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Autore Discussione: UMBERTO ECO.  (Letto 143958 volte)
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« Risposta #150 inserito:: Aprile 18, 2013, 11:40:41 pm »

Opinioni

Quelle troie dei raggi cosmici

di Umberto Eco

Un radicato maschilismo ha indotto a pensare che l'epiteto rivolto da Battiato ai parlamentari fosse rivolto solo a quelli di sesso femminile. E agli utenti di Twitter dico: siate più concisi

(04 aprile 2013)

Un amico ha criticato la mia Bustina precedente dicendo che parlare dei Gin Martini di 007 mentre l'Italia va in rovina è un poco comportarsi come l'orchestra del Titanic, che ha continuato a suonare mentre il transatlantico affondava. E' vero, ma ritengo che (se così è davvero andata) gli orchestrali del Titanic siano stati gli unici professionisti seri in quella sfortunata faccenda, dato che, mentre tutti davano spettacolo di scompiglio, timor panico, dissennatezza e persino egoismo, essi seguivano l'esortazione di Nelson prima di Trafalgar: «L'Inghilterra si aspetta che ogni uomo compia il proprio dovere». Comunque, per non dare l'idea che mi rifugi nella torre d'avorio di un'erudita e desolata indignazione, ecco due pensieri squisitamente politici e impegnati

Sulla neo-lingua. Pare che gli ultimissimi termini del lessico politico siano troia, puttanieri e vaffanculo, e mi scuso se il mio dovere di cronista mi obbliga a usare espressioni molto diverse da quelle di un tempo, come convergenze parallele, reazione in agguato, classe operaia.

Mi stupisce tuttavia l'eccesso di maschilismo per cui, avendo Battiato usato (certo improvvidamente) il termine "troia" per alcuni parlamentari, tutti si siano offesi per quell'attacco volgare alle deputate o senatrici di sesso femminile. Perché udendo la parola "troia" si è pensato subito a una donna? Il termine viene ormai normalmente usato anche per esseri di sesso maschile e qualcuno può designare in tal modo chi vende i propri voti, cambia casacca dall'oggi al domani o afferma alla camera dei deputati che Ruby era davvero la nipote di Mubarak. E credo che neppure Zichichi, se in un momento d'ira per un esperimento mal riuscito dicesse «quelle troie dei raggi cosmici oggi mi fanno impazzire», vorrebbe necessariamente alludere al fatto che quelle simpatiche entità abbiano il sesso di Eva. Ma ahimè, siamo tutti maschilisti, e pensiamo che, salvo la mamma, tutte le troie siano donne e pertanto tutte le donne siano troie.

Un pensiero su Twitter. In un'era in cui Twitter impazza, lo usa anche il Papa e un cinguettio universale dovrebbe sostituire la democrazia rappresentativa, continuano a confrontarsi talora due tesi contrastanti. La prima è che Twitter induce le persone a esprimersi in modo sentenzioso ma superficiale, perché come è noto per scrivere la "Critica della ragion pura" ci vogliono più di 140 caratteri. La seconda è che Twitter educa invece alla brevità e alla stringatezza.

Mi si permetta di ammorbidire entrambe le posizioni. Anche degli Sms si è detto che portano i nostri ragazzi a capire e usare solo un linguaggio telegrafico (tipo "C'o voglia di te x sempre"), dimenticando che il primo telegramma è stato spedito da Samuel Morse nel 1844 e tuttavia dopo anni e anni di "mamma malata vieni subito" o "affettuosi rallegramenti Caterina" molta gente ha continuato a scrivere come Proust. L'umanità ha imparato a mandare messaggi di poche parole ma pare che Marco Boato nel 1981 abbia fatto alla Camera un discorso della durata di 18 ore.

Quanto al fatto che Twitter educhi all'essenzialità, mi pare un'esagerazione. Con 140 caratteri si rischia già di sbrodolare. Certo questa notizia, "In principio Dio creò e cielo e terra. La terra era informe e vuota, le tenebre ricoprivano l'abisso e lo spirito di Dio alitava sulle acque", è degna del premio Pulitzer perché in 141 spazi (ma 126 caratteri) dice esattamente quello che il lettore vorrebbe sapere. Però si possono dire in modo molto più breve cose di grande argutezza (Perdere un genitore può essere un incidente, perderli entrambi è pura sbadataggine; E' del poeta il fin la maraviglia - chi non sa far stupir vada alla striglia), di grandissima profondità (Beati i poveri di spirito perché di essi sarà il regno dei cieli, Sia il tuo parlare sì no sì no il di più viene dal maligno, L'uomo è un animale razionale mortale, Il potere non si prende ma si raccatta, Essere o non essere questo è il problema, Di ciò di cui non si può parlare si deve tacere, Tutto ciò che è reale è razionale, Gallia est omnis divisa in partes tres) o frasi e concetti che hanno segnato la storia dell'umanità, come Obbedisco, Veni vidi vici, Tiremm innanz, Non possumus, Combatteremo all'ombra, Qui si fa l'Italia o si muore.

Per parafrasare il Foscolo, utenti di Twitter, vi esorto alla concisione.

 
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da - http://espresso.repubblica.it/dettaglio/quelle-troie-dei-raggi-cosmici/2204087/18
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« Risposta #151 inserito:: Aprile 30, 2013, 04:40:13 pm »


Opinioni

Libri che parlano di libri

di Umberto Eco

(18 aprile 2013)

La mania del collezionismo riguarda gli oggetti più disparati, i patrizi romani collezionavano antichità greche (anche false), se si consultano i cataloghi di Christie's si legge di aste in cui si vendono a colpi di milioni un paio di calzini appartenuti al duca di Windsor, ad andare per mercatini si scoprono appassionati che cercano tessere telefoniche, oggettistica massonica, cartoline, adesivi, vecchi miniassegni, chiavi, bottiglie di Coca Cola, lamette da barba, diplomi, "mignonnettes", incarti di frutta, bustine di zucchero.

E' ovvio che si sfiora così la mania, mentre d'altra pasta è il collezionismo di libri antichi, che può comprendere opere carissime del XV secolo o prime edizioni del Novecento, accessibilissime. C'è un genere editoriale che si chiama "books on books" e cioè "libri sui libri". Nell'Ottocento eccellevano in questo genere i francesi, e pensiamo a bibliofili come Nodier, ma dal Novecento il genere ha avuto una fioritura singolare nei paesi anglosassoni. Certo moltissimi libri parlano di altri libri, come accade per le storie della letteratura, ma il genere di "libri sui libri" si riferisce alla storia e al collezionismo librario, e può riguardare ricerche assai "di nicchia" come uno studio sulle dediche o le prefazioni ai libri del Seicento.

