LA-U dell'OLIVO
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Autore Discussione: UMBERTO ECO.  (Letto 132175 volte)
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« Risposta #45 inserito:: Marzo 07, 2009, 12:30:56 am »

Umberto Eco


Maledetti romeni


Lo erano la Franzonescu di Cogne, i coniugi di Erba Olindu e Roza, Sindoara e Calvuli. E poi Badalamentu, Provenzanul, Liggiu. Hanno distrutto l'immagine di un paese di persone oneste.

Il Viminale ha cercato di emettere alcuni comunicati imbarazzati secondo cui, a proposito dei casi di stupro, nel 60,9 per cento sono responsabili cittadini italiani (e peraltro i sociologi sapevano già che la stragrande maggioranza degli stupri avviene in famiglia, e bene hanno fatto Berlusconi, Casini, Fini e altri a divorziare, per evitare situazioni così drammatiche). Per il resto, visto che sono di moda i romeni, pare che essi siano responsabili solo per il 7,8 per cento mentre un buon 6,3 per cento se lo aggiudicano i marocchini (che peraltro, come ci hanno insegnato Moravia e Sophia Loren, la loro parte l'avevano già fatta più di 60 anni fa).

Non ce la vengano a raccontare. E allora le ronde? Le facciamo contro i bergamaschi? Sarà opportuno ricordare la nefasta partecipazione dei romeni, subito dopo la guerra, alla strage di Villarbasse, ma per fortuna allora esisteva ancora la pena di morte e giustamente sono stati fucilati La Barberu, Johann Puleu, Johan L'Igntolui, e Franzisku Sapuritulu. Romena era certo Leonarda Cianciullui, la saponificatrice e, come dice il nome chiaramente straniero, romena doveva essere Rina Fort, l'autrice della strage di via San Gregorio nel 1946. Per non dire dell'origine romena della contessa Bellentani (che da nubile faceva Eminescu) che nel 1948 sparava sull'amante a Villa d'Este.

Romena non era Maria Martirano ma certamente lo era il sicario Raoul Ghianu che, su mandato di Giovanni Fenarolu, l'ha uccisa nel 1958 (tutti ricorderanno il delitto di via Monaci) e romeno era il maestro Arnaldu Graziosul che nel 45 aveva ucciso, si dice, la moglie a Fiuggi. Romeno era il Petru Cavalleru che con la sua gang aveva compiuto un'audace e sanguinosa rapina a Milano, e romeni erano i membri della sciagurata banda di via Osoppo. Benché mai scoperti, romeni erano gli attentatori della Banca dell'Agricoltura (certamente romeni erano Fredu e Venturu) e gli autori della strage alla stazione di Bologna. Romeni erano stati i sospetti di corruzione di giudici come il Previtului e il Berluschescu, romeno il ragazzo Masu che nel 1991 aveva ammazzato i genitori e i due ragazzi Erika (tipico nome extracomunitario) e Omar (romeno e musulmano per giunta!) che avevano ucciso madre e fratello di lei a Novi Ligure.


Romena era senza ombra di dubbio la signora Franzonescu di Cogne, i due coniugi di Erba Olindu e Roza, romeni erano sia Sindoara e Calvuli che i loro uccisori, romeni i banchieri che recentemente hanno portato al fallimento tanti risparmiatori, romeni i bambini di Satana, romeni i miserabili che gettavano pietre dai ponti dell'autostrada, romeni i sacerdoti pedofili, romeno l'assassino del commissario Calabresi, romeni i rapitori e uccisori di Moro, Casalegno, Bachelet, Tobagi, Biagi e altri, romeni gli assassini di Pecorelli e la banda della Uno bianca, e per concludere romeni gli assassini di Mattei, del bandito Giuliano, di Pisciotta, di Mauro De Mauro, dei fratelli Rosselli e di Matteotti.

Romeni erano Giulianu e gli autori della strage di Portella delle Ginestre, i colpevoli del caso Wilma Montesi (ricordate il cupo Piccionului?) gli sparatori dei morti di Reggio Emilia, i golpisti del Piano Solo; romeni erano i compagni di merende del mostro di Scandicci, gli autori degli attentati a Falcone e a Borsellino e del massacro di piazza della Loggia a Brescia, della strage dell'Italicus e di quella di Ustica, dell'omicidio Pasolini (forse anche Rom); romeni i gambizzatori di Montanelli, i commandos di via Fani e gli assassini di Moro, Coco, Occorsio, Alessandrini, Guido Rossa, Peppino Impastato, Pippo Fava, Piersanti Mattarella, Mino Pecorelli, Giorgio Ambrosoli, Ezio Tarantelli, Salvo Lima, don Pino Puglisi, Ilaria Alpi, Massimo d'Antona, Carlo Giuliani; romeni erano ovviamente l'attentatore del papa (agente dell'associazione Lupu Grigiu) e i massacratori di Dalla Chiesa e signora, romeno il rapitore di Emanuela Orlandi. Romeni infine tutti gli appartenenti al clan di Timisoara, Badalamentu, Provenzanul, Liggiu, Bontadeu, Rijnara, romeni gli strangolatori nazifascisti Tutu e Concutellului, evidentemente aderenti alle Guardie di Ferro di Codreanu.

Questi romeni hanno distrutto l'immagine di un paese di persone oneste, timorate di Dio, aliene dalla violenza, rispettose delle differenze etniche, religiose e politiche. Meno male che finalmente ci siamo accorti che i colpevoli erano loro altrimenti avremmo continuato a scavare tra i faldoni delle procure italo-sovietiche senza cavarne nulla, mentre ora con una buona organizzazione di ronde leghiste potremo finalmente ripristinare legge e ordine in questo nostro sfortunato paese.

(06 marzo 2009)
da espresso.repubblica.it
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« Risposta #46 inserito:: Marzo 21, 2009, 12:07:43 pm »

Umberto Eco.


Berlusconi e Pistorius


Nell'uso del corpo da parte del premier prevale l'elemento 'cyborg', l'alterazione dei propri tratti naturali, dai trapianti piliferi ai lifting  Silvio BerlusconiLa letteratura su Berlusconi è abbastanza ampia. Tra i pamphlets più recenti segnalo quello che ho appena visto in bozze (uscirà presso Manifestolibri) 'Fenomenologia di Silvio Berlusconi', di Pierfranco Pellizzetti, che spazia dall'estetica alla sessualità del leader, con intemerata cattiveria. Già uscito è invece 'Il corpo del capo' di Marco Belpoliti (Guanda, 12 euro) che considera solo un aspetto peculiarissimo del personaggio, il suo rapporto col proprio corpo e la rappresentazione che egli continuamente ne dà.

Benché possa sembrare strano, non tutti i capi hanno un corpo: basti pensare a un grande leader come De Gasperi, di cui certo chi ha vissuto negli anni Cinquanta ricorda la bruttezza grifagna, ma limitata ai tratti del viso. Andate a vedere il suo monumento a Trento, egli non ha corpo a tal segno che scompare sotto un abito Facis stazzonato. Ma d'altra parte non avevano corpo (al massimo un volto riconoscibile) i leader del passato, da Nenni a Fanfani, e persino Togliatti il cui indubitabile carisma era per lo più di carattere intellettuale.

Ma questo vale anche per gli altri paesi: nessuno si ricorda del corpo di quasi tutti i presidenti francesi, salvo quello di de Gaulle (ma semplicemente a causa della statura e del naso quasi caricaturali), degli inglesi rimane l'immagine di Churchill, ma più che altro la faccia di buon bevitore con sigaro, per il resto solo un vago ricordo d'obesità; nessuna corporalità aveva Roosevelt (se non in senso negativo, perché era disabile), Truman sembrava un agente delle assicurazioni, Einsenhower uno zio, e il primo a giocare sul proprio fisico (ma, ancora una volta, solo col volto) è stato Kennedy, che ha vinto su Nixon per qualche inquadratura televisiva ben centrata.

Avevano un corpo i grandi leader del passato? Ad alcuni, come ad Augusto, lo ha regalato la statuaria, di altri si può supporre che avessero preso il potere perché erano forti e dotati di qualche ascendente non sul popolo (che non aveva occasione di vederli) ma sul loro entourage. Per il resto provvedeva la leggenda, per esempio attribuendo ai monarchi francesi la virtù di guarire la scrofola. Ma non credo che Napoleone abbia trascinato i suoi soldati al massacro per virtù somatica.


Perché un capo assuma un corpo e della immagine di quel corpo si occupi quasi maniacalmente (si badi, non solo il viso, tutto il corpo) bisogna attendere l'era delle comunicazioni di massa, a cominciare dalla fotografia.

Ed ecco che si può iniziare, come fa del resto Belpoliti, a studiare il rapporto di Mussolini col proprio corpo, talmente consustanziale al suo potere che, per sancirne la caduta, si deve per così dire rovesciare il suo ascendente somatico e sfregiarne il corpo appendendolo a testa in giù.

