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Autore Discussione: UMBERTO ECO.  (Letto 143886 volte)
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« Risposta #105 inserito:: Luglio 21, 2011, 11:28:45 am »

L'opinione



di Umberto Eco

Nella finzione narrativa il confine tra vero e inventato è sfumato. Capita così che i lettori prendano sul serio i romanzi. Come se parlassero di cose realmente successe. E che attribuiscano all'autore le idee dei suoi personaggi

(08 luglio 2011)


I lettori si saranno accorti che in alcune delle ultime bustine mi sono occupato della bugia. E' che stavo preparando un intervento che ho tenuto lunedì scorso alla Milanesiana, dedicata quest'anno a "bugie e verità", dove ho anche parlato della finzione narrativa.

Un romanzo è un caso di menzogna? A prima vista dire che don Abbondio ha incontrato due bravi nei pressi di Lecco sarebbe una bugia perché Manzoni sapeva benissimo di raccontare una cosa che si era inventato. Ma Manzoni non intendeva mentire: "faceva finta" che quello che raccontava fosse accaduto davvero e ci chiedeva di partecipare alla sua finzione, proprio come accettiamo che un bambino, che impugna un bastone, faccia finta che sia una spada.

Naturalmente la finzione narrativa richiede che vengano emessi segnali di finzionalità che vanno dalla parola "romanzo" sulla copertina, a inizi come "c'era una volta". Ma spesso incomincia con un falso segnale di veridicità.

Ecco un esempio: "Il signor Lemuel Gulliver... tre anni fa, ormai stanco delle continue visite di curiosi alla sua casa di Redriff, comprò un piccolo appezzamento di terra nei pressi di Newark... Prima di lasciare Redriff, mi ha affidato questi fogli... Li ho letti con attenzione tre volte e devo dire che... la verità soffia su ogni pagina ed infatti l'autore stesso era talmente noto come persona veritiera, che era diventato proverbiale fra i suoi vicini di Redriff, i quali, per suffragare una loro affermazione, erano soliti aggiungere che era vera come se l'avesse detta Gulliver".

Nel frontespizio della prima edizione dei "Viaggi di Gulliver" non appare il nome di Jonathan Swift come autore di finzione ma quello di Gulliver come autobiografo veritiero. Forse i lettori non si fanno ingannare perché, dalla "Storia vera" di Luciano in avanti, le esagerate affermazioni di veridicità suonano come segnale di finzione, ma spesso in un romanzo si mescolano in modo così stretto fatti fantastici e riferimenti al mondo reale che molti lettori perdono la bussola.

Così accade che prendano sul serio i romanzi come se parlassero di cose realmente accadute e che attribuiscano all'autore le opinioni dei personaggi. E vi assicuro, come autore di romanzi, che al di là, diciamo, delle 10 mila copie, si passa dal pubblico abituato alla finzione narrativa al pubblico selvaggio per cui il romanzo viene letto come sequenza di affermazioni vere, così come al teatro dei pupi gli spettatori insultavano il fellone Gano di Maganza.

Mi ricordo che nel mio romanzo "Il pendolo di Foucault" il personaggio Diotallevi, per burlarsi dell'amico Belbo che usa ossessivamente il computer, gli dice a pagina 45 "la Macchina esiste, certo, ma non è stata prodotta nella tua valle del silicone". Un collega che insegna materie scientifiche mi aveva sarcasticamente osservato che la Silicon Valley si traduce Valle del Silicio.

Gli avevo detto che sapevo benissimo che i computer si fanno col silicio (in inglese "silicon"), tanto è vero che se fosse andato a vedere la pagina 275 avrebbe letto che, quando il signor Garamond dice a Belbo di mettere nella "Storia dei metalli" anche il computer perché fatto col silicio, Belbo gli risponde: "Ma il silicio non è un metallo, è un metalloide". E gli ho detto che a pagina 45 anzitutto non parlavo io bensì Diotallevi, che aveva pur diritto di non sapere né le scienze né l'inglese, ma che in secondo luogo era chiaro che Diotallevi si stava burlando delle cattive traduzioni dall'inglese, come chi parlasse di un "hot dog" come di un cane caldo. Il mio collega (che diffidava degli umanisti) ha sorriso con scetticismo, ritenendo che la mia spiegazione fosse un povero rappezzo.

Ecco il caso di un lettore che, sebbene istruito, anzitutto non sapeva leggere un romanzo come un tutto, collegando le sue varie parti, in secondo luogo era impermeabile all'ironia, e infine non distingueva tra opinioni dell'autore e opinione dei personaggi. A un non-umanista del genere il concetto di "fare finta" era ignoto. Finzione | libri | bugie © Riproduzione riservata

da - http://espresso.repubblica.it/dettaglio/mentire-e-far-finta/2155730/18
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« Risposta #106 inserito:: Luglio 25, 2011, 12:21:40 pm »

L'opinione



di Umberto Eco

Ci sono lettori che non sanno distinguere tra finzione e realtà: prendono sul serio la storia, non cercano di trarne insegnamenti e non si identificano nei personaggi. E sono più di quanti pensiamo

(21 luglio 2011)

Ricordavo nella precedente "bustina di minerva" che moltissimi lettori provano difficoltà a distinguere, in un romanzo, la realtà dalla finzione, e tendono ad attribuire all'autore passioni o pensieri dei suoi personaggi. A conferma, trovo ora in Internet un sito che registra pensieri di vari autori, e tra le "frasi di Umberto Eco" trovo questa: "L'italiano è infido, bugiardo, vile, traditore, si trova più a suo agio col pugnale che con la spada, meglio col veleno che col farmaco, viscido nella trattativa, coerente solo nel cambiar bandiera a ogni vento". Non è che non ci sia qualcosa di vero, ma si tratta di un luogo comune secolare messo in giro da autori stranieri, e nel mio romanzo "Il cimitero di Praga" questa frase la scrive un signore che nelle pagine precedenti ha manifestato pulsioni razziste a 360 gradi usando i cliché più frusti. Cercherò di non mettere mai in scena personaggi banali, altrimenti un giorno mi verranno attribuiti filosofemi come "di mamma ce n'è una sola".
Ora leggo l'ultimo "Vetro soffiato" di Eugenio Scalfari, che riprende la mia Bustina precedente e solleva un nuovo problema. Scalfari consente al fatto che ci siano persone che scambiano la finzione narrativa per la realtà, ma ritiene (e ritiene giustamente che io ritenga) che la finzione narrativa può essere più vera del vero, ispirare identificazioni, percezione di fenomeni storici, creare nuovi modi di sentire, eccetera. E figuriamoci se non si può essere d'accordo con questa opinione.

Non solo, la finzione narrativa consente anche esiti estetici: un lettore può benissimo sapere che madame Bovary non è mai esistita e tuttavia godere del modo con cui Flaubert costruisce il suo personaggio. Ma ecco che proprio la dimensione estetica ci riporta per opposto alla dimensione "aletica" (che cioè ha a che fare con quella nozione di verità condivisa dai logici, dagli scienziati o dai giudici che in tribunale debbono decidere se un testimone ha detto o meno come sono andate le cose). Sono due dimensioni diverse, guai se un giudice si commuovesse perché un colpevole racconta esteticamente bene le sue bugie; e io mi stavo occupando della dimensione aletica, tanto è vero che la mia riflessione era nata all'interno di un discorso sul falso e la bugia. E' falso dire che una lozione di Vanna Marchi fa ricrescere i capelli? E' falso. E' falso dire che don Abbondio incontra due bravi? Dal punto di vista aletico sì, ma il narratore non vuole dirci che quanto racconta sia vero bensì finge che sia vero e chiede anche a noi di far finta. Ci chiede, come raccomandava Coleridge, di "sospendere l'incredulità".
Scalfari cita il "Werther" e noi sappiamo quanti giovani e giovinette romantici si siano uccisi identificandosi col protagonista. Forse credevano che la storia fosse vera? Non è necessario, così come noi sappiamo che Emma Bovary non è mai esistita eppure ci commoviamo sino alle lacrime sulla sua sorte. Si riconosce che una finzione è una finzione eppure ci s'immedesima a fondo nel personaggio.

