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Autore Discussione: UMBERTO ECO.  (Letto 143817 volte)
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« Risposta #75 inserito:: Maggio 28, 2010, 08:33:18 am »

Congiuntivi e pestaggi

Umberto Eco

A Vattimo non rimprovero di usare male i congiuntivi.

Ma se per gli errori di qualcuno si condanna una intera categoria, o un popolo, non si farà dell'antisemitismo ma certamente si fa del razzismo.
 

Quindici giorni fa ho protestato contro un invito al boicottaggio delle istituzioni accademiche e degli intellettuali israeliani, firmato anche dal mio amico Gianni Vattimo. Io non mettevo in questione il dissenso che si può manifestare nei confronti della politica del governo israeliano, ma dicevo che non si può sostenere, come faceva l'appello, che "gli accademici e gli intellettuali israeliani, nella quasi totalità, hanno svolto e svolgono un ruolo di sostegno dei loro governi". Tutti sappiamo quanti intellettuali israeliani polemizzino su questi temi.
Ora ricevo una cortese lettera di Vattimo e al tempo stesso altri messaggi di lettori che condividono le sue idee. Vattimo scrive: "Mi sento come uno a cui venga rimproverato l'uso improprio di un congiuntivo - capisco quanto le parole e la sintassi siano importanti per te semiotico - in una discussione sul pestaggio della Diaz... La domanda essenziale era: quanti intellettuali italiani del tuo calibro o, scusa, poco meno hanno preso pubblicamente posizione sul massacro di Gaza? E adesso quanti protestano per Chomsky fermato alla frontiera?".

Ma io a Vattimo non rimproveravo, a proposito del pestaggio alla Diaz, di usare male i congiuntivi, bensì di voler pestare per ritorsione tutti i poliziotti italiani. Idea che, immagino, dovrebbe essere respinta da ogni persona di buon senso. Se per gli errori di qualcuno si condanna una intera categoria, o addirittura un popolo, forse non si farà dell'antisemitismo ma certamente si fa del razzismo. La domanda essenziale di cui egli parla non era perché non si parla di Gaza (faccenda atroce) o dell'esecrabile proibizione di transito a Chomsky (che tra l'altro si era pronunciato contro il boicottaggio). La domanda essenziale riguardava il boicottaggio.
Tutte le lettere che ho ricevuto si sforzano di elencarmi tutti gli argomenti contro la politica del governo israeliano, dimenticando che io stesso ho detto di non condividerla. Ma il mio articolo chiedeva se, sulla base di un rifiuto della politica di un governo, si possono mettere al bando della comunità intellettuale internazionale tutti gli studiosi, gli scienziati, gli scrittori del paese dove quel governo governa.

Pare che i miei obiettori non vedano alcuna differenza tra i due problemi. Per esempio Vattimo, per sottolineare che nell'idea del boicottaggio c'è dell'antisionismo ma non dell'antisemitismo, mi scrive: "Sarebbero antisemiti i tanti ebrei antisionisti che sentono la loro religiosità ebraica minacciata proprio da questa politica di potenza?". Ma è proprio questo il punto. Se si ammette, e sarebbe difficile non farlo, che ci sono tanti ebrei (anche in Israele, si badi) che rifiutano la politica di potenza del loro governo, perché allora bandire un boicottaggio globale che coinvolge anche loro?
Sono di questi giorni due brutte notizie. Una è che nelle scuole degli estremisti religiosi israeliani sono state vietate le tragedie di Sofocle, "Anna Karenina", le opere di Bashevis Singer e l'ultimo romanzo di Amos Oz. Qui non c'entra il governo, c'entrano i talebani locali, e sappiamo che ci sono dei talebani dappertutto (c'erano persino dei talebani cattolici che mettevano Machiavelli all'indice). Ma allora (seconda brutta notizia) perché i boicottatori torinesi si sono comportati da talebani quando hanno protestato perché si voleva dare il premio del Salone del Libro (come poi è stato dato) a Oz? Insomma, Amos Oz non lo vogliono a Mea Shearim (il quartiere dei fondamentalisti di Gerusalemme) e non lo vogliono a Torino (città sacra alla Sindone). Dove deve andare questo ebreo errante?
Vattimo insiste nel dire che essere antisionista non è essere antisemita. Ci credo. So benissimo che quando due anni fa ha affermato che ormai era lì lì per credere ai "Protocolli dei savi di Sion" aveva solo voluto fare una di quelle battute provocatorie in cui eccelle - perché nessuna persona sensata e di buoni studi può leggere i "Protocolli" e ritenere che quell'insieme di autodenunce che si contraddicono tra loro sia opera autentica (e che i Savi Anziani di Sion fossero così coglioni). Ma Vattimo si sarà accorto che su Internet, accanto ai siti dove si condanna la sua uscita, ve ne sono moltissimi che invece ci gongolano. Ogni battuta estremistica rischia sempre di stimolare il consenso dei dissennati.

Ma Vattimo (e come lo capisco) alle battute non sa rinunciare, e conclude: "Ahmadinejad come minaccia di distruzione di Israele? Ma qualcuno ci crede davvero?". Beh, sarò un sentimentale, ma a me un tizio che vuole fare sparire una nazione dalla faccia del mondo un poco di paura la fa. Per le stesse ragioni per cui mi preoccupo per l'avvenire dei palestinesi.

(27 maggio 2010)
http://espresso.repubblica.it/dettaglio/congiuntivi-e-pestaggi/2127826/18
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« Risposta #76 inserito:: Giugno 11, 2010, 12:12:01 pm »

Tra dogmatismo e fallibilismo

Umberto Eco

Quando la scienza si arrocca su un certo paradigma, magari per difendere posizioni di potere acquisite, escludendo come pazzo o eretico chi lo contesta, si comporta in modo dogmatico
 

Sul "Corriere della sera" di domenica scorsa Angelo Panebianco scriveva sui possibili dogmatismi della scienza. Sono fondamentalmente d'accordo con lui e vorrei solo mettere in evidenza un altro aspetto della questione.
Dice in sintesi Panebianco che la scienza è per definizione antidogmatica, perché sa di procedere per tentativi ed errori e perché (aggiungerei con Peirce, che ha ispirato Popper) il suo principio implicito è quello del "fallibilismo", per cui sta sempre all'erta nel correggere i propri sbagli. Essa diventa dogmatica nelle sue fatali semplificazioni giornalistiche, che trasformano in scoperta miracolistica e verità assodata quelle che erano solo caute ipotesi di ricerca. Ma rischia anche di diventare dogmatica quando accetta un criterio inevitabile, e cioè che la cultura di un'epoca sia dominata da un "paradigma", come non solo quelli darwiniano o einsteiniano, ma anche quello copernicano, a cui ogni scienziato si attiene proprio per espungere le follie di chi si muove al di fuori di esso, compresi i matti che ancora sostengono che il sole gira intorno alla terra. Come la mettiamo col fatto che l'innovazione avviene proprio quando qualcuno riesce a mettere in questione il paradigma dominante? Quando la scienza si arrocca su un certo paradigma, magari per difendere posizioni di potere acquisite, escludendo come pazzo o eretico chi lo contesta, non si comporta in modo dogmatico?
La questione è drammatica. I paradigmi vanno sempre difesi o sempre contestati? Ora una cultura (intesa come sistema di saperi, opinioni, credenze, costumi, eredità storica condivisi da un gruppo umano particolare) non è solo un accumulo di dati, è anche il risultato del loro filtraggio. La cultura è anche capacità di buttar via ciò che non è utile o necessario. La storia della cultura e della civiltà è fatta di tonnellate di informazioni che sono state seppellite. Vale per una cultura quello che vale per la nostra vita individuale.
Borges ha scritto la novella "Funes el memorioso" dove racconta di un personaggio che ricorda tutto, ogni foglia che ha visto su ogni albero, ogni parola che ha udito nel corso della sua vita, ogni refolo di vento che ha avvertito, ogni sapore che ha assaporato, ogni frase che ha letto. Eppure (anzi, proprio per questo) Funes è un completo idiota, un uomo bloccato dalla sua incapacità di selezionare e di buttare via. Il nostro inconscio funziona perché butta via. Poi, se c'è qualche inghippo, si va dallo psicoanalista per recuperare quel poco che serviva e che per sbaglio abbiamo buttato via. Ma tutto il resto per fortuna è stato eliminato e la nostra anima è esattamente il prodotto della continuità di questa memoria selezionata. Se avessimo l'anima di Funes saremmo persone senz'anima.
Così fa una cultura e l'insieme dei suoi paradigmi è il risultato dell'Enciclopedia condivisa, fatta non solo di ciò che si è conservato ma anche, per così dire, del tabù su ciò che si è eliminato. In base a questa enciclopedia comune poi si discute. Ma perché ci possa essere discussione comprensibile da tutti occorre partire dai paradigmi esistenti, se non altro per dimostrare che essi non tengono più. Senza la negazione del paradigma tolemaico, che rimaneva di sfondo, il discorso di Copernico sarebbe rimasto incomprensibile.
Ora Internet è come Funes. Come totalità di contenuti disponibili in modo disordinato, non filtrato e non organizzato, esso permette a ciascuno di costruirsi una propria enciclopedia, ovvero il proprio libero sistema di credenze, nozioni e valori, in cui possono essere compresenti, come accade nella testa di molti esseri umani, sia l'idea che l'acqua sia H2O sia quella che il sole giri intorno alla terra. In teoria, quindi, si potrebbe arrivare all'esistenza di sei miliardi di enciclopedie differenti e la società umana si ridurrebbe al dialogo frantumato di sei miliardi di persone ciascuna delle quali parla una lingua diversa, che solo chi sta parlando capisce.
L'ipotesi è per fortuna solo teorica, ma lo è proprio perché la comunità scientifica vigila affinché circolino linguaggi comuni, sapendo che per rovesciare un paradigma è necessario che ci sia un paradigma da rovesciare. Difendere i paradigmi provoca certamente il rischio del dogmatismo ma è su questa contraddizione che si basa lo sviluppo del sapere. Per evitare conclusioni affrettate concordo con ciò che diceva lo scienziato citato in fine da Panebianco: "Non so, è un fenomeno complesso, devo studiarlo".