PER AVERE UNA IDEA di quanti libri sui libri circolino anche in Italia, basta consultare il catalogo della benemerita (e periclitante, ahimé) editrice Sylvestre Bonnard (dal nome di un bibliofilo immaginato da Anatole France), ideata e diretta da Vittorio di Giuro; e ne se veda il catalogo (www.edizionibonnard.it), che contempla più di 120 titoli, che spaziano dallo studio di Grafton sulla nota a pié di pagina a una storia della rilegatura di Petrucci Nardelli – compresi i gialli di Hans Tuzzi, non solo autore di un fondamentale Collezionare libri antichi, rari, di pregio ma anche inventore di indagini poliziesche che coinvolgono spesso il mondo dei librai antiquari.
Negli ultimi tempi mi è parso di notare, almeno da noi, una particolare reviviscenza di questo genere. Tra il 2012 e il 2013 sono apparsi "Collezionismo librario e biblioteche d'autore. Viaggio negli archivi culturali" (Quaderni di Apice 5) e "Lo scaffale infinito" (Ponte alle Grazie) di Andrea Kerbaker, con una serie di medaglioni di bibliofili da Petrarca a Borges, passando per il cardinal Mazarino, Madame de Pompadour o Monaldo Leopardi. Recentissimo, "Per hobby e per passione" di Giulietta Rovera (Manni) che non si limita ai raccoglitori di incunaboli, ma spazia, come recita il sottotitolo, «dai fanatici di Barbie ai ladri di manoscritti, dai cultori del sesso ai collezionisti di farfalle». Il collezionismo librario può riguardare anche le opere di cosiddetti "mattoidi", forse più introvabili della prima edizione della "Gerusalemme liberata", e proprio mesi fa Paolo Albani (raccoglitore di teratologie varie) aveva pubblicato per le edizioni Quodlibet "I mattoidi italiani", nazionalizzando un genere che aveva già dato in Francia la serie dei "folli letterari" di Brunet, Nodier, Queneau e Blavier.

PERCHE' TANTO INTERESSE per la collezione di libri proprio nel momento in cui ogni giornalista è pronto a dare la vita per poter intervistare qualcuno che affermi che il libro cartaceo è finito e sarà sostituito dai libri elettronici? La prima risposta è: proprio per questo, perché è nel momento in cui un oggetto scompare dal mercato che si comincia a collezionarne gli esemplari superstiti. Ma mi sembra risposta limitativa, perché il collezionismo librario fioriva quando di libri a stampa ne uscivano di continuo. La risposta più convincente è forse che, di fronte alla minaccia, sia pure stoltamente apocalittica, della scomparsa del libro si risveglia e fiorisce l'amore per questo oggetto magico che ci ha accompagnato anche prima dell'invenzione della stampa, e proprio il brivido che ci coglie all'idea che questi oggetti scompaiano ci porta a parlare di quelli che hanno provato di poter sopravvivere più di cinquecento anni.

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da - http://espresso.repubblica.it/dettaglio/libri-che-parlano-di-libri/2205153/18
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« Risposta #152 inserito:: Maggio 16, 2013, 11:19:46 pm »

Il potere tra giovani e ottantenni

di Umberto Eco

Letta (classe 1966) e Napolitano (del 1925) sono i due simboli della politica che ha saltato una generazione: quella dei nati negli anni Cinquanta, che aveva vent'anni nel '68. Ecco perché

(02 maggio 2013)

Aldo Cazzullo, sul "Corriere" del 25 aprile, ha salutato Enrico Letta (quarantasei anni) come ragazzo degli anni Ottanta, e cioè cresciuto in un decennio in cui si viveva nella febbre del sabato sera, senza grande interesse per la politica.

Cazzullo però ricorda che gli anni Ottanta godono di una fama controversa e, se sono stati per alcuni solo anni di yuppismo trionfante, di Milano da bere, di crollo delle ideologie, per altri sono stati anni decisivi - e io, proprio in una Bustina del 1997, sostenevo che erano stati grandiosi perché ci avevano dato la fine della guerra fredda, il crollo dell'impero sovietico, la nascita di nuove aggregazioni come l'ecologia e il volontarismo, l'inizio traumatico ma epocale della grande migrazione del Terzo mondo verso l'Europa e, cosa che allora non è stata avvertita come il vero inizio del terzo millennio, la rivoluzione del personal computer. Era stato davvero un decennio privo di fermenti? Bene, vedremo in futuro che tipo di generazione ha prodotto, naturalmente Letta è una rondine che non fa ancora primavera e Renzi, nato 11 anni dopo, è diventato adulto solo negli anni Novanta.

Ma il problema mi pare un altro. La crisi recente ci ha mostrato che la generazione dei giovanissimi, nati negli anni Novanta, ha prodotto "movimento" ma non ancora grandi leaders, mentre tutte le discussioni delle settimane scorse si sono svolte solo intorno al carisma di persone che girano intorno o oltre gli ottant'anni, come Napolitano, Berlusconi, Rodotà, Marini, e i più giovinetti erano Amato, settantacinque, Prodi, settantaquattro e Zagrebelsky, settanta. Perché questo vuoto di leadership tra i nati negli anni Ottanta e i grandi vegliardi carismatici? C'è stata un'assenza della generazione nata intorno agli anni Cinquanta, tanto per intenderci, quella che nel 1968 aveva dai diciotto ai vent'anni.

Ogni regola ha le sue eccezioni, e potremmo citare Bersani (1951), D'Alema (1949), Giuliano Ferrara (1952) e persino Grillo (1948), ma i primi tre hanno attraversato il '68 dall'interno del Pci (e così è accaduto al più giovane Vendola, 1958), e il quarto in quegli anni faceva ancora l'attore. Coloro che sono assenti dall'agone politico e in ogni caso non sono stati in grado di fare crescere un leader di statura internazionale sono gli ex-sessantottini.

Alcuni sono finiti nel terrorismo o in lotte extraparlamentari, altri hanno scelto di rivestire funzioni politiche abbastanza defilate (come Capanna), altri ancora (dimostrando che il loro empito rivoluzionario era solo di facciata o di convenienza) sono diventati funzionari berlusconiani, qualcuno scrive libri o fa l'opinionista, qualcuno si è ritirato in una dolente e sdegnosa torre d'avorio, infine personaggi come Strada si sono dati al volontarismo ma, insomma, nel momento della crisi nessuno in quell'area di età è emerso come salvatore della patria.

E' che quei giovani del ?€˜68, impersonando le tensioni e gli ideali di un movimento che veramente ha sconvolto il mondo intero, ha cambiato parte dei costumi e dei rapporti sociali, ma alla fin fine non ha toccato i veri rapporti economici e politici, erano diventati - giovanissimi - capi carismatici, adorati dai seguaci di ambo i sessi, che potevano trattare faccia a faccia (e magari a pesci in faccia) coi Grandi Vecchi dell'epoca. Presi da delirio di onnipotenza (vorrei vedere voi a finire in prima pagina a diciott'anni) si erano dimenticati o non avevano fatto in tempo a imparare che per diventare generale bisogna iniziare da caporale, poi fare il sergente, poi il tenente e così andando avanti passo per passo. Chi comincia subito come generale (e poteva accadere solo ai tempi di Napoleone o nell'esercito di Pancho Villa, ma si è visto come poi finiva) alla fine torna in fureria senza aver appreso il mestiere (durissimo) del comando.