E' che intuiamo che se madame Bovary non è mai esistita, sono esistite tante donne come lei, e un poco come lei siamo forse anche noi, e si ricava una lezione sulla vita in genere e su noi stessi. I greci antichi credevano che le cose accadute a Edipo fossero vere e ne traevano occasione per riflettere sul fato. Freud sapeva benissimo che Edipo non era mai esistito, ma ne leggeva la vicenda come lezione profonda su come vadano le cose dell'inconscio.
Che cosa accade invece ai lettori di cui parlavo io, quelli che non sanno assolutamente distinguere tra finzione e realtà? La loro situazione non ha valenze estetiche, perché sono talmente preoccupati a prendere sul serio la storia che non si chiedono se sia raccontata bene o male; non cercano di trarne insegnamenti; non si identificano affatto nei personaggi. Semplicemente manifestano quello che definirei un deficit finzionale, sono incapaci di "sospendere la credulità". Siccome questi lettori sono più di quanti pensiamo, vale la pena di occuparsene proprio perché sappiamo che tutte le altre questioni estetiche e morali a loro sfuggono.

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« Risposta #107 inserito:: Agosto 12, 2011, 05:33:40 pm »


La bustina

Santanchè: risorgi, mento

di Umberto Eco

Due professori universitari si sono concessi un libretto di giochi di parole. Millecinquecento esempi, la maggior parte di carattere osceno, ma decisamente divertenti: "Lui le nega il seme, lei si offende: spermalosa'

(09 agosto 2011)

Giochi di parole. Sandro Volpe e Alberto Voltolini, che non sono due umoristi professionisti ma professori universitari, si sono concessi un libretto di giochi di parole ("Mai ali che volano alto", Duepunti edizioni). Un benpensante lamenterebbe che, in questa raccolta di circa millecinquecento giochi di parole, la maggior parte sia di carattere osceno, se non altro per diffidenza verso la papirologia goliardica. Però una volta accettato il gioco, ben venga l'oscenità. Loderei pertanto "Il Parlamento in mano alle escort: Monte Clitorio" e "Lui le nega il seme, lei si offende: spermalosa".

L'altro appunto è che, facendo vorticare la lingua come un cabalista, la combinatoria produce anche risultati non inediti, come "Amletica leggera" (era una collana di libri ludici editi da Bompiani negli anni Settanta) e lo "Sturm und drangheta" con cui avevo definito anni fa un noto signore che oscilla tra cultura e mafia. Ma, volendo scegliere tra i giochi che possano, come Tasso voleva, essere letti anche dalle monache, sceglierei i seguenti.

Miracoli non riusciti: le cozze di Cana. Per uscire dalla Chiesa, chiede il nulla ostia. Bulimia: colazione a ripetere. Preferisce i formaggi francesi: colesterofilo. Miracolosa moltiplicazione dei pesci: alici nel paese delle meraviglie. Paura di volare sui cieli tedeschi: Luftansia. Anche Silvio ha commesso un errore: ha usato la brillantina Minetti. Il gatto di Berlusconi: Micio Gelli. Per la Santanchè non c'è contraddizione tra amare la patria e darsi alla chirurgia estetica: risorgi, mento. In diretta da Gaza: Striscia la notizia. Classifica gioielli: collazione da Tiffany. Adamo ed Eva: la solitudine dei sumeri primi.

Per Chomsky, l'unico aspetto da studiare del linguaggio è la sintassi: torna a casa, lessico. Uomini che odiano le donne: gayatollah. Gengis Khan mangiava bambini a fine pasto: il dessert dei tartari. Vendola la nuova speranza della sinistra: Lecce l'omo. Adatterei alla politica educativa del presente ministero: Roma Cepu mundi. Come piccolo capolavoro un poco ermetico citerei: Ma se Levi Strauss cosa rimane? Norma Jeans.

Letteratura a garganella. Da qualche anno, nella serata finale del premio Strega, il vincitore si attacca al collo della bottiglia del liquore omonimo e ne beve a garganella. Io ho vinto un premio Strega trent'anni fa, ma a quei tempi quel gentiluomo di Guido Alberti non faceva neppure vedere la bottiglia, l'eletto prendeva l'assegno (di entità nobilmente simbolica), lo mostrava ai fotografi, e tutto finiva lì. Immagino che l'idea di far attaccare i poveri vincitori al collo della bottiglia sia di qualche pubblicitario. Se questa sgradevole abitudine aumenta le vendite del liquore come il premio aumenta le vendite del libro, non parlo più, "pecunia non olet". Ma, visto che si tratta di un liquore dolce, se il vincitore ha la glicemia alta come dovrà regolarsi?

E' la traduzione, bellezza. Stefano Passigli concludeva uno dei suoi interventi sul referendum per la legge elettorale ("La Stampa", 4 luglio scorso) con: "E' la "democrazia rappresentativa", bellezza". La battuta si riferiva a quella detta da Humphrey Bogart, nel film "L'ultima minaccia" dove Borgart faceva sentire il rumore delle rotative e concludeva: "E' la stampa, bellezza, e tu non puoi farci nulla!". Cito a memoria, ma l'espressione è diventata proverbiale in questa forma.

In realtà l'originale recitava: "That's the power of the press, baby, the power of the press. And there's nothing you can do about it". L'inglese è più ridondante dell'italiano, e questo spiega perché da noi la citazione sia diventata classica mentre in un sondaggio fatto anni fa in America sulle battute cinematografiche più memorabili aveva vinto la frase finale di "Via col vento" (Clark Gable: "Frankly, my dear, I don't give a damn", ovvero "Francamente me ne infischio") ma questa di Bogart non era stata citata da nessuno.

Morale? Non ha niente a vedere con la politica, ma molto con la traduttologia: spesso le traduzioni, invece di tradire, migliorano.


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« Risposta #108 inserito:: Agosto 26, 2011, 06:33:15 pm »

Che bel libro: costa 230 euro

di Umberto Eco

L'editore Forni ripubblica il 'Mundus Subterraneus', straordinaria opera del naturalista seicentesco Athanasius Kircher.

Chi era? Un gesuita affascinato dai vulcani, dai draghi e dalle maree. A cui la scienza deve molto

(24 agosto 2011)

L'editore Forni pubblica una seconda edizione dell'anastatica del "Mundus subterraneus" (terza edizione, la più completa, 1678) di Athanasius Kircher. Il fatto che questa anastatica, dopo essere apparsa qualche anno fa, sempre a cura Gian Battista Vai, in occasione di un congresso internazionale di geologi, venga ora ristampata, malgrado il prezzo non trascurabile di 230 euro (ma se volete l'originale, di euro dovreste spenderne intorno ai 10 mila), ci dice quanto questo libro sia affascinante sia per i cultori del meraviglioso, per le sue incisioni di mostri e fiamme sotterranee, sia per gli specialisti che lo considerano uno dei primi contributi scientifici alla vulcanologia.

Athanasius Kircher è rimasto più famoso per i suoi errori scientifici che non per le sue scoperte più o meno attendibili. Ma forse l'opera in cui egli dispiega maggiormente le sue qualità di osservatore è proprio questa, che era stata presa molto sul serio già ai suoi tempi - prima che il libro apparisse Oldenburg ne scriveva a Boyle, e Spinoza ne aveva inviato una copia a Huygens.

Naturalmente anche in quest'opera Kircher non si smentisce: ingordo e insaziabile ci parla della luna e del sole, delle maree, delle correnti oceaniche, delle eclissi, di acque e fuochi sotterranei, di fiumi, laghi e sorgenti del Nilo, di saline e miniere, di fossili, metalli, insetti ed erbe, di distillazione, fuochi d'artificio, generazione spontanea e pansmermia, ma con la stessa disinvoltura ci racconta (e ci mostra le immagini) di draghi e di giganti (e d'altra parte naturalisti illustri, da Aldrovandi a Johnston, dei draghi non potevano fare a meno - infine, Kircher mostra di sapere qualcosa dell'iguana, e se avete mai visto un iguana capite che si possono prendere sul serio anche i draghi).

Ma di tutti gli aspetti del "Mundus" vorrei tenerne presente uno, che forse è quello che meno interessa il geologo ma è di grande importanza per la storia della cultura. Nell'undecimo libro della sua opera Kircher decide di fare i conti con l'alchimia. Da un lato va a rileggersi tutta la tradizione alchemica, dalle fonti antiche (ovviamente si parte da Ermete Trismegisto, ma non trascura fonti copte ed ebraiche, nonché la tradizione araba) allo pseudo Lullo, ad Arnaldo di Villanova, a Ruggero Bacone, a Basilio Valentino e via dicendo; dall'altro allestisce nel suo laboratorio (e ci fa vedere) varie specie di forni, colleziona ricette secolari, le prova, ne critica la vaghezza o vanità, ed è chiaro che per provare (e riprovare) tutta una serie di precetti tradizionali, egli aveva accolto alla sua corte una pletora di gaglioffi per farsi insegnare i loro marchingegni.