(10 giugno 2010)
http://espresso.repubblica.it/dettaglio/tra-dogmatismo-e-fallibilismo/2128687/18
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« Risposta #77 inserito:: Giugno 27, 2010, 09:21:01 am »

L'opinione

Il lessico del populismo

Umberto Eco

"Mettere le mani nelle tasche degli italiani". "Esporre alla gogna mediatica". "La magistratura vuole sovvertire il voto". Sono alcuni esempi di espressioni stravolte dal berlusconismo

(25 giugno 2010)

Nel sito di Libertà e Giustizia (http://www.libertaegiustizia.it) Gustavo Zagrebelsky ha iniziato una rubrica aperta ai navigatori, un Lessico del Populismo, e cioè un'analisi di quelle espressioni che una volta significavano una cosa, o niente, ma che nell'attuale temperie politica vengono usate con tutt'altra connotazione. Per non farla troppo difficile, passo subito alla prima voce del lessico, dovuta appunto a Zagrebelsky, "Mettere le mani nelle tasche degli italiani".

È noto infatti che uno dei principali appelli che il nostro presidente del consiglio, instauratore dell'ormai cosiddetto "populismo mediatico", rivolge al suo "popolo" è la constatazione che pagare le tasse è doloroso (il che è vero) e che chi ce le fa pagare è cattivo (il che non è vero, perché ogni Stato serio si appella al contributo dei cittadini); non solo, ma il presidente ha anche detto che, se le tasse ci paiono troppe, è scusabile e comprensibile evadere il fisco - e se qualcuno ritiene che questa cosa non l'abbia detta (perché sarebbe suo dovere morale e costituzionale dire il contrario), esistono le dovute registrazioni televisive (non le intercettazioni!). Per inciso Berlusconi ha anche proposto varie volte di abbassare le tasse, ma sciaguratamente non l'ha mai fatto. Bisogna però dargli atto di non averle alzate, specie in momenti come questo, quando bisognerebbe ricuperare denaro, e i sacrifici ha preferito farli fare agli statali (che secondo i sondaggi non votano per lui) piuttosto che a chi guadagna di più.

Come si fa allora a indurre la "gente" a pensare che chi fa pagare le tasse (non il governo attuale, certo, perché le tasse le hanno inventate gli altri, probabilmente i comunisti) commette un furto? Usando l'espressione "mettere le mani nelle tasche degli italiani" che, come dice Zagrebelsky "sottintende l'idea che imposte e tasse siano scippi e furti e che i governanti, chiedendo di partecipare alle spese pubbliche si comportino da delinquenti... Questa espressione è la negazione dell'idea di cittadinanza, che comprende diritti e doveri di solidarietà, secondo la legge. Essa infatti parla demagogicamente agli italiani e non democraticamente ai cittadini (italiani)".

A seguito della proposta di Zagrebelsky, Sandra Bonsanti ha commentato "Condividere la memoria storica" e Giuseppe Volpe sia "Essere radicati nel territorio" che "Esporre alla gogna mediatica". A pensarci bene quest'ultima abusatissima espressione non suonerebbe ingiusta quando venisse applicata a qualcuno che, perfettamente innocente, viene di colpo presentato dai giornali, per vendere copie, come il mostro da sbattere in prima pagina, e si pensi al dolorosissimo caso Tortora. Ma come viene usata oggi essa suona a sanzione dei casi in cui, di un uomo politico doverosamente si dice che ha commesso abusi e che per questo è diventato oggetto di una inchiesta della magistratura. Come dice Volpe, "una personalità integerrima se la ride di qualsiasi insinuazione o presunto fatto i media diffondano sul suo conto. Adirà le vie legali individualmente... non tanto per difendere se stesso quanto, colpendo il deviante, ... per difendere la correttezza dell'informazione. Ma l'uomo integerrimo, appunto, colpisce il falsario, non invoca la mordacchia... Se questo non accade è forse, anche, perché uomini integerrimi ce ne sono troppo pochi? O è perché di falsari ce n'è troppi?".

Maria Grimaldi analizza l'ormai storico "Scendere in campo" ed Elisabetta Rubini "La magistratura vuole sovvertire il voto", osservando che la frase viene usata, dagli esordi del berlusconismo, per censurare l'operato dei giudici quando le indagini riguardano il premier, "come se il voto superasse e rendesse superfluo - ed anzi addirittura inaudito - il ruolo di controllo svolto dalla magistratura nei confronti di tutti i cittadini... Da notare che con la frase in questione Berlusconi non critica i giudici per aver operato male: la censura si colloca a priori rispetto ad una valutazione della qualità del controllo giudiziario e mira a contrapporre il voto popolare - quasi una grazia divina - alla molesta interferenza dei giudici, presentata come illegittima e persino eversiva".

Non ho più spazio. Mi piacerebbe analizzare ancora "Il presidente del consiglio non ha poteri" di Filippo di Robilant (che palesemente significa che il presidente del consiglio vorrebbe impadronirsi anche dei poteri che la Costituzione non gli consente), e alcuni primi interventi dei lettori. Così come amerei anche occuparmi di termini che a sinistra hanno avuto il loro significato letteralmente capovolto, come liberale, riformista, moderato, eccetera. Ma sarà per un'altra volta.

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http://espresso.repubblica.it/dettaglio/il-lessico-del-populismo/2129700/18
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« Risposta #78 inserito:: Luglio 18, 2010, 10:47:35 am »

Una volta qui era tutta città

Umberto Eco

Ovvero, come divertirsi a rovesciare i luoghi comuni. Tipo: gli albini hanno la musica nel sangue, Bergamo ladrona, gli voglio un male dell'anima, Venezia è l'Amsterdam del Sud. Un giochetto geniale da cui è nato un libro, ma può andare avanti quasi all'infinito

(12 luglio 2010)

Il curatore è incerto (AlFb) perché dice subito di aver usato vari suggerimenti dei suoi corrispondenti su un blog, il prefatore è (e come, se no?) Stefano Bartezzaghi, l'editore Einaudi e il titolo "Scusa l'anticipo, ma ho trovato tutti verdi". Per il lettore duro di comprendonio, si tratta del rovesciamento di un luogo comune,"scusa il ritardo, ma era un semaforo rosso dopo l'altro". Ecco il gioco: si raccolgono 500, dico cinquecento luoghi comuni, cose che ciascuno di noi dice tutti giorni magari senza rendersene conto, e se ne crea il rovesciamento. Il più ovvio è che Venezia sia l'Amsterdam del sud, il più geniale è "gli albini hanno la musica nel sangue".

Cito solo alcuni rovesciamenti, pescandoli quasi a caso.
A volte la fantasia supera la realtà, Premetto che sono razzista, L'altro papa era un grande teologo, questo ha un rapporto più profondo con la gente, Le droghe pesanti sono l'anticamera delle canne, Gli voglio un male dell'anima, Meglio cento giorni da leone che uno da pecora, Imparando si sbaglia, Il papà è sempre il papà, Fa' come se fossi a casa mia, Direi di darci del lei, Chi gode si accontenta, Sono rimbambito, sì, ma non sono vecchio, Ignora te stesso, Non è l'umidità, è la temperatura, La frutta andrebbe mangiata durante i pasti, Per me l'arabo è matematica, Perché bere l'acqua del rubinetto, a Roma per esempio l'acqua in bottiglia è buonissima, Guarda quella pecorella, sembra una nuvola. L'1 per cento del nostro corpo è formato d'acqua, Abbiamo preso solo una pizza e una birra ma abbiamo speso pochissimo, Non riesco a dimagrire, eppure mangio moltissimo, Non sempre il film è meglio del libro, Alberto Sordi può essere considerato l'erede di Verdone, L'assassino è sempre il padrone di casa, Il maestro ha superato l'allievo, Luttazzi fa ridere, ma dovrebbe cercare di essere più volgare, Il successo mi ha cambiato, In fondo Mussolini ha fatto anche molte schifezze, Ormai un euro è uguale a 2 mila lire, La mafia esiste, Diecimila per gli organizzatori, centomila per la questura, Una volta qui era tutta città, In Italia vivono molti argentini, A Roma ci sono più parcheggi che auto, Certo che i tedeschi sono proprio disorganizzati, Parigi è brutta però i francesi sono simpaticissimi, Bisogna saper vincere, Se ci sono eterosessuali nel calcio, io non ne ho mai visti, Ormai per curarsi conviene rimanere in Italia, Morire è un po' partire, Il cervello ti frigge la tv, Chiocciola libero punto it, tutto maiuscolo e tutto staccato, Non porto il telefonino, l'ora la guardo sull'orologio, Userei anche Linux ma è troppo facile, Le macchine svedesi cacciano sempre qualche rumorino dopo qualche anno, i PC hanno un design più accattivante del MAC.

Finito il divertimento, e nata la voglia di continuare la serie (per esempio: "come si fa a governare, se tutti remano nella mia stessa direzione?", "Bergamo ladrona", "Io sono il lavato a secco del Signore", "Ormai nel mondo d'oggi nessuno sa più che cosa stai facendo", "A Rimini stanno tutti sulla spiaggia e non mettono mai piede in discoteca", o "Mangano per me era un delinquente", "Aveva trasferito tutti i suoi capitali a Battipaglia"), ci si accorge che di questi luoghi comuni noi, che ci crediamo così originali e creativi, ne pronunciamo a catena ogni giorno. Anzitutto perché riflettono spesso un'ovvia verità, e non c'è nulla di male a dire la verità, anche se nota a tutti, poi perché hanno funzione "fatica".
La funzione fatica del linguaggio (dico per coloro che non conoscono Jakobson a memoria), è quella di mantenere il contatto anche se non si trasmettono informazioni, richieste, ordini. Hanno funzioni fatiche le frasi fatte che si dicono incontrandosi o accomiatandosi, come "bella giornata, come sta, piacere, salve" e così via, ma hanno funzione fatica, appunto, anche i luoghi comuni, che in affetti non dicono nulla che l'interlocutore non sappia già (come "si rende conto che siamo in giugno, non ci sono più le stagioni"), ma servono appunto a dirgli che abbiamo l'intenzione di stabilire un rapporto di cortesia (per quanto non impegnativo) e che la pensiamo come lui o lei.