Se ci sono analogie tra Berlusconi e Mussolini (intendiamoci, per non scandalizzare nessuno, non perché Berlusconi sia 'fascista', ma perché come Mussolini vuole stabilire un rapporto populistico con la folla, scavalcando le istituzioni parlamentari, abolendole in un caso, svilendole nell'altro) è proprio nella cura quasi maniacale della propria immagine. Non intendo seguire le analisi di Belpoliti che si svolgono di preferenza sulla fotografia, dai tempi in cui Berlusconi cantava sulle navi ai giorni nostri, e al massimo lamento che a tanta abbondanza di analisi non corrisponda quell'abbondanza di immagini che il lettore è portato a desiderare (ce ne sono una ventina, veramente 'parlanti', ma dopo questo assaggio si vorrebbe davvero di più).

Come indicazioni di lettura suggerirò le belle analisi delle mani, del sorriso, la inattesa e provocatoria trattazione sul lato femminile del personaggio, gli ovvi sviluppi sulla cultura del narcisismo (Belpoliti fa ricorso ad autorità e fonti di vario genere, da Jung a Foucault e a Sennett), le annotazioni sull'uso della famiglia come prolungamento (sempre accessorio) della propria corporalità.

Caso mai la differenza fondamentale tra Mussolini e Berlusconi è che il primo, divise a parte, usava il proprio corpo, torso nudo compreso, come mamma lo aveva fatto, al massimo accentuando baldanzosamente la propria calvizie, mentre in Berlusconi prevale l'elemento 'cyborg', la progressiva alterazione dei propri tratti naturali (Belpoliti accenna ad una singolare analogia tra Berlusconi e Oscar Pistorius, il corridore con le gambe artificiali), dai trapianti piliferi ai lifting, per consegnarsi ai propri devoti in una immagine mineralizzata che si vorrebbe senza età. Aspirazione all'eterno curiosa per chi alla fine Belpoliti analizza come "stella permanente dell'effimero".

(20 marzo 2009)
da espresso.repubblica.it
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« Risposta #47 inserito:: Aprile 08, 2009, 10:10:48 am »

Umberto Eco

La lista aperta

La proposta della lista aperta per i concorsi universitari, di cui si parla ormai da vent'anni, potrebbe finalmente diventare realtà  Un fantasma si aggira per l'Italia, e da almeno vent'anni: è la proposta della lista aperta per i concorsi universitari. Adesso pare che finalmente l'idea venga presa sul serio. Era ora. Non pretendo di essere stato il primo, ma sono tra coloro che propongono la lista aperta da quasi vent'anni. In ogni caso ritrovo una Bustina del marzo 1994 dove si racconta che con alcuni colleghi si era proposta la lista aperta al ministero competente (credo che ci fosse il governo Ciampi). Ma evidentemente non se n'era fatto nulla.

Il problema è che ci si lamenta, e giustamente, che i concorsi universitari si prestano a varie disfunzioni anche (si badi) escludendo i casi su cui sì è parlato negli ultimi mesi, di nepotismo e favoreggiamento di parenti, amanti e così via (che in realtà si verificano solo in certe facoltà e non dappertutto). Il difetto sta però nel manico, e cioè nel pretendere che la decisione sia presa da una commissione nazionale, che debba vincere il migliore, e che sia sospetta la preferenza preliminare dell'ateneo nei confronti di dati candidati.

In quel vecchio articolo facevo un esempio. Supponiamo che il Collegio di La Flèche (tenuto dai gesuiti) bandisca una cattedra di filosofia e scienza. Si presentano Cartesio, Pascal, e un certo signor D'Arçons, il quale (per spiegare il fenomeno delle maree) sosteneva che la terra non gira intorno a se stessa, ma sussulta da nord a sud. Se fossimo in America, il collegio di La Flèche chiederebbe alcune lettere di raccomandazione a persone stimate (poniamo Gassendi e padre Mersenne) e poi deciderebbe quale dei candidati fa al caso proprio.

In Italia si farebbe invece un concorso nazionale, con una commissione eletta sempre su scala nazionale. Escludiamo il caso, sempre possibile, che per motivi politici o sessuali alcuni commissari disonesti riescano a dare la cattedra a D'Arçons. Potrebbero tuttavia odiare a tal punto i gesuiti da imporre a La Flèche proprio Pascal che dei gesuiti ha detto tutto il male possibile. Ma se i commissari fossero tutti persone per bene, chi dovrebbero designare come 'il migliore'?


Si vede bene come sia Cartesio che Pascal siano l'uno migliore dell'altro a seconda del punto di vista. E qui interviene il diritto dell'ateneo che ha chiesto il posto. Facciamo un esempio in campo scientifico, dove sembra che la designazione del 'migliore' sia più facile. Per una cattedra di oncologia il migliore sarebbe certamente uno studioso che ha finalmente scoperto il vaccino contro il cancro e per questo ha preso il premio Nobel. E tuttavia l'ateneo in questione potrebbe non avere bisogno di un genio del genere. Ha già (poniamo) uno dei massimi cancerologi viventi, salvo che costui si occupa, giustamente, della ricerca e di alcuni seminari ad alto livello, ma è totalmente inadatto a interagire coi ragazzi dei primi anni.

E l'università non ha bisogno di un altro numero uno, bensì di un buon numero due, che magari non abbia ancora fatto ricerche originalissime ma sia didatticamente perfetto, generoso con gli studenti, disposto a seguirli e a incoraggiarli. In tal caso l'unico vincolo dovrebbe essere che l'ateneo non scelga come preteso numero due un numero zero, solo perché cugino del rettore.

E qui entra in campo la lista aperta. Ogni tot anni, per quella fascia concorsuale (ordinati o associati, e magari anche ricercatori) una commissione nazionale stila una lista aperta (e cioè senza vincoli di numero) di studiosi che si ritiene possano degnamente insegnare, anche se non sono tutti necessariamente il numero uno nel loro campo. Dopo gli atenei sceglieranno i professori da quella lista.

Quali sono le obiezioni? Che in una lista aperta dei commissari maneggioni o stupidi possono fare entrare anche il cretino (nel nostro caso il signor D'Arçons). Certamente, nessuna legge umana è mai riuscita a evitare che un cretino assuma posti di responsabilità. Ma la lista aperta impedisce di fare fuori i bravi (come si lamenta per gli attuali concorsi) perché un commissario, per dire che Cartesio o Pascal sono indegni di entrare nella lista, dovrebbe esporsi con un pubblico e ragionato giudizio, sapendo bene che rischia di diventare come quel critico ottocentesco che aveva definito la Quinta di Beethoven "un'orgia di frastuono e di volgarità".

Se poi un ateneo vuole proprio prendersi in casa D'Arçons e segue sempre una politica del genere, a poco a poco si squalificherà. Naturalmente a questo punto si dovrebbe discutere sul valore legale del titolo di laurea, affinché quello dell'ateneo che si è autosqualificato non sia per legge pari a quello in cui insegnano o Cartesio o Pascal. Ma di questo, sospetto, si parlerà solo nei prossimi vent'anni.

(03 aprile 2009)
da espresso.repubblica.it
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« Risposta #48 inserito:: Maggio 01, 2009, 12:45:16 pm »

Umberto Eco.


Inviate Aristotele


Il facsimile dell'edizione del 1551 di 'Retorica' e 'Poetica', fa più di 37 mila KB. Speditelo a seccatori artigianali e industriali che vi riempiono di spam. È il piacere della vendetta  Una ricerca della McAfee, di cui hanno parlato tutti i giornali, ha appurato che il fenomeno dello Spam, e cioè dei messaggi indesiderati che ci vengono inviati per e-mail, produce un consumo di energia enorme. Un solo messaggio genera 0,3 grammi di biossido di carbonio, pari alle emissioni di un'auto che percorre un metro di strada. Pare che tutto lo spam in circolazione consumi 33 miliardi di chilowattora di energia ogni anno, il che equivarrebbe a quanto consumano tre milioni di automobili o due milioni e mezzo di abitazioni, da cui un effetto serra di 17 milioni di tonnellate di anidride carbonica. Salto altri tecnicismi, e mi limito a osservare che lo spam, dunque, non si limita a essere una seccatura e spesso un modo per carpirci informazioni, ma influisce negativamente sulla nostra salute.

A quanto pare nessuna autorità al mondo è in grado di ridurre lo spam, e anche i filtri che alcuni di noi hanno attivato servono sino a un certo punto perché molti messaggi non richiesti passano attraverso le loro maglie e pare che lo spreco maggiore di energia consista proprio nell'aprirli o eliminarli manualmente.

Sono cose che fanno rabbia e uno pensa come può difendersi da solo. In mancanza di meglio, viene voglia di vendicarsi. Così mi è venuta una idea - e naturalmente mi attendo che centinaia di esperti mi rispondano dimostrandomi che è irrealizzabile o dannosa, e avverto che cestinerò queste lettere (considerandole spam), perché intendo solo lanciare una provocazione.

Dividiamo dunque coloro che ci mandano messaggi indesiderati tra seccatori industriali e seccatori artigianali. Immagino che i seccatori industriali abbiamo molti mezzi per neutralizzare la mia protesta, ma ci sono migliaia di seccatori artigianali, come quello che in un italiano dubitosissimo vi dice che avete vinto un premio e vi chiede i vostri dati, o il malese che ha ricevuto una eredità enorme che per qualche ragione non può ritirare e vi chiede di partecipare al cinquanta per cento al suo recupero, naturalmente inviando una certa somma come garanzia, eccetera eccetera.