Cercando di individuare tra tutti i procedimenti alchemici quelli sperimentalmente spiegabili senza ricorrere ad alcuna ipotesi di Pietra Filosofale, Kircher distingue tra chi crede che la trasmutazione alchemica sia impossibile ma persegue egualmente le ricerche chimiche per altri scopi, e chi vende imitazioni di oro e argento e fa commercio della propria cialtroneria. Non era cosa da poco per i suoi tempi, misurarsi criticamente con Paracelso, scagliarsi contro autorità riconosciute come Sendivogio o Robert Fludd, e vibrare sciabolate quasi esorcistiche contro la tradizione rosacrociana che stava da circa quarant'anni seducendo mezza Europa. Va bene, Kircher era gesuita, e si allineava con la cultura controriformista contro la tradizione protestante da cui provenivano i manifesti dei Rosa-Croce, ma insomma, si batte per una visione più razionale e sperimentale della chimica a venire, in pieno Seicento, e quando la tradizione alchemica sarebbe continuata tranquillamente sino a oggi (basta visitare le librerie di paccottiglia pseudo ermetica).

E' difficile classificare Kircher, che ha vissuto tutta la sua esistenza tra affabulazione incontenibile e alcune intuizioni quasi giuste. Personaggio barocco se mai ve ne furono, ha finito ai giorni nostri con l'incantare più i surrealisti che gli scienziati. Ed è dunque giusto che dagli scienziati sia oggi anastaticamente ricordato.

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« Risposta #109 inserito:: Settembre 09, 2011, 05:49:28 pm »

Ma i cani parlano o no?

di Umberto Eco

Tra scienza e filosofia, la domanda sulle loro capacità di ragionamento è antichissima.

Certo è che emettono voci diverse in situazioni diverse. E che qualcosa intendono dire

(01 settembre 2011)

Una signora, che andava con una amica per funghi, punta da una vespa è presa da choc anafilattico, non respira più, l'amica telefona per attivare soccorsi, ma i soccorsi tardano ad arrivare perché le due donne sono in un bosco fittissimo ed è difficile individuarle. Allora Queen, il cane (ma immagino fosse una cagna) dell'amica, invece di star lì come l'istinto le comanderebbe, a leccare guaendo la mano alla moribonda, parte come un razzo, attraversa il bosco, trova i soccorritori e li guida nel posto giusto.

Come commenta Danilo Mainardi sul "Corriere della sera" del 21 agosto scorso, non siamo di fronte a un semplice comportamento istintivo; siamo di fronte a un comportamento "intelligente", in cui il cane non risponde al comando dell'istinto (non allontanarsi dal ferito), ma elabora "un piano complesso comprendente anche il coinvolgimento di altri individui".

Il caso, e i commenti di Mainardi, richiamano alla mente una letteratura antichissima e vastissima sulle capacità di ragionamento dei cani. Uno dei testi che ha maggiormente influenzato i posteri è la "Storia Naturale" di Plinio, che si occupa della voce dei pesci e degli uccelli, ma si diffonde ampiamente sull'intelligenza canina, cita un cane che aveva riconosciuto fra la folla l'assassino del suo padrone e con i suoi morsi e con il suo abbaiare lo aveva costretto a confessare il delitto, o il cane di un condannato a morte che ululava mestamente, quando uno spettatore gli aveva gettato del cibo lo aveva accostato alla bocca del morto, e quando il cadavere era stato buttato nel Tevere si era gettato a nuoto, nel tentativo di sostenerlo.

Ma la discussione più filosoficamente interessante si era già sviluppata da almeno tre secoli in un dibattito tra stoici, accademici ed epicurei. Nell'ambito della discussione stoica appare un argomento attribuito a Crisippo, che verrà ripreso e popolarizzato quasi cinque secoli dopo da Sesto Empirico. Sesto riteneva che il cane fosse capace di ragionamento logico, prova ne fosse che un cane, arrivato a un trivio, e avendo riconosciuto con l'odorato che la preda non ha imboccato due delle strade, si precipita subito per la terza senza neppure annusare. In effetti il cane farebbe in qualche modo questo ragionamento: "La preda o ha preso questa via o quella, oppure quell'altra; ora non è né questa né quella; e dunque è l'altra" (che sarebbe esempio di un ragionamento detto del "quinto indimostrabile").

Sesto ricordava inoltre che il cane possiede un "logos" perché sa togliersi le schegge e pulirsi le piaghe, tiene immobile l'arto malato, e individua le erbe che possono lenire le sue sofferenze. Quanto a un linguaggio animale, è vero che noi non comprendiamo le voci degli animali, ma non comprendiamo neppure le voci dei barbari, i quali pure parlano; e i cani certamente emettono voci diverse in situazioni diverse.

Potremmo continuare citando il "De sollertia animalium" di Plutarco, dove si dice che certo la razionalità animale è imperfetta rispetto a quella umana, ma queste differenze intercorrono anche tra esseri umani; e in un altro dialogo, "Bruta animalia ratione uti", a chi obietta come sia una forzatura attribuire la ragione a esseri che non hanno una nozione innata della divinità, Plutarco risponde ricordando che anche tra gli esseri umani ci sono degli atei.

Ne "La natura degli animali" di Eliano, oltre agli argomenti già visti, si citano cani che si innamorano di esseri umani. Nel "De abstinentia" di Porfirio gli argomenti in favore dell'intelligenza animale servono a sostenere una tesi "vegetariana". Tutti temi che verranno variamente ripresi in era moderna e sino ai giorni nostri.

Ma fermiamoci qui: anche se non si riesce a definire bene l'intelligenza canina, dovremmo essere più sensibili a questo mistero. E se proprio si fa fatica a diventare vegetariani, almeno che padroni meno intelligenti di loro non abbandonino i cani in autostrada.

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« Risposta #110 inserito:: Ottobre 07, 2011, 04:43:40 pm »

Cultura

E stasera mi leggo La Ficheide

di Umberto Eco

Niente battute, è un'opera seria del 1589 ripubblicata in Francia con il titolo 'La chanson de la figue'.

Del XVII secolo è invece 'La rettorica delle puttane' e del '700 è un saggio in cui si riflette sull'origine della parola 'becco'.

Viaggio di inizio autunno in una libreria antiquaria

(04 ottobre 2011)

La ficheide di Annibal Caro "La ficheide" di Annibal CaroTempo fa, in un'altra Bustina, avevo raccontato delle sorprese che riservano alcuni cataloghi di librai antiquari. Non tanto quando registrano incunaboli famosi e costosissimi, scatenandoti furiosi accessi d'invidia e di insoddisfatto desiderio di possesso, ma quando ti parlano di libri curiosi, dimenticati dalla storia delle lettere e delle scienze, dai titoli improbabili che suggeriscono contenuti deliranti; talché non t'importa tanto possederli quanto immaginare che cosa potrebbero raccontare.

Ho ora tra le mani l'ultimo catalogo della libreria antiquaria Rovello che, accanto a varie opere imprescindibili, ne elenca alcune che suscitano l'interesse del lettore curioso proprio per la loro saporosissima marginalità.

Tanto per cominciare si trova l'operetta ottocentesca di tal Fréderic-Charles Baer, "Essai historique sur l'Atlantique des anciens", che non è né il primo né l'ultimo tentativo di risolvere il mistero di Atlantide ma certamente lo risolve in modo originale, dimostrando con dovizia di notizie storiche, prove etimologiche, una antologia dei testi platonici in materia e due bellissime carte geografiche, che la mitica Atlantide altro non era che la terra degli ebrei, e pertanto la Palestina. Il sospetto che questo Baer fosse un ebreo esageratamente sionista è fugato dal fatto che in frontespizio si definisce (oltre che membro dell'accademia svedese delle scienze) come elemosiniere della cappella reale di Svezia a Parigi, e pertanto doveva essere un protestante.

Sorvolo su un libro ben noto agli studiosi del Seicento, ma che spicca in ogni caso per un suo bel titolo, "La rettorica delle puttane" di Ferrante Pallavicino, e mi soffermo su G. B. Modio, "Il convito, ovvero del peso della moglie. Dove ragionando si conchiude che non può la donna disonesta far vergogna all'huomo ", del 1558 (ma la prima edizione è 1554). Un buon catalogo ti fa venir voglia di andare poi a cercare altre notizie sul libro, e apprendo che il Modio, inserendosi in una antica polemica misogina, tuttavia sostiene che l'adulterio femminile non lede la buona fama del marito, il che era un modo assai pionieristico per delegittimare il delitto d'onore.