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http://espresso.repubblica.it/dettaglio/una-volta-qui-era-tutta-citta/2130631/18
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« Risposta #79 inserito:: Luglio 26, 2010, 10:28:26 am »

Tenersi per mano

di Umberto Eco

L'andar sottobraccio delle coppie è caduto in disuso come il cappello alla Bogart.

Perché ora l'uso del mano-nella-mano, che sembrava riservato ai bambini e ai gay, si è esteso anche agli etero?

(23 luglio 2010)

La scienza deve basarsi su osservazioni empiriche, ma soprattutto deve procedere per tentativo ed errore (ipotesi e ripulsa dell'ipotesi), e infine deve basarsi non su di una sola osservazione, ma su molte, e ripetute, possibilmente fatte da studiosi diversi, che si controllano a vicenda, ciascuno ferocemente inteso a falsificare l'ipotesi altrui. Ecco perché quanto sto dicendo non ha valore scientifico, perché si basa su osservazioni personali, sia pure ripetute, fatte mentre sto seduto al tavolino di un bar all'aperto, in una via pedonale, e con la coda dell'occhio osservo la gente che mi passeggia accanto sul marciapiede.
Inoltre le osservazioni riguardano solo una sola città, e può darsi che a cento chilometri di distanza le cose vadano diversamente. Insomma, questo non è modo di far scienza. Non mi resta che incoraggiare i miei venticinque lettori a condurre osservazioni analoghe, a notarle sul loro taccuino, con la minuzie con cui Perec annotava ogni evento che avesse luogo nel corso della stessa giornata in Place Saint-Sulpice - e poi ne riparleremo.

Dunque, la mia ipotesi è che negli ultimi anni le coppie eterosessuali non vadano più a braccetto ma tenendosi per mano, e il fenomeno sia peraltro limitato a una precisa fascia sociale. Nel mondo occidentale ai tempi miei (vale a dire ai tempi dei miei genitori, ma ho osservato un comportamento analogo ancora nel gennaio 1998 a Bologna all'angolo tra via San Vitale e via Petroni) le coppie (fidanzati o coniugati che fossero) andavano tenendosi sottobraccio.
Non sarei sicuro che l'uso valesse anche per le classi molto alte: dovrei controllare, non ricordo foto di Vittorio Emanuele III a braccetto con la regina Elena, ma forse dipendeva dalla differenza d'altezza. In ogni caso nell'ambito della borghesia, almeno media e piccola, l'uso era di norma almeno quanto il cappello per signore e il cappellino per la signora. Tenersi a braccetto era segno di confidenza, di famigliarità, d'affetto (almeno esibito) e in qualche modo di possesso esclusivo.
Ora le coppie si tengono per mano. Quest'uso che sembrava riservato agli adulti con bambini e ai gay, si è esteso alle coppie eterossessuali adulte ma, si badi, non tanto tra giovanissimi (non ricordo di aver visto ragazze con l'ombelico scoperto che tengono per mano ragazzi dai capelli azzurri - anche perché di solito stanno fermi sull'angolo delle strade a passarsi la lingua in bocca) quanto tra persone oltre i trenta, con un infittirsi dell'uso nelle coppie di una certa età - tanto che vedere molti signori obesi tenere per mano una partner affetta da nanismo fa un poco la stessa impressione che facevano un tempo quelli che in seconda classe mangiavano arance sul sedile di fronte.

Anche in questo caso, secondo me il fenomeno è limitato alle classi inferiori. Credo che nessuno abbia mai visto Gianni Agnelli che teneva per mano donna Marella. Si tengono per mano persone senza cravatta, con quei curiosi cappelli di lana tirati sulla fronte che farebbero apparire cretino anche Einstein, di solito con maglioni alla Marchionne, piccoli commercianti o coltivatori diretti (forse votanti per la Lega, ma non escluderei qualche ex comunista), operai o statali di bassa categoria.
Mi domando se improvvisamente, tra piccola borghesia e alto proletariato, nelle persone di età si siano riaccesi furori erotici giovanili, se rifiorisca il mito della coppia unita come polemica contro divorzio e aborto, o se si tratti di un modello televisivo che non riesco a individuare, come il chiamare le figlie, a seconda dei decenni, Tamara, Samanta o Gessica.
Non ho mai visto tenersi per mano coppie bellissime, di quelle che ti volti a guardare lui o lei secondo i tuoi gusti. Che il tenere assicurati a sé i propri partner sia per alcuni un modo di non perdere l'unica persona che li ha un giorno gratificati di qualche attenzione sessuale? Il rassegnarsi a un legame sciaguratamente infrangibile? Un atto di resa al destino? Oppure un rigurgito di tenerezza per compensare l'incedere inesorabile della tarda età e il livello insufficiente del reddito?

Non lo so, ma la scomparsa dell'andar sottobraccio è come il declino del cappello alla Humphrey Bogart, che ormai si vede solo nei polizieschi ancora in bianco e nero - e credo che ai giovanissimi faccia la stessa impressione del cilindro in un drammone dell'Ottocento. Oppure io mi seggo abitualmente nel bar sbagliato, nella via sbagliata, nella città sbagliata e forse nel pianeta sbagliato.
Direte: ma a te che t'importa? Non ci sono oggi cose più serie di cui occuparsi? No.

   
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da l'espresso
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« Risposta #80 inserito:: Agosto 12, 2010, 08:45:44 am »

Non fate il funerale ai libri

di Umberto Eco

L'iPad, il Kindle e le altre tavolette sono strumenti eccellenti, ma non sperate di liberarvi dei volumi di carta. Anzi, ne vedremo sempre di più, in tutto il mondo

(05 agosto 2010)

L iPad Apple L'iPad AppleÈ sperabile che, quando questa Bustina uscirà, la buriana si sia calmata, ma mentre scrivo la mia estate è ossessionata da intere pagine culturali dei quotidiani i quali discutono se eventuali contratti degli autori per mettere le loro opere sui vari Kindle o IPad non preludano alla definitiva scomparsa del libro e delle librerie. Un quotidiano ha persino messo in bella evidenza una foto dei "bouquinistes" del Lungosenna dicendo che questi venditori di libri (vecchi) sono quindi destinati a sparire, senza considerare che, se davvero non si stampassero più libri, fiorirebbe proprio un ghiotto mercato librario "vintage" e le bancarelle, unico posto dove si potrebbero trovare i libri di una volta, vivrebbero di nuova vita.

In realtà la domanda se siamo arrivati al tramonto del libro è iniziata con l'avvento del personal computer (e fanno ormai trent'anni), tanto che alla fine Jean-Claude Carrière e io ci siamo stancati di rispondervi e abbiamo pubblicato una lunga conversazione intitolata provocatoriamente "Non sperate di liberarvi dei libri".

Sostenere un lungo avvenire per il libro non significa negare che certi testi di consultazione siano più comodi da trasportare su una tavoletta, che un presbite possa leggere meglio un giornale su un supporto elettronico dove può amplificare il corpo tipografico a piacere, che i nostri ragazzi possano evitare di inrachitirsi portando chili di carta nello zainetto. E neppure si vuole sostenere a ogni costo che per leggere "Guerra e pace" sotto l'ombrellone sia più comoda la forma-libro; io ne sono convinto, ma i gusti sono gusti, e auguro solo a chi ha gusti diversi di non incappare in una giornata di blackout. Ma la vera ragione per cui i libri avranno lunga vita è che abbiamo la prova che sopravvivono in ottima salute libri stampati più di cinquecento anni fa, e pergamene di duemila anni, mentre non abbiamo alcuna prova della durata di un supporto elettronico. Nel giro di trent'anni il disco floppy è stato sostituito dal dischetto rigido, questo dal dvd, il dvd dalla chiavetta, nessun computer è più in grado di leggere un floppy degli anni Ottanta e quindi non sappiamo se quanto c'era sopra sarebbe durato non dico mille anni ma almeno dieci. Quindi, meglio conservare la nostra memoria su carta.

Inoltre c'è una bella differenza tra toccare e sfogliare un libro fresco e odoroso di stampa e tenere in mano una chiavetta. Oppure tra ricuperare in cantina un testo di tanti anni fa che reca le nostre sottolineature e le nostre note a margine, facendoci rivivere antiche emozioni, e rileggere la stessa opera, in Times New Roman corpo 12, sullo schermo del computer. E anche ammesso che chi prova piaceri del genere sia una minoranza, su sei miliardi di abitanti del pianeta (ma saranno otto entro quindici anni), ci saranno abbastanza appassionati da sostenere un fiorente mercato del libro. E se poi usciranno dalle librerie e vivranno solo su Kindle o IPad i libri usa e getta, i best sellers da leggere in treno, gli orari ferroviari o le raccolte di barzellette su Totti o sui carabinieri, tanto meglio, tutta carta risparmiata.

Anni fa deprecavo che nelle vecchie e ombrose librerie di un tempo chi vi entrava per curiosità fosse affrontato da un signore severo che domandava che cosa cercasse, e il malcapitato, intimidito, usciva subito. E giustamente trovavo più incoraggianti le nuove librerie-cattedrale dove si può stare seduti o accovacciati per ore a scoprire e sfogliare di tutto. Ora però, se le tavolette elettroniche assorbiranno tutto il mercato dei libri usa e getta, potrebbero ritornare buone le librerie de tempi andati, dove gli affezionati andranno a cercare i libri che non si gettano. E poi, ricordo che anche in quelle librerie un ragazzo che faceva amicizia col libraio poteva lo stesso sostare per ore a curiosare tra gli scaffali.
Infine ricordiamo che mai, nel corso dei secoli, un nuovo mezzo ha sostituito totalmente il precedente. Neppure il maglio ha sostituito il martello. La fotografia non ha condannato a morte la pittura (se mai ha scoraggiato il ritratto il paesaggio e incoraggiato l'arte astratta), il cinema non ha ucciso la fotografia, la televisione non ha eliminato il cinema, il treno convive benissimo con auto ed aereo.