I seccatori artigianali forse non hanno neppure la banda larga e non so se vi è capitato di ricevere da un imbecille un intero volume di seicento pagine, corredato di fotografie a colori, mentre non eravate a casa vostra collegato ad Alice o a Fastweb, ma in una stanza d'albergo o in un casolare di campagna, con il risultato che per scaricare quell'immondizia il vostro computer rimaneva bloccato per un'ora.

Ora a questo tipo di seccatori si può rispondere allegando la Bibbia di Gerusalemme. La trovate su http://www.liberliber.it/biblioteca/b/bibbia/index.htm e così come vi arriva è lunga 1.226 pagine e conta 11.574 KB. Ma se in due secondi la mettete a spazio 2 e corpo 20 arrivate subito a 6.556 pagine e a più di 14 mila KB. È un bel malloppo, se avete la banda larga lo fate partire in pochi minuti e inoltre potreste far lavorare il computer di notte, ma se chi lo riceve non ha la banda larga sono guai. Se poi non solo io ma anche soltanto qualche centinaio di utenti facessero lo stesso, lo sciagurato sarebbe praticamente immobilizzato.

Lo so che così facendo contribuirei ad aumentare l'inquinamento. Ma se per caso, nel giro di qualche settimana, questa risposta convincesse una certa quantità di seccatori a desistere, alla fin fine il prezzo energetico pagato sarebbe inferiore al guadagno finale. E poi, pereat mundus, il piacere della vendetta non sopporta calcoli meschini.

Naturalmente con non molta fatica si potrebbe anche fare di meglio. Il facsimile dell'edizione 1551 di 'Retorica' e 'Poetica' di Aristotele, in Adobe, fa più di 37 mila KB e pari dimensioni ha la 'Summa Teologica' in edizione bilingue. La 'Anatomy of Melancholy' di Burton in Adobe fa circa 32 mila KB, 'I misteri di Parigi' di Sue in edizione francese Adobe da solo fa 76.871 KB e quindi quasi sei volte la Bibbia. Che se poi avete una macchina efficiente e la fate lavorare di notte, potete spedire tutti i testi che ho citato, insieme.

Insomma, anche una organizzazione industriale che si vedesse arrivare alcune migliaia di Bibbie o di misteri di Parigi, qualche pensierino dovrebbe farcelo. Preciso inoltre che, per vedere quanto tempo mi occorreva, la prima Bibbia me la sono mandata al mio indirizzo. Non riuscivo a trovarla nella posta in arrivo e mi sono accorto che qualche sistema di filtraggio me l'aveva inviata automaticamente nella posta eliminata. Ma credo che il tempo di scarico sia stato lo stesso, e quindi il disturbo arrecato al destinatario sia ugualmente consistente.

(30 aprile 2009)
da espresso.repubblica.it
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« Risposta #49 inserito:: Maggio 14, 2009, 11:57:31 pm »

Umberto Eco


My heart belongs to daddy


A proposito della ragazzina napoletana che chiama Berlusconi 'papi' è impossibile non ricordare l'immortale canzone di Cole Porter resa celebre da Marilyn Monroe e Eartha Kitt 
Pensierino numero uno.
Leggo che il nostro primo ministro ha detto che non c'è nulla di male nel candidare donne fisicamente non sgradevoli. Il problema è come si dicono le cose.

Tutti conoscono la barzelletta del gesuita e del domenicano che stanno facendo gli esercizi spirituali e il gesuita, mentre recita il breviario, fuma beatamente.
Il domenicano gli chiede come possa fare così, e quello gli risponde che ha chiesto il permesso ai suoi superiori. L'ingenuo domenicano dice che anch'egli ha chiesto il permesso e gli è stato negato.

"Ma come lo hai domandato?", gli chiede il gesuita. E il domenicano "Posso fumare mentre prego?". Era ovvio che gli fosse stato risposto di no.
Invece il gesuita aveva chiesto "Posso pregare mentre fumo?" e i superiori gli avevano detto che si può pregare in qualsiasi circostanza.

Se Berlusconi avesse detto che non c'è nulla di male se una candidata alle elezioni è anche bella, tutti, femministe comprese, avrebbero applaudito.
Ma ha fatto capire che non c'era nulla di male se una bella ragazza veniva candidata alle elezioni, e lì casca l'asino.
Forse è male candidare una ragazza solo perché è bella.


Pensierino numero due. A proposito della faccenda della ragazzina napoletana che chiama Berlusconi 'papi', certamente è male farci su cattivi pensieri.
Tuttavia è impossibile non ricordare una immortale canzone di Cole Porter, resa celebre da Marilyn Monroe e da Eartha Kitt, 'My heart belongs to daddy', in cui una ragazzina con una voce molto sexy racconta come non possa avere giusti rapporti coi ragazzi della sua età perché il suo cuore appartiene a 'daddy' e cioè a 'papi'.

Molto inchiostro è stato speso sulla passione di questa ragazza (incesto, pedofilia, attaccamento ai valori familiari?) e le idee in proposito restano oscure - tra l'altro, Cole Porter era una lenza. Detto questo la canzone è molto bella e molto sensuale, ed è curioso che Apicella non la conoscesse.


Pensierino numero tre. Pare che lo stesso primo ministro abbia detto che noi non vogliamo diventare una civiltà multietnica per cui bisogna, come vuole la Lega, intensificare i controlli sull'immigrazione. A prima vista sembra abbia detto la stessa cosa di Fassino, che bisogna controllare gli immigrati clandestini e aiutare quelli in regola.

Ma c'era dietro un'altra idea, e cioè che la decisione diventare o no una civiltà multietnica sia una decisione volontaria. Come se la Roma imperiale (e prima ancora) avesse deciso se voleva essere invasa dai barbari o no. I barbari, quando premono alle frontiere, entrano, e basta. La saggezza della Roma imperiale (che le ha permesso di sopravvivere per qualche secolo) è stata di fare leggi per legittimare gli insediamenti barbarici, dando la cittadinanza a coloro che si installavano pacificamente entro i confini dell'impero - e persino ammettendoli nell'esercito. Così ha avuto imperatori illirici e africani, una nuova religione fondata da un turco chiamato Saulo, e tra i suoi ultimi pensatori un berbero di nome Agostino.

Quando masse enormi premono ai confini del nostro mondo per entrare non si può fare finta che la decisione se ammetterli o no dipenda noi. A parte il fatto che se l'Italia avesse dato nei decenni scorsi una immagine di sé povera e smandrappata, forse migliaia di africani (e di balcanici) non avrebbero mai pensato di venirci.

Il fatto è che vedevano la televisione italiana, massime Mediaset, in cui il nostro appariva come un paese popolato di gnocche favolose, e in cui bastava rispondere che Garibaldi non era un ciclista per guadagnare gettoni d'oro. Era ovvio che allora tutti si buttassero a nuoto per arrivare qui, senza sapere che avrebbero dovuto poi dormire in una scatola di cartone nei sotterranei della stazione e stuprare, se andava bene, signore sessantenni.


Pensierino numero quattro. Leggo che gli hackers non solo entrano nella memoria delle banche, ma ormai stanno mettendo a repentaglio i servizi segreti di mezzo mondo, penetrando anche nei siti della Cia.

Prevedibile. Ora immagino che fra poco (o forse già ora) in linea parleranno solo gli adulteri, beatamente ignari del fatto che il coniuge tradito possa sapere tutto quel che si dicono, e gli imbecilli che amano vedersi svuotato il conto corrente. I servizi segreti, invece, avranno da tempo abbandonato Internet.

Spedire un messaggio segreto da Londra il martedì mattina in modo che sia ricevuto subito a New York è comodo, ma in fondo un agente segreto che parta da Londra alle nove arriva a New York entro mezzogiorno ora locale. E allora è molto più comodo recare il messaggio in un tacco della scarpa, impararlo a memoria, o al massimo infilarlo nello sfintere. Suvvia, a passo di gambero verso il progresso!

(14 maggio 2009)
da espresso.repubblica.it
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« Risposta #50 inserito:: Maggio 20, 2009, 10:26:58 am »

Umberto Eco: quale libro regalerei a Berlusconi? Lolita...
 
 
MADRID (19 maggio) - «Che libro regalerebbe a Silvio Berlusconi?» ha chiesto questo pomeriggio un giornalista spagnolo a Umberto Eco, a Madrid per ricevere la medaglia d'oro del Circulo de las Bellas Artes: «viste le ultime notizie, gli regalerei Lolita» di Nabokov, ha risposto lo scrittore e semiologo, riferisce l'agenzia Efe.

«Sarcastico e simpatico» secondo la stampa spagnola a Eco, 77 anni, sono state poste domande sul «caso italiano» e sul presidente del Consiglio. «Che cosa è successo per cui gli italiani mantengono Berlusconi al potere?» gli è stato chiesto. «Non è successo nulla, gli italiani sono fatti così», ha risposto Eco. «Prima appoggiarono il fascismo. Poi lo abbandonarono quando già c'era un milione di cittadini morti. Poi abbiamo avuto 50 anni di democrazia cristiana, e ora si vota una persona che racconta barzellette e si comporta come un caudillo» ha detto ancora, secondo quanto riferito da Efe.

