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Autore Discussione: UMBERTO ECO.  (Letto 132929 volte)
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« Risposta #30 inserito:: Settembre 19, 2008, 10:32:47 am »

Umberto Eco


Indietro a tutta forza!


Stiamo assistendo a un interessante regresso tecnologico. Ora il progresso può anche significare fare due passi indietro, come tornare all'energia eolica invece del petrolio  In una vecchia Bustina avevo avvertito che stiamo assistendo a un interessante regresso tecnologico. Si era anzitutto messa sotto controllo l'influenza disturbante del televisore grazie al telecomando, con cui lo spettatore poteva lavorare di zapping, entrando così in una fase di libertà creativa, detta 'fase di Blob'. La liberazione definitiva dalla televisione si era avuta col videoregistratore, con cui si realizzava l'evoluzione verso il Cinematografo. Inoltre col telecomando si poteva azzerare l'audio tornando ai fasti del film muto. Intanto Internet, imponendo una comunicazione eminentemente alfabetica, aveva liquidato la temuta Civiltà delle Immagini. A questo punto si potevano eliminare addirittura le immagini, inventando una sorta di scatola che emettesse solo suoni, e che non richiedesse neppure il telecomando. Io allora credevo di scherzare immaginando la scoperta della radio, ma (evidentemente ispirato da un Nume) vaticinavo l'avvento dell'I-Pod.

Infine l'ultimo stadio era stato raggiunto quando alle trasmissioni via etere, con le pay-tv, si era dato inizio alla nuova era della trasmissione via cavo telefonico, passando dalla telegrafia senza fili alla telefonia con i fili, fase completamente realizzata da Internet, superando Marconi e tornando a Meucci.

Avevo ripreso questa mia teoria della marcia all'incontrario nel mio libro 'A passo di gambero' dove applicavo questi principi anche alla vita politica (e d'altra parte in una Bustina recente ho notato che stiamo tornando alle notti del 1944, con pattuglie militari per le strade, e bambini e maestre in divisa). Ma è avvenuto di più.

Chiunque ha dovuto comperare recentemente un nuovo computer (diventano obsoleti in tre anni) si è reso conto che poteva trovare solo quelli con già installato Windows Vista. Ora basta leggere sui vari blog in Internet cosa gli utenti pensano di Vista (non mi azzardo a riferirlo per non finire in tribunale), e cosa ti dicono gli amici caduti in quella trappola, per fare il proposito (magari errato, ma fermissimo) di non comperare un computer con Vista. Ma se volete una macchina aggiornata di ragionevoli proporzioni, dovete sorbirvi Vista. Oppure ripiegate su un clone grande come un Tir, assemblato da un venditore volonteroso, che installa ancora Windows XP e precedenti. Così la vostra scrivania sembra un laboratorio Olivetti con l'Elea 1959.

Io credo che i produttori di computer si siano accorti che le vendite diminuiscono sensibilmente perché l'utente, pur di non avere Vista, rinuncia a rinnovare il computer. E allora cos'è successo? Per capirlo dovete andare su Internet e cercare 'Vista Downgrading' o simili. Lì vi si spiega che, se avete comperato un nuovo computer con Vista, pagandolo quel che vale, sborsando una somma additiva (e non così facilmente, ma passando attraverso una procedura che mi sono rifiutato di capire), dopo molte avventure, potreste avere di nuovo la possibilità di fruire di Windows XP o precedenti.

Chi usa i computer sa cosa è l'upgrading, è una cosa che ti consente di aggiornare il tuo programma sino all'ultimo perfezionamento. Di conseguenza il downgrading è la possibilità di riportare il tuo computer, avanzatissimo, alla felice condizione dei programmi più vecchi. Pagando. Prima che su Internet si inventasse questo bellissimo neologismo, su un normale dizionario Inglese-Italiano si trovava che 'downgrade' come sostantivo significa declino e ribasso, o versione ridotta, mentre come verbo vuole dire retrocedere, degradare, ridimensionare e svilire. Quindi ci viene offerta la possibilità, previo molto lavoro e una certa somma, di svilire e degradare qualcosa che avevamo pagato una certa somma per avere. La cosa sarebbe incredibile se non fosse vera (ne ha anche parlato spiritosamente Giampaolo Proni sulla rivista online 'Golem-L'indispensabile' - http://www.golemindispensabile.it/), e in linea si trovano centinaia di poveretti che stanno lavorando come pazzi e pagando quel che si deve per degradare il loro programma. Quando arriveremo allo stadio che, per una somma ragionevole, il loro computer sarà cambiato in un quaderno con calamaio e penna con pennino Perry?

Ma la faccenda non è solo paradossale. Ci sono progressi tecnologici oltre i quali non si può andare. Non si può inventare un cucchiaio meccanico, quello di 2 mila anni fa va ancora bene così. Si è abbandonato il Concorde, che pure faceva Parigi-New York in tre ore. Non sono sicuro che abbiano fatto bene, ma il progresso può anche significare fare due passi indietro, come tornare all'energia eolica invece del petrolio e cose del genere. Siate tesi al futuro! Indietro a tutta forza!

(19 settembre 2008)

da espresso.repubblica.it
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« Risposta #31 inserito:: Ottobre 04, 2008, 03:51:07 pm »

Umberto Eco


Abbasso l'Itaglia


Per rovinare il Paese pensavamo ci volesse un secolo. Invece ci si è arrivati molto prima. E con il consenso della maggioranza degli italiani  Delle celebrazioni papaline a Porta Pia si è già detto abbastanza e basterebbe l'articolo di Scalfari su questa stessa pagina la settimana scorsa. Noto solo che il monumento al bersagliere lo aveva fatto erigere Mussolini nel 1932. Alemanno, Alemanno, non c'è più religione. Comunque sono indotto a tornare sull'episodio perché esso si inserisce in una serie di fenomeni di regresso storico di cui in alcune mie Bustine, come l'invenzione del 'downgrading' e il fatto che ci pare di essere tornati al 1944, con le pattuglie di soldati per le strade e maestri e alunni in divisa. Nel caso del XX Settembre invece di tornare a Windows XP si è tornati a Pio IX.

In una bustina di circa un anno fa rilevavo l'infittirsi su Internet di siti antirisorgimentali e filo borbonici. Ora appare sui giornali che un terzo degli italiani è favorevole alla pena di morte. Stiamo tornando al livello degli americani (fuck you Beccaria), dei cinesi e degli iraniani. Altro commovente ritorno al passato è il bisogno sempre più urgente di riaprire la case di tolleranza, non dei locali moderni adatti al caso ma 'quelle' case di una volta, con gli indimenticabili pisciatoi all'ingresso e la maîtresse che gridava "ragazzi in camera, non facciamo flanella!". Certo che se tutto potesse avvenire con l'oscuramento e magari il coprifuoco sarebbe più gustoso. A proposito, il concorso per le veline non fa pensare al sogno ricorrente delle ballerine di fila dell'indimenticabile avanspettacolo?

Nei primi anni Cinquanta, Roberto Leydi e io avevamo deciso di fondare una società antipatriottica. Era un modo di scherzare sull'educazione che avevamo ricevuto durante l'infausta dittatura, che la Patria ce l'aveva condita in tutte le salse, sino alla nausea. Inoltre stavano risorgendo gruppi neofascisti, e infine la televisione aveva un solo canale in bianco e nero e bisognava pure trovare un modo di passare le serate.

La società antipatriottica assumeva come proprio inno la marcia di Radetzky e si proponeva ovviamente di rivalutare la figura morale di quella limpida figura di antirisorgimentale; si auspicavano referendum per la restituzione del Lombardo Veneto all'Austria, di Napoli ai Borboni e naturalmente di Roma al papa, la cessione del Piemonte alla Francia e della Sicilia a Malta; si sarebbero dovuti abbattere nelle varie piazze d'Italia i monumenti a Garibaldi e cancellare i nomi delle vie intitolate sia a Cavour che a martiri e irredentisti vari; nei libri scolastici si dovevano insinuare fieri dubbi sulla moralità di Carlo Pisacane e di Enrico Toti. E via discorrendo. La società si era sciolta di fronte a una scoperta sconvolgente. Per essere veramente antipatriottici e volere la rovina d'Italia sarebbe stato necessario rivalutare il Duce, e cioè chi l'Italia l'aveva rovinata davvero, e dunque avremmo dovuto diventare neofascisti. Ripugnandoci questa scelta, avevamo abbandonato il progetto.

Noi allora facevamo per ridere ma quasi tutto quello che avevamo allora immaginato sta realizzandosi - anche se non ci era neppure passato per testa di voler fare con la bandiera nazionale quello che poi Bossi ha annunciato di voler fare, e non ci era venuta in mente l'idea veramente sublime di celebrare coloro che avevano ammazzato i bersaglieri a Porta Pia. A quei tempi c'erano i democristiani al governo che si occupavano di tenere la chiesa a freno per proteggere la laicità dello Stato, e il massimo di neo-clericalismo era stato l'appoggio dato da Togliatti al famigerato articolo 7 della Costituzione che riconosceva i patti lateranensi.

Già da un po' di anni si era sciolto il movimento dell'Uomo Qualunque che aveva sollecitato per un certo periodo sentimenti antiunitari, diffidenze verso una Roma corrotta e ladrona, o contro una burocrazia statale di fannulloni che succhiavano il sangue della brava gente e laboriosa. Non ci passava neppure per l'anticamera del cervello che atteggiamenti del genere sarebbero stati un giorno quelli dei ministri della Repubblica. Non avevamo avuto l'idea luminosa che per svuotare di ogni dignità e potere reale il parlamento bastava fare una legge per cui i deputati non venissero eletti dal popolo ma nominati prima delle elezioni dal capo. Ci pareva che auspicare un ritorno graduale alla Camera dei Fasci e delle Corporazioni fosse idea troppo fantascientifica.

Volevamo disfare l'Italia, ma gradualmente, e pensavamo ci volesse almeno un secolo. Invece ci si è arrivati molto prima, e oltre all'Italia si sta persino disfacendo l'Alitalia. Ma la cosa più bella è stata che l'operazione non è dipesa dal colpo di Stato di una punta di diamante, dei pochi generosi idealisti che eravamo, ma si sta realizzando col consenso della maggioranza degli italiani.