Dunque avremo una diarchia tra lettura su schermo e lettura su carta, e in ogni caso aumenterà in modo astronomico il numero delle persone che impareranno a leggere - visto che persino gli sms sono potenti strumenti di alfabetizzazione dei ripetenti. E, se aumenterà l'analfabetismo di ritorno nella vecchia Europa decadente e malthusiana, avremo miliardi di nuovi lettori in Asia e in Africa. E, per chi leggerà a cavalcioni del ramo di un albero nella foresta subtropicale, andrà sempre meglio un libro di carta che uno elettronico.

   
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http://espresso.repubblica.it/dettaglio/non-fate-il-funerale-ai-libri/2132084/18
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« Risposta #81 inserito:: Agosto 21, 2010, 03:53:33 pm »

Mariti di mogli ignote

di Umberto Eco

Quale è stata l'influenza di Gemma Donati su Dante, di Helena su Cartesio, per non dire delle tantissime altre mogli di cui la storia tace?

(20 agosto 2010)

L'Enciclopedia delle donne (http://www.enciclopediadelledonne.it) registra un gran numero di donne, da Caterina da Siena a Tina Pica, tra le quali moltissime ingiustamente dimenticate; e d'altra parte sin dal 1690 Gilles Ménage nella sua storia delle donne filosofe ci parlava di Diotima la socratica, Arete la cirenaica, Nicarete la megarica, Iparchia la cinica, Teodora la peripatetica (nel senso filosofico del termine), Leonzia l'epicurea, Temistoclea la pitagorica, di cui sappiamo pochissimo. È giusto che tante di costoro siano state sottratte ora all'oblio.
Quello che manca è una enciclopedia delle mogli. Si dice che dietro a ogni grand'uomo ci sia una gran donna, a partire da Giustiniano e Teodora per arrivare, se volete, a Obama e Michelle (è curioso che non sia vero l'inverso, si vedano le due Elisabette d'Inghilterra); ma in generale delle mogli non si parla. Dall'antichità classica in avanti più delle mogli contavano le amanti. Clara Schumann o Alma Mahler hanno fatto più notizia per le loro vicende extra o post matrimoniali. In fondo l'unica moglie che si cita sempre come tale è Santippe, e per parlarne male.

Mi è capitato tra le mani un testo di Pitigrilli, che infarciva le sue storie di citazioni erudite, sovente sbagliando i nomi (Yung invece di Jung, regolarmente) e più spesso ancora gli aneddoti, che andava a pescare in chissà quali effemeridi. In questa pagina ricorda il monito di San Paolo, "melius nubere quam uri", sposatevi proprio se proprio non ce la fate più (ecco un buon consiglio per i preti pedofili) ma osserva che la maggior parte dei grandi, come Platone, Lucrezio, Virgilio, Orazio e altri, erano scapoli. Ma non è vero, o almeno non del tutto.
Per Platone va bene, da Diogene Laerzio sappiamo che scriveva solo epigrammi per giovanotti molto carini, anche se tra le sue discepole aveva preso due donne, Lastenia e Assiotea, e se diceva che l'uomo virtuoso deve prender moglie. Si vede che pesava su di lui il matrimonio mal riuscito di Socrate. Però Aristotele prima aveva sposato Pizia, e poi dopo la morte di lei si era unito a Erpillide, non si capisce bene se come moglie o come concubina, ma vivendo con lei more uxorio, a tal punto da ricordarla affettuosamente nel suo testamento - a parte il fatto che da lei aveva avuto Nicomaco, quello che ha poi dato il nome a una delle Etiche.
Orazio non ha mai avuto né moglie né figli, ma sospetto, dato quello che scriveva, che qualche scappatella se la concedesse, e Virgilio pare fosse così timido da non osare dichiararsi, ma si sussurra che avesse avuto una relazione con la moglie di Vario Rufo. Però Ovidio si sposa tre volte. Di Lucrezio le fonti antiche non ci dicono quasi nulla; un accenno di San Gerolamo lascia pensare che avesse commesso suicidio perché un filtro d'amore lo aveva condotto alla follia (ma il santo aveva interesse a dichiarare pazzo un ateo pericoloso), e di lì la tradizione medievale e umanistica han ricamato su una misteriosa Lucilia, moglie o amante che fosse, maga o donna innamorata che aveva chiesto il filtro a una maga; si diceva anche che Lucrezio il filtro se lo fosse propinato da solo, ma in ogni caso la Lucilia non ci fa una bella figura. A meno che non avesse ragione Pomponio Leto, secondo cui Lucrezio si sarebbe ucciso perché infelicemente innamorato di tale Asterisco (sic).
Andando avanti nei secoli, Dante ha continuato a fantasticare su Beatrice, ma si era sposato con Gemma Donati, anche se non ne parla mai. Tutti pensano che Cartesio fosse scapolo (essendo morto troppo presto e con una vita molto movimentata), ma in effetti aveva avuto una figlia, Francine (morta a soli 5 anni) da una domestica conosciuta in Olanda, Helena Jans van der Strom, che si era tenuta come compagna per alcuni anni, anche se riconoscendola solo come colf. Però, contrariamente ad alcune calunnie, aveva riconosciuto la figlia - e secondo altre fonti aveva avuto anche altre avventure.
Insomma, dando per celibatari gli ecclesiastici e i personaggi più o meno dichiaratamente omosessuali come Cyrano de Bergerac (mi scuso di dare una notizia così atroce ai fedeli di Rostand) o Wittgenstein, che un grande sia stato scapolo lo si sa di sicuro solo per Kant. Non si direbbe, ma persino Hegel era sposato, anzi, pare sia stato anche sciupafemmine, con un figlio naturale, e buona forchetta. Per non dire di Marx, legatissimo alla moglie Jenny von Westphalen.

Un problema rimane: quale è stata l'influenza di Gemma su Dante, di Helena su Cartesio, per non dire delle tantissime altre mogli di cui la storia tace? E se tutte le opere di Aristotele le avesse scritte in realtà Erpillide? Non lo sapremo mai. La Storia, scritta dai mariti, ha condannato le mogli all'anonimato.


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« Risposta #82 inserito:: Settembre 04, 2010, 09:17:15 am »

Lo strano caso dell'ignoto commensale

Umberto Eco

Pranzo in un ristorante cinese e "il Giornale" ci scrive un trafiletto: si legge che le bacchette sono "una passione comune al gotha progressista" e, udite udite, ero con un ospite sconosciuto

(03 settembre 2010)

Appena ora mi cade sotto gli occhi un trafiletto da "il Giornale" del 13 luglio. Meglio tardi che mai. Dice: "Al professore piace la cucina fusion. Umberto Eco, considerato un punto di riferimento del pensiero di sinistra, è stato avvistato sabato scorso a Milano, all'ora di pranzo, seduto a tavola con un ignoto commensale al ristorante di specialità asiatiche di via San Giovanni sul Muro. Locale sobrio ma non certo esclusivo, ecco i "classici" preferiti dall'autore del "Nome della rosa": nel menu riso cantonese, spaghetti di soia al curry e pollo con verdure e bambù, oltre a ricette più sperimentali. Quella di armeggiare con le bacchette deve essere una passione comune al gotha progressista. Nello stesso ristorante cino-meneghino, infatti, era già stato adocchiato di recente anche Guido Rossi, giurista, già senatore, ex presidente Telecom e commissario straordinario della Figc durante la rovente estate di Calciopoli nel 2006. La Cina è più vicina. Basta aggiungere un posto a tavola".

Niente di straordinario. Ci sono cronisti che campano raccontando piccoli aneddoti, e siccome non posso sospettare che l'estensore del trafiletto si apposti ogni giorno in un ristorante cinese "non esclusivo" (in cui cioè sarebbe difficile sorprendere a lume di candela, che so, Paola Binetti con Rocco Siffredi, o Carla Bruni col ministro Brunetta), non rimane da ritenere che anche l'aspirante dagospia lo frequenti normalmente, visto che è bene illuminato, pulito, e alla portata economica di chi si trova ai gradini più modesti di una gerarchia redazionale. Annoiato di mangiare per l'ennesima volta involtini primavera, l'anonimo deve aver fatto un balzo sulla sedia all'idea di aver imbroccato uno scoop straordinario che avrebbe cambiato la sua carriera.

Non c'è niente di più normale che andare in un ristorante cinese, ed è più normale ancora che vi andiamo sia Guido Rossi che io. Non sapevo che ci andasse anche lui, ma quel ristorante è a cento metri dalle nostre rispettive abitazioni, e quindi è ovvio che ci si vada, se proprio non si vuole gustare l'orchidea ai ricci di mare da Cracco-Peck per poche centinaia di euro.

Perché dare una notizia così priva di interesse, peggio del cane che morde l'uomo, addirittura come dire che il cane abbaia?
Provo a fare ipotesi. Anzitutto bisogna diffondere sospetti, sia pure vaghi, su chi non condivide le tue idee. Ricorderete tutti l'episodio della trasmissione televisiva "Mattino 5" che ha pedinato e mostrato il magistrato Mesiano (colpevole di una sentenza sul Lodo Mondadori che è dispiaciuta al nostro presidente del consiglio) mentre passeggiava, fumava qualche sigaretta, andava dal parrucchiere e infine sedeva su una panchina mostrando dei calzini turchesi, tutte cose che il commento audio definiva "stranezze", e quindi indici del fatto che il magistrato fellone non doveva essere sano di mente.

Si diceva male di lui? Per nulla. Ma perché andava in calzini turchesi dal barbiere (quando i cittadini per bene ci vanno al massimo in calzini amaranto), e soprattutto perché qualcuno si premurava di dircelo come per inviarci un messaggio in codice? È una tecnica giornalistica non da premio Pulitzer ma che può avere qualche presa su persone che indossano calzini corti.

