lettore come verità indiscutibile. Questa è anche la terribile bellezza della narrativa: Emma Bovary muore suicida e, per quanto la cosa ci dispiaccia, non possiamo cambiare il suo destino per tutta l'eternità.

Possiamo ovviamente riscrivere un altro romanzo in cui la Bovary viene uccisa, come ha fatto Doumenc, ma ciò che dà (o non dà) sapore alla lettura del rifacimento è proprio il fatto che, contrariamente a ciò che sembra ritenere Bayard, tutti noi conveniamo come un sol uomo che nel mondo possibile di Flaubert la poveretta muore suicida, e stiamo tutti parlando del 'medesimo libro'. Altrimenti perché il rifacimento di Doumenc dovrebbe interessarci, se parlasse di una tizia di cui non sappiamo niente? E perché dovrebbe intrigarci la reinterpretazione di Bayard se parlasse di un 'Mastino' che non è quello che abbiamo letto noi? Possiamo sospettare che Giulio Cesare non sia morto proprio alle Idi di Marzo ma non possiamo dubitare che Didone si sia suicidata per amore di Enea, in quanto nessuno ha il diritto di negare che nel mondo possibile della 'Eneide' accada quello che accade.

In questi tempi di demonizzazione del dannato relativismo, teniamoci cari gli enunciati narrativi, gli unici che dicono verità che non possono essere revocate in dubbio.
(11 luglio 2008)

da espresso.repubblica.it
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« Risposta #26 inserito:: Luglio 27, 2008, 12:30:54 am »

UmbertoEco


Segnati a dito

Un giorno nessuno di noi avrà più una faccia ma solo dei dati astratti, algoritmi, come le sbarrette sui prodotti del supermarket. E allora addio a Fantomas, ad Arsenio Lupin, a Rodolfo di Gerolstein...  Naturalmente, ed è premessa doverosa, c'è qualcosa di losco nel voler prendere le impronte digitali ai membri di un solo gruppo (siano essi zingari, testimoni di Geova, filatelici, diabetici o monaci olivetani), e se poi sono bambini peggio ancora. Tuttavia, ed è stato annunciato, tra qualche tempo le prenderanno a tutti e non ci saranno più ragioni per protestare (allora, non ora). D'altra parte io entro negli Stati Uniti solo puntando il mio dito in direzione di un marchingegno elettronico, e non mi sento discriminato perché è una regola generale - anche se in fondo la cosa mi dà un poco noia.

Non c'è niente da fare. Tra breve non solo le impronte digitali ma forse anche il Dna saranno registrati su una specie di carta di credito che conterrà tutti i nostri dati. Allora non ci saranno più problemi per viaggiatrici che insistano a portare il burka, per tanto che la cosa ci dispiaccia, perché non dovranno più mostrare il volto bensì il dito per essere identificate agli imbarchi. E speriamo che non salti fuori una qualche setta fondamentalista che impone ai suoi membri di portare sempre i guanti, perché allora dovremmo inventare ancora qualcosa di diverso.

Non c'è niente da fare, dipende dalla globalizzazione. Sei miliardi di esseri che potenzialmente potrebbero spostarsi da un paese all'altro (e tanti comunque anche se non si calcolano quelli che non ce la fanno a muoversi per malnutrizione) fanno sì che i problemi di identificazione si facciano sempre più difficili. Già ora diciamo che tutti i giapponesi si assomigliano, e loro dicono la stessa cosa di noi. Un amico mi raccontava che a Parigi si era irritato perché dei taxisti orientali non conoscevano certe strade e aveva domandato seccato a uno di loro se non erano obbligati a dare un esame per ottenere la licenza, e quello gli aveva risposto candidamente che, quando un orientale si presenta a un esame ed esibisce un documento con sopra una faccia da orientale, l'esaminatore non si accorge se la persona che ha di fronte non è la stessa della fotografia. E pertanto, lasciava capire il buon tassista, uno solo di loro, il più esperto, dava l'esame per chissà quanti compagni.


Francamente non capisco per quale ipocrisia sino a ora ci si sia accontentati dell'identificazione fotografica. Ciascuno di noi ha la profonda persuasione di non assomigliare affatto alla foto che ha sulla carta d'identità, e quando tempo fa mi sono lasciato crescere la barba ho viaggiato ancora per qualche anno con un passaporto su cui apparivo sbarbato. Nessuno si è mai lamentato, tranne un poliziotto di un paese dell'est, ma poi anche lui ha lasciato correre.