(03 ottobre 2008)

da espresso.repubblica.it
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« Risposta #32 inserito:: Ottobre 18, 2008, 11:56:55 am »

Umberto Eco.


Dei d'America


Prevale la tendenza a offrire i voti dei credenti a politici che, indifferenti ai valori religiosi, siano disposti a concedere il massimo alle richieste più rigide della chiesa che li sostiene  Uno dei maggiori divertimenti del visitatore europeo negli Stati Uniti è sempre stato sintonizzarsi la domenica mattina sui canali tv dedicati alle trasmissioni religiose. Chi non ha mai visto queste assemblee di fedeli rapiti in estasi, di pastori che lanciano anatemi e di gruppi di femmine che assomigliano a Woopy Goldberg e danzano ritmicamente gridando 'Oh Jesus', ne ha avuto forse un'idea vedendo recentemente 'Borat', ma ha creduto che si trattasse di una invenzione satirica, così come lo era la rappresentazione del Kazakistan. No, quello di Sacha Baron Cohen era un caso di 'candid camera', egli aveva ripreso quello che stava davvero accadendo intorno a lui. Insomma una di queste cerimonie dei fondamentalisti americani fa apparire il rito della liquefazione del sangue di San Gennaro come una riunione di studiosi dell'Illuminismo.

Alla fine degli anni Sessanta avevo visitato in Oklahoma la Oral Roberts University (Oral Roberts era uno di questi telepredicatori carismatici) dominata da una torre con una piattaforma rotante: i fedeli mandavano donazioni e, a seconda della somma, la torre emetteva nell'etere le loro preghiere. Per essere assunto come insegnante nell'università si doveva rispondere anzitutto a un questionario in cui appariva anche questa domanda: 'Do you speak in tongues?' ovvero 'avete il dono delle lingue, come gli apostoli?'. Si diceva di un giovane professore che aveva gran bisogno di lavoro, aveva risposto 'not yet, non ancora', ed era stato assunto in prova.

Le chiese fondamentaliste erano antidarwiniane, antiabortiste, sostenevano la preghiera obbligatoria nelle scuole, all'occorrenza erano antisemite e anticattoliche, in molti stati segregazioniste, ma sino a pochi decenni fa rappresentavano in fondo un fenomeno abbastanza marginale, limitato all'America profonda della 'Bible belt'. Il volto ufficiale del paese era rappresentato da governi attenti a separare politica e religione, dalle università, da artisti e scrittori, da Hollywood.

Nel 1980 Furio Colombo aveva dedicato ai movimenti fondamentalisti il suo 'Il Dio d'America', ma il libro era stato visto da molti più come una profezia pessimistica che non come il rapporto su una realtà preoccupantemente in crescita. Ora Colombo ha ripubblicato il libro (allegato alla 'Unità' di qualche settimana fa) con una nuova introduzione che questa volta nessuno potrà scambiare per una profezia. Secondo Colombo la religione ha fatto il suo ingresso nella politica americana nel 1979 nel corso della campagna che opponeva Carter a Reagan. Carter era un buon liberale ma era cristiano fervente, di quelli detti 'born again', rinati alla fede. Reagan era un conservatore, ma ex uomo di spettacolo, gioviale, mondano, e religioso solo perché andava in chiesa alla domenica. Ora era accaduto che l'insieme delle sette fondamentaliste si fosse schierato con Reagan, e Reagan aveva ripagato accentuando le sue posizioni religiose, per esempio nominando alla corte suprema giudici contrari all'aborto.

Ma del pari i fondamentalisti avevano iniziato a sostenere tutte le posizioni della destra, avevano sostenuto la lobby delle armi, si erano opposti alla assistenza medica e, attraverso i loro predicatori più fanatici, avevano sostenuto una politica bellicista, presentando persino la prospettiva di un olocausto atomico come necessario per sconfiggere il regno del male. Oggi la decisione di McCain, di scegliere una donna nota per le sue tendenze dogmatiche come vice presidente, e il fatto che almeno all'inizio i sondaggi abbiano premiato la sua decisione, va proprio in questa direzione.

Colombo fa però osservare che, mentre in passato i fondamentalisti si opponevano ai cattolici, ora i cattolici, e non solo in America, vanno sempre più avvicinandosi alle posizioni dei fondamentalisti (si veda per esempio il curioso ritorno all'antidarwinismo quando ormai la Chiesa aveva per così dire firmato un ampio armistizio con le teorie evoluzionistiche). E in effetti che la chiesa italiana si sia schierata non con il cattolico praticante Prodi, ma con un laico divorziato e gaudente, lascia pensare che anche in Italia predomini la tendenza a offrire i voti dei credenti a politici che, indifferenti ai valori religiosi, siano disposti a concedere il massimo alle richieste dogmaticamente più rigide della chiesa che li sostiene.

Viene da riflettere su un discorso del carismatico Pat Robertson nel 1986: "Voglio che voi pensiate a un sistema di scuole in cui l'insegnamento umanistico sarà completamente bandito, una società in cui la chiesa fondamentalista avrà assunto il controllo delle forze che determinano la vita sociale".

(17 ottobre 2008)

da espresso.repubblica.it
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« Risposta #33 inserito:: Ottobre 31, 2008, 03:45:28 pm »

Umberto Eco


Voglia di morte

La storia è stata ed è piena di persone che per religione, ideologia, o qualche altro motivo sono state pronte a morire per ammazzare, o più verosimilmente ad ammazzare per morire  Circa tre anni fa in una di queste bustine accennavo al libro di Robert Pape, 'Dying to win. The strategy and logic of suicide terrorism'. Da un lato vi si diceva che il terrorismo suicida nasce solo in territori occupati e come reazione all'occupazione (il terrorismo suicida si sarebbe arrestato, per esempio in Libano, appena terminata l'occupazione) ma dall'altro vi si ricordava che non è fenomeno solo musulmano - e Pape citava le Tigri Tamil dello Sri Lanka, e ventisette terroristi suicidi in Libano, tutti non islamici, laici e comunisti o socialisti.

D'altra parte gli anarchici italo-americani avevano pagato a Bresci, che andava a uccidere Umberto I, un biglietto di sola andata; nei primi secoli del cristianesimo c'erano i Circoncellioni, che assalivano i viandanti per avere il privilegio del martirio, e più tardi i Catari praticavano quel suicidio rituale che si chiamava 'endura'. Per arrivare infine alle varie sette dei giorni nostri (tutte del mondo occidentale), sulle quali ogni tanto si legge di intere comunità che scelgono il suicidio di massa. La storia è stata ed è piena di persone che per religione, ideologia, o qualche altro motivo sono state pronte a morire per ammazzare, o più verosimilmente ad ammazzare per morire. Visto che l'istinto di conservazione ce l'hanno tutti, e per superare questo istinto non basta l'odio per il nemico, non è così facile capire la personalità del kamikaze potenziale.

Tuttavia non ogni fenomeno terroristico ha comportato il suicidio. Non certo i terrorismi 'nazionalisti' (vedi irlandesi e baschi) dove, sia pure mettendo in conto l'eventualità di morire nel corso di un'azione, l'intento è di nuocere al nemico quanto più possibile senza mettere a rischio la propria vita. E pareva non ci fosse impulso suicida nel terrorismo italiano - anzi, a dirla tutta, gran parte di coloro ha poi cercato di salvare la pelle e di diminuire la propria pena denunciando i compagni. Non solo ma, tranne l'operazione di guerriglia vera e propria compiuta con il rapimento di Moro, l'azione del terrorista era sempre abbastanza sicura visto che si trattava di sparare a qualcuno privo di scorta mentre usciva di casa o saliva in macchina.


Se non c'era stata una pulsione suicida che cosa aveva allora spinto qualcuno a darsi alla clandestinità e a praticare l'omicidio politico? Si badi bene che ogni spiegazione ideologica tiene poco perché non solo oggi, col senno di poi, ma già allora qualsiasi persona di buon senso poteva capire che nessuna azione terroristica avrebbe potuto battere quello che i terroristi eleggevano a loro nemico principale, lo Stato delle multinazionali.

'Il vento dell'odio' di Roberto Cotroneo (Mondadori, euro 18) sembra puntare a un'altra lettura - e naturalmente in forma di romanzo perché non può appoggiarsi a documenti ma solo ipotizzare delle storie di famiglia. Cotroneo immagina due storie di famiglia abbastanza eccezionali, visto che uno dei suoi eroi negativi è figlio di un ex fascista diventato spia dei servizi segreti e l'altra di un militante di sinistra ambiguamente compromesso con traffici non limpidissimi con l'Est. Ma credo che la sua spiegazione della scelta terroristica come dovuta a impulsi autodistruttivi e a una reazione a problemi familiari si possa anche applicare a storie di famiglie ben più piatte e normali - anzi, meglio ancora.

Questa è la lettura a cui inizialmente il romanzo invita, almeno per le prime ottanta pagine, salvo che dopo compie un salto. Si passa dalla psicoanalisi alla dietrologia e inizia una storia paranoide e mozzafiato che vede dietro ai terroristi una immensa ragnatela di servizi variamente deviati in cui poco conta la connotazione ideologica e l'appartenenza nazionale, il tutto che si dipana tra Argentina e Parigi ma con un sottofondo amaro e continuo che è (terzo tema del romanzo) la permanenza di un eterno fascismo italiano.

Onestamente credo che sia il tema numero due quello che affascinerà maggiormente il lettore, ma chi come me attendeva un altro svolgimento troverà in vari momenti riconfermato quello che il romanzo gli suggeriva sin dall'inizio: che anche nel terrorismo nostrano funzionasse (sotterraneo ma potentissimo) un impulso suicida, "un'attrazione irresistibile verso la morte, quella data agli altri e quella che poteva capitare anche a noi". E quando uno dei protagonisti guarda morire un poliziotto a cui sparava l'ultimo colpo alla nuca, si dice: "Non lo facevamo perché volevamo un mondo migliore ma perché eravamo noi che volevamo morire, perché in quegli occhi ho visto me stesso, ho visto la mia ansia, la mia paura, il mio stare dentro quel vuoto, quell'odio di un paese irrisolto".

(31 ottobre 2008)


da espresso.repubblica.it
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« Risposta #34 inserito:: Novembre 14, 2008, 10:29:05 pm »

Umberto Eco.