Probabilmente al "Giornale" stanno pensando a un elettore di una certa età, che con la moglie mangia solo quattro spaghetti in bianco e verdura cotta e che inorridisce di fronte alla notizia che qualcuno vada a mangiare come i cinesi (che notoriamente prediligono scimmie e cani); o vivente in remoti villaggi dove di ristoranti cinesi non si è mai sentito parlare; o sospettoso di ogni cosa che abbia a che fare con etnie troppo invasive e figuriamoci i cinesi; o (e lo si dice) che ritenga l'uso delle bacchette "una passione comune al gotha progressista", perché le persone moderate usano la forchetta come ha insegnato la mamma; o che addirittura pensi che in Cina ci sia ancora Mao e che quindi mangiare cinese significhi proclamare (e il trafiletto lo suggerisce) che, come nel Sessantotto, la Cina è vicina (nota bene, è davvero vicina, ora, ma ormai per ragioni più di destra che di sinistra).

Inoltre che cosa vuole dire che ero a tavola con "un ignoto commensale"? Chi era costui di cui mi ingegnavo a non palesare il nome con appositi cartelli? Da dove veniva? Perché si incontrava con me (dopo essersi magari incontrato il mese prima con Guido Rossi)? Perché in un ristorante cinese, come in un romanzo di Dashiell Hammett, e non alle Colline Pistoiesi o Alla bella Napoli?
Ecco che cosa fa il "gotha progressista". Meno male che la stampa vigila.

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« Risposta #83 inserito:: Settembre 17, 2010, 02:18:07 pm »

El me' Aristòtil

di Umberto Eco

Tornare alla conoscenza del dialetto è fondamentale per conservare le nostre radici.

Ma sostituire i dialetti alle lingue nazionali significa ripiombare nel ghetto intere popolazioni

(17 settembre 2010)

Non ci crederete, ma chiedendo su Internet una voce poco comune (Marin Mersenne, un contemporaneo di Cartesio) mi sono ritrovato un testo di Wikipedia in piemontese. Incuriosito, ho cercato meglio, e ho trovato che moltissime voci si possono trovare tradotte (oltre che in tutte le lingue di nazioni che siedono all'Onu, alcune in alfabeti per noi illeggibili) anche in Asturiano, Sardo, Siciliano, Corso, Galiziano, Interlingua, Maori, Occitano, Swahili, Veneto, Volapük, Yoruba e Zulù. Naturalmente sono stato attratto dai dialetti italiani e, lasciato da parte il buon padre Mersenne, che troverebbe impreparati molti dei miei lettori, mi sono appuntato su Aristotele che, essendo il maestro di color che sanno, è anche il maestro dei lettori de "L'espresso". Di lui si dice in piemontese che "Aristòtil a l'era nassù a Stagira (an Macedònia) dël 384 aGC e a l'é mòrt a Calcis (ant l'Eubéa) dël 322 aGC. A l'ancamin dissìpol ëd Platon, Aristòtil a fonda tòst soa pròpia scòla filosòfica a Atene, ël Licéo. Soa curiosità anteletual a l'ha tocà tuti ij domini dla conossensa". Come neppure Camilleri oserebbe, si annota in siciliano che "Ntô 348/7, annu dâ morti di Platoni, ntô mumentu 'n cui lu filòsufu Spiusippu veni disignatu a succèdiri ô mastru ntâ dirizzioni dâ scola, Aristòtili abbannuna l'Accadèmia nzèmmula a Senucrati. Havi nizziu accussì lu pirìudu di li viaggi: Aristòtili suggiorna prima a Atarneu, pressu lu tirannu Ermia, appoi a Mitileni, nta l'isula di Lesbo; 'n stu pirìudu si didica â ricerca e forsi macari ô nzignamentu (sècunnu Jaeger avissi funnatu a Assu, nzèmmula ê filòsufi Senucrati, Erastu, Còriscu na sorta di succursali di l'Accadèmia)".

Giunti al sardo si specifica che "Custu artìculu est unu abotzu. Lu podes modificare e lu fàghere mannu e bellu. Agiudanos!". Ma in veneto si apprende che "e òpere de Aristotele e se divide in scriti acroamàtisi o exotèrisi, chei i xé spunti per e lesion del fi- òxofo, e esotèrisi, fati per el pùblico. Sti ùltemi i xé un grupo de dià oghi, un protrètico (testo chel conségia a fi oxofia) e un su a fi oxofia. I exotèrisi invese i xé dixisi in testi de metafìxica, in quatòrdexe libri, chei demostra a progresiva destinsion del pensièr de Aristotele da queo del maestro Platon, i ga come tema prinsipal a sostansa". Trovo in Bân-lâm-gú che "Chit phin bûn-chiun s chit ê phí-á-kián", e non posso che consentire. È però curioso che manchi la versione in lombardo, segno che l'iniziativa non risale ai sindaci leghisti che mettono i nomi delle strade in dialetto (o costoro non hanno mai sentito parlare di Aristotele). Ora, devo confessare che sentir dire in piemontese che "Aristòtil ant J'analìtich (anté che analìtich a l'é lòn che al di d'ancheuj a l'é dit lògica), a definiss ël silogism, na sòrt dë schema lògich. A men-a anans cost ëstudi con d'arflession an sla dimostrassion e l'andussion", mi fa una certa tenerezza. Ma me la fa perché mi ricorda quando al liceo ci si divertiva a ridire in dialetto quel che i professori ci insegnavano in italiano. Salvo che parlavano meglio dialetto, e quindi ci facevano più ridere, quelli che in casa non avevano mai parlato italiano, e quindi alla maturità se la sarebbero cavata meno bene, non dico in italiano, ma persino in filosofia, perché non sapevano esprimere con chiarezza i concetti.

Infatti il dialetto, ottimo per il comico, il familiare, il concreto quotidiano, il nostalgico-sentimentale, e spesso il poetico, alle nostre orecchie deprime i contenuti concettuali nati e sviluppatisi in altra lingua. Chiedetevi perché "il pensiero di Aristotele ha come tema principale la sostanza", tradotto in tedesco non fa ridere, e tradotto in veneto sembra Arlecchino servo di due padroni. Inoltre chi fosse pur capace di riassumere tutto Aristotele in piemontese, non riuscirebbe a raccontarlo a chi parlasse non dico siciliano ma persino lombardo - se si pensa che una volta, leggendo una raccolta di poesie dialettali in alessandrino, mi sono trovato a un certo punto imbarazzato di fronte a una poesia scarsamente comprensibile, e ho poi scoperto che era scritta nel dialetto di Casalbagliano, che da Alessandria dista soltanto sei chilometri.
Le lingue nazionali sono servite nel corso della storia a unificare le culture locali, e nel bailamme di dialetti africani cara grazia che sia esistito lo swahili in cui diverse genti di etnie diverse hanno potuto comprendersi e fare affari. Tornare alla conoscenza del dialetto (o non perderla) è fondamentale per conservare le nostre radici, ma sostituire i dialetti alle lingue nazionali, come vogliono alcuni sconsiderati, significa ripiombare nel ghetto tante popolazioni che avevano avuto la possibilità di guardare al di là dei confini del loro villaggio.

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« Risposta #84 inserito:: Ottobre 01, 2010, 03:57:36 pm »

La virginiana e l'iraniana

di Umberto Eco

Mobilitazione per Sakineh Ashtiani, silenzio per Teresa Lewis. Ma se i nostri pensieri non fossero torbidi dovremmo dire che non si deve ammazzare nessuno, neppure in modo indolore

(01 ottobre 2010)

Da pochi giorni, in Virginia, Teresa Lewis è stata uccisa con una iniezione letale, e nessuno è andato in prigione perché questa signora era stata legittimamente condannata a morte. Aveva tentato di ammazzare marito e figlio adottivo, e lo aveva fatto senza permesso. Coloro che l'hanno uccisa lo hanno invece fatto col consenso delle autorità. Per cui bisognerebbe riformulare il quinto comandamento come "Non ammazzare senza permesso". In fondo da secoli benediciamo le bandiere dei soldati che, inviati alla guerra, hanno licenza di uccidere, come James Bond.

Ora pare che Ahmadinejad, il quale sta per far lapidare una donna (se non l'avrà già fatto quando leggerete questa bustina) abbia reagito agli appelli, arrivati dall'Occidente, dicendo: "Vi lamentate perché noi vogliamo ammazzare legalmente una donna iraniana, mentre ammazzate legalmente una donna americana"?

Naturalmente gli è stato obiettato che la donna americana aveva cercato di uccidere suo marito, mentre l'iraniana lo ha solo cornificato. E che l'americana è stata uccisa in modo indolore, mentre l'iraniana sarebbe uccisa in modo dolorosissimo. Però una risposta del genere verrebbe a sottintendere due cose: che è giusto ammazzare un'assassina mentre per un'adultera basterebbe una separazione legale senza alimenti; e che si può ammazzare secondo la legge purché in modo poco doloroso. Mentre quello che si dovrebbe invece sostenere, se i nostri pensieri non fossero torbidi, è che non si deve ammazzare neppure un'assassina, e non si deve ammazzare neppure per legge e neppure se l'esecuzione è poco dolorosa, persino se avvenisse iniettando una droga che procura uno sballo delizioso.
Come reagire se paesi poco democratici chiedono a noi cittadini di paesi democratici di non occuparci delle pene di morte loro visto che abbiamo le pene di morte nostre?

La situazione è molto imbarazzante e mi piacerebbe anzi sapere se il numero degli occidentali, tra cui addirittura una first lady francese, che hanno protestato contro la pena di morte iraniana hanno anche protestato contro la pena di morte americana. A naso direi di no, perché di condanne a morte negli Stati Uniti, per non dire della Cina, ce ne sono moltissime e ci abbiamo fatto il callo, mentre è naturale che l'idea di una donna massacrata a colpi di pietra faccia più effetto. Mi rendo conto che quando mi hanno chiesto di dare una firma per impedire la lapidazione dell'iraniana l'ho subito fatto, ma mi era sfuggito che nel frattempo stavano ammazzando una virginiana.