Non che Modio fosse un femminista perché considerava la femmina più lasciva e dunque più incline all'adulterio dell'uomo (il quale non è adultero se va a soddisfare i suoi bisogni con le meretrici), ma se volete qualcosa di veramente antifemminista il catalogo ci offre "Lo Scoglio dell'Umanità, ossia Avvertimento salutare alla Gioventù per cautelarsi contro le male qualità delle donne cattive", sotto lo pseudonimo di Diunilgo Valdecio, 1774. In compenso il Modio è ricco di argute riflessioni sul perché il marito tradito si chiami "becco" visto che il caprone non è animale geloso, e forse si chiama cornuto perché gli animali con le corna, vegetariani, sono più mansueti, tolleranti e meno aggressivi. Ma un'altra possibile etimologia rinvia a "cornucopia" a causa dei benefici che l'adulterio della moglie può procurare al marito.

Altro item a prima vista promettente è "La Chanson de la figue" (Parigi 1886), ma è la tarda traduzione di "La ficheide", del 1539, opera di Annibal Caro. Tuttavia il titolo che mi ha fatto saltar sulla sedia perché ho avuto l'impressione che ci parli delle cose d'oggi è il "Dictionnaire des girouettes" di Aymery Alexis, seconda edizione 1815, il cui titolo non brevissimo, tradotto in italiano, suona: "Dizionario dei voltagabbana... Opera in cui sono riportati discorsi, proclami, canzoni, estratti d'opere scritte sui governi che sono apparsi in Francia negli ultimi venticinque anni; e ove si citano i posti, i favori, i titoli che hanno ottenuto in diverse circostanze uomini di Stato, letterati, generali, artisti, cantanti, vescovi, prefetti, giornalisti, ministri, eccetera, ...".

Ed è un vasto dizionario biografico in cui appaiono da Fouché a Murat (che aveva giurato fedeltà alla Repubblica per diventare poi re di Napoli), sino a Chateaubriand e altri illustri opportunisti, in gran parte eccellenti saltatori da Napoleone alla Restaurazione.

Ovvero, niente di nuovo sotto il sole.


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« Risposta #111 inserito:: Ottobre 26, 2011, 04:54:18 pm »

Opinione

Il tramonto della barzelletta

di Umberto Eco

Per gli artisti del genere Berlusconi ha reso indecorosa l'abitudine di raccontarle.

Non per motivi politici ma squisitamente estetici: le racconta male. Un empito di vergogna collettiva sta uccidendo la nobile arte

(13 ottobre 2011)

Tutti o quasi tutti sanno che la domanda "chi inventa le barzellette?" non ha risposta. Nessuno inventa ex novo una barzelletta: la barzelletta si forma a poco a poco, come elaborazione collettiva, parte da uno spunto (una battuta detta a tavola, un qui pro quo, un incidente minimo che fa ridere gli astanti) e si trasforma gradatamente di bocca in bocca diventando una storia compiuta. Ciascuno corregge e arricchisce il racconto che gli era pervenuto, sino a che la barzelletta si assesta in una sua forma ideale, rispetto a cui chi la ri-racconta male viene severamente sanzionato dal sentire comune.

In tal senso le barzellette sono piccole opere d'arte. Chi le riprende perfezionandole ha intenti artistici, e proprio per questa loro natura creativa (attiva e non passiva) accade che si ami più raccontarle (volta per volta laminandole e tornendole) che sentirsele raccontare - ovvero ci si sottomette al sacrificio di ascoltarle solo nella speranza di apprenderne una che ancora non si conosceva e che attendeva l'interprete ideale per poter essere portata alla estrema perfezione - perfezione che non si realizza necessariamente per arricchimento dei particolari, ma sovente per sottrazione, distillazione, sublimazione, riduzione fulminea alla quintessenza.
Poi (e rinvio al classico "Trattato delle barzellette" di Achille Campanile) la barzelletta può consumarsi, esprimere un senso del comico o dello humour che ha fatto il suo tempo, e rimane solo a testimoniare le ingenuità dei nostri avi.

Ora una delle condizioni per l'esistenza e lo sviluppo delle barzellette è il lavoro complice della comunità. Le barzellette devono essere comunicate da esperto a esperto in modo da essere riprese e raffinate, e chi di solito le racconta appartiene a una società di degustatori che se le comunicano, pratica che si è arricchita con Internet e la e-mail, dove possono arrivare barzellette fresche fresche da paesi lontani.

Tuttavia (nel nostro paese) gli artisti della barzelletta, da almeno due anni, lamentano di non averne più da raccontare. Coloro che arrivavano alla sera al bar annunciando "sentite l'ultima" (spesso suscitando le proteste delle vittime) ora arrivano e alla domanda se abbiano l'ultima, scuotono tristemente il capo. La fonte delle loro barzellette si è misteriosamente inaridita.

Ci stavamo ponendo domande sulle ragioni di questa quasi improvvisa penuria (il buco nell'ozono, la liquefazione dei ghiacciai, l'iPad?) quando qualcuno ha enunciato la vera verità. La colpa è di Berlusconi, e questa volta non sono i giudici comunisti a dirlo, ma la "vox populi". Berlusconi ha reso indecorosa l'abitudine di raccontar barzellette. Forse il fenomeno si sarebbe verificato anche se lui le avesse sempre raccontate bene e nelle circostanze giuste, semplicemente per rifiuto di qualcosa che lui fa sovente, e sarebbe stato per ragioni extranarrative, di carattere politico, ideologico, come se qualcuno rifiutasse per livore antiberlusconiano la giacca doppiopetto. Ma la ragione è invece squisitamente estetica. E' che Berlusconi, forse non sempre, ma certamente tutte le volte che lo ha fatto in pubblico ed è stato ripreso da YouTube, le barzellette le ha raccontate male.

La barzelletta della mela era protratta per un tempo insostenibile, a tal punto che il suo uditorio di sostenitori rideva più volte (e senza ragione) nel corso del racconto credendo (o sperando) che ormai la storia fosse finita. La barzelletta di birra e champagne aveva tre orribili difetti: nell'originale, tramandato dai cesellatori di storielle, la cosa si svolgeva tra un italiano, un francese e un tedesco; la storia non era oscena perché lo champagne veniva versato - e poi delibato - su un seno coperto da una vestaglia trasparente e non dove diceva Berlusconi; e alla fine Berlusconi, toccato dal fatto che il suo uditorio non rideva, ha spiegato la barzelletta, cosa che un gentiluomo non dovrebbe mai fare.

Ed ecco perché nessuno trasmette più barzellette, così come non bacerebbe la mano a Gheddafi e non farebbe le corna qualora fosse fotografato, che so, col Papa. Un empito di vergogna collettiva ha ucciso la nobile arte della barzelletta.

 
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« Risposta #112 inserito:: Novembre 03, 2011, 11:34:30 pm »

Perché l'uomo tende all'odio

di Umberto Eco

Silvio detesta tutti i comunisti, Bossi tutti i meridionali, così come Appelius malediva tutti gli inglesi. Perché l'odio è un sentimento che in un solo colpo abbraccia immense moltitudini. Quindi è facile e appagante. Mentre l'amore è selettivo, quindi più difficile

(03 novembre 2011)


Negli ultimi tempi ho scritto sul razzismo, sulla costruzione del nemico e sulla funzione politica dell'odio per l'Altro o il Diverso. Credevo di aver detto tutto, ma in una recente discussione col mio amico Thomas Stauder è emerso (e sono quei casi in cui non ci si ricorda più chi ha detto una cosa e chi l'altra, ma le conclusioni coincidevano) qualche elemento nuovo (o almeno, nuovo per me).

Noi tendiamo, con una leggerezza un poco presocratica, a intendere odio e amore come due opposti, che si fronteggiano simmetricamente, come se ciò che non amiamo lo odiassimo e viceversa. Tra i due poli ci sono invece, e ovviamente, infinite sfumature. Anche se usiamo i due termini in modo metaforico, il fatto che io ami la pizza ma non vada pazzo per il sushi non vuol dire che il sushi lo odi. Mi piace meno della pizza. E prendendo i due termini nel loro senso proprio, che io ami una persona non significa che odi tutte le altre, all'opposto dell'amore ci può essere benissimo l'indifferenza (amo i miei figli e mi era indifferente il tassista che mi ha preso a bordo due ore fa).

Ma il vero punto è che l'amore isola. Se amo follemente una donna, pretendo che lei ami me e non altri (almeno non nello stesso senso), una madre ama appassionatamente i suoi figli e desidera che essi amino in modo privilegiato lei (mamma ce n'è una sola) né sentirebbe mai di amare con la stessa intensità i figli altrui. Dunque l'amore è a modo proprio egoista, possessivo, selettivo.
Certo, il comandamento dell'amore impone di amare il nostro prossimo come noi stessi (tutti, sei miliardi di prossimi), ma questo comandamento in pratica ci raccomanda di non odiare nessuno, e non pretende che noi amiamo un eschimese sconosciuto come nostro padre o nostro nipote.