''Rasista mi? Ma se l'è lü che l'è negher!''


Dire che Obama è 'un nero' è una palese verità, dire che 'è nero' è già un'allusione al colore della pelle, dire che è abbronzato è una maligna presa in giro  Barack ObamaSi saranno forse calmate le discussioni a livello nazionale ma non a livello internazionale. Da amici di vari paesi accade di ricevere ancora e-mail in cui ci chiedono come mai il presidente Berlusconi abbia potuto commettere la storica gaffe, quando ha scherzato sul fatto che il nuovo presidente degli Stati Uniti, oltre che giovane e prestante, era anche abbronzato. Numerose persone si sono sforzate di dare una spiegazione per l'espressione usata da Berlusconi. Per i malevoli si andava dall'interpretazione catastrofica (Berlusconi voleva insultare il neo presidente) a quella formato 'trash': Berlusconi sapeva benissimo di fare una gaffe ma sapeva anche che il suo elettorato è quello che adora queste gaffe e lo trova simpatico proprio per questo. Quanto alle interpretazioni benevole andavano da quelle ridicolmente assolutorie (Berlusconi, devoto delle lampade abbronzanti, voleva lodare Obama), a quelle appena indulgenti (ha fatto una battuta innocente, non esageriamo).

Quello che gli stranieri non capiscono è perché Berlusconi, invece di difendersi dicendo che è stato frainteso e voleva dire altro (che sarebbe poi la sua tecnica abituale), ha insistito nel rivendicare la liceità della sua espressione. Ora l'unica risposta vera è che Berlusconi era effettivamente in buona fede, pensava di avere detto una cosa normalissima, e non vede ancora adesso che cosa ci fosse di male. Ha detto (pensa lui) che Obama era nero; e non è forse nero, e nessuno lo nega? Viene in mente la battuta dell'affittacamere milanese che rifiutava di dare il monocamera a un africano: 'Rasista a mi? Ma se l'è lü che l'è negher!'. A parte le battute, Berlusconi sembra sottintendere: che Obama sia nero è evidente, tutti gli scrittori neri in America si sono detti felici perché un nero va alla Casa Bianca, da tempo i neri di America ripetono che 'black is beautiful', nero e abbronzato sono la stessa cosa e quindi si può dire che 'tanned is beautiful'. O no? No. Vi ricorderete che i bianchi americani chiamavano 'negro' (pronuncia 'nigro') gli originari dell'Africa, e quando volevano esprimere il loro disprezzo dicevano 'nigger'. Poi i neri hanno ottenuto di essere chiamati 'black'; ma ancora oggi dei neri possono dire, per provocazione o per scherzo, che sono 'nigger'. Salvo che possono dirlo loro, ma se lo dice un bianco gli rompono la faccia. Così come ci sono dei gay che per qualificarsi provocatoriamente usano espressioni ben più denigratorie, ma se le usa uno che gay non è, come minimo si offendono.


Ora, dire che un nero è andato alla Casa Bianca costituisce una constatazione e può essere detto sia con soddisfazione che con odio, ma può essere detto da chiunque. Definire invece un nero come abbronzato è un modo di dire e non dire, e cioè di suggerire una differenza, senza osare chiamarla col suo nome. Dire che Obama è 'un nero' è una palese verità, dire che 'è nero' è già una allusione al colore della pelle, dire che è abbronzato è una maligna presa in giro.

Certo che Berlusconi non voleva creare un incidente diplomatico con gli Stati Uniti. Ma ci sono dei modi di dire o di comportarsi che servono a distinguere persone di diverse estrazioni sociali o diverso livello culturale. Sarà snobismo, ma in certi ambienti una persona che dice 'manàgment' è immediatamente connotata in senso negativo, e così chi dice 'università di Harvard' senza sapere che Harvard non è un luogo (poi ci sono addirittura quelli che pronunciano 'Haruard'); e dagli ambienti più esclusivi viene bandito chi scriva 'Finnegan's Wake' con il genitivo sassone. Un pochino come un tempo si individuavano come persone di bassa estrazione coloro che alzavano il mignolo mentre sollevavano il calice, se gli si offriva un caffè dicevano "a buon rendere" e invece di dire "mia moglie" dicevano "la mia signora".

Talora il comportamento tradisce un ambiente di origine: ricordo di un personaggio pubblico noto per la sua austerità che, alla fine di un mio discorso all'apertura di una mostra, è venuto a stringermi cordialmente la mano dicendomi "professore, non sa quanto mi ha fatto godere". Gli astanti hanno sorriso imbarazzati ma quella brava persona, avendo sempre frequentato persone timorate di Dio, non sapeva che quella espressione ormai si usa solo in senso carnale. Per quanto riguarda lo spirito si dice "è stato veramente un godimento intellettuale". "E non è la stessa cosa?", direbbe Berlusconi. No, i modi di dire non sono mai la stessa cosa.

Semplicemente Berlusconi non frequenta certi ambienti dove si sa che si può nominare l'origine etnica ma non alludere alla tinta della pelle, così come non si deve mangiare il pesce con il coltello.

(14 novembre 2008)

da espresso.repubblica.it
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« Risposta #35 inserito:: Novembre 28, 2008, 10:39:29 pm »

Umberto Eco.


Mumble mumble crash


Il bello dell'onomatopea del fumetto è che non solo evoca il rumore originario col suono del termine o pseudo termine linguistico, ma ne rappresenta graficamente l'intensità  Arf arf bang crack blam buzz cai spot ciaf ciaf clamp splash crackle crackle crunch deleng gosh grunt honk honk cai meow mumble pant plop pwutt roaaar dring rumble blomp sbam buizz schranchete slam puff puff slurp smack sob gulp sprank blomp squit swoom bum thump plack clang tomp smash trac uaaaagh vrooom ..

Credo di appartenere alla prima generazione per cui questo linguaggio è stato familiare, spontaneo, immediato. Le onomatopee dei fumetti non c'erano nelle vignette del 'Corriere dei piccoli' su cui erano cresciuti i nostri genitori, appaiono con i fumetti americani de 'L'avventuroso' e poi col fumetto all'italiana. Abbiamo giocato gridando bang bang e zip zip, e abbiamo pronunciato suoni che ci evocavano certamente un rumore, un evento, senza sapere che in inglese erano anche parole, come mumble, clap, splash, slurp o rumble. Ci stupiva, e se ne discuteva, che le carabine facessero crack crack solo nei fumetti di Cino e Franco (altrove facevano bang o altri suoni) e non ci rendevamo conto che anche il quel caso il suono, in sé abbastanza iconico, era pur sempre una parola che poteva stare per schiocco o colpo.

L'idea che l'onomatopea oltre che immagine aurale di un suono potesse essere anche suggerimento lessicale è apparsa in Italia, se non sbaglio, solo con Jacovitti, che ha decisamente italianizzato il gioco e iniziato a scrivere 'schiaff schiaff'. Il bello dell'onomatopea del fumetto è che non solo evoca il rumore originario col suono del termine o pseudo termine linguistico, ma ne rappresenta graficamente l'intensità, come a dire che c'è una enorme differenza tra un semplice 'bum', un 'BUM' scritto a grandi caratteri e un 'boOOM', dove le lettere diventano via via sempre più visibili e carnose (e in tal caso l'esplosione è apocalittica).

Ho sempre amato le onomatopee dei fumetti e una volta ne ho raccolto circa 150 e le ho passate a Eugenio Carmi e a Cathy Berberian. Ne è uscito un libro-disco dove Carmi aveva dato delle onomatopee una rappresentazione visiva, quasi a renderne evidenti il timbro e le vibrazioni, e Cathy aveva elaborato quel pezzo prodigioso, poi eseguito dappertutto e ancora oggi oggetto di culto, noto come 'Stripsody', dove la musica era fatta solo dai suoni dei fumetti (ovvero dalla sua voce incredibile che li rendeva cantabili). Ma si giocava ancora su un numero limitato di onomatopee - e già credevo di averne individuate molte.

Ora Roman Gubern e Luis Gasca pubblicano un monumentale 'Diccionario de onomatopyas del cómic' (Madrid, Cattedra), più di 400 pagine in buona parte a colori, dove le onomatopee riprodotte e commentate sono più di mille. Anche questa rassegna sarebbe insufficiente, se si considera che Jacovitti vi appare solo tre volte e per tre modestissimi e prevedibili bang, un tompt e un hug, mentre avrebbe avuto ben altro da offrire, tanto per citare, blomp, prà (per un colpo di pistola secco), pamt, ponfete, slappete, cianft, svòff, ciunft, badabanghete, sdenghete, flup e (capolavoro) PÚgno.

Ma, Jacovitti a parte, nel libro di rumori ce ne sono abbastanza per giustificare il titolo dell'introduzione, 'De la onomatopeya como una bella arte'. I due autori non esitano a radicare la loro ricerca in una tradizione antichissima e più che rispettabile, il 'Cratilo' di Platone, dove come si sa viene iniziata la millenaria diatriba se le parole siano in qualche modo prodotte a imitazione delle cose che designano. Gasca e Gubern non riescono a evitare di citare Rimbaud con le sue vocali colorate, faccenda che col cratilismo non ha nulla a che vedere ma rinvia soltanto agli splendidi meccanismi allucinatori di quello spiritato ragazzo. Ma per il resto, benché a volo d'uccello, l'analisi dell'onomatopea fumettistica è fatta con acume, e il volume considera e registra anche fenomeni grafici come i 'sensogrammi', per esempio il ronfare del dormiente rappresentato dal tronco segato, o i casi che direi di onomatopea termica, come quando la nuvoletta stessa cola in stalattiti per suggerire il gelo, equivalendo così visivamente al suono 'brrrrivido'. Per non dire degli usi dell'onomatopea fatti da Roy Lichtenstein.

Gasca e Gubern osservano inoltre che l'uso inglese di legare il semantico col fonosimbolico ha portato i fumettisti d'oltreoceano a usare anche come suggerimento di suoni parole che di fatto non hanno alcuna somiglianza col rumore che nominano. Così noi ormai sentiamo come onomatopeico il chuckle chuckle, che significa sogghignare sotto i baffi. Aggiungerei anche il celebre mumble mumble che è bofonchiare o borbottare ma che, per virtù di Paperon dei Paperoni, è diventato il tipico rumore che fa chi rimugina tra sé e sé. Fanno rumore i pensieri? Nel fumetto sì.