La globalizzazione ha prodotto, o almeno incoraggiato, quel nuovo tipo di guerra che è l'attacco terroristico. Un tempo il nemico lo riconoscevi dall'uniforme, oggi è invece vestito come te e porta l'esplosivo avvolto intorno alla vita sotto la maglietta col coccodrillo. Altra ragione per tentare sistemi d'identificazione più sicuri della foto.

Così un giorno nessuno di noi avrà più una faccia ma solo dei dati astratti, anche perché immagino che su quella carta di credito non apparirà neppure la mia impronta digitale ma solo un algoritmo che la esprime, un poco come le sbarrette sui prodotti del supermercato. Ma non ci sarà niente da fare.

Salvo che finirà tutta una serie di situazioni narrative di cui non si potrà più raccontare se non nei romanzi storici, e anche lì i giovani lettori del prossimo secolo non capiranno neppure cosa significasse un tempo mettersi un paio di baffi finti, una parrucca fluente, una barba da cappuccino, e farsi dei pomelli rossi, degli occhi segnati come dal bistro oppure, come Mannering detto il Barone, inserire dei cuscinetti elastici dentro le guance, o come Fantomas apparire nelle fogge più varie, o come Arsenio Lupin sembrare oggi un raffinato gentiluomo con tanto di caramella e due sottili baffetti, e domani come un operaio in camicione blu, con la barba irsutamente lunga o lungamente irsuta.

Addio conte di Montecristo che si toglie di colpo la parrucca dell'abate Busoni e grida "Io sono Edmond Dantès", addio Rodolfo di Gerolstein che frequentava le bettole parigine travestito da criminale in servizio permanente effettivo per redimere le giovani prostitute soavemente turbercolotiche. Anche a essere il fantasma dell'Opera, che gusto ci sarebbe a portare una maschera sul volto ustionato, se la gente, la polizia, il pubblico dei palchi e persino la donna amata non ti guarderanno il viso bensì la punta del dito? Vi rendete conto? Non si potrà più mentire con il corpo. Segnati a dito. Questo di tanta speme oggi ci resta

(25 luglio 2008)

da espresso.repubblica.it
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« Risposta #27 inserito:: Agosto 09, 2008, 06:38:10 pm »

Umberto Eco


Rinasco rinasco nel milnovecentoquaranta!


Come negli anni '40, ci sono fascisti al governo. Non solo loro, non più esattamente fascisti, ma che importa, si sa che la storia si dà una prima volta in forma di tragedia e una seconda in forma di farsa  Mussolini e un battaglione fascista nel 1941La vita altro non è che una lenta rimemorazione dell'infanzia. D'accordo. Ma quello che rende dolce questo rimembrare è che, nella lontananza della nostalgia, ci appaiono belli anche i momenti che allora ci sembravano dolorosi, persino il giorno che si è scivolati nel fosso slogandosi un piede, e si è dovuto rimanere a casa per 15 giorni ingessati con la garza imbevuta di bianco d'uovo.

Personalmente ricordo con tenerezza le notti passate nel rifugio antiaereo: ci avevano svegliato nel bel mezzo del sonno più profondo, trascinati in pigiama e cappotto in un sotterraneo umido, tutto in cemento armato, illuminato da lampadine fioche, e giocavamo a rincorrerci mentre sopra le nostre teste esplodevano colpi sordi che non sapevamo se fossero della contraerea o delle bombe.

Le nostre mamme tremavano, dal freddo e dalla paura, ma per noi era una strana avventura. Ecco cos'è la nostalgia.

Pertanto siamo disposti ad accettare tutto ciò che ci ricordi gli orribili anni Quaranta, ed è il tributo che paghiamo alla nostra vecchiaia.

Com'erano le città a quell'epoca? Buie di notte, quando l'oscuramento obbligava i radi passanti a usare lampadine non a pila bensì a dinamo, come il fanale della bicicletta, che si caricava per frizione azionando spasticamente a mano una sorta di grilletto. Ma più tardi era sopravvenuto il coprifuoco, e per strada non si doveva andare.

Di giorno la città era percorsa da reparti militari, meno sino al 1943, quando in città c'era il Regio Esercito accasermato, ma più intensamente ai tempi della Repubblica di Salò, dove nelle metropoli passavano continuamente manipoli e ronde di marò della San Marco o di Brigate Nere, nei paesi più facilmente gruppi di partigiani, gli uni e gli altri armati sino ai denti.