Eco ha anche affermato, a proposito della tv pubblica, che «in Italia non esiste, perché è sotto il controllo di Berlusconi, e quindi si è trasformata in privata». Interrogato sul terrorismo ha poi detto che «è chiaro, anche se non piace, che il terrorismo è un'espressione di violenza quando non c'è la guerra. Se non vuoi il terrorismo, fai la guerra, dicono. Per esempio quando c'era il Vietnam non c'era il terrorismo».
 
da ilmessaggero.it
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« Risposta #51 inserito:: Luglio 09, 2009, 10:34:08 pm »

Il nemico della stampa

di Umberto Eco


Il premier vuole imbavagliare l'informazione. E nella nostra società malata la maggioranza degli italiani sembra pronta ad accettare anche questo strappo. Ma il famoso intellettuale dice: 'Io non ci sto'.  Umberto EcoSarà il pessimismo della tarda età, sarà la lucidità che l'età porta con sé, ma provo una certa esitazione, frammista a scetticismo, a intervenire, su invito della redazione, in difesa della libertà di stampa. Voglio dire: quando qualcuno deve intervenire a difesa della libertà di stampa vuole dire che la società, e con essa gran parte della stampa, è già malata. Nelle democrazie che definiremo 'robuste' non c'è bisogno di difendere la libertà di stampa, perché a nessuno viene in mente di limitarla.

Questa la prima ragione del mio scetticismo, da cui discende un corollario. Il problema italiano non è Silvio Berlusconi. La storia (vorrei dire da Catilina in avanti) è stata ricca di uomini avventurosi, non privi di carisma, con scarso senso dello Stato ma senso altissimo dei propri interessi, che hanno desiderato instaurare un potere personale, scavalcando parlamenti, magistrature e costituzioni, distribuendo favori ai propri cortigiani e (talora) alle proprie cortigiane, identificando il proprio piacere con l'interesse della comunità. È che non sempre questi uomini hanno conquistato il potere a cui aspiravano, perché la società non glielo ha permesso. Quando la società glielo ha permesso, perché prendersela con questi uomini e non con la società che li ha lasciati fare?

Ricorderò sempre una storia che raccontava mia mamma che, ventenne, aveva trovato un bell'impiego come segretaria e dattilografa di un onorevole liberale - e dico liberale. Il giorno dopo la salita di Mussolini al potere quest'uomo aveva detto: "Ma in fondo, con la situazione in cui si trovava l'Italia, forse quest'Uomo troverà il modo di rimettere un po' d'ordine". Ecco, a instaurare il fascismo non è stata l'energia di Mussolini (occasione e pretesto) ma l'indulgenza e la rilassatezza di quell'onorevole liberale (rappresentante esemplare di un Paese in crisi).


E quindi è inutile prendersela con Berlusconi che fa, per così dire, il proprio mestiere. È la maggioranza degli italiani che ha accettato il conflitto di interessi, che accetta le ronde, che accetta il lodo Alfano, e che ora avrebbe accettato abbastanza tranquillamente - se il presidente della Repubblica non avesse alzato un sopracciglio - la mordacchia messa (per ora sperimentalmente) alla stampa. La stessa nazione accetterebbe senza esitazione, e anzi con una certa maliziosa complicità, che Berlusconi andasse a veline, se ora non intervenisse a turbare la pubblica coscienza una cauta censura della Chiesa - che sarà però ben presto superata perché è da quel dì che gli italiani, e i buoni cristiani in genere, vanno a mignotte anche se il parroco dice che non si dovrebbe.

Allora perché dedicare a questi allarmi un numero de 'L'espresso' se sappiamo che esso arriverà a chi di questi rischi della democrazia è già convinto, ma non sarà letto da chi è disposto ad accettarli purché non gli manchi la sua quota di Grande Fratello - e di molte vicende politico-sessuali sa in fondo pochissimo, perché una informazione in gran parte sotto controllo non gliene parla neppure?

Già, perché farlo? Il perché è molto semplice. Nel 1931 il fascismo aveva imposto ai professori universitari, che erano allora 1.200, un giuramento di fedeltà al regime. Solo 12 (1 per cento) rifiutarono e persero il posto. Alcuni dicono 14, ma questo ci conferma quanto il fenomeno sia all'epoca passato inosservato lasciando memorie vaghe. Tanti altri, che poi sarebbero stati personaggi eminenti dell'antifascismo postbellico, consigliati persino da Palmiro Togliatti o da Benedetto Croce, giurarono, per poter continuare a diffondere il loro insegnamento. Forse i 1.188 che sono rimasti avevano ragione loro, per ragioni diverse e tutte onorevoli. Però quei 12 che hanno detto di no hanno salvato l'onore dell'Università e in definitiva l'onore del Paese.

Ecco perché bisogna talora dire di no anche se, pessimisticamente, si sa che non servirà a niente.

Almeno che un giorno si possa dire che lo si è detto

(09 luglio 2009)
da espresso.repubblica.it
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« Risposta #52 inserito:: Luglio 19, 2009, 05:02:35 pm »

Al diavolo la classe operaia

di Umberto Eco


Come chiedere di riconoscersi come classe, con problemi comuni, a chi, se pure ancora lavora, lo fa sempre meno insieme agli altri, per periodi sempre più brevi e vede il lavoro non più onorato ma sopportato?  Quelli della mia generazione, che hanno affrontato il Sessantotto tra i trentacinque e i quarant'anni, troppo anziani per essere studenti in rivolta e troppo giovani per essere vegliardi che sfuggivano il confronto, sono stati a lungo ricattatati della classe operaia. Voglio dire, non dalla classe stessa, poverini che avevano i loro problemi, ma dai suoi adoratori borghesi di sinistra che, appellandosi alla nascita di una scienza proletaria, ti chiedevano che senso avesse occuparsi ancora di Dante, di Kant o di Joyce. E siccome si voleva, in modo o nell'altro, continuare a parlarne anche in una facoltà occupata (bastava volerlo ed era possibilissimo) ci si sforzava di mostrare come, nel lungo periodo, anche la conoscenza di Dante o di Joyce poteva contribuire al riscatto della classe operaia.

Figuriamoci il sollievo di molti di noi quando hanno scoperto che era finito il periodo in cui gli operai non avevano nulla da perdere tranne le proprie catene, perché ormai, avendo da perdere il televisore, il frigorifero, la piccola cilindrata e la visione di molte veline ogni sera, votavano per Berlusconi e Bossi - deviando il proprio sdegno dai capitalisti agli extracomunitari. Il comportamento dei proletari di un tempo era diventato quello tipico del sottoproletariato. Finalmente, si era esclamato, non dobbiamo più farci carico della classe operaia! Sono più poveri adesso di alcuni anni fa? Sono loro che hanno preferito le ronde ai sindacati. Liberi dal ricatto della classe operaia scriveremo ora non solo su Dante, ma persino sul Burchiello e, come il protagonista di 'A rebours' metteremo sul nostro tappeto persiano una tartaruga dal carapace incrostato di rubini, turchesi, acquamarine e crisoberilli verde asparago.

Malumori a parte, la classe operaia è diventata invisibile: gli operai, come ha detto Ilvo Diamanti, non fanno più massa critica e ci accorgiamo che ci sono solo quando muoiono sul lavoro. Trovo questa citazione quasi all'inizio di un irritatissimo e amarissimo pamphlet di Furio Colombo, 'La paga' (Saggiatore, 14). Dal titolo e da una immagine piuttosto stakanovista di copertina si penserebbe a un altro discorso sulla classe operaia, ma in questo libello non si nomina la classe operaia come se, ormai, con la squalifica dei sindacati, la fine delle ideologie, la nascita di nuovi partiti che hanno assorbito da destra le scontentezze che erano un giorno di sinistra, queste denominazioni avessero perso ogni interesse. In questo libro non si parla della scomparsa della classe dei lavoratori, ma della scomparsa del lavoro.

L'idea può apparire bizzarra, ma a ben pensarci tra deregolamentazione, crollo degli imperi finanziari, caduta delle Borse, manager che abbandonano l'ufficio con la scatola di cartone sotto il braccio e un bonus stratosferico nel portafoglio, si diffonde dappertutto, nelle dichiarazioni ufficiali e nella politica spicciola, il disprezzo del lavoro. Eccessivo pare sempre alla Confindustria il costo del lavoro, le aziende fanno il massimo per dissolvere i grandi centri produttivi in una pluralità di persone che non si conoscono tra loro, siedono in provincia a un computer, e lavorano a progetto senza garanzie di continuità, la trasformazione delle grandi compagnie da luoghi dove si produceva (e quindi si aveva bisogno di manodopera specializzata) a pacchetti da vendere e rivendere, e quindi più appetibili sul mercato finanziario quanto più si sono alleggerite dei costi del lavoro, ha reso accettabile senza indignazione e stupore le campagne contro i sindacati (ormai considerati sanguisughe parassitarie) e persino contro gli stessi lavoratori. E qui, anche forse troppo fedele al programma di un pamphlet, ecco la descrizione di un ministro Brunetta il cui vero obiettivo "non è portare giustizia e meritocrazia nella pubblica amministrazione" bensì "denigrare il lavoro, umiliarlo, ridicolizzarlo e sbugiardarlo, mostrare il lato infido e un po' ignobile dei lavoratori pubblici".