(28 novembre 2008)
da espresso.repubblica.it
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« Risposta #36 inserito:: Dicembre 12, 2008, 03:38:50 pm »

Umberto Eco.

Chiedere scusa


Siamo in un periodo di facce di bronzo, in cui individui sotto inchiesta per azioni truffaldine si mostrano tranquillamente nei locali più famosi o in tv e rilasciano autografi  Avete mai provato a cercare su Internet la voce 'chiede scusa'? Sono un milione e 590 mila voci (di scusa) e tra le prime trovo: la chiesa chiede scusa per i preti pedofili, Gwyneth Paltrow chiede scusa agli animalisti, Giampiero Mughini chiede scusa ad Alex Del Piero, la chiesa anglicana chiede scusa a Darwin, la Virginia chiede scusa per il dramma della schiavitù, Ronaldo chiede scusa ma assicura di non essere gay, Kaladze ritratta e chiede scusa, la Warner Bros chiede scusa ai fan di Harry Potter, Apple chiede scusa per i disservizi (come Trenitalia), uno dei giovani aggressori di Tong Hong-shen, l'operaio tessile cinese picchiato a Tor Bella Monaca, si è recato in visita da Gianni Alemanno a chiedere scusa, il governo canadese ha chiesto ufficialmente scusa agli indiani Inuit per le violenze di cui sono stati vittima almeno 150 mila bambini indigeni, il sindaco di Zagabria chiede scusa a Udine, a nome dello Stato Matilde Pugliaro ha chiesto scusa per quello che è successo nella caserma di Bolzaneto nei giorni del G8, Rahm Emanuel, futuro capo di staff di Barack Obama, ha chiesto scusa per alcuni commenti anti-arabi fatti dal padre Benjamin, Schifani chiede scusa a Veltroni, la Fiat chiede scusa a Pechino per la pubblicità della Delta, il governo australiano ha chiesto scusa agli aborigeni.

Siccome in questo milione e mezzo di richieste di scusa Internet annota anche quelle degli anni scorsi, ricordiamoci che Berlusconi aveva chiesto scusa a Veronica, Benedetto XVI aveva chiesto scusa a Maometto, Giovanni Paolo II aveva chiesto scusa a Galileo (al che la terra si era gaiamente rimessa a girare intorno al sole).

Ma la notizia più fresca è questa: in un'intervista alla rete televisiva Abc, Bush ha chiesto scusa al popolo americano per avere intrapreso senza alcuna ragione la campagna in Iraq (dove sono morti più di 4 mila soldati americani, alcune centinaia di alleati, alcune centinaia di migliaia di iracheni e civili vari, e via, senza contare i feriti). Ha chiesto scusa di questo massacro perché si è reso conto che i terroristi non abitavano lì e che Saddam non preparava armi atomiche. Era colpa della 'intelligence' (da non tradurre come 'intelligenza').

Non ho capito se questa voga del chiedere scusa segnali una ventata di umiltà cristiana o non piuttosto di sfacciataggine: tu fai qualcosa che non dovresti fare, poi chiedi scusa e te ne lavi le mani. Viene in mente la vecchia barzelletta del cowboy che cavalca nella prateria, sente una voce dal cielo che gli impone di andare ad Abilene, arriva e la voce gli dice di entrare nel saloon, poi di puntare tutto il suo denaro alla roulette sul numero cinque, sia pure titubando, sedotto dalla voce celeste, il cowboy obbedisce, esce il 18 e la voce sussurra: "Mi spiace, abbiamo perso".

Comunque c'è di peggio, ci sono coloro con la faccia di bronzo che non domandano neppure scusa. Siamo in un periodo di facce di bronzo, in cui individui sotto inchiesta per azioni truffaldine si mostrano tranquillamente nei locali più famosi o in tv e rilasciano autografi, chi ha messo sul lastrico padri di famiglia e madri vedove continua a circolare imperterrito sull'aereo personale, chi è stato eletto con un colpo di mano a una funzione dove nessuno lo vuole continua a non alzare il sedere dalla sedia duramente conquistata e si fa persino la barba ogni giorno per mostrare la faccia in tv.

E ci sono gli impuniti storici. Forse vi ricorderete che quando Bush ha iniziato l'attacco all'Iraq molti hanno protestato, e addirittura i francesi si sono dissociati. A quel punto (non dico in America dove tutti erano ancora scossi per l'11 settembre, e reagivano cambiando nome nei ristoranti alle patate fritte che là si chiamavano French Fries), ma qui da noi voci virtuosissime si sono levate trattando da terroristi e quinte colonne di Bin Laden tutti coloro che vedevano con preoccupazione l'attacco americano.

Non solo, ma quando tempo dopo Bush ha trionfalmente annunciato che la guerra in Iraq era finita e vinta (altra patetica menzogna, e tra l'altro evidente a ogni persona di buon senso) i suoi sostenitori italiani hanno scritto articoli ironici rivolgendosi ai dubbiosi di un tempo e dicendo: "Vedete che avevamo ragione noi?". Argomento del tutto delirante perché, anche ammesso che una guerra la si sia vinta, ciò non significa affatto che si avevano buone ragioni per farla. All'inizio Hitler vinceva sempre, eppure aveva torto. Ora amerei sapere e vedere come reagiranno le facce di bronzo di casa nostra nel momento in cui Bush chiede scusa per i suoi errori.

(12 dicembre 2008)
da espresso.repubblica.it
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« Risposta #37 inserito:: Dicembre 24, 2008, 05:35:38 pm »

Umberto Eco.


Pensieri virtuosi per Natale


La scorsa Bustina parlavo del vezzo ormai troppo diffuso di 'chiedere scusa', prendendo a pretesto la richiesta di scuse per l'Iraq da parte di Bush pentito. Fare una cosa che non si dovrebbe e poi limitarsi a chiedere scusa non è sufficiente. Bisogna, tanto per cominciare, promettere di non farlo più. Bush non invaderà l'Iraq una seconda volta perché gli americani lo hanno gentilmente sollevato dall'incarico, ma forse se potesse lo farebbe ancora. Molti, che gettano il sasso e nascondono la mano, chiedono scusa proprio per continuare come prima. È che chiedere scusa non costa niente.

Un poco come la storia dei pentiti. Una volta chi si pentiva delle sue malefatte anzitutto riparava in qualche modo, poi si dedicava a una vita di penitenza, si rifugiava nella Tebaide a percuotersi il petto con sassi appuntiti, andava a curare i lebbrosi nell'Africa Nera. Oggi il pentito si limita a denunciare i suoi ex compagni, poi o gode di particolari cure con nuova identità in confortevoli appartamenti riservati, o esce in anticipo dal carcere e scrive libri, concede interviste, incontra capi di Stato e riceve lettere appassionate da fanciulle romantiche.

Sappiate che su 'http://www.sms-pronti.com/sms_scuse_3.htm ' trovate un sito dedicato alle 'Frasi per chiedere scusa'. La più lapidaria è 'S.C.U.S.A. Sono Chiaramente Uno Stronzo Ameno'. Su http://news2000.libero.it/noi2000/nc63.html, intitolato 'L'arte di chiedere scusa' (in effetti dedicato solo alle scuse per tradimento amoroso) si legge: "La regola più importante, quella universale, è di non sentirsi mai perdenti quando si chiede scusa. Chiedere perdono non è sinonimo di debolezza, ma di controllo e di forza, vuol dire tornare subito dalla parte della ragione, spiazzando il partner che si trova così costretto ad ascoltare. Ammettere i propri errori è anche un gesto liberatorio: aiuta a portare all'esterno le emozioni senza reprimerle e a viverle più intensamente". Come volevasi dimostrare: chiedere scusa è prender forza per ricominciare da capo.

Il problema è che, se chi ha fatto qualcosa di male è ancora vivente, chiede scusa di persona. Ma se è morto? Quando Giovanni Paolo II ha chiesto scusa per il processo a Galileo ha indicato la strada. Anche se l'errore l'aveva commesso un suo predecessore (o il cardinal Bellarmino), le scuse le chiede il legittimo erede. Ma non sempre è chiaro chi erede legittimo sia. Per esempio, chi deve chiedere scusa per la strage degli innocenti? Il colpevole è stato Erode, che governava a Gerusalemme: quindi l'unico suo legittimo erede è il governo israeliano. Invece, contrariamente a quanto ha finito col farci credere san Paolo, i veri e diretti responsabili della morte di Gesù non sono gli infami giudei, bensì il governo romano, e ai piedi della croce c'erano i centurioni e non i farisei. Scomparso un Sacro Romano Impero, unico erede rimasto del governo romano è lo Stato italiano, e pertanto sarà Napolitano a dover chiedere scusa per la crocifissione.

Chi chiede scusa per il Vietnam? È incerto se il prossimo presidente degli Stati Uniti o qualcuno della famiglia Kennedy, magari la simpatica Kerry. Per la rivoluzione russa e l'assassinio dei Romanov non ci sono dubbi perché l'unico vero fedele e legittimo erede del leninismo e dello stalinismo è Putin. E per la strage di San Bartolomeo? È la Repubblica francese in quanto erede della monarchia, ma siccome all'epoca la mente di tutta la faccenda era stata una regina, Caterina de' Medici, oggi il compito di chiedere scusa toccherebbe a Carla Bruni.

Ci sarebbero poi casi imbarazzanti. Chi chiede scusa per i guai combinati da Tolomeo, vero ispiratore della condanna di Galileo? Se, come si dice, è nato a Tolemaide che è in Cirenaica, lo scusante dovrebbe essere Gheddafi, ma se è nato ad Alessandria dovrebbe essere il governo egiziano. Chi chiede scusa per i campi di sterminio? Gli unici eredi viventi del nazismo sono i vari movimenti naziskin e questi non hanno proprio l'aria di volersi scusare, anzi, se potessero lo rifarebbero di nuovo.

E chi chiede scusa per l'assassinio di Matteotti e dei fratelli Rosselli? Il problema è chi siano oggi i 'veri' eredi del fascismo, e confesso che la questione m'imbarazza.

(24 dicembre 2008)
da espresso.repubblica.it
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« Risposta #38 inserito:: Gennaio 09, 2009, 04:46:55 pm »

Umberto Eco.