Avremmo ugualmente protestato se la donna iraniana fosse stata condannata a una pacifica iniezione letale? Ci indigniamo per la lapidazione o per la morte inflitta a chi non ha violato il quinto bensì solo il sesto comandamento? Non so, è che le nostre reazioni sono sovente istintive e irrazionali.
In agosto era apparso su Internet un sito dove si insegnavano vari modi per cucinare un gatto. Scherzo o cosa seria che fosse, tutti gli animalisti del mondo erano insorti. Io sono un devoto del gatto (uno dei pochi esseri viventi che non si lascia sfruttare dal proprio padrone ma al contrario lo sfrutta con cinismo olimpico, e la cui affezione alla casa prefigura una forma di patriottismo) e pertanto rifuggirei con orrore da uno stufato di gatto. Però trovo egualmente grazioso, anche se forse meno intelligente, il coniglio, eppure lo mangio senza riserve mentali.
Mi scandalizzo vedendo le case cinesi dove i cani girano in libertà, magari giocando coi bambini, e tutti sanno che saranno mangiati a fine anno, ma nelle nostre fattorie si aggirano i maiali, che mi dicono siano animali intelligentissimi, e nessuno si preoccupa che ne debbano nascere prosciutti.
Che cosa ci induce a giudicare certi animali immangiabili, altri protetti da una loro caratteristica quasi antropomorfa, e altri mangiabilissimi, come i vitellini di latte e gli agnellini che pure da vivi ci ispirano tanta tenerezza?

Siamo veramente (noi) animali stranissimi, capaci di grandi amori e spaventosi cinismi, pronti a proteggere un pesciolino rosso e a far bollire viva un'aragosta, a schiacciare senza rimorsi un millepiedi ma a giudicare barbara l'uccisione di una farfalla. Così usiamo due pesi e due misure per due condanne a morte, ovvero ci scandalizziamo per una e facciamo finta di non sapere dell'altra.
Certe volte si è tentati di dar ragione a Cioran, e ritenere che la creazione, sfuggita dalle mani di Dio, sia dipesa da un Demiurgo maldestro e pasticcione, forse un poco alcolizzato, che si era messo al lavoro con idee molto confuse.

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« Risposta #85 inserito:: Ottobre 15, 2010, 10:41:54 pm »

LE IDEE

Il Paese dei dottori laureati al parcheggio

di UMBERTO ECO

LA CLASSICA laurea quadriennale italiana, con una tesi finale che talora (anche se non sempre) poteva tener testa alle tesi di PhD di altre università, era un unicum italiano. Negli altri paesi in genere c'è un primo corso triennale alla fine del quale si prende, come in Francia, una license o come nei paesi anglosassoni un BA, o baccellierato. Poi si può fare quello che in America si chiama master (ma non è esattamente quello che è ora un nostro master) e, per chi ha una vocazione alla ricerca, il PhD alla fine del quale, e solamente alla fine del quale, si viene nominati Dottore (lasciamo da parte i dottorati francesi di vari cicli perché c'è da perderci la testa). Essere Dottore, in America, è così importante, che in certe situazioni formali, per onorare uno studioso, non lo si chiama "Professor" Smith bensì "Doctor" Smith. Il Professor può essere anche un laico assunto a contratto, il Doctor ha conseguito il massimo titolo accademico.
Non vi dico i guai quando un nostro laureato andava a proseguire i suoi studi all'estero. La laurea italiana con la sua tesi di dimensioni mostruose valeva un PhD americano? Di solito si diceva di no. Valeva solo un BA? Era un'ingiustizia. Si poteva equipararla a un Master? Era da discutere.
Ecco perché non era assurdo che, con la riforma Berlinguer, si tentasse una equiparazione dei titoli e dei periodi di studio.

La riforma era partita inoltre dalla persuasione che in Italia il numero degli studenti iscritti che non si laureavano fosse alto perché la laurea quadriennale, con il fantasma della imponente tesi finale, incoraggiava gli abbandoni o quei fuori corso chiamati "studenti in sonno". Ora si scopre che gli studenti italiani tardano anche a terminare il triennio. È una iattura, di cui andranno meglio analizzate le cause, ma di cui non è responsabile il sistema 3+2.
Veniamo alla seconda iattura. Su questo stesso numero di Alfabeta Gigi Roggero mi fa dire (ma onestamente aggiunge "grosso modo") che ci volevano più laureati anche se meno preparati. Non credo di aver mai detto così, avrò detto che ci volevano più laureati anche se con un anno di meno, ed è cosa molto diversa. Infatti quando si discuteva della 3+2 ero convinto (come lo sono ancora) che in tre anni ci si possa preparare molto bene, e meglio di quanto non avvenga in un triennio americano che, per poter ricuperare su una high school disastrosa, di non solito non insegna più di quanto non faccia (o non facesse) un nostro buon liceo (e l'aspetto positivo di un BA non è nella profondità degli insegnamenti, ma nel fatto che i ragazzi vivono in college, con frequenza obbligatoria, con la possibilità di avvicinare i professori quando lo desiderano).

Come in tre anni ci si possa preparare in modo eccellente lo spiego subito, partendo dalla mia personale esperienza di studente di filosofia negli anni cinquanta. All'epoca, per la laurea quadriennale, occorreva dare diciotto esami. I nostri professori (che, detto incidentalmente, erano personaggi della taratura di Abbagnano, Bobbio, Pareyson eccetera) si erano messi tutti d'accordo in modo che alla fine dei quattro anni, tra un esame e l'altro, si riuscisse a portare (oltre ai corsi monografici) quasi tutti i classici della filosofia, da Platone a Heidegger. A seconda del quadriennio in cui capitavi poteva accaderti di saltare, che so, Hegel, ma quando ti eri scozzonato su Aristotele, Spinoza o Kant (tutte e tre le critiche) eri poi in grado di leggere da solo il resto.
Di questi diciotto pesantissimi esami, per laurearsi entro il quadriennio (chi andava fuori corso o era studente lavoratore o era incappato nella classica nevrosi da tesi) se ne davano cinque in ciascuno dei primi tre anni, e tre nell'ultimo, per avere tempo da dedicare alla tesi. Nessuno è mai morto di fatica.
Ora, se quei quattro anni dovevano formare un esperto in filosofia, c'erano molti esami che con la filosofia non c'entravano, come latino, italiano, o quattro di storia. Visto che all'epoca queste materie si erano già fatte molto bene al liceo, si sarebbero potuti eliminare almeno tre di quegli esami, ed ecco che si sarebbe arrivati a quindici esami di materie filosofiche, liquidabili in tre anni (senza tesi finale), e leggendo ugualmente i classici e non dei riassunti.

Perché non si è fatto così per l'attuale triennio e si è presupposto di avere a che fare con adolescenti sottosviluppati? Perché si è data un'interpretazione restrittiva e fiscale dei "crediti". I crediti sono un modo di quantificare il lavoro svolto dallo studente, in modo che se si sposta all'estero si sappia a quale livello di studio parificarlo. Si è deciso di calcolare i crediti in base alle ore passate a casa a studiare (una stupidaggine, o una finzione) o al numero di pagine da portare per l'esame. Inoltre, per giustificare il lavoro di molti vecchi e giovani docenti, si sono stabiliti tanti moduli con un numero di ore assai limitato. Ed ecco che, in base ai crediti a cui ha diritto per quel modulo, lo studente non deve studiare più di  -  diciamo  -  cento pagine, al punto da protestare se il docente gli dà un testo di centoventi pagine. Gli editori si sono riciclati facendo libri di testo tisicuzzi, e così lo studente è stato incoraggiato a leggere poco, in fretta, e ad accumulare crediti (che sono misura soltanto quantitativa) a scapito della qualità del suo apprendimento. Mentre, se proprio ci si voleva attenere all'uso europeo dei crediti, bastava legarli al numero e al risultato degli esami; se qualcuno dà due esami in luogo di uno, e col massimo dei voti, non interessa sapere quanto abbia studiato a casa; o ha studiato più degli altri, o è più sveglio, e gli si diano dunque tutti crediti che si è guadagnato, ma non gli si diminuisca il peso del lavoro, perché deve imparare a faticare.

Ho persino il sospetto che con criteri così severi forse si laureerebbero più ragazzi, perché si troverebbero di fronte a una sfida e non sarebbero incoraggiati a rigirarsi i pollici. Ma se poi non si laureano in tempo si deve anche ritenere che, tranne ovviamente le eccezioni folgoranti, arrivino già sottosviluppati dalla media superiore, come risulta dai test che denunciano ignoranze abissali  -  e quindi bisognerebbe mettere in discussione anche quanto avviene prima dei diciott'anni.

A rendere inoltre risibile il 3+2 c'è poi la storia grottesca del "dottore". In tutti gli altri paesi si è dottore solo dopo il dottorato di ricerca e dunque dopo almeno otto anni di studio. Con i diplomi precedenti si è solo Mister, Herr o Monsieur. Alcuni di noi avevano sconsigliato di seguire il vecchio andazzo e di definire già dottore chi terminava il biennio della laurea magistrale; ma il legislatore, forse anche sotto la pressione di tutte le mamme e i babbi d'Italia, con il Decreto del 22 ottobre 2004, n.2707 ha infine stabilito: "A coloro che hanno conseguito, in base agli ordinamenti didattici di cui al comma 1, la laurea, la laurea magistrale o specialistica e il dottorato di ricerca, competono, rispettivamente, le qualifiche accademiche di dottore, dottore magistrale e dottore di ricerca".

Spero che il lettore abbia capito: in Italia si diventa dottore tre volte, una volta dopo tre anni, l'altra dopo due e l'altra ancora dopo tre o quattro. A parte i dottorati conferiti dal cameriere o dal posteggiatore. Come faranno all'estero a prendere sul serio i nostri dottori anche se arriveranno con le tasche piene di stupidi crediti?

(15 ottobre 2010) © Riproduzione riservata
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« Risposta #86 inserito:: Ottobre 15, 2010, 10:52:58 pm »

Diavolo di un Aristotele

di Umberto Eco

Il filosofo ha il merito di aver definito per primo la metafora, sia nella Poetica sia nella Retorica, e in quelle sue definizioni sosteneva che essa non è puro ornamento bensì una forma di conoscenza

(15 ottobre 2010)

È appena uscito in italiano un curioso libro di Peter Leeson, "L'economia secondo i pirati. Il fascino segreto del capitalismo" (Garzanti, 21,60) dove l'autore, storico americano del capitalismo, spiega i principi fondamentali dell'economia e della democrazia moderne prendendo come modello gli equipaggi delle navi pirata del XVII secolo (sì, proprio quelle del Corsaro Nero o di Pietro l'Olonese, con la bandiera col teschio che, all'inizio, non era nera bensì rossa, da cui il nome "Jolie rouge" che in inglese era stato poi storpiato come "Jolly Roger").
Leeson dimostra che, con le sue leggi ferree, a cui ogni pirata per bene si atteneva, la filibusta era un'organizzazione "illuminata", democratica, egualitaria e aperta alla diversità: in poche parole era un modello perfetto di società capitalistica.