Ma, intenzioni di Brunetta a parte, ecco che si delinea un altro fenomeno: se un tempo il problema era provvedere a chi lavorava un sufficiente tempo libero, oggi viene regalato a tutti un 'tempo vuoto', quello dell'attesa di un primo impiego, tra un licenziamento e la sottoscrizione di un nuovo contratto a tempo, tra l'inizio e la fine di un periodo di cassa integrazione. Insomma, come chiedere di riconoscersi come classe, con problemi comuni, a chi, se pure ancora lavora, lo fa sempre meno insieme agli altri, per periodi sempre più brevi e vede il lavoro non più onorato, ma sopportato come un incidente dalla vita ormai brevissima, quando una miracolosa automazione senza neppure più operatori alla consolle avrà risolto i problemi economici, e tutti godremo di una libera e infinita circolazione di 'subprimes'?

(10 luglio 2009)
da espresso.repubblica.it
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« Risposta #53 inserito:: Agosto 04, 2009, 03:52:51 pm »

Il complotto lunare

di Umberto Eco


Quelli che sostengono che lo sbarco sulla Luna fu una montatura non tengono conto che gli unici che avevano interesse a sbugiardare gli americani erano i russi. E se i russi sono stati zitti...

 Non so se quella notte sia stata più faticosa per Armstrong e Aldrin o per me (o per Tito Stagno che la seguiva per tutti noi). Erano esattamente quarant'anni fa, nel momento in cui scrivo, e io mi trovavo in campagna nel Monferrato.

Naturalmente quella sera siamo rimasti attaccati tutti alla televisione sino alle dieci e rotti, quando l'Eagle è atterrato ovvero allunato. Poi i bambini erano piccoli, non si sapeva quando gli astronauti sarebbero sbarcati, si faceva tardi, e a poco a poco tutti quelli che erano con me sono andati a dormire, tanto sulla Luna si era già arrivati. Io invece sono rimasto sveglio sino alle 4.56 e anche dopo, quando gli astronauti hanno finalmente messo piede sul suolo.

Non valeva la pena di andare a dormire perché dovevo poi partire in macchina per Firenze dove alle undici avevo un seminario. Così ai primi chiarori dell'alba ho spento la tv, ho bevuto quattro caffè forti, e sono salito in macchina. Dovevo puntare su Milano e di lì prendere l'autostrada del Sole. Dopo qualche chilometro su una strada campestre non asfaltata ho bucato. Drogato, addormentato, rinstupidito, ho dovuto prendere il crick e cambiare la gomma, e poi guidare sino a Firenze. Una notte indimenticabile.

E ora mi vengono a dire che era tutta una montatura. La storia in verità è vecchia, ma ovviamente si riaccende con la celebrazione del quarantennio. Bart Sibrel, uno dei sostenitori della teoria del complotto, ha persino affrontato, tempo fa Aldrin, imponendogli di giurare sulla bibbia che sulla Luna c'era stato, e si è preso un pugno in faccia. Vero.

I termini della teoria del complotto sono noti. Così come la distruzione delle torri gemelle non è stata opera di fondamentalisti arabi ma di Bush, (senza calcolare che se la cosa l'avesse organizzata un casinista come Bush le torri sarebbero ancora in piedi), parimenti il viaggio sulla Luna non è mai avvenuto: si è trattato di un montaggio televisivo fatto in studio e tutto il mondo c'è cascato.


I teorici del complotto portano prove fotografiche (ombre sbagliate, bandiere che si muovono al vento eccetera), la Nasa ha risposto con argomentazioni convincenti, la prova migliore che l'allunaggio è avvenuto, si dice, è che tutta l'impresa ha coinvolto centomila o più persone ed è impossibile che nessuno abbia mai aperto bocca.

A parte queste lepidezze la prova scientificamente inoppugnabile è una sola: gli unici che potevano controllare se lo sbarco era avvenuto (perché avevano già inviato lassù delle telecamere e avevano altre sofisticate possibilità di monitoraggio), e gli unici che avevano tutto l'interesse a sbugiardare gli americani, erano i russi. Se i russi sono stati zitti significa che lo sbarco sulla Luna era vero. Fine del dibattito.

Fine del dibattito a fil di logica, ma non a filo di credulità. Basta controllare quante trasmissioni televisive vanno in onda con indagini su misteri e complotti triti e ritriti, dai cerchi nel grano all'Atlantide, dal Graal alle trame dei Templari, da non siamo soli nell'universo a essi sono tra noi, per rendersi conto di come il mercato della credulità renda sempre moltissimo - altrimenti non si spiegherebbe come mai torme di turisti vanno a Parigi a visitare i luoghi del 'Codice da Vinci', come se la gente percorresse la Toscana per trovare il Campo dei Miracoli dove Pinocchio ha seppellito le sue monete.

Perché la gente ha bisogno di misteri in cui credere? A parte la frase citatissima di Chesterton (da che la gente non crede più in Dio non è che non creda più a nulla ma al contrario crede a tutto), pare che uno degli istinti della nostra specie sia rifiutare le spiegazioni economiche per cercarne altre più complesse e consolatorie.

Nel senso che se a qualcuno è andato male un affare, o un esame, non accetta la spiegazione più ovvia (che è stata colpa sua) ma pensa che la colpa sia stata di qualcun altro che gli voleva male. E se la persona amata ci ha piantato non è perché si è stancata di noi che siamo passabilmente noiosi, ma perché un rivale le ha propinato un filtro amoroso.

Vi ricordate il caso Moro? Che all'epoca esistessero dei trenta-quarantenni che dirigevano un'industria o che prendevano il premio Nobel non è stato sufficiente a spiegare come mai degli altri trenta-quarantenni fossero riusciti a mette a segno con indubbia efficienza il rapimento di via Fani. Eh no, si diceva, ci deve essere dietro la mano di qualcuno più saggio e astuto, il Grande Vecchio.

Il sospetto era ovviamente sbagliato, perché il Grande Vecchio stava all'epoca studiando il modo di far lacrimare una madonna pellegrina.(24 luglio 2009)
 
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« Risposta #54 inserito:: Agosto 08, 2009, 07:04:00 pm »

Pensieri in bella copia

di Umberto Eco


La tragedia è cominciata ben prima di pc e telefonini. Quando le stilografiche dai deliziosi pennini Perry vennero sostituite nel dopoguerra dalle biro. La scrittura perse anima e stile

 Una decina di giorni fa Maria Novella De Luca e Stefano Bartezzaghi hanno occupato tre pagine di 'Repubblica' (ahimè, a stampa) per occuparsi del declino della calligrafia. Ormai lo si sa, tra computer (quando lo usano) e sms, i nostri ragazzi non sanno più scrivere a mano se non con uno stentato stampatello. In una intervista una insegnante dice anche che fanno tanti errori di ortografia, ma questo mi sembra un altro problema: i medici conoscono l'ortografia e scrivono male, e si può essere calligrafo diplomato e non sapere se si scrive 'taccuino', 'tacquino' o 'taqquino' come 'soqquadro'.
In verità io conosco bambini che vanno in buone scuole e scrivono (a mano e in corsivo) abbastanza bene, ma gli articoli che citavo parlano del 50 per cento dei nostri ragazzi e si vede che per indulgenza della sorte io frequento l'altro 50 (del resto è lo stesso che mi capita in politica).

Il problema è piuttosto che la tragedia è iniziata molto prima del computer e del telefonino. I miei genitori scrivevano con una grafia leggermente inclinata (tenendo il foglio di traverso) e una lettera era, almeno per gli standard di oggi, una piccola opera d'arte. È verissimo che vigeva la credenza, probabilmente diffusa da chi aveva una pessima scrittura, che la bella calligrafia era l'arte degli sciocchi, ed è ovvio che avere una bella calligrafia non significa necessariamente essere molto intelligenti, ma - insomma - era gradevole leggere un biglietto o un documento scritto come dio comanda (o comandava).

Anche la mia generazione è stata educata a scrivere bene, e i primi mesi in prima elementare si facevano le aste, esercizio che poi è stato considerato ottuso e repressivo, e tuttavia educava a tenere fermo il polso per poi arabescare, coi deliziosi pennini Perry, lettere panciute e grassocce da un lato e fini dall'altro. Ovvero, non sempre, perché sovente dal recipiente dell'inchiostro, con cui si lordavano i banchi scolastici, i quaderni, le dita e gli abiti, emergeva attaccata al pennino una morchia immonda - e ci volevano dieci minuti per eliminarla, con molte e sporchevoli contorsioni.

La crisi è iniziata nel dopoguerra con l'avvento della biro. A parte il fatto che le biro dell'inizio sporcavano moltissimo anch'esse e se, subito dopo aver scritto, passavi il dito sulle ultime parole, ne veniva fuori uno sbaffo. E quindi scappava la voglia di scrivere bene. In ogni caso, anche a scriver pulito, la scrittura a biro non aveva più anima, stile e personalità.