L'amore privilegerà sempre il mio nipotino su un cacciatore di foche. E anche se non penserò (come vuole la nota leggenda) che non mi importa niente se muore un mandarino in Cina (specie se ciò potrebbe procurarmi un qualche vantaggio) e saprò che la campana suona sempre anche per me, sarò sempre più toccato dalla morte di mia nonna che non da quella del mandarino.

Invece l'odio può essere collettivo, e deve esserlo per i regimi totalitari, così che da piccolo la scuola fascista mi chiedeva di odiare "tutti" i figli di Albione e Mario Appelius recitava ogni sera alla radio il suo "Dio stramaledica gli inglesi". E così vogliono le dittature e i populismi, e spesso anche le religioni nella loro versione fondamentalista, perché l'odio per il nemico unisce i popoli e li fa ardere tutti di un identico fuoco. L'amore mi scalda il cuore nei confronti di poche persone, l'odio riscalda il cuore mio, e quello di chi sta dalla mia parte, nei confronti di milioni di persone, di una nazione, di un'etnia, di gente dal colore o dalla lingua diversa. Il razzista italiano odia tutti gli albanesi o i romeni o gli zingari, Bossi odia tutti i meridionali (e se percepisce poi uno stipendio pagato anche con le tasse dei meridionali, questo è proprio il capolavoro della malevolenza, dove all'odio si unisce il piacere del danno e della beffa), Berlusconi odia tutti i giudici e ci chiede di fare altrettanto, e di odiare tutti i comunisti, anche a costo di vederli dove non ci sono più.

L'odio non è quindi individualista bensì generoso, filantropico, e abbraccia in un solo afflato immense moltitudini. E' solo nei romanzi che ci viene detto come sia bello morire per amore; di solito è raffigurata come bellissima la morte dell'eroe che lo coglie mentre scaglia una bomba contro l'odiato nemico.

Ecco pertanto perché la storia della nostra specie è stata sempre maggiormente segnata dall'odio, e dalle guerre, e dai massacri, e non dagli atti d'amore (meno confortevoli e spesso faticosissimi qualora si vogliano estendere oltre la cerchia del nostro egoismo). La nostra propensione alle delizie dell'odio è così naturale che risulta facile coltivarla ai reggitori di popoli, mentre all'amore ci invitano solo esseri scostanti che hanno la disgustosa abitudine di baciare i lebbrosi.

 
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« Risposta #113 inserito:: Novembre 20, 2011, 05:08:27 pm »

Opinioni

Halloween, i celti e il relativismo

di Umberto Eco

Secondo alcuni cattolici la festa delle zucche illuminate è relativista ed è una forma di americanismo deteriore.

Eppure è nata in Europa dove, pur avendo origini pagane, è stata cristianizzata

(10 novembre 2011)

In occasione di Ognissanti si sono levate da parte cattolica molte condanne dello Halloween, la ricorrenza in cui si illuminano dall'interno le zucche e i bambini vanno in giro travestiti da streghette e vampiri chiedendo dolci agli adulti. Siccome la festa, che cerca di esorcizzare l'idea della morte, si presenterebbe come alternativa alla celebrazione e dei Santi e dei Defunti, l'usanza, accusata di americanismo deteriore, è stata anche bollata come forma di "relativismo".

Non so bene in che senso Halloween sia relativista, ma accade al relativismo quello che accadeva all'epiteto "fascista" nel Sessantotto, per cui era fascista chiunque non la pensava come te. Preciso inoltre che non nutro una particolare passione per Halloween (se non perché l'amava Charlie Brown) e so benissimo che la festa in America viene usata da satanisti e pedofili per abusare dei bambini che i genitori hanno la dabbenaggine di lasciar uscire di sera. Obietto solo al fatto che si tratti di deteriore importazione dall'America. Ovvero, lo è, ma di ritorno, perché Halloween è nata come festa pagana nell'Europa celtica e in certi paesi dell'Europa del Nord dove è stata in qualche modo cristianizzata.

E' accaduto insomma ad Halloween quello che è accaduto a Santa Claus, che in origine era San Nicola di Bari, che poi era turco, e pare che dalla festa olandese di Sinterklaas (il compleanno del Santo) sia venuto appunto Santa Claus. Poi Babbo Natale si è fuso con Odino, che nella mitologia germanica portava doni ai bambini, ed ecco la parentela tra un rito pagano e una festa cristiana.

Personalmente sono in polemica anche con Babbo Natale, perché a me i doni li portavano e Gesù Bambino e i Re Magi - e per questo sono andato recentemente a controllare nella cattedrale di Colonia se i resti dei tre re sono ancora lì, dopo che Rainaldo di Dassel e il Barbarossa li avevano rubati a Sant'Eustorgio in Milano. Ma già ai miei tempi mi irritava che alcuni bambini, anziché ai Re Magi, dessero credito alla Befana - che tra l'altro è anch'essa figura di origini pagane, molto vicina alle streghe di Halloween, e se le gerarchie ecclesiastiche non se la sono presa troppo con lei è perché si era in qualche modo cristianizzata ispirando il proprio nome all'Epifania. Per cui, dopo la Conciliazione, fu accettata anche la Befana Fascista.

Nella polemica su Halloween una voce fuori coro è stata quella di Roberto Beretta ("Avvenire" del 23 ottobre), che ha suggerito prudenza nello sparar anatemi e indire crociate pastorali perché con Halloween "la Chiesa vien ripagata della sua stessa moneta. Già. Fu almeno dal IV secolo, infatti, che la saggezza dei Padri... ha preferito mediare anziché cancellare, sovrapporsi e trasfigurare piuttosto che annullare, incenerire, seppellire, censurare. Ovvero: le feste pagane, i nostri antenati le hanno sapute "cristianizzare"".

E basta ricordare che lo stesso Natale è stato fissato il 25 dicembre (data alla quale nessun Vangelo suggerisce che Gesù sia nato, e anzi secondo calcoli astronomici la stella avrebbe dovuto apparire d'autunno) per venire incontro agli usi pagani e alle tradizioni germaniche e celtiche in cui si celebrava Yule, ovvero la festa del solstizio d'inverno, da cui viene anche l'albero di Natale (ma io sono di quelli che preferiscono il presepio francescano, perché richiede più fantasia, mentre un albero di Natale lo sa decorare anche una scimmia dovutamente addestrata).

Dunque - anziché strapparsi le vesti - basterebbe cristianizzare anche Halloween, come suggerisce sempre Beretta: "Se dunque Halloween (che, ricordiamolo, significa letteralmente "vigilia di Ognissanti") dovesse riprendere le sue vesti celtiche - vere o presunte che siano - o piuttosto ammantarsi di lustrini consumistici oppure celarsi sotto rituali più o meno "satanici", non farebbe che riappropriarsi di un territorio già suo; e a noi resterebbe semmai da meditare come e perché non ci sia data la forza culturale (e fors'anche spirituale) per ripetere l'impresa dei nostri antedecessori".

   
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« Risposta #114 inserito:: Dicembre 03, 2011, 05:52:11 pm »

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Discussione

Il classico? La scelta migliore

di Umberto Eco

Aumentano le iscrizioni al liceo nonostante l'opinione pubblica consideri sorpassato il tempo degli studi umanistici.

Ed è un dato positivo.
Perché anche nel mondo della tecnologia l'avvenire è di chi sappia ragionare. Proprio quello che assicura una preparazione umanistica

(30 novembre 2011)

Leggevo le settimane scorse di un (rinato) dibattito sulla sopravvivenza del liceo classico. Dibattito motivato dal fatto che pare che le iscrizioni al classico stiano aumentando, e proprio mentre gli allievi si lamentano di quanto siano faticosi lo studio del greco e del latino, e l'opinione pubblica ritenga che non è più tempo di dedicarsi a studi umanistici bensì a una preparazione scientifica. Idea che ha ispirato il governo a tagliare i fondi alle facoltà umanistiche - anche se peraltro non ne dà in misura sufficiente neppure alle facoltà scientifiche.

Ora nessuno più di me ritiene che ci si dovrebbe iscrivere in maggior numero alle facoltà scientifiche, che all'università molti si iscrivono a facoltà umanistiche perché sono aree di parcheggio ritenute più facili, e che bisognerebbe lavorare con incentivazioni generose per far sì che, se mancano laureati - che so - in agraria o in chimica, chi si iscrive a queste facoltà abbia borse di studio, posti in collegi universitari e altri incoraggiamenti.