Come sapevano i giovani cattolici e i giovani comunisti, bisogna fare una lunga gavetta.

E coloro invece hanno bruciato i tempi, e coi tempi hanno bruciato (politicamente) la loro generazione.

 
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da - http://espresso.repubblica.it/dettaglio/il-potere-tra-giovani-e-ottantenni/2206135/18
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« Risposta #153 inserito:: Maggio 24, 2013, 11:08:42 am »

La bustina

Il potere tra giovani e ottantenni

di Umberto Eco

Letta (classe 1966) e Napolitano (del 1925) sono i due simboli della politica che ha saltato una generazione: quella dei nati negli anni Cinquanta, che aveva vent'anni nel '68. Ecco perché

(02 maggio 2013)

Aldo Cazzullo, sul "Corriere" del 25 aprile, ha salutato Enrico Letta (quarantasei anni) come ragazzo degli anni Ottanta, e cioè cresciuto in un decennio in cui si viveva nella febbre del sabato sera, senza grande interesse per la politica.

Cazzullo però ricorda che gli anni Ottanta godono di una fama controversa e, se sono stati per alcuni solo anni di yuppismo trionfante, di Milano da bere, di crollo delle ideologie, per altri sono stati anni decisivi - e io, proprio in una Bustina del 1997, sostenevo che erano stati grandiosi perché ci avevano dato la fine della guerra fredda, il crollo dell'impero sovietico, la nascita di nuove aggregazioni come l'ecologia e il volontarismo, l'inizio traumatico ma epocale della grande migrazione del Terzo mondo verso l'Europa e, cosa che allora non è stata avvertita come il vero inizio del terzo millennio, la rivoluzione del personal computer. Era stato davvero un decennio privo di fermenti? Bene, vedremo in futuro che tipo di generazione ha prodotto, naturalmente Letta è una rondine che non fa ancora primavera e Renzi, nato 11 anni dopo, è diventato adulto solo negli anni Novanta.

Ma il problema mi pare un altro. La crisi recente ci ha mostrato che la generazione dei giovanissimi, nati negli anni Novanta, ha prodotto "movimento" ma non ancora grandi leaders, mentre tutte le discussioni delle settimane scorse si sono svolte solo intorno al carisma di persone che girano intorno o oltre gli ottant'anni, come Napolitano, Berlusconi, Rodotà, Marini, e i più giovinetti erano Amato, settantacinque, Prodi, settantaquattro e Zagrebelsky, settanta. Perché questo vuoto di leadership tra i nati negli anni Ottanta e i grandi vegliardi carismatici? C'è stata un'assenza della generazione nata intorno agli anni Cinquanta, tanto per intenderci, quella che nel 1968 aveva dai diciotto ai vent'anni.


Ogni regola ha le sue eccezioni, e potremmo citare Bersani (1951), D'Alema (1949), Giuliano Ferrara (1952) e persino Grillo (1948), ma i primi tre hanno attraversato il '68 dall'interno del Pci (e così è accaduto al più giovane Vendola, 1958), e il quarto in quegli anni faceva ancora l'attore. Coloro che sono assenti dall'agone politico e in ogni caso non sono stati in grado di fare crescere un leader di statura internazionale sono gli ex-sessantottini.

Alcuni sono finiti nel terrorismo o in lotte extraparlamentari, altri hanno scelto di rivestire funzioni politiche abbastanza defilate (come Capanna), altri ancora (dimostrando che il loro empito rivoluzionario era solo di facciata o di convenienza) sono diventati funzionari berlusconiani, qualcuno scrive libri o fa l'opinionista, qualcuno si è ritirato in una dolente e sdegnosa torre d'avorio, infine personaggi come Strada si sono dati al volontarismo ma, insomma, nel momento della crisi nessuno in quell'area di età è emerso come salvatore della patria.

E' che quei giovani del ?€˜68, impersonando le tensioni e gli ideali di un movimento che veramente ha sconvolto il mondo intero, ha cambiato parte dei costumi e dei rapporti sociali, ma alla fin fine non ha toccato i veri rapporti economici e politici, erano diventati - giovanissimi - capi carismatici, adorati dai seguaci di ambo i sessi, che potevano trattare faccia a faccia (e magari a pesci in faccia) coi Grandi Vecchi dell'epoca. Presi da delirio di onnipotenza (vorrei vedere voi a finire in prima pagina a diciott'anni) si erano dimenticati o non avevano fatto in tempo a imparare che per diventare generale bisogna iniziare da caporale, poi fare il sergente, poi il tenente e così andando avanti passo per passo. Chi comincia subito come generale (e poteva accadere solo ai tempi di Napoleone o nell'esercito di Pancho Villa, ma si è visto come poi finiva) alla fine torna in fureria senza aver appreso il mestiere (durissimo) del comando.

Come sapevano i giovani cattolici e i giovani comunisti, bisogna fare una lunga gavetta.

E coloro invece hanno bruciato i tempi, e coi tempi hanno bruciato (politicamente) la loro generazione.


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« Risposta #154 inserito:: Giugno 01, 2013, 04:23:24 pm »

Opinioni

Marina, Marina, Marina

di Umberto Eco

Una Miss Universo aspira a una relazione seria con me via Internet: ecco il suo indirizzo per approfondire. L'idolatria del virtuale impazza. E miete anche delle vittime. Come l'aspirante suicida che voleva andare a un reality show

(16 maggio 2013)

Ho ricevuto la e-mail che segue ("sic" non solo per la grammatica ma anche per l'ortografia): «Tu sei quello che voglio sapere bene. Ciao. Il mio nominativo e Marina, 30anni me. Ho visto il tuo profilo e ha deciso di produrre a voi. Come stai facendo? Ho uno stato d'animo meraviglioso. Sto cercando un individuo per relazione serio, che tipo di nesso che stai cercando? Sono molto interessato a conoscerti, ma credo che sarà meglio se tu e io corrispondera per e-mail. Se siete stimolati a fare la comprensione con me, ecco il mio indirizzo e-mail: abhojiku@nokiamail.com. Oppure mi e-mail il tuo indirizzo e-mail ti scrivero una circolare. Spero che non si puo partire senza l'attenzione e la epistola mi scrivi. Sarei molto lieto di incassare la vostra opinione. Io vedo l'ora la tua missiva alla mail. Il tua Marina».

La foto accusa mostra una creatura da Miss Universo, pronta per essere invitata a una cena elegante di Arcore, così che ci si dovrebbe chiedere come mai una fanciulla con le qualità estetiche della bellissima Marina si sia ridotta a cercarsi una relazione "seria" su Internet. Può darsi che la foto sia stata scelta da qualche sito on line (come quelle degli attori ignoti che appaiono nel cruciverba iniziale de "La Settimana Enigmistica") e dietro a Marina si celi un personaggio che potrebbe interessare Saviano, ma chi lo sa? Siccome però gli stolti sono legione, lascio nel messaggio il suo indirizzo in modo che si precipitino a intrattenere con lei un'affettuosa amicizia - e non rispondo ovviamente delle conseguenze. Il numero dei clienti della indimenticabile Vanna Marchi, di coloro che ricorrono all'oroscopo e di tanti votanti alle scorse elezioni, ci dice che Marina potrà contare su una buona percentuale di devoti del virtuale.