Reliquie per l'anno nuovo


Conservarle non è un vezzo cristiano ma è stato tipico di ogni religione e cultura. Ecco quel che ho trovato navigando su Internet. Dal capo di San Giovanni Battista al Prepuzio di Gesù  Armando Torno, sul 'Corriere della sera' del 3 gennaio scorso, si intratteneva non solo sulle reliquie sacre ma anche su quelle laiche, dalla testa di Cartesio al cervello di Gorkij. Quello di conservar reliquie non è, come si crede comunemente, un vezzo cristiano, ma è stato tipico di ogni religione e cultura. Gioca nel culto delle reliquie una sorta di pulsione che definirei mito-materialistica, per cui si può ritrovare qualcosa del potere di un grande o di un santo toccando pezzi del suo corpo, dall'altro un normale gusto antiquario (per cui il collezionista è disposto a spendere capitali non solo per avere la prima copia edita di un libro famoso, ma anche quella appartenuta a una persona importante) e infine (come accade sempre più spesso nelle aste americane) i 'memorabilia' che possono essere sia i guanti (veri) di Jacqueline Kennedy sia quelli (falsi) indossati da Rita Hayworth in 'Gilda'. Infine c'è il fattore economico: il possesso di una reliquia famosa era nel Medioevo una preziosa risorsa turistica perché attraeva flussi di pellegrini, così come oggi una discoteca nell'entroterra riminese attrae turiste tedesche e russe. D'altra parte ho visto molti turisti a Nashville, Tennessee, venuti per ammirare la Cadillac di Elvis Presley. E dire che non era l'unica, perche ne cambiava una ogni sei mesi.

Forse preso da quello spirito natalizio di cui dicevo nella scorsa Bustina, all'Epifania, invece di andare (come tutti) su Internet per intercettare filmini porno, essendo di spirito umorale e bizzarro ho deciso di navigarvi alla ricerca di reliquie famose.

Per esempio, ora sappiamo che il capo di San Giovanni Battista è conservato nella Chiesa di San Silvestro in Capite a Roma, ma una tradizione precedente lo voleva nella cattedrale d'Amiens. Comunque il capo custodito a Roma sarebbe senza la mandibola, conservata nella cattedrale di San Lorenzo a Viterbo. Il piatto che ha accolto la testa del Battista è a Genova, nel tesoro della cattedrale di San Lorenzo, assieme alle ceneri del Santo, ma parte di queste ceneri sono anche conservate nella antica Chiesa del Monastero delle Benedettine di Loano, mentre un dito si troverebbe nel Museo dell'Opera del Duomo di Firenze, un braccio nella cattedrale di Siena, la mandibola a San Lorenzo in Viterbo. Dei denti uno sta nella cattedrale di Ragusa e un altro, insieme ad una ciocca di capelli, a Monza. Nessuna notizia degli altri trenta. Un'antica leggenda voleva che in qualche cattedrale fosse conservata la testa del Battista all'età di dodici anni, ma non mi risulta esista alcun documento ufficiale che confermi la diceria.

La Vera Croce è stata trovata a Gerusalemme da Sant'Elena, madre di Costantino. Sottratta dai Persiani nel VII secolo, recuperata dall'imperatore bizantino Eraclio, è stata poi portata dai Crociati sul campo di battaglia contro il Saladino. Malauguratamente ha vinto il Saladino, e della croce si sono perse le tracce per sempre. Tuttavia ne erano già stati prelevati vari frammenti. Dei chiodi, uno sarebbe conservato nella chiesa di Santa Croce in Gerusalemme a Roma. La corona di spine, a lungo conservata a Costantinopoli, è stata suddivisa nell'intento di donare almeno una spina a chiese e santuari diversi. La Sacra Lancia, già appartenuta a Carlo Magno e ai suoi successori, oggi si trova a Vienna. Il Prepuzio di Gesù era esposto a Calcata (Viterbo) fino a che nel 1970 il parroco ne ha comunicato il furto.

Ma hanno rivendicato il possesso della stessa reliquia Roma, Santiago di Compostela, Chartres, Besançon, Metz, Hildesheim, Charroux, Conques, Langres, Anversa, Fécamp, Puy-en-Velay, Auvergne. Il sangue scaturito dalla ferita al costato, raccolto da Longino, sarebbe stato portato a Mantova, ma altro sangue è conservato nella Basilica del Sacro Sangue a Bruges. La Sacra Culla è a Santa Maria Maggiore (Roma), mentre come è noto la Sacra Sindone è a Torino. Le fasce del bambino Gesù sono ad Aquisgrana. La tovaglia usata da Cristo per la lavanda dei piedi degli Apostoli è sia nella chiesa romana di San Giovanni in Laterano sia in Germania, ad Acqs, ma non è escluso che Gesù abbia usato due tovaglie o abbia lavato i piedi due volte. In molte chiese sono conservati i capelli o il latte di Maria, l'anello delle nozze con Giuseppe sarebbe a Perugia, ma quello di fidanzamento è a Notre-Dame di Parigi.

A Milano si conservavano le spoglie dei Re Magi, ma nel XII secolo Federico Barbarossa le ha prese come bottino di guerra e portate a Colonia. Modestamente, ho raccontato questa storia nel mio romanzo 'Baudolino', ma non pretendo di far credere chi non crede.

(09 gennaio 2009)
da espresso.repubblica.it
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« Risposta #39 inserito:: Gennaio 24, 2009, 04:31:03 pm »

Umberto Eco.

Le contraddizioni dell'antisemita


Se l'ebreo sta di passaggio a casa sua gli dà noia, se sta fermo a casa propria gli dà noia lo stesso. E quel posto non è stato conquistato con la violenza bensì nel corso di lente migrazioni  Daniel BarenboïmDaniel Barenboïm ha chiesto a un gran numero di intellettuali di tutto il mondo di firmare un appello sulla tragedia che si sta consumando in Palestina. L'appello a prima vista è quasi ovvio, e chiede in fondo che si solleciti con tutti i mezzi possibili una mediazione energica. Ma è significativo che parta da un grande artista israeliano: segno che anche le menti più lucide e pensose di Israele chiedono che si rinunci a chiedersi da che parte stanno la ragione o il torto, e si dia vita alla convivenza di due popoli. Se è così, si potrebbero capire manifestazioni di protesta politica contro il governo israeliano, se non fosse che esse vanno di solito sotto il segno dell'antisemitismo. Se non sono i partecipanti stessi a fare professione esplicita di antisemitismo sono ormai i giornali su cui leggo, come se fosse la cosa più ovvia del mondo, 'manifestazione antisemita ad Amsterdam' e cose del genere. La cosa sembra ormai così normale che pare anormale trovarla anormale. Però domandiamoci se definiremmo antiariana una manifestazione politica contro il governo Merkel, o antilatina una manifestazione contro il governo Berlusconi.

Non sarà nello spazio di una Bustina che si potrà trattare il millenario problema dell'antisemitismo, delle sue risorgenze per così dire stagionali, delle sue varie radici. Un atteggiamento che sopravvive per duemila anni ha qualcosa della fede religiosa, del credo fondamentalista, lo si potrebbe definire una delle tante forme di fanatismo che hanno ammorbato il nostro pianeta nel corso dei secoli. Se tanti credono nell'esistenza del diavolo che complotta per indurci a dannazione, perché non si dovrebbe credere al complotto ebraico per la conquista del mondo?

Ma mi piacerebbe fare un rilievo sul fatto che l'antisemitismo, come tutti gli atteggiamenti irrazionali e ciecamente fideistici, vive di contraddizioni, non le avverte, ma anzi se ne nutre senza imbarazzo. Per esempio nei classici dell'antisemitismo ottocentesco circolavano due luoghi comuni, entrambi usati a seconda dei casi: uno che l'ebreo, per il fatto di vivere in luoghi stretti e oscuri, era più sensibile dei cristiani a infezioni e malattie (e dunque pericoloso), l'altro che per misteriose ragioni si dimostrava più resistente a pestilenze e altre epidemie, oltre a essere sensualissimo e spaventosamente fecondo, e quindi era pericoloso come invasore del mondo cristiano.

C'era un altro luogo comune che veniva ampiamente trattato sia da destra che da sinistra, e prendo a modelli sia un classico dell'antisemitismo socialista (Toussenel, 'Les Juifs rois de l'époque' del 1847) che un classico dell'antisemitismo cattolico legittimista (Gougenot de Mousseaux, 'Le Juif, le judaïsme et la judaïsation des peuples chrétiens' del 1869). In entrambi si nota che gli ebrei non si sono mai dati all'agricoltura, rimanendo quindi avulsi dalla vita produttiva dello stato in cui soggiornavano; in compenso si erano completamente dedicati alla finanza e cioè al possesso dell'oro perché, essendo nomadi per natura, e pronti ad abbandonare lo stato che li ospitava, trascinati dalle loro speranze messianiche, potevano facilmente trasportare con sé ogni loro ricchezza.

Passeremo sotto silenzio che altri testi antisemiti dell'epoca, sino ai famigerati Protocolli, li accusavano di attentare alla proprietà fondiaria per impadronirsi dei campi - abbiamo detto che l'antisemitismo non teme le contraddizioni. Ma sta di fatto che una caratteristica saliente degli ebrei israeliani è che hanno coltivato le loro terre di Palestina con metodi modernissimi costruendo fattorie modello e che se si battono è proprio per difendere un territorio su cui vivono stanzialmente. Ed è proprio questo che se non altro l'antisemitismo arabo rimprovera loro, tanto è vero che si pone come progetto principale quello di distruggere lo stato di Israele.

Insomma per l'antisemita se l'ebreo sta di passaggio a casa sua gli dà noia, se sta fermo a casa propria gli dà noia lo stesso. So benissimo naturalmente quale è l'obiezione: quel posto dove sta Israele era territorio palestinese. Ma non è stato conquistato con la violenza e la decimazione degli autoctoni, come l'America del Nord, o addirittura con la distruzione di alcuni Stati retti da un loro legittimo monarca, come l'America del Sud, bensì nel corso di lente migrazioni e installazioni a cui nessuno si era opposto.