Ma l'idea che alcuni ragazzi delle medie scelgano il classico, anche se appare più esigente, mi consola. Evidentemente non si tratta di "bamboccioni" ma di una élite di volonterosi (e si può essere élite anche essendo figlio di un nullatenente). Però viene avanzata l'obiezione che il figlio di nullatenente che si iscrive prima al classico e poi a una facoltà umanistica abbia molte probabilità di rimanere un nullatenente di seconda (o decima) generazione.

Qui c'è un errore. Tutti sappiamo che, per dirla in parole povere e con inevitabili anglicismi, il futuro sarà sempre più dominato dal "software" a scapito dello "hardware", ovvero dalla elaborazione di programmi più che dalla produzione di oggetti che ne consentono l'applicazione. Steve Jobs è diventato quel che è diventato non perché ha progettato degli oggetti che si chiamano computer o tavolette (che ormai li costruiscono i paesi del Terzo mondo) ma perché ha ideato programmi innovatori che hanno reso i suoi computer più efficienti e creativi di quelli di Bill Gates, che fa peggio a ogni nuova versione di Windows.

Quindi, anche nel mondo della tecnologia, l'avvenire è di chi sappia ragionare in modo da inventare programmi. E si dà il caso che chi abbia fatto una tesi di logica formale, di filologia classica, di filosofia, abbia allenato una mente più adatta a inventare programmi (che sono materia del tutto mentale) di chi abbia studiato come fabbricante di "ferraglia". Naturalmente conosco laureati in ingegneria che sanno inventare ottimi programmi ma che, appunto e guarda caso, hanno anche un'ottima cultura umanistica, e non di rado hanno studiato bene il loro latino e il loro greco al liceo.

Serve studiare greco per ideare un buon programma per computers? Sì. Perché? Non lo chiedete a una Bustina che dispone di poco spazio. Se non lo avete capito da soli, datevi al contrabbando di droga e vivrete felici e contenti.

C'era una volta un signore che si chiamava Adriano Olivetti, il quale , quando ancora i computers occupavano ciascuno una stanza - e ricordo che i tecnici del primo computer Olivetti, l'Elea, avevano perso giorni o settimane per programmarlo in modo che suonasse la prima strofa del "Ponte sul fiume Kwai" (cosa che adesso può fare anche un bambino), assumeva laureati in materie umanistiche, che magari avevano fatto una tesi (ma una buona rigorosa ricerca) su Aristotele o su Esiodo, poi li mandava a fare gavetta per sei mesi in fabbrica, perché capissero per chi dovevano lavorare, e alla fine ne faceva delle menti altamente produttive per un futuro tecnologico.

Italiani, allora, cercate certo di coltivare un poco di più le materie scientifiche, ma vi invito alle "humanitates": non abbandonate (e non condannate a morte) gli studi umanistici. Il futuro è di chi sappia con mente agile unire quelle che P. C. Snow (che non aveva capito gran che) chiamava le "due culture", ritenendole irrimediabilmente separate.

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« Risposta #115 inserito:: Dicembre 17, 2011, 11:22:56 am »

La Bustina

L'America? Chiedete a Letterman

di Umberto Eco

Da là dell'oceano non c'è solo New York, con i suoi intellettuali e i suoi gusti raffinati.

C'è anche un Paese profondo che noi conosciamo poco. Ma per capirlo, basta guardare un famoso talk show Usa, ora anche su Rai 5

(12 dicembre 2011)

Ogni tanto si legge sui giornali quanto sia bravo quel conduttore di talk show americano che si chiama David Letterman - e che anche il pubblico italiano può vedere su Rai 5. Evidentemente chi scrive non ha mai visto quel personaggio fantastico che era Johnny Carson (e a cui credo si sia poi ispirato anche Maurizio Costanzo quando ha inaugurato il talk show all'italiana). Eppure Carson ha condotto il suo "The tonight show" della NBC dal 1958 al 1992. Era un grande spettacolo, pieno di ironia, di malizia e di strizzate d'occhio, e a confronto di Carson Letterman è più sbrigativo e legnoso.

L'ultima volta che l'ho visto, Letterman stava intervistando un signore che aveva scritto un libro sulla crisi del Medio Oriente, e aveva iniziato a interrogarlo sul perché (salvo le recenti insurrezioni dalla Tunisia all'Egitto) i popoli arabi si accontentavano di vivere sotto dittatori o sceicchi che si ingrassavano sul petrolio locale tenendo i loro sudditi in soggezione politica ed economica.

Come mai, aveva domandato Letterman, questa gente accetta così il proprio destino? Eppure i Padri Pellegrini di buona memoria, nel 1620, quando in Inghilterra si erano sentiti conculcati nei loro diritti di puritani, avevano allestito il Mayflower ed erano emigrati in America, fondando nel New England il primo nucleo di un paese democratico.

L'interlocutore era rimasto così sbigottito che aveva a fatica articolato una delle risposte più ovvie: i padri pellegrini erano quattro gatti (mi pare fossero 120) e avevano a disposizione un continente ancora vuoto, mentre i poveri musulmani sono milioni e milioni e quando gli va bene possono emigrare solo in paesi e città affollatissimi che stentano ad accoglierne qualche decine di migliaia. Io avrei aggiunto che i pellegrini erano un gruppo di persone abbastanza evolute e che avevano vissuto in una Inghilterra in cui da tempo (e l'Habeas Corpus sarebbe stato proclamato entro cinquant'anni) si aveva una nozione di cosa fossero i diritti politici di un cittadino. Come si fa a pensare che lo stesso possa accadere a sterminate popolazioni che non solo non saprebbero dove andare, ma anziché permettersi un Mayflower potrebbero al massimo affidarsi a qualche mascalzone di scafista; e che inoltre non si trovano in conflitto con la loro confessione religiosa e non hanno alcuna nozione di cosa sia una democrazia all'occidentale?

A sentire quel dialogo ero rimasto a bocca aperta. Ma come, un signore che dovrebbe aiutare con le sue interviste la comprensione del mondo in cui viviamo, ha delle idee così infantili su ciò che esiste al di là dei confini degli Stati Uniti?

Eppure Letterman stava esprimendo la condizione normale non dell'intellettuale americano, ma di quella massa immensa che vive al centro del continente e legge quotidiani locali dove si parla della nascita di un vitello con due teste nella contea, e si danno in modo vago notizie sul resto del pianeta, e dove il "New York Times" non arriva, o si può trovare a prezzo doppio solo in qualche posto di eccellenza; dove, ai tempi in cui le interurbane si facevano attraverso centralino, una signorina a cui qualcuno chiedeva di collegarlo con Roma, dopo aver chiesto di quale Rome si trattasse (perché ce n'è una in Georgia, una nello Stato di New York, una in Indiana, una nel Tennessee e qualche altra che mi sfugge) si era stupita che ne esistesse anche una in Italia.

D'altra parte qualche anno fa a un convegno a Firenze, una persona che lavorava non ricordo se al Pentagono o alla Casa Bianca, dopo aver apprezzato a cena un ottimo pesce, saputo che era stato pescato nel Mediterraneo, aveva chiesto se il Mediterraneo fosse un "salt lake", un lago salato.
Certe volte non si capisce come mai il politico americano medio (che talora può diventare Bush) commetta tanti errori quando si misura con l'Europa, l'Africa o l'Asia, come se il suo paese dominasse su zone che non conosce. Chiedetelo a Letterman.

 
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« Risposta #116 inserito:: Dicembre 27, 2011, 07:07:31 pm »

Ma glielo abbiamo chiesto noi

di Umberto Eco

Un ufficiale ferma una carrozza piena di gente: non la lascerà passare finché una prostituta a bordo non gli si concederà.

Lei non vuole, però i passeggeri insistono. E la convincono, per il bene comune.

Lei cede, la carrozza riparte. Ma nessuno la ringrazia.

Anzi. Ecco, a Monti è successo così

(23 dicembre 2011)

Montale e i sambuchi. Nell'amabile libretto "Montale e la Volpe" in cui Maria Luisa Spaziani ricorda episodi del suo lungo sodalizio con Montale, c'è un episodio che bisognerebbe far studiare nelle scuole. Dunque, Spaziani e Montale passano vicino a una fila di sambuchi, fiore che Spaziani aveva sempre amato perché "a guardarlo con attenzione vi si può scorgere uno stellato notturno, con piccolissimi bocci a raggiera, un incanto". E forse per questo, dice, fra le poesie di Montale che da sempre sapeva a memoria, privilegiava un endecasillabo di straordinario accento: "Alte tremano guglie di sambuchi".