Ma perché si deve ancora rimpiangere la bella calligrafia? Sapere scrivere bene e in fretta alla tastiera educa alla rapidità del pensiero, spesso (anche non sempre) il correttore automatico ci sottolinea in rosso 'dotore', e se l'uso del telefonino induce le giovani generazioni a scrivere 'T 6 xduto?' in luogo di 'ti sei perduto?', non dimentichiamo che i nostri antenati sarebbero inorriditi vedendo che noi scriviamo 'gioia' in luogo di 'gioja', 'io avevo' in luogo di 'io aveva', e i teologi medievali scrivevano 'respondeo dicendum quod', cosa che avrebbe fatto impallidire Cicerone.

Il fatto è che, lo si è detto, l'arte della calligrafia educa al controllo della mano e al coordinamento tra polso e cervello. Bartezzaghi ricorda che la scrittura a mano vuole che si componga la frase mentalmente prima di scriverla, ma in ogni caso la scrittura a mano, con la resistenza della penna e della carta, impone un rallentamento riflessivo. Molti scrittori, anche se abituati a scrivere al computer, sanno che talora vorrebbero poter incidere come i sumeri su una tavoletta di argilla, per poter pensare con calma.

I ragazzi scriveranno sempre più al computer e al telefonino. Tuttavia l'umanità ha imparato a ritrovare come esercizio sportivo e piacere estetico quello che la civiltà ha eliminato come necessità. Non ci si deve più spostare a cavallo ma si va al maneggio; esistono gli aerei ma moltissime persone si dedicano alla vela come un fenicio di tremila anni fa; ci sono i trafori e le ferrovie ma la gente prova piacere a scarpinare per passi alpini; anche nell'era delle e-mail c'è chi fa raccolta di francobolli; si va in guerra col Kalashnikov ma si fanno pacifici tornei di scherma..

Sarebbe auspicabile che le mamme inviassero i bambini a scuole di bella calligrafia, impegnandoli in gare e tornei, e non solo per la loro educazione al bello ma anche per il loro benessere psicomotorio. Di queste scuole ne esistono già, basta cercare 'scuole calligrafia' su Internet. E forse per qualche precario potrebbe diventare un affare.(06 agosto 2009)

da espresso.repubblica.it
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« Risposta #55 inserito:: Settembre 10, 2009, 10:57:36 am »

Ho sposato Wikipedia?

di Umberto Eco


Quanto ci si deve fidare dell'enciclopedia on line? Ecco cosa mi è capitato e alcune regole per accertare l'esattezza delle informazioni  Ciascuno di noi, ormai, mentre lavora e ha bisogno di controllare un nome o una data, ricorre su Internet a Wikipedia. Per l'ormai sparuto manipolo dei profani ricordo che Wikipedia è una enciclopedia 'on line' che viene scritta e riscritta continuamente dai suoi stessi utenti. Vale a dire che se voi cercate la voce, che so, 'Napoleone' e vedete che una notizia è incompleta o scorretta, vi registrate, la correggete, e la voce viene salvata così, con la vostra integrazione.

Naturalmente questo permetterebbe a malintenzionati o a pazzi di diffondere notizie false, ma la garanzia dovrebbe essere data proprio dal fatto che il controllo è fatto da milioni di utenti. Se un malintenzionato va a correggere che Napoleone non è morto a Sant'Elena ma a Santo Domingo, di colpo milioni di benintenzionati interverrebbero a correggere la illecita correzione (e poi credo che, dopo alcune azioni legali di persone che si erano viste calunniare da ignoti, una sorta di redazione eserciti un controllo almeno sul tipo di correzioni che appaiano chiaramente diffamatorie). In tal senso Wikipedia sarebbe un bell'esempio di quello che Charles Sanders Peirce chiamava la Comunità (scientifica) la quale per una sorta di felice omeostasi espunge gli errori e legittima le nuove scoperte portando così avanti, come lui diceva, la torcia della verità.

Ma se questo controllo collettivo potrebbe funzionare su Napoleone potrà funzionare su un John Smith qualsiasi? Facciamo l'esempio di una persona un poco più nota di John Smith e meno di Napoleone, e cioè chi scrive. All'inizio sono intervenuto a correggere la voce che mi riguardava perché recava date errate o false notizie (per esempio diceva che ero il primo di tredici fratelli, mentre la cosa era accaduta a mio padre). Poi ho smesso, perché ogni volta che per curiosità andavo a rivedere la mia voce trovavo altre piacevolezze messe da chissà chi. Ora alcuni amici mi hanno avvertito che Wikipedia dice che ho sposato la figlia del mio editore
Valentino Bompiani. La notizia non è per nulla diffamatoria ma - nel caso lo fosse per le mie care amiche Ginevra ed Emanuela - sono intervenuto a eliminarla.

In questo mio caso non si può neppure parlare di un errore comprensibile (come la storia dei tredici figli), né dell'accettazione di una vociferazione corrente: a nessuno era mai venuto in mente che io mi fossi accasato in tal modo, e quindi l'ignoto co-autore di Wikipedia interveniva per rendere pubblica una sua privata fantasia, senza che gli fosse mai passato per la mente di controllare almeno la notizia su qualche fonte.

Quanto ci si deve fidare di Wikipedia, allora? Dico subito che io mi fido perché la uso con la tecnica dello studioso di professione: consulto su un certo argomento Wikipedia e poi vado a confrontare con altre due o tre siti: se la notizia ricorre tre volte ci sono buone probabilità che sia vera (ma bisogna fare attenzione che i siti che consulto non siano parassiti di Wikipedia, e ne ripetano l'errore). Un altro modo è vedere la voce di Wikipedia sia in italiano sia in un'altra lingua (se avete difficoltà con l'urdu, ci sarà sempre certamente il corrispettivo inglese): sovente le due voci coincidono (una è la traduzione dell'altra) ma talora differiscono, e può essere interessante rilevare una contraddizione, che potrebbe indurvi (contro ogni vostra religione del virtuale) ad alzarvi e andare a consultare una enciclopedia cartacea.

Ma io ho fatto l'esempio di uno studioso che ha imparato un poco come si lavora confrontando le fonti tra loro. E gli altri? Quelli che si fidano? I ragazzini che ricorrono a Wikipedia per i compiti scolastici? Si noti bene che la cosa vale anche per qualsiasi altro sito, così che da gran tempo io avevo consigliato, anche a gruppi di giovani, di costituire un centro di monitoraggio di Internet, con un comitato formato da esperti sicuri, materia per materia, in modo che i vari siti fossero recensiti (o in linea, o con una pubblicazione a stampa) e giudicati quanto ad attendibilità e completezza. Ma facciamo subito un esempio, e non cerchiamo il nome di un personaggio storico come Napoleone (per cui Google mi dà 2.190.000 di siti), ma di un giovane scrittore diventato noto solo da un anno, e cioè da quando ha vinto lo Strega 2008, Paolo Giordano, autore de 'La solitudine dei numeri primi'. I siti sono 522.000. Come si fa a monitorarli tutti?

Si era pensato una volta di monitorare soltanto i siti su un solo autore su cui gli studenti potrebbero sovente cercare informazioni. Ma se prendiamo Peirce, che ho appena citato, i siti che lo riguardano sono 734.000.

Ecco un bel problema che, per ora, è ancora senza soluzione.

(04 settembre 2009)
da espresso.repubblica.it
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« Risposta #56 inserito:: Settembre 19, 2009, 12:00:50 am »

Pensierini di fine estate

di Umberto Eco


A proposito del 'caso Boffo', di Noemi Letizia e dell'inno di Mameli  Pensierino numero uno Vorrei precisare che la vita privata del dottor Boffo non mi interessa. Vorrei pure precisare che non intendo discutere se 'Il Giornale' ha fatto bene o male a rivelare fatti privati della vita del dottor Boffo per delegittimarlo in quanto critico del presidente del Consiglio. Ciascuno fa il suo mestiere secondo il mandato ricevuto. Non intendo neppure dire se gli appunti rivolti al dottor Boffo siano veri o falsi, perché non ho strumenti per verificarlo, e inoltre non mi compete. Non posso tuttavia evitare di rilevare che l'argomento usato per delegittimare il dottor Boffo è stata una accusa o insinuazione di omosessualità. È assolutamente vero che alcuni decenni fa un'accusa del genere poteva rovinare la vita di un uomo e specie di un politico (e talora l'ha rovinata), ma appunto negli ultimi decenni si era diffusa una diversa visione dei diritti sessuali di ciascuno, per cui a nessuno verrebbe più in mente di mettere in imbarazzo un proprio avversario politico dicendogli 'tu sei un frocio'. Ebbene, è stato fatto. Un ritorno al passato, forse dovuto a nostalgia. Ciascuno invecchiando rimpiange i tempi della propria infanzia.

Pensierino numero due Vorrei precisare che i rapporti o non rapporti tra il presidente del Consiglio e Noemi Letizia non mi interessano, ovvero non è il mio compito stabilire di che natura essi siano o siano stati, o non siano stati. Reagisco solo a una intervista che la fanciulla in questione ha rilasciato a una giornalista americana, in cui ha detto (in sostanza) che da tempo aspirava a una carriera artistica e voleva andare a Hollywood, e ora che "è diventata nota" può sperare che da laggiù la chiamino. Sto pensando alla Lollobrigida o alla Loren o a Gassman che, per essere chiamati a Hollywood si sono fatti la loro gavetta con bellissimi film italiani (tra l'altro migliori e più famosi negli annali del cinema di quelli fatti a Hollywood). Si presumeva che persino una fiera degli attori come Hollywood si basasse ancora su criteri di eccellenza artistica. La ragazza Noemi pensa invece che basti diventare 'nota' ed è evidente che sul tipo di notorietà non sottilizza. Si può diventare noto anche sparando sulla folla e tutto sommato la graziosa Noemi non è arrivata a questi estremi.