In ogni caso, se dà noia l'ebreo che, ogni volta che critichi la politica di Israele, ti accusa di antisemitismo, una sensazione ben più inquietante fanno coloro che traducono immediatamente ogni critica alla politica israeliana in termini di antisemitismo.

(23 gennaio 2009)
da espresso.repubblica.it
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« Risposta #40 inserito:: Febbraio 06, 2009, 05:25:29 pm »

Umberto Eco.


Sulla labilità dei supporti


Foto, pellicole, dischetti, cd-rom, dvd: non sappiamo quanto durino. Servono certo, ma i vecchi libri sono garanzia di memoria quando loro andranno in tilt  Domenica scorsa, nella giornata conclusiva della Scuola per Librai intitolata a Umberto ed Elisabetta Mauri, a Venezia, si è (tra l'altro) parlato della labilità dei supporti dell'informazione. Sono stati supporti di informazione scritta la stele egizia, la tavoletta d'argilla, il papiro, la pergamena e ovviamente il libro a stampa. Il quale ultimo ha mostrato sinora di sopravvivere bene per cinquecento anni, ma solo se si tratta di libri fatti con carta di stracci. Da metà Ottocento si è passati alla carta di legno, e pare che questa abbia una durata massima di settant'anni (e infatti basta prendere in mano giornali o libri del dopoguerra per vedere come molti di essi si sbriciolano appena li si sfoglia). Pertanto da tempo si fanno convegni e si studiano mezzi di vario tipo per salvare tutti i libri che affollano le nostre biblioteche, e uno dei più gettonati (ma quasi impossibile da realizzare per ogni libro esistente) è la scannerizzazione di tutte le pagine e il loro trasporto su supporto elettronico.

Ma qui viene fuori un altro problema: tutti i supporti per il trasporto e la conservazione dell'informazione, dalla foto alla pellicola cinematografica, dal disco sino alla chiavetta Usb che usiamo nel nostro computer, sono più deperibili del libro. Di alcuni di essi lo sappiamo: nelle vecchie audiocassette dopo un poco il nastro si attorcigliava, si tentava di disattorcigliarlo inserendo la matita nel buchino, ma spesso con risultati nulli; le videocassette perdono facilmente i colori e la definizione, e se le si usano troppe volte per studio, facendole andare avanti e indietro, si rovinano ancor prima. Abbiamo però avuto tempo ad accorgerci di quanto potesse durare un disco in vinile senza sfregiarsi troppo, ma non abbiamo avuto tempo di verificare quanto dura un Cd-rom dato che, salutato come invenzione che avrebbe sostituito il libro, è subito uscito dal mercato perché agli stessi contenuti si poteva accedere on line e a costo più conveniente. Non sappiamo quanto durerà un film in Dvd, sappiamo solo che talora inizia già a fare le bizze quando lo facciamo girare troppe volte. Così non abbiamo fatto in tempo ad accorgerci quanto potessero durare i dischi flessibili da computer: prima che lo scoprissimo sono stati sostituiti dalle dischette rigide, e queste dai dischi riscrivibili, e questi ancora dalle chiavette Usb. Con la sparizione dei vari supporti sono spariti anche i computer capaci di leggerli (credo che nessuno abbia più in casa un computer in cui ci sia la fessura per un floppy disk) e, se uno non ha per tempo trasferito sul supporto successivo tutto quello che aveva sul precedente (e via così, presumibilmente per sempre, ogni due o tre anni) lo ha irrimediabilmente perduto (a meno che non conservi in cantina una decina di computer obsoleti, uno per ogni supporto scomparso).

Quindi di tutti i supporti meccanici, elettrici ed elettronici o sappiamo che sono rapidamente perituri, o non sappiamo ancora quanto durino e probabilmente non lo sapremo mai.

Infine, basta uno sbalzo di corrente, un fulmine in giardino o qualche altro incidente assai più banale per smagnetizzare una memoria. Se ci fosse un black out abbastanza duraturo non potrei più usare alcuna memoria elettronica. Se pur avessi registrato sulla mia memoria elettronica tutto il Don Chisciotte, non potrei leggerlo alla luce di una candela, su di una amaca, in barca, nella vasca da bagno, in altalena, mentre un libro mi consente di farlo anche nelle condizioni più disagiate. E se mi cadono il computer o l'e-book dal quinto piano sono matematicamente sicuro di aver perso tutto, mentre se cade un libro al massimo si sfascia.

I supporti moderni sembrano mirare più alla diffusione dell'informazione che alla sua conservazione. Il libro invece è stato strumento principe della diffusione (si pensi al ruolo che ha avuto la Bibbia a stampa per la riforma protestante) ma al tempo stesso anche della conservazione. È possibile che tra qualche secolo l'unico modo per avere notizie sul passato, smagnetizzatisi tutti i supporti elettronici, sia ancora un bell'incunabolo. E, fra i libri moderni, sopravvivranno i molti fatti in carta pregiata, o quelli che ora vengono proposti da molti editori in 'free acid paper'.

Non sono un passatista. Su un hard disk portatile da 250 giga ho registrato i massimi capolavori della letteratura universale e della storia della filosofia: è molto più comodo ricuperare da lì in pochi secondi una citazione da Dante o dalla 'Summa Theologica' che non alzarsi e andare a prelevare un volume pesante da scaffali troppo alti. Ma sono lieto che quei libri rimangano nei miei scaffali, garanzia di memoria per quando gli strumenti elettronici andranno in tilt.

(06 febbraio 2009)
da espresso.repubblica.it
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« Risposta #41 inserito:: Febbraio 12, 2009, 11:11:17 am »

LE IDEE

Perché ho il diritto di scegliere la mia morte

di UMBERTO ECO


BENCHE' il problema mi turbasse molto, e forse proprio per questo, ho cercato negli ultimi mesi di non pronunciare alcun giudizio o opinione sul caso Englaro, per molte e sensate ragioni, ma anzitutto perché non volevo partecipare alla canea di chi stava sfruttando per ragioni ideologiche, da una parte e dall'altra, la vicenda di una sventurata ragazza e della sua famiglia.

Quando il presidente del Consiglio ha preso pretesto dal caso per tentare uno dei suoi ormai reiterati attacchi alla Costituzione, sono intervenuto con Libertà e Giustizia, in piazza, e mi sono unito agli appelli alla vigilanza. Ma nelle poche interviste che non ho potuto evitare ho sempre detto che le poche centinaia di persone che erano con me davanti a palazzo di Giustizia a Milano non erano lì a manifestare sul caso Englaro, perché ero pronto a scommettere che se si fosse fatta la conta si sarebbe visto che metà la pensavano in un modo e metà nell'altro, ma per protestare contro l'attacco al presidente della Repubblica, attentato bonapartista (ringrazio Ezio Mauro per aver rievocato questo precedente) su cui tutti erano d'accordo.

Adesso, sfogliando le gazzette, mi rendo conto come sia difficile dividere questi due problemi e quanta sottigliezza politologica, giuridica e (permettetemi) morale ci voglia a capire quanto i due problemi siano diversi. Ma cosa si può pretendere da chi, come accadeva secoli fa con Terenzio e gli orsi, ha preferito il Grande Fratello alla discussione su questi casi?
Così mi sono trovato citato tra coloro che sul caso Englaro avevano idee chiare e decise. Intervengo per dire che non le avevo, altrimenti le avrei espresse. Solo che, ora che la ragazza è morta, forse si può parlare di questi problemi senza temere di far sciacallaggio su un corpo in sofferenza.

In effetti non intendo parlare della morte di Eluana Englaro. Voglio piuttosto parlare della mia morte, e ammetterete che in questo caso ho qualche diritto all'esternazione.

Dovendo parlare della morte mia, e non di quella altrui, non posso non citare alcuni aspetti della mia vita, tra cui il fatto che qualche anno fa ho scritto un romanzo intitolato La misteriosa fiamma della regina Loana, dove il protagonista, dopo un primo incidente cerebrale per cui perdeva la memoria, cadeva nuovamente in coma.

Non so se scrivendo volessi affermare qualcosa di scientificamente valido o cercassi solo un pretesto narrativo, ma fatto sta che ho impiegato più di cento pagine a far monologare il mio personaggio ormai in coma (non avevo allora calcolato se ridotto a vegetale, imputato di morte cerebrale o in coma eventualmente reversibile - segno che non avevo precise preoccupazioni scientifiche).

In ogni caso il personaggio, in quello stato che chiamerò di "vita sospesa", pensava, ricordava, desiderava, si commuoveva. Sapeva benissimo che probabilmente i suoi cari lo credevano ridotto allo stato di una rapa, o al massimo di un cagnolino dormiente, ma si accorgeva che i medici sanno pochissimo di quanto succede nel nostro funzionamento mentale, e che forse dove essi vedono un encefalogramma piatto noi continuiamo a pensare, che so, coi rognoni, col cuore, coi reni, col pancreas...

Questa era la mia finzione letteraria (per calmare coloro che dall'eccezionale si attendono tutto, dirò che alla fine il mio personaggio sprofondava nel buio) ma devo dire che se l'avevo pensata era perché un poco ci credevo. Non sono sicuro che là dove gli strumenti scientifici di oggi vedono solo una terra piatta, e una assenza di anima, ci sia del tutto assenza di pensiero - e lo dico con sereno materialismo, non perché ritenga che un'anima sopravviva alla morte delle nostre cellule ma perché non mi sento di escludere che - morte e definitivamente alcune cellule - altre non sopravvivano e prendano il controllo della situazione, testimoniando di una straordinaria plasticità non del nostro cervello (questo ormai lo sanno tutti) ma del nostro corpo.

Insomma, siccome sospetto che quando si è sani si pensi anche con l'alluce, allora perché no quando il cervello non dà segni di vita?

Non farei una comunicazione in merito a un congresso scientifico, ma in qualche modo ci credo. Visto che c'è gente che crede al cornetto rosso lasciatemi credere a questo.

Ora che cosa vorrei, se se mi trovassi in una situazione del genere?

A cercare proprio col lanternino tutte le possibilità credo proprio che esse si riducano a tre. Prima possibilità, sopravviverei come una rapa, senza coscienza, senza poter dire "io", reagendo al massimo a qualche modificazione dell'umidità atmosferica, come se fossi una colonnina di mercurio. In effetti a queste condizioni non sarei più "io", ma appunto una rapa e non vedo perché dovrei preoccuparmi di me.