Montale, vedendo Spaziani in estasi davanti ai sambuchi, dice "che bel fiore" e poi domanda cosa sia, strappando all'amica "un urlo da belva ferita". Ma come, il poeta aveva fatto del sambuco una splendida immagine poetica eppure non era in grado di riconoscere un sambuco in natura? Ma Montale si era giustificato dicendo: "Sai, la poesia si fa con le parole". Trovo l'episodio fondamentale per capire la differenza tra la poesia e la prosa.

La prosa parla di cose, e se un narratore introduce un sambuco nella sua vicenda deve sapere cosa sia e descriverlo come si deve, altrimenti poteva fare a meno di evocarlo. Nella prosa "rem tene, verba sequentur", possiedi bene quello di cui vuoi parlare e poi troverai le parole adatte. Manzoni non avrebbe potuto aprire il suo romanzo con quello splendido incipit (che è poi un novenario) seguito da una cantabile descrizione paesaggistica, se non avesse prima guardato a lungo e le due catene non interrotte di monti, e il promontorio a destra e l'ampia costiera dall'altra parte, e il ponte che congiunge le due rive, per non dire del Resegone. In poesia accade invece tutto l'opposto, prima t'innamori delle parole, e il resto verrà da sé, "verba tene, res sequentur".

Dunque Montale non avrà mai visto le minuscole biche, le alghe asterie, l'erbaspada, la siepe cimata dei pitosfori, la piuma che s'invischia, gli embrici distrutti, la cavolaia folle, il coro delle coturnici, la furlana e il rigodone, la rèdola nel fosso? Chissà, ma tale è il valore delle parole nella poesia, dove il rivo strozzato gorgoglia solo perché deve rimare con l'accartocciarsi della foglia, altrimenti avrebbe potuto - che so - gloglottare, borbottare, rantolare, ansimare o boccheggiare, mentre una pura necessità aurale ha voluto che il rivo mirabilmente gorgogliasse e "per sempre - con le cose che chiudono in un giro - sicuro come il giorno, e la memoria - in sé le cresce".

Monti e i viaggiatori per bene. Non ci sono rapporti tra il longilineo ed elegante professor Monti e una palla di sego, ma ne vedo tra la sua vicenda e la novella omonima di Maupassant. Tutti, spero, conoscono la storia: durante la guerra franco-prussiana viaggia una carrozza che, tra varie persone per bene, ospita una prostituta, procace e butirrosa. Già accettata a malapena dai compagni di viaggio, solo perché aveva offerto a tutti le provviste che recava in un canestro, era diventata responsabile dell'arresto della carrozza da parte di un ufficiale prussiano, che minacciava di non lasciar ripartire nessuno se la ragazza non gli concedeva le sue grazie. Pur avendole già concesse a molti, la patriottica "escort" si rifiutava di elargirle all'odiato nemico. La carrozza così rimane ferma, e a poco a poco i viaggiatori rimproverano a Palla di Sego di nuocere a tutti per uno sciocco puntiglio, e tra varie insistenze e ricatti morali la spingono a cedere. A malincuore, e per il bene comune, essa accetta. Consumato il mercimonio la carrozza riparte, ma a quel punto i viaggiatori incominciano a guardare con disprezzo la sciagurata che si è prostituita, anche se l'aveva fatto per cavar loro le castagne dal fuoco.

Mi pare stia succedendo la stessa cosa a Monti. Tutti (salvo la canea leghista) gli hanno chiesto di cavar le castagne dal fuoco anche rischiando l'impopolarità, per prendere quelle misure severe che altri non avevano saputo o voluto prendere. Ora che l'ha fatto, tutti incominciano a guardarlo male. Maupassant aveva capito molte cose.

   
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« Risposta #117 inserito:: Gennaio 13, 2012, 05:06:51 pm »

Perché mi piace il Barbanera

di Umberto Eco

Un lunario che risale al Settecento. Citato tra l'altro da D'Annunzio, Pirandello e Sciascia.

Pieno di fanfaluche astrologiche, ma anche di fantastici consigli. Forse ormai inutili, ma che ci fanno risentire in armonia con la natura

(11 gennaio 2012)

Quest'anno la crisi si è fatta sentire anche nell'universo delle agende: tra Natale e Capodanno non ho ricevuto la solita quantità di calendari, taccuini, volumi celebrativi e altro (che era poi così difficile smistare tra segretarie, portinai, figli e colf).

Le aziende hanno deciso di risparmiare. Unica eccezione il Barbanera, lo storico lunario che risale al Settecento e continua a uscire tradizionalmente a Foligno. Anzi l'editore Campi mi ha anche fatto pervenire una raffinata serie di fascicoli e fogli cartonati con riproduzioni a colori dai Barbanera degli ultimi duecentocinquant'anni, e i dovuti commenti storici.

Di questo storico lunario hanno sentito parlare anche coloro che non l'hanno mai sfogliato, trovandolo magari citato in D'Annunzio ("La gente comune pensa che al mio capezzale io abbia l'Odissea o l'Iliade, o la Bibbia... Il libro del mio capezzale è quello ove s'aduna "il fiore dei Tempi e la saggezza delle Nazioni": il Barbanera" (Lettera al parroco di Gardone, 27 febbraio 1934), oppure in Capuana, o in Pirandello, o in Sciascia. E dei Barbanera aveva parlato con la sua solita insaziabile curiosità Piero Camporesi in un articoletto del 1982, "Requiem per un lunario" (ora ne "Il governo del corpo", Garzanti 1995).

"Questi ultimi esemplari del vecchio colportage sono quasi del tutto scomparsi... La vecchia Italia dei paesi e delle appartate province si dissolve con loro e con loro s'inabissa un mondo antico nel quale essi svolgevano una fondamentale funzione di collegamento fra le classi popolari, specialmente contadine, e la tipografia per le masse semianalfabete alle quali offrivano, insieme ai pianeti della fortuna e al libro dei sogni (microtalismanî di speranza spicciola), almanacchi e lunari indispensabili a prevedere i segreti del futuro anno, utili a ricordare le opere e i giorni del calendario agricolo e preziosi magazzini di notizie e di curiosità d'ogni genere...".

Camporesi lamentava che "con lo sprofondarsi del vecchio mondo incominciano a diventare incomprensibili ai lettori tutti quei tradizionali elementi portanti dei vecchi lunari... di derivazione colta e liturgica come il calcolo dell'epatta, il computo ecclesiastico, le quattro tempora... Le previsioni meteorologiche anticipate mese per mese per tutta la durata dell'anno, agganciate al minuto calendario dei lavori agricoli, interessano sempre meno una società ormai urbanizzata anche nelle campagne, un mondo coperto, protetto, artificiale che guarda il cielo soltanto per caso e distrattamente...". Camporesi non ignorava che alcuni lunari continuassero a uscire, ma lamentava che il loro "processo degenerativo" fosse visibile "non solo nello spazio strabocchevole concesso alla moda ossessiva dell'oroscopo... ma anche nella presentazione di rubriche gastronomiche, un'altra delle piaghe dei nostri tempi", in cui si suggeriva "a quel che resta dell'Italia contadina il pollastro all'indiana o la torta di ciliege alla tedesca".

Ora è vero che il Barbanera 2012 abbonda in fanfaluche astrologiche (ma non lo fanno persino i grandi quotidiani?) però insegna anche a fare la polenta con lenticchie. E vorrei che i giovani cittadini d'oggi, che forse non hanno mai visto un bue e ignorano l'esistenza dell'eucalipto, possano incantarsi in consigli d'altri tempi, non dico solo come si calcola l'epatta, ma su come si deve lavare un capo che presenta un buco (bisogna prima rammendarlo, altrimenti la centrifuga rende il buco più grande - ma ormai un capo con un buco non lo si butta via per comperarne uno nuovo?), su come si deve stare attenti in gennaio alla rinite dei gatti, come curare i reumatismi con olio d'eucalipto, come coltivare sul balcone piante resistenti al freddo (aquilegia, campanula, ciclamino, erica, genziana eccetera), come mettere a dimora i bulbi di aglio, perché i piselli si debbano seminare in marzo, la rucola in aprile o la malva in giugno. Tutti consigli che (con cento altri) ci fanno risentire in armonia con la natura, e riscoprono il sapere dei nostri nonni - che non era tutto da buttar via.

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« Risposta #118 inserito:: Gennaio 28, 2012, 12:03:40 am »

Opinione

In ricordo di un maestro della memoria

di Umberto Eco

Paolo Rossi è stato un pioniere della mnemotecnica.