In questa città militarizzata in certe situazioni erano proibiti gli assembramenti, sciamavano ancora torme di Balilla e Piccole Italiane in divisa, e di scolaretti in grembiule nero che uscivano da scuola a mezzogiorno, mentre le mamme andavano a comperare il poco che si trovava nei negozi di alimentari, e se volevi mangiare del pane non dico bianco ma non ributtante e fatto di segatura, dovevi pagare somme considerevoli al mercato nero.


In casa la luce era fioca, per non dire del riscaldamento, limitato alla sola cucina. A notte si dormiva col mattone caldo nel letto e ricordo con tenerezza persino i geloni.

Ora non posso dire che tutto questo sia tornato, certo non integralmente. Ma comincio a riavvertirne il profumo. Tanto per cominciare ci sono fascisti al governo. Non solo loro, non più esattamente fascisti, ma che importa, si sa bene che la storia si dà una prima volta in forma di tragedia e una seconda volta in forma di farsa.

In compenso a quei tempi apparivano sui muri manifesti in cui si vedeva un nero americano ributtante (e ubriaco) che tendeva la mano adunca verso una bianca Venere di Milo. Oggi vedo in televisione volti minacciosi di negri smagriti che stanno invadendo a migliaia le nostre terre e francamente intorno a me la gente è ancora più spaventata di allora.

Sta tornando il grembiule nero nelle scuole, e non ho nulla contro, meglio della T-shirt firmata dei bulli, salvo che avverto in bocca un sapore di madeleine imbevuta di tiglio e come Gozzano mi viene da dire "rinasco, rinasco, nel milnovecento e quaranta". Ho appena letto su un giornale che il sindaco leghista di Novara ha proibito che di notte, nel parco, si riuniscano più di tre persone. Attendo con un brivido proustiano il ritorno del coprifuoco.

I nostri militari si stanno battendo contro ribelli dal volto colorato in Asie (purtroppo non più in Affriche) più o meno orientali. Ma vedo reparti dell'esercito, bene armati e con tute mimetiche, anche sui marciapiedi delle nostre città. L'esercito, come allora, non combatte solo alle frontiere ma fa operazioni di polizia. Mi sembra di ritrovarmi in Roma Città Aperta.

Leggo articoli e odo discorsi assai simili a quelli che leggevo allora su 'La difesa della razza', che non solo attaccavano gli ebrei ma anche zingari, marocchini e stranieri in genere. Il pane sta diventando carissimo. Ci stanno avvertendo che dovremo risparmiare sul petrolio, limitare lo spreco di energia elettrica, spegnere le vetrine di notte. Calano le auto e riappaiono i Ladri di Biciclette. Come tocco di originalità, tra un po' sarà razionata l'acqua.

Non abbiamo ancora un governo al Sud e uno al Nord, però c'è chi sta lavorando in questa direzione.

Mi manca un Capo che abbracci e baci castamente sulla guancia prosperose massaie rurali, ma ciascuno ha i suoi gusti.


(08 agosto 2008)


da espresso.repubblica.it
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« Risposta #28 inserito:: Agosto 23, 2008, 11:45:44 pm »

Umberto Eco


Pronomi del passato


Un tempo si dava del Tu ai parenti e al massimo ad alcuni amici intimissimi. Nel mondo del lavoro si usava il Lei o il Voi con tutti, salvo che con i colleghi più stretti  Quindici giorni fa avevo annotato, sul filo del paradosso, vari aspetti della vita odierna che ci rinviano ai nostri ricordi dei tempi di guerra, tra 1940 e 1945. Però riflettendoci meglio mi sono accorto di quante cose si sta invece perdendo memoria.

Per esempio l'uso comune del Lei (o, durante il fascismo, e nelle campagne, del Voi). Si dava del Tu ai parenti (ma nelle campagne del Piemonte la moglie diceva al marito 'Vui, Pautass'), e al massimo ad alcuni amici intimissimi. Bambini e ragazzi si davano del Tu, anche all'università, sino a quando non entravano nel mondo del lavoro.
 
A quel punto Lei o Voi a tutti, salvo ai colleghi stretti (ma mio padre ha passato quarant'anni nella stessa azienda e tra colleghi si sono sempre dati del Lei). Per un neolaureato, fresco fresco di toga virile, dare del Lei agli altri era un modo non solo di ottenere il Lei in risposta, ma possibilmente anche il Dottor.