A proposito del virtuale moltissimi sanno (perché Internet ha fatto da buona cassa di risonanza) che di recente, in un mio falso indirizzo twitter avrei annunciato la morte di Dan Brown, mentre in un altro è stata annunciata la mia morte e, benché tutti gli organi d'informazione abbiano appurato che si trattava di bufale, ho visto che poi alcuni hanno inteso come se (essendo io notoriamente uno zuzzurellone) da un "vero" mio indirizzo io avessi inviato un "falso" messaggio. Insomma, gli dei accecano coloro che vogliono perdersi in Rete, e spero che Casaleggio (che pare prendere sul serio tutto quello che in Rete appare) si metta in contatto con Marina per costituire una bella coppia.


Per gli educatori che vogliano insegnare ai giovani come non fidarsi del virtuale segnalo il sito http://piazzadigitale.corriere.it/2013/05/07/storyful-il-social-checking-anti-bufala/ dove si elencano vari servizi antibufala che sono disponibili on line (segno che per fortuna Internet insieme ai falsi provvede anche i mezzi per smascherarli, basta imparare a navigare bene).

Ma l'idolatria del virtuale miete le sue vittime. Ecco una notizia della settimana scorsa. A Roma a cavalcioni sul davanzale della sua camera, al nono piano di un palazzo, con un coltello puntato allo stomaco un ragazzo di 23 anni minaccia di suicidarsi. Parenti, polizia, vigili del fuoco con materasso gonfiabile steso sotto al palazzo, non riescono a farlo desistere. Sino a che il ragazzo non grida che vuole essere ospite in un "reality show", e vuole andarci in limousine. Gli agenti si ricordano che c'era nei pressi una limousine usata il giorno prima per qualche pubblicità. La fanno arrivare e il ragazzo scende.

Morale, l'unica cosa "reale" che può far desistere un aspirante suicida è la promessa di un "reality show" e dunque di una realtà virtuale. Va bene che il ragazzo era disturbato, ma questo non ci consola perché è ragionevole pensare che tutti coloro che credono nei "reality shows" (o che risponderebbero a Marina, o che prendono sul serio i siti dove si dice che l'attacco alle Due Torri è stato fatto da Bush e dagli ebrei) supererebbero facilmente un test psichiatrico. Dunque il problema del virtuale non riguarda (se non in casi eccezionali) i malati bensì i sani.


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da - http://espresso.repubblica.it/dettaglio/marina-marina-marina/2207120/18
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« Risposta #155 inserito:: Giugno 15, 2013, 08:38:36 am »



Caro Eco, grazie a Nietzsche ho scoperto il principio della modernità


di SOSSIO GIAMETTA

In una lettera aperta a Umberto Eco, Sossio Giametta spiega perché Nietzsche gli avrebbe permesso di scoprire il senso del nostro accadere storico e perché occorre che se ne diventi consapevoli.


Ill.mo e caro Eco,

ebbi il piacere di salutarla alla serata in onore di Raffaele La Capria. Lei mi disse di aver ricevuto il mio libro, L’oro prezioso dell’essere, ma di non averlo letto. Tutto normale. Immagino le montagne di libri che le arrivano. E poiché le arriveranno anche montagne di lettere, invoco il suo generoso perdono per il mio farmi vivo pur sapendo tutte queste cose. Perché lo faccio? In generale perché noi poveri autori non famosi non possiamo onestamente sperare che nel riconoscimento di coloro che possono capirci, e perché in particolare io ho motivi personali per rivolgermi a Lei. Credo infatti di aver fatto una scoperta che, se è fondata, non può non interessarla quale filosofo e commentatore degli evi antico, medio e moderno. Questa presunta scoperta riguarda appunto l’evo moderno, sul quale è uscito ultimamente un libro da Lei curato.

Approfondendo lo studio semisecolare di Nietzsche, sono arrivato a capire il suo genio profondo, da tutti ancora ignorato e insospettato, e poiché esso è, secondo me, il punto d’approdo della modernità, sono arrivato a capire anche il senso, tuttora ignorato e insospettato, della modernità. Questo è un processo unitario, drammatico, angoscioso, che impone la reinterpretazione dei suoi protagonisti in base alla posizione da ciascuno occupata in esso. Tutto ciò è contenuto nel capitolo mediano del libro, intitolato Come fu che intuii quello che avevo capito. Ma per non obbligarla a leggere il libro, lo ripeto qui in altra forma.

Tutto comincia con la decadenza del cristianesimo e con l’incapacità dei popoli di vivere senza un tetto, una copertura religiosa, come la storia dimostra. Con i rivolgimenti causati dal risveglio dei valori antichi e dalla nuova scienza nell’umanesimo e nel Rinascimento, il cristianesimo, che giunto alla sua massima realizzazione era ormai incamminato sulla strada della corruzione, come è di tutti gli organismi invecchiati, si ritirò sempre più dalle coscienze europee. Subì il duro colpo della Riforma di Lutero e il suo posto fu preso sempre più, nei secoli che seguirono, dalle tendenze secolarizzanti. Nel suo rapporto con la laicità si creò quello che Spinoza dice che avviene con la teologia e la filosofia: quanto più si alza il piatto della bilancia della filosofia, tanto più si abbassa quello della teologia, e viceversa.

Dette tendenze laicizzanti, però, senza l’ausilio della fede e del Dio padre, del Dio provvidente, avevano grande difficoltà a sostituire la religione, della quale l’uomo ha evidentemente un naturale bisogno: perché facevano appello all’intelletto e non all’anima. Questo processo laicizzante, consistente nel sostituire Dio con la natura, si sviluppò dunque da allora oscillando in due direzioni parallele: una negativa, scettica, pessimistica, e una positiva, affermatrice, ottimistica, non senza ripetuti tentativi da parte dell’una di incorporare l’altra.

I protagonisti di questi due rami della laicizzazione dell’Europa sono i protagonisti della cultura (Kultur) europea. Solo alcuni nomi: Nicola Cusano, Erasmo da Rotterdam, Lutero, Giordano Bruno, Giulio Cesare Vanini, Montaigne, Descartes, Pascal, Hume, Kant, Hegel, Stirner eccetera eccetera, fino al picco della tendenza negativa con Schopenhauer e la sua scuola, Philipp Mainländer, Julius Bahnsen e Eduard von Hartmann. Questi ultimi furono l’ultima grande provocazione in senso negativo ed è a essa, a Schopenhauer in particolare, suo “perfetto antipode”, che Nietzsche più immediatamente risponde con la sua tendenza affermatrice, rappresentata soprattutto da Così parlò Zarathustra.