C'è chi si mette dietro la telecamera e fa ciao ciao con la manina. Spera di diventare 'noto', anche se lo diventa solo presso gli amici del Bar Sport. La signora D'Addario ha realizzato un tipo di notorietà più internazionale e infatti è stata chiamata a esibirsi in un night club, o balera, o cabaret parigino. Non credo arriverà a Hollywood, che non ha sfruttato neppure Monica Lewinsky. Ma insomma, è il concetto di notorietà che è cambiato. Quando ero piccolo mi insegnavano che se la gente parlava dei tuoi fatti personali era una vergogna, ed era una infamia finire sulla bocca di tutti. Ora invece diventare noti è il fine della vita. D'altra parte, Erostrato ha incendiato il tempio di Diana in Efeso purché parlassero di lui e, maledizione, siamo ancora qui a parlarne. Forse ha ragione Noemi.

Pensierino numero tre L'estate ha visto anche rinfocolarsi la discussione sull'inno di Mameli, e a questo argomento ho persino dedicato una Bustina. Ma adesso dimentichiamo per un momento che l'inno non piace a Bossi, perché non possiamo parlar male dei dialetti solo perché ne parla bene Bossi, e bene di Mameli solo perché Bossi ne parla male.

Anzitutto, siccome negli inni conta più la musica delle parole, l'inno di Mameli è l'inno di Michele Novaro. L'attribuiamo a Mameli perché il giovanotto è morto a ventidue anni difendendo la Repubblica romana, mentre Novaro è spirato serenamente a sessantatré anni. Se Novaro fosse morto trentenne a Roma, e Mameli novantenne nella Genova natia, lo chiameremmo inno di Novaro.

Ora le parole di Mameli sono quello che sono, ma se ci mettessimo a far le pulci alle parole della Marsigliese il risultato sarebbe lo stesso. E nessuno poi vieterebbe che si facesse un concorso nazionale per parole diverse. Ma quello che rende buffo l'inno di Mameli è la fretta con cui si ritiene di doverlo cantare, così che si immagina che chi lo intona, anche se fossero Napolitano, Cossiga, Andreotti o Rita Levi Montalcini, dovrebbero cantarlo correndo, come un manipolo di bersaglieri.

Ora, avete mai provato a cantare l'inno lentamente, come se fosse 'Good save the Queen', 'Deutschland über alles' o 'Star spangled banner'? O miracolo! Diventa ampio, solenne, quasi meglio di 'Va pensiero', e chi lo canta ci fa una dignitosa figura. Basta dare una disposizione alle bande militari ed è fatta.

Ci avevate mai pensato?


(17 settembre 2009)
da espresso.repubblica.it
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« Risposta #57 inserito:: Ottobre 06, 2009, 11:05:31 am »

Teste d'Uovo

di Umberto Eco


Gli arnesi da sottogoverno, i portaborse della politica, che non hanno mai letto a sufficienza, non sanno che esistono gli intellettuali di destra. Vedono solo quelli di sinistra e solo quando fanno in qualche modo opposizione
 
Si è tornato a discutere nelle settimane scorse su espressioni come 'culturame', che pare siano state pronunciate di nuovo, dopo decenni. Sono espressioni note, di solito usate da uomini di governo per deprezzare intellettuali di opposizione. 'Culturame' viene coniato, mi pare, da Scelba, che credeva solo nella logica dello sfollagente, ma Spiro Agnew, il vice di Nixon, aveva parlato di 'effete snobs' che a un dipresso voleva dire snob effeminati, e ricordava quei settimanali umoristici fascisti dove si metteva in scena il gagà che parlava 'nell'evve', o l'intellettuale fuori del tempo che scriveva 'povesie'. D'altra parte già vigeva nel mondo anglosassone, per delegittimazioni analoghe, l'espressione 'testa d'uovo'. E sempre nel corso delle lotte politiche del dopoguerra a destra si era ricuperata una definizione usata da Lenin per altri fini, come 'utili idioti', per riferirla agli intellettuali che simpatizzavano per le forze di sinistra.

Dunque si tratta di cose note. A tal punto che incoraggiano l'idea che il disprezzo del mondo intellettuale sia caratteristico della destra e che, come corollario, non esistano intellettuali a destra, ma siano tutti all'opposizione. Naturalmente un intellettuale è sempre in qualche modo all'opposizione di qualcosa, ma si può essere all'opposizione di molte cose anche militando a destra. Sono esistiti grandissimi intellettuali conservatori, o addirittura reazionari; e 'reazionario' non è una brutta parola, com'era ai tempi di Peppone e Don Camillo, perché ci sono stati pensatori ed artisti che hanno vagheggiato un ritorno a qualche Tradizione, o a un Antico Regime - e questo vuole dire reazionario, non uno che vuole affamare gli operai o che è necessariamente fascista. In tal senso un gran reazionario era Dante, che non era intellettuale da buttar via, e ai tempi nostri abbiamo letto molti autori che non hanno fatto altro che criticare la Modernità, il mondo della tecnica, le utopie rivoluzionarie. Non solo, ma recentemente da destra si è andati a individuare dei propri 'eroi' intellettuali che stavano per definizione a sinistra, come è accaduto (e forse non a torto) con
Pasolini, in quanto difensore di uno stato di natura preindustriale.

Pochi lo ricorderanno, ma negli anni Settanta si era molto parlato della rinascita di una cultura di destra, era persino uscita una rivista che si intitolava 'La Destra', e se le edizioni del Borghese avevano rispolverato i 'Pensieri' di Adolf Hitler e si erano ridotte a pubblicare 'Parlar chiaro' di Spiro Agnew (definito 'il più reazionario vicepresidente degli Stati Uniti, l'uomo che dice ad alta voce quello che Nixon dice sottovoce') un editore come Rusconi aveva pubblicato molti rappresentanti del pensiero di destra, da Mishima a Vintila Horia, da Prezzolini a Panfilo Gentile, e si era riscoperto un vero 'grande' del pensiero reazionario come De Maistre.

Insomma, se si vogliono trovare grandi scrittori che erano o sono di destra, conservatori o reazionari che fossero o siano, basta guardarsi in giro, e volendo si possono trovare anche dei grandi scrittori fascisti e antisemiti come Céline o Pound, o i classici nemici della modernità come Sedlmayr, per non dire di Heidegger, o gli adepti di sapienze primordiali come Guénon. Insomma basta sfogliare i cataloghi degli editori 'democratici' senza andare a ricuperare le annate de 'La voce della fogna', e assistere persino ai tentativi di ricupero di autori di destra da parte della sinistra, come è accaduto talora con Junger o Spengler. E allora? Gli autori di destra che ho nominato non sono culturame?

La verità è che pensiamo che la 'destra' sia una entità omogenea, mentre anche lì ci sono gli intellettuali, che riconoscono i 'loro' ma, proprio perché sono intellettuali, non cascano facilmente nell'uso di cliché come culturame o snob effeminati per bollare gli avversari.
E poi ci sono gli altri, gli arnesi da sottogoverno, i portaborse della politica, gli uomini interessati solo al potere (o ai soldi), che in realtà non hanno mai letto a sufficienza, e semplicemente non sanno che esistono gli intellettuali di destra. Vedono solo quelli di sinistra, e solo nel momento in cui fanno in qualche modo opposizione. E allora è ovvio che, nella loro mente monocamerale, intellettuale diventi sinonimo di oppositore e, come diceva Goering, quando sentono parlare di cultura tirino fuori la pistola. E anche se l'attribuzione a Goering è dubbia, la battuta appare peraltro nel dramma nazista 'Schlageter' di Hanns Johst: 'Wenn ich Kultur höre ... entsichere ich meinen Browning'. Ma chi tira fuori la pistola ignora l'origine dotta della citazione. Non leggono, non leggono.

(01 ottobre 2009)
da espresso.repubblica.it
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« Risposta #58 inserito:: Ottobre 16, 2009, 11:22:25 pm »

Curiosi e bizzarri

di Umberto Eco

Dal trattato sul gemito della colomba del cardinal Ballarmino, all'opera sull'immobilità della terra di Pierre Sindico, a "La vita sessuale di Robinson Crosue" di Michel Gall
 

Un appassionato di libri antichi come Mario Praz, nel 1931 rilevava quale piacere fosse per il bibliofilo leggere cataloghi d'antiquariato librario così come si leggono libri gialli. "State sicuri - diceva - che nessuna lettura ha mai generato azione così rapida e commossa, come la lettura di un catalogo interessante". Egli però subito dopo lasciava intravedere come si possano dare letture rapide e commosse anche di cataloghi ininteressanti.