La seconda possibilità è che in quello stato si riviva tutto il proprio passato, si torni all'infanzia, si abbiano visioni e si realizzino quelli che in vita erano stati i nostri desideri, insomma si viva una sorta di sogno paradisiaco. È un poco quel che accade al personaggio del mio romanzo, ma poi purtroppo anche lui cala nelle tenebre.

La terza ipotesi è la più angosciante, è che in quella vita sospesa ci si interroghi su cosa faranno e penseranno di noi i nostri cari, si riviva col cuore in gola gli ultimi momenti di coscienza, si tema per l'orrido futuro che ci attende, o addirittura ci si consumi come ha fatto mia madre negli ultimi dieci anni che è sopravvissuta a mio padre, raccontando a noi figli, ogni volta che poteva, come era stata orribile la notte in cui mio padre era stato colto da infarto, e se non fosse stata colpa sua che aveva preparato una cena forse troppo pesante. Questo sarebbe l'inferno - e ho accolto quasi con sollievo la morte di mia madre perché sapevo che stava uscendo da quell'inferno.

Adesso facciamo una botta di conti alla Pascal. Di tre possibilità solo una è gradevole, le altre due sono negative. In termini di roulette (e sui grandi numeri, tipo diciassette anni di vita sospesa) si è già perso in partenza. Ma il problema non è questo. Io sono pronto a dichiarare che, nel caso incorra nell'incidente della vita sospesa, desidero che non si protraggano le cure (anche se potrei perdere alcuni istanti o millenni di paradiso) per evitare tensioni, disperazione, false speranze, traumi e (permettetemi) spese insostenibili ai miei cari. Ma chi sono io per distruggere la vita a una, due, tre o più persone per la remota possibilità di avere qualche istante o qualche anno di paradiso virtuale?

Io ho il diritto di scegliere la mia morte per il bene degli altri. Guarda caso, è quello che mi ha sempre insegnato la morale, e non solo quella laica, ma anche quella delle religioni, è quello che mi hanno insegnato da piccolo, che Pietro Micca ha fatto bene a dare fuoco alle polveri per salvare tutti i torinesi, che Salvo D'Acquisto ha fatto bene ad accusarsi di un crimine non commesso, andando incontro alla fucilazione, per salvare un intero paese, che è eroe chi si strappa la lingua e accetta la morte sicura per non tradire e mandare a morte i compagni, che è santo chi accetta l'inevitabile lebbra per baciare le piaghe al lebbroso.
E dopo che mi avete insegnato tutto questo non volete che io sottoscriva alla sospensione di una vita sospesa per amore delle persone che amo? Ma dove è finita la morale - e quella eroica, e quella che mi avete insegnato, che caratterizza la santità?

Ecco perché, turbato a manifestare la sia pur minima idea sulla morte di Eluana (non sono, maledizione, fatti miei, ma dei genitori che l'hanno amata più di quanto l'abbia amata Berlusconi, che ha sinistramente fantasmato sulle sue mestruazioni) non ho esitazioni a pronunciare la mia opinione circa la mia morte. E all'amore che una morte può incarnare. "Laudato s' mi Signore, per sora nostra Morte corporale, - da la quale nullu homo vivente po' skappare: - guai a quelli ke morrano ne le peccata mortali; - beati quelli ke trovarà ne le Tue sanctissime voluntati, - ka la morte secunda no 'l farrà male".

(12 febbraio 2009)
da repubblica.it
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« Risposta #42 inserito:: Febbraio 14, 2009, 03:26:49 pm »

Umberto Eco.


Sulla labilità dei supporti


Foto, pellicole, dischetti, cd-rom, dvd: non sappiamo quanto durino. Servono certo, ma i vecchi libri sono garanzia di memoria quando loro andranno in tilt  Domenica scorsa, nella giornata conclusiva della Scuola per Librai intitolata a Umberto ed Elisabetta Mauri, a Venezia, si è (tra l'altro) parlato della labilità dei supporti dell'informazione. Sono stati supporti di informazione scritta la stele egizia, la tavoletta d'argilla, il papiro, la pergamena e ovviamente il libro a stampa. Il quale ultimo ha mostrato sinora di sopravvivere bene per cinquecento anni, ma solo se si tratta di libri fatti con carta di stracci. Da metà Ottocento si è passati alla carta di legno, e pare che questa abbia una durata massima di settant'anni (e infatti basta prendere in mano giornali o libri del dopoguerra per vedere come molti di essi si sbriciolano appena li si sfoglia). Pertanto da tempo si fanno convegni e si studiano mezzi di vario tipo per salvare tutti i libri che affollano le nostre biblioteche, e uno dei più gettonati (ma quasi impossibile da realizzare per ogni libro esistente) è la scannerizzazione di tutte le pagine e il loro trasporto su supporto elettronico.

Ma qui viene fuori un altro problema: tutti i supporti per il trasporto e la conservazione dell'informazione, dalla foto alla pellicola cinematografica, dal disco sino alla chiavetta Usb che usiamo nel nostro computer, sono più deperibili del libro. Di alcuni di essi lo sappiamo: nelle vecchie audiocassette dopo un poco il nastro si attorcigliava, si tentava di disattorcigliarlo inserendo la matita nel buchino, ma spesso con risultati nulli; le videocassette perdono facilmente i colori e la definizione, e se le si usano troppe volte per studio, facendole andare avanti e indietro, si rovinano ancor prima. Abbiamo però avuto tempo ad accorgerci di quanto potesse durare un disco in vinile senza sfregiarsi troppo, ma non abbiamo avuto tempo di verificare quanto dura un Cd-rom dato che, salutato come invenzione che avrebbe sostituito il libro, è subito uscito dal mercato perché agli stessi contenuti si poteva accedere on line e a costo più conveniente. Non sappiamo quanto durerà un film in Dvd, sappiamo solo che talora inizia già a fare le bizze quando lo facciamo girare troppe volte. Così non abbiamo fatto in tempo ad accorgerci quanto potessero durare i dischi flessibili da computer: prima che lo scoprissimo sono stati sostituiti dalle dischette rigide, e queste dai dischi riscrivibili, e questi ancora dalle chiavette Usb. Con la sparizione dei vari supporti sono spariti anche i computer capaci di leggerli (credo che nessuno abbia più in casa un computer in cui ci sia la fessura per un floppy disk) e, se uno non ha per tempo trasferito sul supporto successivo tutto quello che aveva sul precedente (e via così, presumibilmente per sempre, ogni due o tre anni) lo ha irrimediabilmente perduto (a meno che non conservi in cantina una decina di computer obsoleti, uno per ogni supporto scomparso).

Quindi di tutti i supporti meccanici, elettrici ed elettronici o sappiamo che sono rapidamente perituri, o non sappiamo ancora quanto durino e probabilmente non lo sapremo mai.

Infine, basta uno sbalzo di corrente, un fulmine in giardino o qualche altro incidente assai più banale per smagnetizzare una memoria. Se ci fosse un black out abbastanza duraturo non potrei più usare alcuna memoria elettronica. Se pur avessi registrato sulla mia memoria elettronica tutto il Don Chisciotte, non potrei leggerlo alla luce di una candela, su di una amaca, in barca, nella vasca da bagno, in altalena, mentre un libro mi consente di farlo anche nelle condizioni più disagiate. E se mi cadono il computer o l'e-book dal quinto piano sono matematicamente sicuro di aver perso tutto, mentre se cade un libro al massimo si sfascia.

I supporti moderni sembrano mirare più alla diffusione dell'informazione che alla sua conservazione. Il libro invece è stato strumento principe della diffusione (si pensi al ruolo che ha avuto la Bibbia a stampa per la riforma protestante) ma al tempo stesso anche della conservazione. È possibile che tra qualche secolo l'unico modo per avere notizie sul passato, smagnetizzatisi tutti i supporti elettronici, sia ancora un bell'incunabolo. E, fra i libri moderni, sopravvivranno i molti fatti in carta pregiata, o quelli che ora vengono proposti da molti editori in 'free acid paper'.

Non sono un passatista. Su un hard disk portatile da 250 giga ho registrato i massimi capolavori della letteratura universale e della storia della filosofia: è molto più comodo ricuperare da lì in pochi secondi una citazione da Dante o dalla 'Summa Theologica' che non alzarsi e andare a prelevare un volume pesante da scaffali troppo alti. Ma sono lieto che quei libri rimangano nei miei scaffali, garanzia di memoria per quando gli strumenti elettronici andranno in tilt.

(06 febbraio 2009)
da espresso.repubblica.it
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« Risposta #43 inserito:: Febbraio 22, 2009, 03:29:20 pm »

Umberto Eco

Il futurismo non è stata una catastrofe


Riflessioni sulla mostra di Milano. I grandi eventi di cui i fatti sono diventati simbolo stavano maturando per lento gioco di influenze, crescite e disfacimenti. Le catastrofi di domani maturano già oggi  Carlo Carrà Il cavaliere rossoNel centenario del Manifesto Futurista molte mostre si sono aperte per ricordare e rivalutare il movimento, e sono note le polemiche sul modo in cui la mostra di Parigi avrebbe considerato i futuristi come epigoni del cubismo mentre le varie esposizioni italiane cercano di sottolineare la loro originalità e diversità. Tra tutte le mostre mi sembra spicchi per vari motivi quella organizzata a Palazzo Reale a Milano.

Non ricordo quale giornale, nel recensirla, si è lamentato che vi mancassero i grandi incunaboli del movimento, come a dire il 'Dinamismo di un foot-baller' di Boccioni o i 'Funerali dell'anarchico Galli' di Carrà, ma la cosa non dovrebbe disturbare, e non perché quelle sono opere che si sono viste esposte molte volte, ma perché la mostra fa vedere qualche cosa di meglio e di più. Invece di certe opere maggiori fa vedere che cosa c'era prima del futurismo e accanto a esso, specie nella Milano in cui si è sviluppato prima di approdare in Francia.

La mostra si diffonde anche sul dopo-futurismo, sino ad alcuni nostri importanti contemporanei, ma, se è ovvio che una tradizione artistica crei sempre delle influenze, è meno ovvio quello che accadeva prima del fatidico 1909.