Schopenhauer e i suoi discepoli si erano essi stessi opposti a quella che era stata l’ultima grande provocazione in senso contrario. Dopo il tentativo di Cartesio di “portare il cristianesimo a compiuta efficacia innalzando la ‘coscienza scientifica’ alla sola coscienza vera e valida”,[1] dopo il tentativo di Pascal di ri-saltare con una “scommessa” dal campo laico a quello cristiano, dopo quello di Leibniz di fare ingoiare all’uomo il male del mondo come una purga sgradevole ma benefica, e quello di Hamann di rovesciare l’illuminismo col ricorso al cristianesimo profondo, c’era stato il grandioso tentativo di Hegel di divinizzare il mondo portando la filosofia al cristianesimo, invece che il cristianesimo alla filosofia come credeva.[2]

Con lo Zarathustra, in cui si esprime con la massima forza la tendenza affermatrice che è la caratteristica principale del suo genio, Nietzsche fonda la religione laica. Questa passa attraverso la radicalizzazione del pessimismo schopenhaueriano, fondato sull’ineluttabile dipendenza dell’uomo dalle sue condizioni di esistenza, come parte infinitesimale di un immenso organismo, l’universo, alle cui  leggi è sottoposto (religione dunque dell’umiltà e non della superbia, come ha sostenuto Benedetto XVI), e l’affermazione dell’essenza divina della vita, di cui tutti gli esseri sono partecipi. L’essenza sublime e beatificante della vita non può essere negata, ma solo oscurata o impedita dalle circostanze o condizioni di esistenza. Dunque slancio, passione, entusiasmo, amore della vita sono giustificati nonostante tutti i possibili orrori e tragedie dell’esistenza. Questa è la grande novità predicata da Nietzsche.

Quando, composto il primo Zarathustra, egli non sapeva quale valore e senso esso potesse avere, e lo domandava agli amici oltre che a se stesso, Peter Gast sentenziò: “È una sacra scrittura”. Ciò lo illuminò, lo aiutò a capire se stesso, finché non ebbe più dubbi. Parlò allora dello Zarathustra come “la Bibbia del futuro, la massima esplosione del genio umano, in cui è racchiuso il destino dell’umanità”.[3]

Ciò nonostante, in seguito si fece riassorbire dallo Zeitgeist e dai dibattiti dell’epoca, agitata dai venti selvaggi della reazione alla decadenza e impegnata soprattutto nello scalzare gli ostacolanti valori cristiani. Come suprema antenna e strumento dell’epoca, Nietzsche si distaccò pian piano dalla sua più grande e gloriosa conquista per tornare a combattere il cristianesimo non più con l’eccellenza, con la divinità della vita concepita laicamente, ma con la lotta corpo a corpo, con lo scontro aperto. Ciò vuol dire che il suo genio si era oscurato. Da Al di là del bene e del male in poi, attraverso la Genealogia della morale, il Crepuscolo degli idoli, L’Anticristo e Ecce homo, egli precipitò in una specie di monomania, si dedicò a uno scontro personalissimo col cristianesimo dai toni stridenti, esagerati e in definitiva grotteschi.

Nietzsche era stato sempre agitato dal genio religioso. Questo cercò di venire in luce in tutti i modi, anche per vie traverse: nell’adolescenza come adesione appassionata al cristianesimo, che però, per la sua stessa radicalità, sfociò nella negazione; poi con la teoria dell’Eterno Ritorno, che egli concepì appunto come religione e di cui si pensava, sia pure con raccapriccio, destinato ad essere il maestro.

Ma l’Eterno Ritorno era contraddittorio. Pensato come stimolo a una vita degna, di cui ci si potesse compiacere per l’eternità, dunque come incitamento morale, guardava al futuro ma saltava il passato. Infatti, se l’Eterno Ritorno è veramente eterno, la nostra vita attuale non è che la pedissequa ripetizione di quella che è dall’eternità e tale sarà per l’eternità, immutabilmente. Dunque nessuno sforzo per il suo miglioramento è possibile e ha senso. In tal modo il progettato incitamento morale si capovolge in deprimente fatalismo. Pertanto l’Eterno Ritorno, come religione, non funzionava.

Funzionava invece quello che egli, in opposizione a Schopenhauer, chiamava il “pessimismo dionisiaco” o pessimismo della forza. A patto però di distinguere i due elementi che erano in esso intrecciati. Il dualismo in filosofia è di solito un problema. Ma qui esso è la soluzione. Il dualismo ha in effetti due corni: l’essenza divina e beatificante della vita e le condizioni di esistenza, che possono essere ostacolanti e impedienti fino all’orrore. Nella vita, negli esseri, le due cose si fondono e confondono, ma sono diverse e vanno distinte. L’una non tocca l’altra.

A questa scoperta, illustrissimo e caro Eco, se ne aggiungono nel libro altre, fatte continuando il lavoro dei “miei” autori. Se Lei, magari spinto dalla bella recensione del sedicente incompetente La Capria, dovesse, potesse e volesse, con opera di santità, leggere almeno in parte il libro, cioè accettare questa seconda sfida, dopo quella delle Eterodossie crociane, allora due sono i casi: se Lei trova che il libro non è che uno dei tanti magari buoni che girano attualmente in Europa, bene, la finisca lì; se invece trova che in Europa non gira un libro con un simile carico di intuizioni e scoperte, che sia altrettanto vasto e profondo, chiaro semplice e solido, allora, per piacere, ne scriva qualcosa, perché solo a Lei e a Repubblica e a L’espresso i giovani credono, non al Corriere: i giovani che sono i soli veramente aperti alla filosofia.

Voglia, ripeto, perdonarmi per tutte queste vanterie e pretese, ispirate certo  anche dal bisogno dell’artigiano di veder riconosciuto il suo lavoro, dunque dalla vanità, ma soprattutto dal bisogno di vedere che i risultati del lavoro di chiarificazione fatto in tutta una vita di studio e di ricerca arrivino al pubblico.

NOTE

[1] Max Stirner, Der Einzige und sein Eigentum (L’unico e la sua proprietà), Reclam, Stuttgart 2011, p. 92 (… das Christentum zu vollendeter Wirksamkeit zu bringen, indem sie das “wissenschaftliche Bewusstsein” zum allein wahren und geltenden erhob).

[2] Come ultimo ostacolo Nietzsche non vede Schopenhauer, ma il cristianesimo, che era e restava il suo più grande nemico, e a cui correva sempre il suo pensiero: “Persino il cristianesimo diventa necessario: solo la forma suprema, più pericolosa, più seducente del no alla vita ne sfida la suprema affermazione” (Frammento 25 [7] dicembre 1888-gennaio 1889). Nel frammento 14 [25] primavera 1888 aveva indicato tuttavia in Schopenhauer, oltre che in Vigny, Dostoevskij, Leopardi e Pascal, il principale ostacolo al pessimismo classico o della forza.