Da tempo invece, a un giovanotto sui quarant'anni che entra in un negozio, il commesso o la commessa della stessa età cominciano a dare del Tu. In città perché il commesso ti dia del Lei devi mostrare i capelli bianchi, e possibilmente avere la cravatta. In campagna è peggio: più inclini ad assumere costumi televisivi senza saperli mediare con una tradizione precedente, in un emporio mi sono visto (io settantaseienne e con barba bianca) trattato col Tu da una sedicenne (che non ha probabilmente mai conosciuto altro pronome personale), la quale è entrata gradatamente in crisi solo quando io ho interagito con espressioni quali "gentile signorina, come Ella mi dice."
 
Deve aver creduto che provenissi da Elisa di Rivombrosa, tanto mondo reale e mondo virtuale si erano fusi ai suoi occhi, e ha terminato il rapporto con un "buona giornata" invece di 'ciao', come dicono gli albanesi.

Credo che la confusione tra Tu e Lei sia nata con molti doppiaggi di film americani. Come tutti sanno in inglese si dice 'you' sia per il Tu che per il Voi. In verità gli anglofoni sanno che dire 'you Jim' usando il primo nome, è come dare del Tu, mentre dire 'you Mr. Jim' significa dare del Voi o del Lei. Ma non sempre i doppiatori dei film fanno attenzione a queste cose. Sto finendo di vedere in tv la serie 'I Tudors' dove pare che re, cortigiane, persone normali, si diano del voi anche quando scopano - cose che succedono solo a Buenos Aires.

Evidentemente nell'originale si sentiranno le differenze tra 'your Majesty' e 'you, my dear Jim', ma nella versione italiana, dove tutto è Voi, pare giusto che poi nella vita sia tutto Tu e non ci sia differenza tra parlare al re e parlare a un bambino di due anni.

L'altra cosa che ci rende diversi dal passato è che, quando ero piccolo, nella piccola borghesia si usavano, per parere fini, alcune parole francesi come 'agrément', 'satin', 'bouquet' o 'cadeau'. L'inglese e il francese non li sapeva nessuno, e i nomi stranieri si pronunciavano tutti alla francese, e dunque Scürscill e Sciamberlèn. Però ci si poteva correggere perché gli unici che per contratto dovevano saper pronunciare bene i nomi stranieri erano gli annunciatori della radio.
 
Oggi gli annunciatori radio e televisione storpiano i nomi stranieri in misura insostenibile, non c'è più un cane che sappia fare la 'ü' tedesca o francese, è rimasta classica la gaffe dell'annunciatrice che ha letto 'sine die' come 'sain dai', e l'inglese lo si impara da Ezio Greggio che dice 'uan, ciù, zree!'. Lui esagera apposta, ma le aspiranti veline lo prendono sul serio.

Così tutti usano parole inglesi o calchi dall'inglese, anche quando non se ne sente il bisogno: a parte un governo che fa un ministero per il Welfare, che è roba da dichiararsi cittadino ticinese quando all'estero ti chiedono perché mai (e perché non un ministero della War, uno degli Interieurs e uno del Treasury?), tutti supportano, tutti implementano e (come si usa dire nei migliori ambienti) quant'altro.

È vero che il vizio è antico: noi portiamo lo smoking, oppure il pullover, o il frack e gli americani non sanno di cosa parliamo; ma d'altra parte anche i francesi hanno poetato per decenni sullo 'spleen' e gli inglesi reagivano con 'prego, traduca'. Gli americani, infine, hanno immesso nella loro lingua un mucchio di francesismi, però li sentono imperialisticamente come parole loro, tanto che si racconta che, al ritorno di una riunione in Francia, Bush abbia detto: "È strano, i francesi non hanno una parola nella loro lingua per entrepreneur".

Tornando alle cose scomparse, sono scomparse le signorine. Non si sente più dire con tono piccato 'prego, signora, non signorina' e nemmeno 'scusi, signorina'. Si dice 'ehi tu!'.

(22 agosto 2008)


da espresso.repubblica.it
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« Risposta #29 inserito:: Settembre 05, 2008, 11:03:20 pm »

Umberto Eco

Via le vie!

Dedicare una strada a Craxi o a Mussolini. Ciclicamente la questione torna alla ribalta. Ci vorrebbe una legge che proibisce di intitolare una strada a chi non sia morto da almeno cento anni 


Va bene che d'estate e specie intorno a ferragosto non vi sono molte novità di cui parlare, tranne alcuni massacri in Georgia, che fanno meno notizia delle olimpiadi, ma sono stato colpito in queste settimane dalla ripresa di un tema che oserei definire ormai eterno. Da qualche parte si è tornato a discutere perché qualcuno voleva dedicare una strada a qualche personaggio compromesso col fascismo, o a figure controverse come quella di Bettino Craxi - o cancellare il nome di un'altra strada, forse in Romagna dove, passando per i piccoli centri, si è colpiti dall'abbondanza di vie Carlo Marx e vie Lenin. Francamente la cosa è diventata insopportabile e c'è un unico modo per uscirne: una legge che proibisca di intitolare una strada a chi non sia morto da almeno cento anni.