Ora, se ci può essere un catalogo poco interessante che contenga solo edizioni minori di Dante, pandette o opere di teologi controriformisti, all'appassionato appaiono interessantissimi cataloghi detti in antiquariato di 'Varia e Curiosa', che elencano opere di pazzi letterari, visionari, geni giustamente falliti e scomparsi da tutte le bibliografie per molte e motivate ragioni. Avevo commentato un catalogo del genere anni fa, proprio su questa Bustina, ma ne escono di continuo, specie in Francia, e non resisto alla tentazione di sfogliare coi miei gentili lettori il recente 'Livres curieux et bizarres' dei Libraires Associés (anche per dimenticare almeno per poco le tristezze della cronaca).

Tra le opere dagli intenti certamente seri trovo un trattato sul gemito della colomba del cardinal Bellarmino (sì, quello di Galileo), uno sulla localizzazione del paradiso terrestre di Huet (che lo mette a Bassora, in contrasto con tutta una tradizione che lo voleva all'Estremo Oriente, e dunque si capisce cosa volesse Bush invadendo l'Iraq), l'opera di Pierre Sindico sull'immobilità della terra (1878), e scopro che Ricciotto Canudo, che conoscevo solo come serio teorico del cinema (e inventore della definizione 'settima arte') per il resto era eroe di guerra e si era occupato di Metafisica Musicale delle Civiltà.

Non manca una bella sezione sulle lingue madri dell'antichità, come la lingua parlata da Adamo (il druidico per
John Cleland, 1776), il basco come lingua di Cam per Pedro Nada, 1885, per non dire delle lingue artificiali come la Langue Bleue di Bollak, 1900, il 'Sillabayre' di Jallais, del 1923, con istruzioni per il funzionamento di una macchina per leggere (sic), il codice napoleonico messo in versi da Anonimo nel 1811, e di tal Radiguel 'La civiltà primitiva ritrovata con tutti i suoi archivi nel Paradiso Terrestre al paese d'Eden o Bretagna'.

Passando ad altri argomenti sarei tentato di leggere 'La vita sessuale di Robinson Crusoe' di Michel Gall (1977) dove si sottolinea con quale soddisfazione l'illustre naufrago avesse trovato Venerdì più cooperativo della capre - per inciso, il libro alla prima edizione era andato sotto sequestro giudiziario. Il catalogo annuncia come eccitante antologia del sadomasochismo (allietata da incisioni che non lasciano spazio all'immaginazione) il 'De sanctorum martyrum cruciatibus' di Antonius Gallonius (1602) dove il pio pretesto sarebbe quello di documentare i tormenti subiti dai martiri. Meno fedele alle cronache della santità il recente 'Sex in smurfenland' (1980) che altro non è che una rivisitazione dei Puffi in chiave pornografica - e il catalogo annuncia che non ci si deve preoccupare se il testo è in olandese perché le immagini sono comprensibilissime. Un dottor Brennus ne 'L'acte bref' (1907) si diffonde sull'incontinenza spasmodica, e Del padre Sinistrari d'Ameno (inquisitore secentesco) conoscevo 'De la demonialité' che però è considerato da vari bibliofili un falso (ispirato dal célèbre bibliofilo Paul Lacroix, poi scritto nel 1875 da Isidore Liseux), pubblicato per solleticare la curiosità morbosa dei lettori dell'epoca intorno ai convegni sessuali tra femmine e incubi e succubi. Ora però vedo che il Sinistrari è anche stato autore di un 'De sodomia tractatus' (molto considerato ancor oggi nei siti gay di Internet) dove l'aspetto più sapido sarebbe la sua teoria della sodomia lesbica tramite clitoride (organo su cui il pio francescano aveva idee abbastanza vaghe, ritenendo che fosse presente solo in alcune donne, che potesse spuntare in età giovanile, e che talora servisse alla tribade per depositare il proprio seme in un altro corpo femminile).

Per finire trovo la traduzione francese ('La domination du moine') di quello che dovrebbe essere 'Clelia', romanzo di Giuseppe Garibaldi, scritto (come lui dice nella prefazione) per ricordare i valorosi caduti sui campi di battaglia, denunciare alla gioventù italiana "le turpitudini ed i tradimenti dei governi e dei preti" e "infine campare anche col mio guadagno. Ecco i motivi che mi spinsero a farla da letterato". Per chi vuol dissacrare la storia patria, 'Clelia' va letto, almeno quanto 'Claudia Particella, l'amante del cardinale' di Benito Mussolini.

(15 ottobre 2009)
da espresso.repubblica.it
 
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« Risposta #59 inserito:: Novembre 04, 2009, 03:30:21 pm »

La bustina di Minerva

Lo strano caso dei calzini turchesi

di Umberto Eco


Quando eventi o dati vengono raccontati 'come se' fossero una denuncia, tutti avvertiamo il messaggio come una vera denuncia. Proprio quello che è capitato al giudice Mesiano  Il servizio di Mattino 5 sul giudice MesianoAvrò avuto circa dieci anni quando davanti a un bar sono stato avvicinato da una signora distinta, con pelliccia, che mi aveva detto : "Scusa giovanotto, mi sono fatta male a una mano e non posso scrivere una lettera urgente. Me la scriveresti tu? Ti darò un lira". Da generoso balilla avevo risposto che le avrei reso quel servizio ma gratis, e la signora aveva insistito perché prendessi almeno un gelato. Quindi aveva iniziato a dettare. Il tenore della lettera era molto strano e a metà dettatura avevo cominciato a subodorare del marcio, ma non potevo più fermarmi. Quando ho raccontato il fatto a casa, mia madre è impallidita e ha esclamato: "Mio Dio, ti hanno fatto scrivere una lettera anonima!" e quel grido minacciava terribili sventure giudiziarie per me e per la famiglia tutta.

Ho cercato di calmare la mamma dicendole che, in fin dei conti, quella lettera non sembrava gran che criminale, perché diceva un gran bene della persona che denunciava. Ecco il fatto. La lettera era indirizzata a un certo signor X (che tra l'altro avevo individuato perché era un noto commerciante della città con tanto di insegna sulla via principale) e la scrivente gli diceva di sapere che egli stava per chiedere in matrimonio la signorina Y. Ma (fatto singolare per una lettera anonima) il messaggio continuava precisando che della signorina Y non si poteva dire niente di male, che anzi era di famiglia, oltre che rispettabile, danarosa, e che era simpaticamente nota in città.

Sin da allora, pur essendo poco più che bambino, ma già lettore di romanzi gialli e affini, sapevo perché si scrivesse una lettera anonima: per denunciare le malefatte di qualcuno, non per parlarne bene. Se pure la mia signora in pelliccia fosse stata la madre o la zia della signorina Y, di cui avesse voluto favorire le nozze, come poteva pensare che il signor X avrebbe preso sul serio una denuncia anonima delle virtù della sua futura sposa?


E però, crescendo in età e saggezza, mi sono reso conto che la manovra della misteriosa signora in pelliccia non era priva di una sua logica, ovviamente perversa. Se ti arriva una lettera anonima dove si parla di una certa persona, per poco che di quella persona ti si dica, la si avvolge immediatamente in un'aura di sospetto. Che cosa voleva dire che la signorina Y era simpaticamente nota in città? A quali occulte fonti di guadagno si alludeva informando che la sua famiglia era danarosa?

Ho così capito che quando un evento, o una serie di dati, in sé banalissimi e inoffensivi, vengono raccontati 'come se' fossero una denuncia, tutti avvertiamo il messaggio come una denuncia. Una denuncia oscura, certo, dai confini sfumati, ma perché altrimenti l'ignoto scrivente si sarebbe preoccupato di farci sapere quelle cose se fossero state inoffensive?

Detta in breve, se io fossi stato lo stimato commerciante signor X avrei subito rinunciato alla mia richiesta di matrimonio, per non rischiare di mettermi in casa (e ancor peggio, nel letto) una persona di cui si stava già parlando sin troppo. La signorina Y era troppo chiacchierata.

Ora ci sono certamente accuse, anonime o meno, che puntano su un crimine manifesto (il tale è pedofilo, ha rubato denaro pubblico, va a letto con vostra moglie o vostro marito, è legato a Osama); sono le più praticate ma, vorrei dire, le più ingenue, perché basta un piccolo particolare a mostrarne eventualmente la falsità e a renderle inoffensive. Ma le più pericolose sono quelle che non accusano di nulla e lasciano tutto l'onore del sospetto al destinatario. Esse non sono impugnabili. Ma sono pericolose.

Pensavo alla signora in pelliccia leggendo le settimane scorse del magistrato sorpreso a fumare, ad andare dal barbiere, a sedere su una panchina con calzino turchese. Si diceva male di lui? Per nulla. Ma perché andava in calzini turchesi dal barbiere e, soprattutto, perché qualcuno si premurava di dircelo come per inviarci un messaggio in codice?

Ci vuole poco a gettare su una persona un'ombra di sospetto. Pensate se 'Repubblica' invece di svelare la storia del compleanno di Noemi avesse detto e documentato: "Venerdi scorso il presidente del Consiglio è andato a passeggiare in piazza Navona, ha incontrato suo cugino e insieme hanno preso un birra.". Aggiungendo: "Che storia curiosa, non vi pare?". A quest'ora Berlusconi, assediato da vaghe allusioni e trafitto da sguardi sospettosi anche da parte dei suoi fedeli, sarebbe già stato obbligato a dare le dimissioni.

(30 ottobre 2009)
da repubblica.it
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