[3] F. Nietzsche, lettera del 26 novembre 1888 a Paul Deussen.

(11 giugno 2013)

da - http://ilrasoiodioccam-micromega.blogautore.espresso.repubblica.it/2013/06/11/caro-eco-grazie-a-nietzsche-ho-scoperto-il-principio-della-modernita/
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« Risposta #156 inserito:: Giugno 19, 2013, 11:48:34 am »

Herran Herran Herran Herran

di Umberto Eco

Dare ai figli il doppio cognome, del padre e della madre, è complicato. Quale sarebbe il primo? Chi deciderebbe? E come regolare il progressivo raddoppio? Meglio forse dargliene uno nuovo. Purché non troppo eccentrico

(30 maggio 2013)

Mi pare si sia riaccesa la discussione sulla trasmissione del cognome ai figli. Piero, figlio del signor Verdi e della signora Bianchi, si dovrà chiamare Piero Verdi, Piero Verdi Bianchi, Piero Bianchi Verdi o addirittura Piero Bianchi? Noi caratterizziamo la discendenza secondo la linea paterna, ma niente vieterebbe di caratterizzarla in chiave matrilineare, come avviene in altre culture. In fondo "mater semper certa est" mentre il padre deve solo aver fiducia nella sua signora. A meno di ammettere, come suggeriva Silvia Vegetti Finzi giorni fa sul "Corriere", che dare ai figli il cognome del padre sia in fondo l'unico modo di risarcire il genitore maschio riconoscendogli almeno un diritto legale.

La più ovvia sembra la soluzione spagnola, per cui il Rodrigo nato da Juan Lopez e da Juana Gutierrez si chiamerà Rodrigo Lopez Gutierrez. Ma se poi sposerà una Carmen Lozano Almeida come si chiamerà la loro figlia? Nel 1952 avevo incontrato un prete che si chiamava don Laurentino Herran Herran Herran Herran perché nato da un padre Herran Herran e da una madre Herran Herran. Se non fosse stato prete e avesse poi (per accidente improbabile ma non impossibile) sposato una donna col suo stesso cognome, i figli si sarebbero chiamati Herran Herran Herran Herran Herran Herran Herran Herran?

Per porre fine a questa fuga "in infinitum" credo che la legge spagnola prescriva per i figli il primo cognome del padre e il primo cognome della madre e dia, dal 1999, la facoltà di scegliere quale debba essere il primo. Non so se la cosa la decidano i genitori o i figli arrivati alla maggiore età, ma immagino cosa succederebbe da noi. Poniamo che Giulio Verdi Cavour sposi una Giuliana Neri Garibaldi, e Giuliana fosse fiera di portare il cognome di quel nonno materno celeberrimo. Perché i suoi figli dovrebbero perderlo? Ma anche il padre avrebbe qualche diritto a voler ricordato il suo avo non meno illustre. E potrebbe il figlio Franceschiello, arrivato all'età adulta, decidere di chiamarsi Franceschiello Cavour Garibaldi, o Franceschiello Garibaldi Cavour?


Data comunque la possibilità di scegliere come primo nome o quello del padre o quello della madre, chi decide? Se sarà la coppia, ci saranno molte occasioni di divorzio post parto, se lo decide il figlio e sceglie di anteporre il cognome del padre, ve la vedete voi la madre, che si lamenterà per il resto dei suoi giorni di non essere stata abbastanza amata? In caso contrario potrebbe accadere che il padre infuriato (se non è sposato con comunione dei beni) diseredi il figlio irriconoscente.

Si pensi inoltre che i cognomi dovrebbero testimoniare non solo della discendenza dai genitori e dai nonni ma anche della preterita presenza dei bisnonni, dei trisnonni e così via. Avrete talora pensato che, poiché si nasce da due genitori, e ciascun genitore da altri due, per cui ciascuno di noi ha quattro nonni, se le cose fossero andate secondo la logica genealogica, ciascuno dovrebbe avere otto bisnonni, sedici trisnonni e così via per cui, risalendo alle origini la terra avrebbe dovuto essere popolata non da 7 miliardi bensì da 7 alla X, a seconda di quante siano le generazioni che ci separano da Adamo ed Eva. Evidentemente c'è una soluzione a questo paradosso, e la lascio immaginare ai miei lettori più acuti, ma questo non toglie che, se i cognomi dovessero essere anche solo approssimativamente trasparenti dal punto di vista genealogico, dovremmo averne almeno alcune decine.

Di questo passo la soluzione più equanime sarebbe che i genitori scegliessero di dare ai figli un cognome del tutto nuovo. Ma come se la caveranno nella vita i rampolli di genitori eccentrici che avessero scelto per loro non Battipaglia o Cefalù bensì Hitler, Berlusconi, Mata Hari, Bin Laden o Pol Pot (il che non sarebbe inverosimile visto che ci sono oggi genitori che hanno chiamato i figli Benito, Lenino o Sciuellen?)

Non ho una soluzione in tasca e - perplesso - consegno queste mie riflessioni a chi mi legge.
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« Risposta #157 inserito:: Giugno 23, 2013, 11:09:04 am »

La bustina

Talk show, solo urla e finti litigi

di Umberto Eco

Ai telespettatori non importa quel che dicono gli ospiti dei programmi tv, ma solo gli scontri e gli insulti che si lanciano. E se qualcuno ha il coraggio di definire queste arene 'la Terza Camera', non stupisce che nessuno vada più a votare

(17 giugno 2013)

Spero che il direttore de "l'Espresso" non me ne voglia se affermo che la rivista che leggo ogni settimana con maggior interesse e rispetto è la "Settimana enigmistica", anche perché non mi impone soltanto i propri contenuti, ma mi chiede di collaborare al completamento delle sue 48 pagine.

Molto istruttive sono le definizioni delle parole crociate. La tradizione italiana è diversa da quella francese, dove la definizione si pone come un enigma, e celebre rimane l'esempio citato da Greimas per cui "l'amico dei semplici" doveva essere decrittato come "erborista" (il che prevedeva che il solutore sapesse che i semplici sono tradizionalmente piante con virtù curative, usate dai medici di un tempo). Le definizioni delle nostre parole crociate sono piuttosto richiami a opinioni diffuse e comunemente accettate per cui (a esempio) "contempla pasta e ortaggi" va inteso come "dieta mediterranea" e "serpente americano" va letto come "boa".

Ora accade che in una pagina di parole crociate abbia trovato "vivacizzano i talk show", e a prima vista pensavo che la definizione rimandasse alla presenza di personaggi celebri, o ai riferimenti all'attualità. Niente affatto, la soluzione era "scontri". Il compilatore della definizione si era rifatto dunque all'opinione corrente per cui quello che rende interessante un talk show non è che sia condotto da un personaggio popolare come Vespa, che vi partecipino Vladimir Luxuria o un esorcista, che ci si occupi della pedofilia o di Ustica. Tutti questi elementi sono accessori certamente importanti, e noioso sarebbe un talk show condotto da un filologo bizantino, che esibisse come ospiti una monaca di clausura affetta da mutismo secondario o si occupasse del papiro di Artemidoro. Però ciò che lo spettatore realmente vuole è lo scontro.