Su questi temi ricama anche Giulio Giorello nella sua prefazione e pertanto non mi occuperò di quanto dice il libro di Leeson, bensì di una associazione di idee che mi ha fatto sorgere. Perbacco, chi, anche senza poter sapere niente del capitalismo, aveva tracciato un parallelo tra pirati e mercanti (vale a dire imprenditori liberi, modelli del capitalismo futuro) era stato Aristotele.
Aristotele ha il merito di aver definito per primo la metafora, sia nella Poetica sia nella Retorica, e in quelle sue definizioni inaugurali sosteneva che essa non è puro ornamento bensì una forma di conoscenza. Non sembri cosa da poco perché nei secoli successivi la metafora è stata vista a lungo solo come un modo di abbellire il discorso senza tuttavia cambiarne la sostanza. E ancor oggi c'è qualcuno che la pensa così.
Nella Poetica diceva che capire le buone metafore vuole dire "sapere scorgere il simile o il concetto affine". Il verbo che usava era "theoreîn", che vale per scorgere, investigare, paragonare, giudicare. Su questa funzione conoscitiva della metafora Aristotele tornava con maggiore ampiezza nella Retorica dove diceva che è gradevole ciò che suscita ammirazione perché ci fa scoprire una analogia insospettata, vale a dire ci "mette sotto gli occhi" (così si esprimeva) qualcosa che non avevamo mai notato, per cui si è portati a dire "guarda, è proprio così, eppure non lo sapevo".

Come si vede in tal modo Aristotele assegnava alle buone metafore una funzione quasi scientifica, anche se si trattava di una scienza che non consisteva nello scoprire qualcosa che era già là, bensì, per così dire, nel farlo apparire là per la prima volta, nel creare un modo nuovo di guardare le cose.
E quale era uno degli esempi più convincenti di metafora che ci mette qualcosa sotto gli occhi per la prima volta? Una metafora (che non so dove Aristotele avesse trovato) per cui i pirati venivano detti "provveditori" o "fornitori". Come per altre metafore Aristotele suggeriva che si individuasse, per due cose apparentemente diverse e inconciliabili, almeno una proprietà comune, e poi si vedessero le due cose diverse come specie di quel genere.
Anche se i mercanti erano di solito considerati brave persone che andavano per mare a trasportare e vendere legalmente le loro merci, mentre i pirati erano dei mascalzoni che assalivano e depredavano le navi di quegli stessi mercanti, la metafora suggeriva che pirati e mercanti avessero in comune il fatto di operare il passaggio di merci da una fonte al consumatore. Indubbiamente una volta che avevano depredato le loro vittime, i pirati andavano a vendere i beni conquistati da qualche parte e quindi erano dei trasportatori, provveditori e fornitori di merci - anche se i loro clienti erano probabilmente imputabili di incauto acquisto. In ogni caso quella fulminea somiglianza tra mercanti e predatori creava tutta una serie di sospetti - così che il lettore era indotto a dire: "Così era, e prima mi sbagliavo".

Da un lato la metafora obbligava a riconsiderare il ruolo del pirata nell'economia mediterranea, ma dall'altro induceva a qualche sospettosa riflessione sul ruolo e i metodi dei mercanti. Insomma, quella metafora, agli occhi di Aristotele, anticipava quello che poi avrebbe detto Brecht, che il vero crimine non è rapinare una banca bensì possederla - e naturalmente il buon stagirita non poteva sapere che l'apparente boutade di Brecht sarebbe apparsa tremendamente inquietante alla luce di quanto è accaduto negli ultimi tempi nel mercato finanziario internazionale.
Insomma, non occorre far finta che Aristotele la pensasse come Marx, lui che faceva il consigliere di un monarca, ma capirete come mi ha divertito questa storiella dei pirati. Diavolo di un Aristotele.

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« Risposta #87 inserito:: Novembre 02, 2010, 11:59:21 pm »

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L'opinione

Il "Potemkin" di Hitchcock

di Umberto Eco

Anche nelle scuole andrebbe praticata una "attribuzione mobile", cambiando di autore (e di prospettiva) ogni volta, e leggere un "Fratelli Karamazov" di Nietzsche e una "Montagna incantata" di Flaubert

(29 ottobre 2010)

Nel 2007 avevo recensito in questa Bustina "Come parlare di un libro senza averlo mai letto" di Pierre Bayard, ammettendo che, anche se provocatorio, il suo discorso raccontava quello che accade esattamente ad ogni persona colta, in grado di parlare di cose non lette, perché nessuno può umanamente aver letto tutto. L'anno dopo ritornavo su Bayard che intanto aveva pubblicato "Il caso del mastino dei Baskerville" dove, psicoanalizzando punti oscuri del testo di Arthur Conan Doyle, cercava di mostrare come un lettore avesse il diritto di ritenere significative molte ambiguità o reticenze (come fanno del resto gli psicoanalisti) e di concluderne che Sherlock Holmes si era sbagliato nel risolvere il mistero. Questo secondo libro era, secondo me, meno persuasivo del primo, ma certamente ugualmente gustoso.

Ma Bayard non demorde e - dopo un altro libretto su come migliorare le opere mal riuscite - ci offre ora questo "Et si les oeuvres changeaient d'auteur?" (Parigi, Minuit). È evidente che il libro è in debito con Borges, il quale aveva immaginato la storia di Pierre Menard che aveva riscritto il "Don Chisciotte" tale e quale lo aveva scritto Cervantes, salvo che letto come opera di un contemporaneo, quel libro acquistava tutt'altro significato. Non sempre il gioco riesce, perché Borges aveva anche proposto di leggere la "Imitazione di Cristo" come se fosse stata scritta da Céline, e io una volta ci avevo provato, rilevando che per una decina di righe la cosa poteva funzionare, ma alla fine la faccenda s'inceppava.
Ora Bayard oscilla tra varie opzioni. Da un lato si occupa della creazione di autori immaginari che probabilmente non sono quelli veri (tipico il caso di Shakespeare che forse non era Shakespeare ma, suggerisco io, soltanto un signore che si faceva chiamare Shakespeare: però è ovvio che, chiunque fosse, noi abbiano oggi l'immagine di un autore che è quello che ha scritto le opere di Shakespeare e il resto è pettegolezzo erudito).

Il secondo problema è quello di autori che si sono creati mediante pseudonimo un doppio, ed è interessante l'analisi di un Boris Vian che si fa passare non solo per un altro, ma per un americano (Vernon Sullivan) e crea così un doppio cambiamento di prospettiva. Peccato che Bayard non consideri il caso Pessoa coi suoi pseudonimi ed eteronimi. Il terzo caso è quello dei plagi per anticipazione, e gustosissimo è il capitolo riservato a Lewis Carroll come autore profondamente influenzato dai surrealisti e da Joyce; procedimento che diventa correttissimo se si ribalta la prospettiva e ci si domanda se e quanto i surrealisti e Joyce siano stati influenzati da Carroll (ma ammetto che così diventa meno divertente).

Vediamo ora i capitoli dedicati al cambio completo di autore e addirittura di arte (come quando Bayard considera "L'urlo", quello di Munch, come opera musicale di Schumann). Sin dall'inizio Bayard discute con molta serietà una ipotesi già avanzata da Samuel Butler, e cioè come si possa rileggere la "Odissea" pensando che sia stata scritta da una donna (e pensate al ruolo che le donne vi hanno, mentre certamente la "Iliade" è storia alquanto maschilista). Così siamo invitati a rileggere "Lo straniero" di Camus come se fosse di Kafka, "Via col vento" come dovuto a Tolstoi e (esercizio raffinatissimo) i "Sette pilastri della saggezza" di D. H. Lawrence, rispetto a "L'amante di Lady Chatterley" di T. E. Lawrence. Appassionante "L'incrociatore Potemkin" come film di Hitchcock, ma il pezzo di bravura più riuscito di tutto questo libretto è "L'etica" di Spinoza attribuito a Freud.

Io, or sono cinquant'anni, mi ero divertito a rileggere i "Promessi sposi" come se fosse di Joyce, ma l'avevo fatto per parodiare alcune tendenze della critica americana di quei tempi, intesa a trovare simboli e allusioni ultraviolette dappertutto. Il mio esercizio non mirava a capire meglio né Manzoni né Joyce, anzi, stravolgeva entrambi. Invece Bayard seriamente ritiene che questi cambi di prospettiva aiutino a vedere le opere sotto punti di vista sorprendenti e fecondi.

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« Risposta #88 inserito:: Novembre 12, 2010, 03:25:31 pm »

Chi era costui?

di Umberto Eco

La nostra è una contemporaneità senza memoria: i nostri studenti confondono Moro con Curcio e credono che De Gasperi fosse un capo comunista.

E non si salva neppure Woody Allen...

(12 novembre 2010)

Verso la fine degli anni Cinquanta nei fumetti americani, se il protagonista si spostava indietro nel tempo e capitava nel Medioevo, i personaggi apparivano vestiti in abiti cinque-secenteschi. Era l'epoca in cui nei film i detective americani arrivavano su automobili lunghe dieci metri con giacche enormi non sciancrate, e si ironizzava su quei cafoni per i quali tutto quello che era avvenuto prima della guerra di Secessione era età della pietra. D'altra parte più di dieci anni dopo un filosofo allora in voga, Gilbert Harman, aveva posto un cartello all'entrata del dipartimento di filosofia di Princeton, che diceva "Proibito l'ingresso agli storici della filosofia". L'America è infastidita dal passato, e se Bush avesse letto cronache del secolo prima avrebbe saputo che nessun esercito europeo, né russo né inglese, era mai riuscito a vincere sui monti dell'Afghanistan. Naturalmente si parla dell'America della gente comune, perché nelle università (anche nel Texas) queste cose si sanno, ma nessuno al Pentagono prende sul serio i professori universitari, come del resto ormai da noi.