Naturalmente con la legge dei cento anni, a parte Carlo Marx, nel 2045 ci sarà qualcuno che intitolerà una via a Benito Mussolini, ma pazienza, i nostri nipoti allora quarantenni (per non dire di eventuali pronipoti) avranno idee confuse sul personaggio. Oggi i buoni cattolici romani passeggiano tranquillamente per via Cola di Rienzo, senza sapere che non solo ha avuto anche lui il suo piazzale Loreto, ma che a intitolargli una strada così importante sono stati i massoni post-risorgimentali per far dispetto al papa.

C'è inoltre da considerare, almeno per rispetto a persone defunte, che intitolare a qualcuno una strada è il modo più facile per condannarlo alla pubblica dimenticanza e a un fragoroso anonimato. Tranne rari casi, come Garibaldi o Cavour, nessuno sa chi sono i personaggi a cui è stata intitolata una piazza o un viale - e se una volta lo si sapeva, il personaggio ha finito per diventare nella memoria collettiva una via e basta. Nella mia città natale sono passato migliaia di volte per via Schiavina senza mai chiedermi chi fosse costui (lo so ora, era un annalista ottocentesco), per via Chenna (so chi era perché ho a casa la sua opera sui vescovadi di Alessandria, 1785), per non dire di Lorenzo Burgonzio (apprendo solo ora su Internet che era l'autore di un 'Le notizie istoriche in onore di Maria Santissima della Salve', Vimercati Editore, 1738).


Sfido molti milanesi che abitano nelle vie Andegari, Cusani, Bigli o Melzi d'Eril a dire chi fossero coloro che hanno meritato quell'onore; forse qualcuno che ha studiato sa che Francesco Melzi d'Eril è stato vice presidente della Repubblica italiana nel periodo napoleonico, ma credo che il pedone normale, che non sia storico di professione, sappia assai poco sulle famiglie Cusani, Bigli o Andegari (tra l'altro alcuni sostengono che il nome provenga dalla voce celtica 'andeghee', che significa 'biancospino').

Non solo la toponomastica condanna alla 'damnatio memoriae', ma può accadere che il nome di un personaggio per bene venga associato a una via malfamata, e che il nome dell'infelice venga nei secoli dei secoli usato per riferimenti salaci. Riandando alla Torino dei miei tempi universitari, ricordo che via Calandra era maliziosamente (e, per i benpensanti, tristemente) associata a ben due case di tolleranza, mentre intendeva onorare Edoardo Calandra, rispettabile scrittore ottocentesco. E piazza Bodoni, che pure onorava un grande tipografo, ed era sede dell'insigne conservatorio, era allora ritrovo notturno di omosessuali (e cercate di capire che cosa volesse dire negli anni Cinquanta) per cui il toponimo veniva a indicare per metonimia (contenente per il contenuto) chi si dedicava a piaceri diversi dalla tipografia e dalla musica classica. Per non dire che a Milano il bordello più frequentato dalla soldataglia era in via Chiaravalle e nessuno poteva più pronunciare senza un sogghigno il nome di quella nobile e famosa abbazia.

Ma allora che nomi daremo alle strade? I pubblici amministratori dovranno fare qualche sforzo di fantasia, perché non potranno pescare nel repertorio familiare dei Bottai o degli Italo Balbo, ma dovranno andare a riscoprire, che so, Salvino degli Armati, probabile inventore degli occhiali, o Bettizia Gozzadini (prima donna a insegnare in un'università nella Bologna medievale), o addirittura Uguccione della Faggiola e Facino Cane, che non erano stinchi di santo ma nemmeno Balbo lo era. D'altra parte New York sopravvive benissimo con strade che hanno solo dei numeri, il che non è tanto diverso da quando a Milano si battezzava una strada via Larga. E ci sono nelle cento città d'Italia bellissime salite del Grillo, vie dell'Orso o della Spiga, vie del Colle, e si potrebbero aggiungere via dei Tigli (in fondo ce n'è una anche a Berlino), via degli Ontani, e via botanizzando

(05 settembre 2008)

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