Mi è capitato di assistere a un talk show accanto a un'anziana signora che, ogni volta che i partecipanti si parlavano addosso, reagiva con: «Ma perché s'interrompono a vicenda? Non si capisce quel che dicono! Non potrebbero parlare a turno?» - come se un talk show italiano fosse una delle memorabili trasmissioni di Bernard Pivot nel corso delle quali il conduttore con un impercettibile cenno del mignolo avvertiva il parlante che era ora che cedesse la parola al vicino.

La verità è che gli spettatori dei talk show godono solo quando la gente litiga, e non importa tanto quel che dicono (che di solito è già inteso come irrilevante) ma del modo in cui fanno la faccia feroce, urlando «mi lasci finire, io non avevo interrotto lei» (e questa reazione fa ovviamente parte del gioco dell'interruzione), o si insultano con epiteti desueti come "vaiassa", che da quel momento sono ripresi dall'ultima edizione dei dizionari come dialettalismi laureati. Si assiste a un talk show come a una lotta di galli, o a una sessione di wrestling, dove non importa se i contendenti facciano finta, così come non importa nelle comiche di Ridolini che una torta in faccia sia finta, quel che conta è far finta di prenderla per vera.

Tutto questo andrebbe benissimo se i talk show fossero presentati come meri programmi di intrattenimento tipo "Il Grande Fratello". Ma qualcuno ha definito la trasmissione "Porta a Porta" come la Terza Camera - o l'anticamera del tribunale. Quello che sarà discusso in parlamento, o il giudizio finale su chi abbia strangolato la tal fanciulla, è ormai anticipato dal talk show a tal segno da rendere irrilevante, e in ogni caso predeterminata, la seduta parlamentare o la sentenza di Corte d'Assise.

Pertanto, se quel che conta non sono i contenuti bensì la forma dello scontro, è come se una lezione universitaria sulla "consecutio temporum" fosse anticipata e resa quindi inutile da un discorso in "grammelot" di Dario Fo o da una farneticazione di Troisi. E poi ci lamentiamo se la gente si disinteressi sempre più a quanto avviene a Montecitorio o a Palazzo Madama, o a quanto dirà la Cassazione sulle olgettine, e non vada a votare.

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« Risposta #158 inserito:: Luglio 06, 2013, 07:43:32 pm »


Bustina

Come la pensava il Gattamelata?

di Umberto Eco

Tutti gli anni a giugno leggiamo gli esercizi dei Critici dei Temi della Maturità: inutili. Al candidato si chiede solo di scrivere in italiano e di saper articolare un pensiero. Per questa abilità ogni argomento è buono. Ricordo che al liceo...

(27 giugno 2013)

Tutti gli anni a fine giugno e con poca fatica i giornali riescono a riempire una o due pagine col commento dei temi assegnati alla maturità. Vengono convocate le menti più lucide della Nazione e naturalmente la prova più commentata è quella d'italiano, perché sarebbe difficile spiegare al grande pubblico in cosa esattamente consistesse quella di matematica, mentre recriminare che si sia imposta ai giovani una ennesima riflessione sul Risorgimento è alla portata persino di un laureato. Questi esercizi dei Critici del Tema della Maturità sono talora godibili per eleganza di scrittura e arguzia, ma (detto con tutto il rispetto) del tutto inutili.

Infatti è irrilevante quale sia il tema assegnato, a meno che (come mi pare sia accaduto una volta) la sua formulazione non contenga errori marchiani o salvo che, per assurdo, si proponessero argomenti deliranti come, dico per dire, "la coltivazione delle rose nel Dubai".

Di solito i temi riguardano cose di cui gli studenti dovrebbero aver sentito parlare e - per attenerci ai temi di quest'anno - se uno non ha assolutamente idee sugli assassini politici, dovrebbe averne sulla società di massa o sulle ricerche sul cervello. Voglio dire che lo studente può benissimo ignorare tutto sulle neuroscienze ma dovrebbe capire che cosa significhi fare ricerche sul funzionamento del cervello umano; e persino se ritenesse che l'anima è insondabile e che andare a scrutare il cervello è tempo perso, anche questa sarebbe un'opinione che potrebbe essere svolta con polemica e spiritualistica baldanza.

Il fatto è che il tema della maturità deve provare solo due cose. Una è che il candidato o la candidata sappiano scrivere in un italiano accettabile, e a nessuno si chiede di essere Gadda (ché anzi, chi si presentasse alla maturità scrivendo come Gadda andrebbe guardato con sospetto, perché non avrebbe capito che non gli si chiede di provare di essere un genio incompreso bensì dar prova di uso medio della lingua del suo paese). La seconda cosa è che i candidati debbono provare di sapere articolare un pensiero, svolgere un argomento senza confondere le cause con gli effetti e viceversa, e sapendo distinguere una premessa da una conclusione. Per dimostrare questa abilità qualsiasi argomento è buono. Vorrei dire, esagerando, persino la richiesta di sostenere una tesi palesemente falsa.

Durante il liceo il mio compagno di banco mi aveva assegnato un giorno il tema seguente: "Analizzate i versi danteschi ?€˜la bocca sollevò dal fiero pasto' intendendo la parola "pasto" non come l'avrebbe intesa il Gattamelata ma come la intenderebbe Christian Dior". Ricordo che, a giudizio di tutti i miei compagni, avevo svolto il tema in modo eccellente, come se avesse un capo e una coda, nella fattispecie imitando ironicamente la retorica di certa critica letteraria dei libri di testo, ma in complesso dimostrando di saper trarre da premesse scoordinate una serie di pensieri coordinati.

Accanto alle lamentazioni sugli argomenti dei temi appaiono anche sui giornali discussioni sul fatto se la maturità attuale sia troppo esigente o troppo indulgente, e appaiono anche gli scritti di nostalgici della mia generazione, che ricordano i tempi in cui si dovevano portare tutte le materie per tutti i tre anni. E' vero, si trattava di passare gli ultimi mesi chiusi in casa, mentre già incombevano i calori estivi, per alcuni imbottendosi di simpamina o intossicandosi di caffeina, e chi usciva da quella terribile esperienza per anni (e magari per tutta la vita) nel corso degli incubi notturni avrebbe sognato di dover ancora dare l'esame di maturità. Eppure ricordo che sono morti due miei compagni di scuola all'età di dieci anni, uno sotto i bombardamenti e l'altro annegando a fiume, ma nessun compagno di liceo che sia morto per l'esame di maturità. Era una prova, più umana e fruttuosa della "Mensur" tedesca, o delle corse su precipizio delle gioventù bruciate alla James Dean. Una prova dalla quale si usciva fortificati non dico nel sapere ma nel carattere.

Perché dobbiamo punire i giovani con una maturità troppo facile?