E ci ha messo in guardia dai rischi della "dimenticanza culturale": bisogna evitare che l'eccesso di sapere porti a cancellare il passato

(19 gennaio 2012)

E' scomparso Paolo Rossi (e, come talora firmava per esteso, Paolo Rossi Monti). Un amico e, per nove anni di differenza, un giovane maestro che ho sempre ammirato. E' stato uomo schivo e dedito con assoluta riservatezza alla vita accademica, per cui la sua scomparsa non ecciterà le emozioni delle folle, ma colpisce profondamente amici, colleghi, studenti e studiosi di tutto il mondo. Era di quegli italiani che non vanno in televisione ma incidono sul proprio tempo.

E' stato un grande studioso della memoria. Anzi, se mi è permesso, "il" grande studioso della memoria perché il suo "Arti della memoria e logica combinatoria da Lullo a Leibniz", era stato pubblicato da Ricciardi nel 1960, ma solo nel 1966 era apparso il ben più noto "L'arte della memoria" di Frances Yates, libro certamente affascinante dove l'autrice paga in prefazione il dovuto omaggio al suo predecessore, ma in modo abbastanza stitico. Peccato, in questo campo Rossi era stato un pioniere.

Un pioniere, dico, in quella immensa produzione di trattati sulla mnemotecnica, ovvero sulle arti per conservare e preservare la memoria, che in tempi antichi (prima dell'invenzione del libro a stampa, ma anche prima dell'apparizione di cassette registrate e memorie elettroniche), erano stati l'unico modo con cui gli uomini di cultura potevano ricordare quello che altrimenti avrebbero dimenticato.

Ma Rossi, nei suoi scritti degli ultimi anni, si era preoccupato non della memoria degli antichi, bensì della nostra. Vorrei rimandare a due dei suoi ultimi scritti ("La storia della scienza: la dimenticanza e la memoria", in Lina Bolzoni, "Memoria e memorie", Firenze, 1998, e "La memoria, le immagini, l'enciclopedia", in Pietro Rossi "La memoria del sapere", Bari, 1998). Rossi ben sapeva che con l'invenzione della stampa il timore di non ricordare per indebolimento della memoria biologica si trasforma nel timore di non ricordare per il timore dell'eccesso di memoria culturale (per cui l'invenzione della stampa non solo mette a disposizione una enorme quantità di materiale testuale, ma ne rende più facile l'accesso a chiunque).

Una delle manifestazioni più drammatiche di questa sindrome è certamente la "Seconda considerazione inattuale" di Nietzsche, sull'utilità e sul danno degli studi storici per la vita. Il testo si apre proprio con una dichiarazione che sembra essere un'altra delle fonti di Funes immaginato da Borges che, per eccesso di memoria, era ormai incapace di ragionare: "Immaginate l'esempio estremo, un uomo che non possedesse punto la forza di dimenticare, che fosse condannato a vedere dappertutto un divenire: un uomo simile non crederebbe più al suo stesso essere, non crederebbe più a sé, vedrebbe scorrere l'una dall'altra tutte le cose in punti mossi e si perderebbe in questo fiume del divenire... Per ogni agire ci vuole oblio come per la vita di ogni essere organico ci vuole non soltanto luce, ma anche oscurità". Di qui l'analisi del danno dell'eccesso di studi storici e l'appello ai giovani affinché elaborino un'arte della dimenticanza.

A quasi un secolo e mezzo di distanza dal testo nietzschiano la dimenticanza culturale si è perfezionata, purtroppo sino all'eccesso. Non diremo dei giovani liceali che non ricordano più chi fossero De Gasperi o Moro, ma Rossi aveva scritto su come si procedeva alla cancellazione del passato "bibliografico" anche nei lavori accademici, per cui ormai (almeno nell'ambito delle scienze esatte) si decide che non solo le idee provate errate ma persino gli sforzi e i procedimenti messi in opera per arrivare a quelle considerate giuste, vengono espulsi dall'enciclopedia specializzata di quella tale scienza perché inutili, e ormai in certi settori disciplinari si arriva a non prendere in considerazione ogni contributo pubblicato prima degli ultimi cinque anni.

Di questa tragica situazione qualsiasi studioso è certamente conscio, ma vi soggiace. Grazie a Paolo Rossi che è stato l'ultimo dei "guru" a metterci in guardia.

 
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« Risposta #119 inserito:: Febbraio 10, 2012, 12:00:00 am »

Opinione

Dove andremo a finire?

di Umberto Eco

Al di là delle cupe profezie che si ripetono, il mondo va davvero alla rovescia.

I palazzi davanti al Colosseo, per esempio, pare siano fatiscenti: li danno via per quattro soldi a gente che neppure se ne accorge

(02 febbraio 2012)

Primo pensierino. Non parliamo della maledizione dei Maya, ma certamente i giornali, che stanno sempre più citando Cassandra, ci annunciano di giorno in giorno un domani sempre più cupo, fatto di straripamento degli oceani, declino delle stagioni e (al più presto) il default; tanto che un ragazzino decenne figlio di miei amici, all'ascoltare i genitori che lo informavano sui destini del mondo, si è messo a piangere e ha domandato: "Ma proprio non c'è niente di bello nel mio futuro?".

Per consolarlo potrei citare numerosi e assai foschi vaticini sugli anni a venire, consueti nei secoli passati. Ecco un brano da Vincenzo di Beauvais (XIII secolo): "Dopo la morte dell'Anticristo... il giudizio finale sarà preceduto da molti segni che ci sono indicati dai Vangeli... Nel primo giorno il mare si alzerà di quaranta cubiti sopra le montagne e si ergerà dalla sua superficie come un muro. Nel secondo sprofonderà tanto che a stento si potrà vedere. Nel terzo i mostri marini apparendo sulla superficie del mare manderanno ruggiti fino al cielo. Nel quarto il mare e le acque tutte prenderanno fuoco. Nel quinto le erbe e gli alberi manderanno una rugiada di sangue. Nel sesto crolleranno gli edifici. Nel settimo le pietre cozzeranno fra di loro. Nell'ottavo ci sarà un terremoto universale. Nel nono la terra sarà livellata. Nel decimo gli uomini usciranno dalle caverne e andranno vagando come impazziti senza potersi parlare. Nell'undicesimo risorgeranno le ossa dei morti. Nel duodecimo cadranno le stelle. Nel decimoterzo moriranno i viventi superstiti per risorgere coi morti. Nel decimoquarto cielo e terra bruceranno. Nel decimoquinto ci sarà un cielo nuovo e una terra nuova e tutti risorgeranno". Come si vede ci sono già tutte le alterazioni climatiche e gli tsunami che ancora ci minacciano.

Saltando sei secoli di ferali annunci, ecco Balzac, nel 1836: "L'industria moderna, che produce per le masse, sta distruggendo le creazioni dell'arte antica, le cui opere avevano un'impronta personale per il consumatore così come per l'artigiano. Oggi abbiamo dei "prodotti", non abbiamo più "opere"". Tra i "prodotti" ormai privi di ogni valore artistico, che Balzac minacciava, Leopardi stava scrivendo proprio in quell'anno "La ginestra", Manzoni poneva mano alla seconda stesura dei "Promessi sposi", due anni dopo Stendhal avrebbe scritto "La certosa di Parma", tre anni dopo Chopin componeva la Sonata in si bemolle minore opera 35, venti anni dopo Flaubert pubblicava "Madame Bovary", mancavano circa trent'anni all'apparizione degli impressionisti e più di quaranta alla pubblicazione dei "Fratelli Karamazov". Come si vede, anche in passato si paventava troppo il futuro.
Secondo pensierino. Ma forse, ripensandoci, "mala tempora currunt" davvero se, come vuole la tradizione, uno dei tipici segnali della fine dei tempi è il fatto che ormai il mondo va alla rovescia. Pensate, una volta i ricchi abitavano nel centro di Roma in lussuosi palazzi e i poveri nelle periferie più desolate; oggi i palazzi che fronteggiano il Colosseo pare siano fatiscenti, col cesso sul ballatoio, e li danno via per quattro soldi, anzi, li regalano a gente che neppure se ne accorge. Immagino che i politici corrotti vadano ad abitare al Quarticciolo.
Ieri i poveri viaggiavano in treno e solo i ricchi si permettevano l'aereo: oggi gli aerei costano quattro soldi (i più a buon mercato assomigliano ai carri bestiame del tempo di guerra) mentre i treni diventano sempre più cari e più lussuosi, col bar riservato solo alle classi egemoni.

Una volta i ricchi andavano a Riccione, e nel peggiore dei casi a Rimini, pur di porre i malleoli nell'Amarissimo, mentre nelle isole dell'Oceano Indiano vivevano popolazioni miserabili o vi venivano deportati gli ergastolani. Oggi alle Maldive vanno solo i politici di rango e a Rimini, ormai, soltanto mugiki russi, appena sottrattisi alla schiavitù della gleba. Dove andremo a finire?

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