In fondo noi siamo stati abituati a pensare che prima ci fossero i realisti alla Michetti che piacevano a D'Annunzio, i ritrattisti per signore alla Boldini, i simbolisti o i divisionisti decadenti alla Previati, tutti che piacevano ai buoni borghesi che frequentavano musei e gallerie; e poi di colpo ci sarebbe stato uno scossone inatteso, uno di quei rivolgimenti rapidi che mutano la storia, come le rivoluzioni, o la natura, come i cataclismi, e sono apparse le avanguardie storiche, tra cui in Italia il futurismo.

Molti conoscono la teoria matematica delle 'catastrofi' teorizzata da Thom: una catastrofe, in tal senso, è come una brusca 'piega' per cui prima non c'era niente e dopo c'è tutto, o viceversa. In tal senso sono catastrofi il sonno o la morte (monsieur de la Palisse un momento prima di morire era ancora vivo) ma anche, secondo alcune interpretazioni, vari eventi storici come per esempio le sommosse, o moti come una rivolta nelle carceri (e sarebbe catastrofe anche una guarigione miracolosa). Ora la mostra milanese ci fa toccare con mano che il futurismo non è stato una catastrofe.


Basta guardare le opere esposte per accorgersi come (per non dire delle forme in liquefazione di uno scultore di fine Ottocento come Medardo Rosso) nei primi anni del Novecento, e prima che appaiano i grandi capolavori del futurismo, proprio mentre Carrà, Balla o Boccioni dipingono ancora i loro quadri figurativi (in cui la critica ha da tempo riconosciuto i germi del futurismo a venire) l'annuncio del dinamismo futurista si annida là dove di solito non lo si attende o non lo si andava a cercare.

Nel 1904 Pellizza da Volpedo fa un 'Automobile al passo del Penice' dove l'automobile quasi non si vede ma si vede una strada che scorre per veloci striature di pennello, nel 1907 Previati dipinge un 'Carro del sole' che al suo estenuato simbolismo unisce una rappresentazione tangibile del movimento veloce e convulso dell'astro. E sono solo alcuni esempi, ma è come se gli ultimi simbolisti come Alberto Martini annunciassero i futuristi e i futuri futuristi tenessero ancora d'occhio divisionisti e simbolisti.

Per non dire di un Angelo Romani che tra 1904 e 1907 elabora ritratti e forme indefinibili chiamate 'Urlo' e 'Libidine' che non riesco a definire se non simbo-futu-espressio-astrattiste, molto più azzardate dei dipinti futuristi a venire, - e si capisce allora perché il Romani aderirà al manifesto futurista per poi dissociarsene, come se oscuramente cercasse altre cose.

La mostra milanese suggerisce molte riflessioni al di là della vicenda dei movimenti artistici. È che siamo stati abituati, dalla storia detta 'evenemenziale', a vedere tutti i grandi eventi storici appunto come catastrofi: quattro sanculotti danno l'assalto alla Bastiglia e scoppia la rivoluzione francese, qualche migliaio di scalzacani (ma pare che la foto sia stata artefatta) danno l'assalto al Palazzo d'Inverno e scoppia la rivoluzione russa, sparano a un arciduca e gli alleati si accorgono di non potere convivere con gli Imperi Centrali, ammazzano Matteotti e il fascismo decide di trasformarsi in dittatura.

Invece sappiamo che i fatti che sono serviti di pretesto o, per così dire, di segnalibro per poter fissare l'inizio di qualcosa, avevano un'importanza minore, e che i grandi eventi di cui sono diventati simbolo stavano maturando per lento gioco di influenze, crescite e disfacimenti.

La storia è lutulenta e viscosa. Cosa da tenere sempre a mente, perché le catastrofi di domani stanno sempre maturando già oggi, sornionamente.

(20 febbraio 2009)
da espresso.repubblica.it
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« Risposta #44 inserito:: Febbraio 23, 2009, 10:44:46 am »

LA POLEMICA

La leggenda della terra piatta

di UMBERTO ECO


Una interpretazione che trova le sue radici nelle polemiche positivistiche ottocentesche, vuole che il Medioevo abbia rimosso tutte le scoperte scientifiche dell'antichità classica per non contraddire la lettera delle sacre scritture. È vero che alcuni autori patristici hanno cercato di dare una lettura assolutamente letterale della Scrittura là dove essa dice che il mondo è fatto come un tabernacolo. Per esempio nel IV secolo Lattanzio (nel suo Institutiones divinae), su queste basi si opponeva alle teorie pagane della rotondità della terra, anche perché non poteva accettare l'idea che esistessero degli Antipodi dove gli uomini avrebbero dovuto camminare con la testa all'ingiù.
E idee analoghe aveva sostenuto Cosma Indicopleuste, un geografo bizantino del VI secolo, che nella sua Topografia Cristiana, sempre pensando al tabernacolo biblico, aveva accuratamente descritto un cosmo di forma cubica, con un arco che sovrastava il pavimento piatto della Terra.

Ora, che la terra fosse sferica, tranne alcuni presocratici, lo sapevano già i greci, sin dai tempi di Pitagora, che la riteneva sferica per ragioni mistico-matematiche. Lo sapeva naturalmente Tolomeo, che aveva diviso il globo, ma lo avevano già capito Parmenide, Eudosso, Platone, Aristotele, Euclide, Archimede, e naturalmente Eratostene, che nel terzo secolo avanti Cristo aveva calcolato con una buona approssimazione la lunghezza del meridiano terrestre.

Tuttavia si è sostenuto (anche da parte di seri storici della scienza) che il Medioevo aveva dimenticato questa nozione antica, e l'idea si è fatta strada anche presso l'uomo comune, tanto è vero che ancora oggi, se domandiamo a una persona anche colta che cosa Cristoforo Colombo volesse dimostrare quando intendeva raggiungere il levante per il ponente, e che cosa i dotti di Salamanca si ostinassero a negare, la risposta, nella maggior parte dei casi, sarà che Colombo riteneva che la terra fosse rotonda, mentre i dotti di Salamanca ritenevano che la terra fosse piatta e che dopo un breve tratto le tre caravelle sarebbero precipitate dentro l'abisso cosmico.

In verità a Lattanzio nessuno aveva prestato troppa attenzione, a cominciare da Sant'Agostino il quale lascia capire per vari accenni di ritenere la terra sferica, anche se la questione non gli sembrava spiritualmente molto rilevante. Caso mai Agostino manifestava seri dubbi sulla possibilità che potessero vivere esseri umani ai presunti antipodi. Ma che si discutesse sugli antipodi è segno che si stava discutendo su un modello di terra sferica.
Quanto a Cosma, il suo libro era scritto in greco, una lingua che il medioevo cristiano aveva dimenticato, ed è stato tradotto in latino solo nel 1706. Nessun autore medievale lo conosceva.

Nel VII secolo dopo Cristo Isidoro di Siviglia (che pure non era un modello di acribìa scientifica) calcolava la lunghezza dell'equatore in ottantamila stadi. Chi parla di circolo equatoriale evidentemente assume che la terra sia sferica.

Anche uno studente di liceo può facilmente dedurre che, se Dante entra nell'imbuto infernale ed esce dall'altra parte vedendo stelle sconosciute ai piedi della montagna del Purgatorio, questo significa che egli sapeva benissimo che la terra era sferica, e che scriveva per lettori che lo sapevano. Ma della stessa opinione erano stati Origene e Ambrogio, Beda, Alberto Magno e Tommaso d'Aquino, Ruggero Bacone, Giovanni di Sacrobosco, tanto per citarne alcuni. La materia del contendere ai tempi di Colombo era che i dotti di Salamanca avevano fatto calcoli più precisi dei suoi, e ritenevano che la terra, tondissima, fosse più ampia di quanto il nostro genovese credesse, e che quindi fosse insensato cercare di circumnavigarla. Naturalmente né Colombo né i dotti di Salamanca sospettavano che tra l'Europa e l'Asia stesse un altro continente.

Tuttavia proprio nei manoscritti di Isidoro appariva la cosiddetta mappa a t, dove la parte superiore rappresenta l'Asia, in alto, perché in Asia stava secondo la leggenda il Paradiso terrestre, la barra orizzontale rappresenta da un lato il Mar Nero e dall'altro il Nilo, quella verticale il Mediterraneo, per cui il quarto di cerchio a sinistra rappresenta l'Europa e quello a destra l'Africa. Tutto intorno sta il gran cerchio dell'Oceano. Naturalmente le mappe a t sono bidimensionali, ma non è detto che una rappresentazione bidimensionale della terra implichi che la si ritenga piatta, altrimenti a una terra piatta crederebbero anche i nostri atlanti attuali. Si trattava di una forma convenzionale di proiezione cartografica, e si riteneva inutile rappresentare l'altra faccia del globo, ignota a tutti e probabilmente inabitata e inabitabile, così come noi oggi non rappresentiamo l'altra faccia della Luna, di cui non sappiano nulla.
Infine, il Medioevo era epoca di grandi viaggi ma, con le strade in disfacimento, foreste da attraversare e bracci di mare da superare fidandosi di qualche scafista dell'epoca, non c'era possibilità di tracciare mappe adeguate. Esse erano puramente indicative. Spesso quello che preoccupava maggiormente l'autore non era di spiegare come si arriva a Gerusalemme, bensì di rappresentare Gerusalemme al centro della terra.

Infine si cerchi di pensare alla mappa delle linee ferroviarie che propone un qualsiasi orario in vendita nelle edicole. Nessuno da quella serie di nodi, in se chiarissimi se si deve prendere un treno da Milano a Livorno (e apprendere che si dovrà passare per Genova), potrebbe estrapolare con esattezza la forma dell'Italia. La forma esatta dell'Italia non interessa a chi deve andare alla stazione (...).
Si veda ora questa immagine del Beato Angelico nel duomo di Orvieto. Il globo (di solito simbolo del potere sovrano) tenuto in mano da Gesù rappresenta una Mappa a T rovesciata. Se si segue lo sguardo di Gesù si vede che egli sta guardando il mondo e quindi il mondo è rappresentato come lo vede lui dall'alto e non come lo vediamo noi, e quindi capovolto. Se una mappa a T appare sulla faccia di un globo vuole dire che essa era intesa come rappresentazione bidimensionale di una sfera.


(23 febbraio 2009)
da repubblica.it
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