Il fatto è che ormai ci siamo civilizzati e siamo tutti americani. Da tempo ci si stupisce come mai i nostri studenti, intervistati, confondano Moro con Curcio e credono che De Gasperi fosse un capo comunista. Noi, ragazzini alla fine degli anni Trenta, sapevamo benissimo che il ministro regio, ai tempi della marcia su Roma, era "l'imbelle Facta" E pur vero che allora c'era Gentile al posto della Gelmini.
Una mia collega si è accorta mesi fa che, quando ai suoi allievi citava Woody Allen, questi non ridevano. Si poi è resa conto che Woody Allen, che aveva sedotto una intera generazione alla fine degli anni Sessanta e nei decenni seguenti, era ormai ignoto alle matricole di oggi. Noi da piccoli sapevamo benissimo chi era stato, prima della nostra nascita, Ridolini.

Questa perdita di memoria non va imputata ai ragazzini, ma investe ormai anche i giornalisti. Giorni fa ho trovato su un noto quotidiano una fotografia che diceva di ritrarre Giovanni Anceschi mentre rappresentava invece Giorgio Manganelli, segno che nessuno in redazione ricordava né l'uno né l'altro. Nel vivo delle discussioni su "Giovinezza" e "Bella ciao", su un altro quotidiano importante ho visto due foto, l'una di un camion di partigiani e l'altra di una schiera di persone in orbace che fanno il saluto romano e che venivano definiti come "squadristi". Macché, gli squadristi erano degli anni Venti e non giravano in orbace, e quelli che si vedono nella fotografia sono milizia fascista tra anni Trenta e inizio anni Quaranta, cosa che un testimone della mia età riconosce facilmente. Non pretendo che nelle redazioni lavorino solo testimoni della mia età, ma io so distinguere benissimo dalle divise i bersaglieri di Lamarmora dalle truppe di Bava Beccaris, anche se sono nato quando gli uni e gli altri erano morti da tempo.

Che cosa sta succedendo nelle redazioni dei giornali? Una volta c'erano caporedattori ai quali non sfuggiva una virgola, e prima di andare in stampa controllavano tutto riga per riga. Oggi è ovvio che nessun essere umano possa controllare (e all'ultimo momento) un quotidiano di sessanta pagine, ma che in redazione ci siano solo lattanti divorziati dal passato, ancorché prossimo, pare incredibile. Eppure è così e non è colpa dei giornali, ma della storia - ovvero di una contemporaneità senza memoria.
D'altra parte si pensi al progetto Morandi per rappresentare a San Remo il sesquicentenario (così si chiama la ricorrenza dei cento e cinquant'anni, ma chi lo sa più) dell'unità d'Italia. Si è pensato a "Bella ciao" e a "Giovinezza", canti che senz'altro richiamano diversi momenti della storia recente, ma per gli ultimi cento e cinquanta anni si poteva pensare più propriamente a "Addio mia bella addio" e alla "Bella Gigugin". Chi se ne ricorda più, se la nostra preistoria risale solo ai tempi in cui la mamma ci mandava a prendere il latte?

Ultimo accenno. L'ultimo numero de "il Venerdi" di "Repubblica" mostra una foto scattata nel 1947 a Meina da Riccardo Patellani, con alcuni scrittori intorno a Thomas Mann e Arnoldo Mondadori. Filippo Ceccarelli scrive che da tempo molti hanno cercato di identificare i quattordici personaggi intorno a Mann, e che Cesare Cases e Golo Mann erano riusciti a riconoscere Fortini, Del Buono, Emanuelli, Alberto Mondadori, Lavinia Mazzucchetti, Giansiro Ferrata e un imberbe Edilio Rusconi. Risulterebbero ancora misteriosi altri sei. Ora Mario Andreose, che nel '47 era un ragazzino, ma che più tardi ha lavorato al Saggiatore, mi dice di essere riuscito a identificare anche Guido Lopez, Remo Cantoni, Tom Antongini e (ma va a sapere se l'ha azzeccata perché è a sinistra di spalle) Enzo Paci.
Ne mancano ancora due, ma come si vede non è necessario essere stato un contemporaneo per sapere chi era e che faccia avesse Giulio Cesare.

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« Risposta #89 inserito:: Novembre 16, 2010, 05:32:51 pm »

Ma Moro era un brigatista?

di Umberto Eco

Una volta prendevamo in giro per gli americani perché ignoravano il passato. Oggi siamo diventati tutti come loro: infastiditi dalla storia, anche quella recente. E chi ha meno di 40 anni confonde De Gasperi con Togliatti
(15 novembre 2010)
Aldo Moro ed Enrico Berlinguer Aldo Moro ed Enrico BerlinguerVerso la fine degli anni Cinquanta nei fumetti americani, se il protagonista si spostava indietro nel tempo e capitava nel Medioevo, i personaggi apparivano vestiti in abiti cinque-secenteschi. Era l'epoca in cui nei film i detective americani arrivavano su automobili lunghe dieci metri con giacche enormi non sciancrate, e si ironizzava su quei cafoni per i quali tutto quello che era avvenuto prima della guerra di Secessione era età della pietra. D'altra parte più di dieci anni dopo un filosofo allora in voga, Gilbert Harman, aveva posto un cartello all'entrata del dipartimento di filosofia di Princeton, che diceva "Proibito l'ingresso agli storici della filosofia".

L'America è infastidita dal passato, e se Bush avesse letto cronache del secolo prima avrebbe saputo che nessun esercito europeo, né russo né inglese, era mai riuscito a vincere sui monti dell'Afghanistan. Naturalmente si parla dell'America della gente comune, perché nelle università (anche nel Texas) queste cose si sanno, ma nessuno al Pentagono prende sul serio i professori universitari, come del resto ormai da noi.

Il fatto è che ormai ci siamo civilizzati e siamo tutti americani. Da tempo ci si stupisce come mai i nostri studenti, intervistati, confondano Moro con Curcio e credono che De Gasperi fosse un capo comunista. Noi, ragazzini alla fine degli anni Trenta, sapevamo benissimo che il ministro regio, ai tempi della marcia su Roma, era "l'imbelle Facta" E pur vero che allora c'era Gentile al posto della Gelmini.
Una mia collega si è accorta mesi fa che, quando ai suoi allievi citava Woody Allen, questi non ridevano. Si poi è resa conto che Woody Allen, che aveva sedotto una intera generazione alla fine degli anni Sessanta e nei decenni seguenti, era ormai ignoto alle matricole di oggi. Noi da piccoli sapevamo benissimo chi era stato, prima della nostra nascita, Ridolini.

Questa perdita di memoria non va imputata ai ragazzini, ma investe ormai anche i giornalisti. Giorni fa ho trovato su un noto quotidiano una fotografia che diceva di ritrarre Giovanni Anceschi mentre rappresentava invece Giorgio Manganelli, segno che nessuno in redazione ricordava né l'uno né l'altro. Nel vivo delle discussioni su "Giovinezza" e "Bella ciao", su un altro quotidiano importante ho visto due foto, l'una di un camion di partigiani e l'altra di una schiera di persone in orbace che fanno il saluto romano e che venivano definiti come "squadristi". Macché, gli squadristi erano degli anni Venti e non giravano in orbace, e quelli che si vedono nella fotografia sono milizia fascista tra anni Trenta e inizio anni Quaranta, cosa che un testimone della mia età riconosce facilmente. Non pretendo che nelle redazioni lavorino solo testimoni della mia età, ma io so distinguere benissimo dalle divise i bersaglieri di Lamarmora dalle truppe di Bava Beccaris, anche se sono nato quando gli uni e gli altri erano morti da tempo.

Che cosa sta succedendo nelle redazioni dei giornali? Una volta c'erano caporedattori ai quali non sfuggiva una virgola, e prima di andare in stampa controllavano tutto riga per riga. Oggi è ovvio che nessun essere umano possa controllare (e all'ultimo momento) un quotidiano di sessanta pagine, ma che in redazione ci siano solo lattanti divorziati dal passato, ancorché prossimo, pare incredibile. Eppure è così e non è colpa dei giornali, ma della storia - ovvero di una contemporaneità senza memoria.

D'altra parte si pensi al progetto Morandi per rappresentare a San Remo il sesquicentenario (così si chiama la ricorrenza dei cento e cinquant'anni, ma chi lo sa più) dell'unità d'Italia. Si è pensato a "Bella ciao" e a "Giovinezza", canti che senz'altro richiamano diversi momenti della storia recente, ma per gli ultimi cento e cinquanta anni si poteva pensare più propriamente a "Addio mia bella addio" e alla "Bella Gigugin". Chi se ne ricorda più, se la nostra preistoria risale solo ai tempi in cui la mamma ci mandava a prendere il latte?

Ultimo accenno. L'ultimo numero de "il Venerdi" di "Repubblica" mostra una foto scattata nel 1947 a Meina da Riccardo Patellani, con alcuni scrittori intorno a Thomas Mann e Arnoldo Mondadori. Filippo Ceccarelli scrive che da tempo molti hanno cercato di identificare i quattordici personaggi intorno a Mann, e che Cesare Cases e Golo Mann erano riusciti a riconoscere Fortini, Del Buono, Emanuelli, Alberto Mondadori, Lavinia Mazzucchetti, Giansiro Ferrata e un imberbe Edilio Rusconi. Risulterebbero ancora misteriosi altri sei. Ora Mario Andreose, che nel '47 era un ragazzino, ma che più tardi ha lavorato al Saggiatore, mi dice di essere riuscito a identificare anche Guido Lopez, Remo Cantoni, Tom Antongini e (ma va a sapere se l'ha azzeccata perché è a sinistra di spalle) Enzo Paci.

Ne mancano ancora due, ma come si vede non è necessario essere stato un contemporaneo per sapere chi era e che faccia avesse Giulio Cesare.

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