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« Risposta #159 inserito:: Luglio 28, 2013, 10:38:25 am »

La bustina

Due mani non ci servono più

Umberto Eco

L'umanità sta atrofizzando uno dei suoi arti. Perché con i telefonini intelligenti si riesce a fare quasi ogni cosa utilizzando l'altro. Persino il computer, con la sua tastiera, è ormai uno strumento preistorico per i "phone addict"

(22 luglio 2013)

Leggevo la settimana scorsa sul "Venerdì di Repubblica" che un hotel di Forte dei Marmi, frequentato da grandi manager e star, offrirebbe, tra i vari servizi, anche uno psicoterapeuta multilingue che dovrebbe guarire i clienti dalla dipendenza da telefonino e, all'occorrenza, da Ipad, Twitter e altre forme di assuefazione ormai risoltesi in nevrosi.

Agli inizi degli anni Novanta, quando i cellulari non erano ancora così diffusi, scrivevo in una Bustina che i telefonofori (conio ora il neologismo da tedoforo) cercavano di farsi notare in treno o all'aeroporto berciando ad alta voce a proposito di azioni, profilati metallici e mutui bancari; e osservavo che il loro comportamento era segno di inferiorità sociale, perché i veri potenti non hanno telefonini ma venti segretari che gli filtrano le comunicazioni, mentre ha bisogno di telefonino il quadro intermedio che deve rispondere a ogni istante all'amministratore delegato, o il piccolo faccendiere al quale la banca deve comunicare che il suo conto è in rosso. Maurizio Ferraris non aveva ancora scritto il suo saggio sull'ontologia del telefonino, e i miei rilievi riguardavano lo status sociale dei telefonanti e non la loro nevrosi perché forse si pensava che, una volta sottrattisi alla vista e all'ascolto altrui, questi incalliti esibizionisti riponessero l'utensile e si occupassero dei fatti loro. Oggi non è più così e l'altro giorno per strada mi sono sfilate accanto cinque persone di ambo i sessi: due telefonavano, due digitavano frenetici rischiando d'incespicare, una camminava tenendo l'oggetto in mano, pronta a rispondere a ogni suono che le promettesse un contatto umano.

Un mio amico, persona colta e distinta, ha buttato via il suo Rolex perché, dice, l'ora la può leggere sul BlackBerry. La tecnologia aveva inventato l'orologio da polso per permettere agli umani di non girare con una pendola sul dorso, o di trarre ogni due minuti il cipollone dalla tasca del panciotto, ed ecco che il mio amico deve muoversi, qualsiasi cosa faccia, con una mano perennemente occupata. L'umanità sta atrofizzando uno dei suoi due arti, eppure sappiamo quanto due mani con pollice contrapposto abbiano contribuito alla evoluzione della specie. Mi era venuto in mente che, quando si scriveva con la penna d'oca, occorreva una sola mano, ma con la tastiera del computer ne occorrono due, e pertanto il telefonoforo non può usare telefonino e computer al tempo stesso, ma poi ho riflettuto che il "phone addict" non ha più bisogno del computer (oggetto ormai preistorico) perché col telefonino può connettersi a Internet e mandare Sms, né deve inviare mail perché può parlare direttamente con la persona che intende importunare o da cui agogna essere importunato. E' vero che le sue letture di Wikipedia saranno più faticose e quindi rapide e superficiali, i suoi messaggi scritti più telegrafici (mentre con la mail si potevano persino scrivere le ultime lettere di Jacopo Ortis), ma il telefonoforo non ha più tempo di raccogliere informazioni enciclopediche né di esprimersi in modo articolato perché impegnato in conversazioni della cui coerenza sintattica molto ci dicono le deprecate intercettazioni - da cui si deduce che il "phone addict", rinunciando peraltro a ogni segretezza, esprime i suoi piani con puntini di sospensione e pochi intercalari neanderthaliani tipo cazzo e vaffanculo.

Inoltre prego di ricordare il bel "L'amore è eterno" di Verdone, dove una squinzietta rende l'amplesso incubatico perché, mentre si dimena sul ventre del partner, continua a rispondere a messaggi urgentissimi. E mi è accaduto di leggere un'intervista fattami da una giornalista spagnola (peraltro dall'aria intelligente e colta) che osservava con stupore come nel corso della nostra conversazione non mi fossi mai interrotto per rispondere al telefonino, decidendo pertanto che ero persona cortesissima. Non riusciva a immaginare che o non avessi il telefonino o lo tenessi costantemente spento perché non mi serve per ricevere messaggi indesiderati ma solo per consultare l'agenda.

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« Risposta #160 inserito:: Agosto 02, 2013, 11:22:02 am »

 
La bustina

C'è un film per capire Bergoglio

di Umberto Eco


Avete presente 'Mission', che ha vinto la Palma d'Oro nel 1986? Si racconta una vicenda che ha avuto come protagonisti i gesuiti sudamericani 250 anni fa. E' da li che proviene, culturalmente, papa Francesco

(25 luglio 2013)

Papa Francesco assume (lui gesuita) un nome francescano, va ad abitare in albergo, manca solo che calzi dei sandali e vesta un saio, caccia dal tempio i cardinali in Mercedes e infine va da solo a Lampedusa ad allearsi coi reietti del Mediterraneo come se la Bossi-Fini non fosse una legge dello Stato italiano. E' davvero l'unico a dire e fare ancora "cose di sinistra"? Ma all'inizio si sono fatte circolare voci sulla sua eccessiva prudenza verso generali argentini, si è ricordata la sua opposizione ai teologi della liberazione, si sottolinea che non si è ancora pronunciato sull'aborto, sulle staminali, sugli omosessuali, come se un papa dovesse andare in giro a regalare preservativi ai poveri. Chi è papa Bergoglio?

Credo che si sbagli a considerarlo un gesuita argentino: è un gesuita paraguayano. E' impossibile che la sua formazione non sia stata influenzata dal "sacro esperimento" dei gesuiti del Paraguay. Il poco che la gente sa su di loro è dovuto al film "Mission", che condensava in due ore di spettacolo, con molti arbitrii, 150 anni di storia. Riassumiamo. I conquistadores spagnoli, tra Messico e Perù, avevano compiuto stragi inenarrabili, appoggiati da teologi che sostenevano la natura animalesca degli indios (tutti oranghi), e solo un domenicano coraggioso come Las Casas si era prodigato contro la crudeltà dei Cortés e dei Pizarro, presentando gli indigeni sotto tutt'altra prospettiva.

All'inizio del Seicento i missionari gesuiti decidono di riconoscere i diritti dei nativi (in particolare i Guaranì, che vivevano in uno stato preistorico) e li organizzano in "riduzioni", ovvero comunità autonome autosostenute: non li raccolgono per farli lavorare per i colonizzatori, ma gli insegnano ad amministrarsi da soli, liberi da ogni servitù, in una totale comunione dei beni che producevano. La struttura dei villaggi e le modalità di quel "comunismo" ci fanno pensare alla "Utopia" di More o alla "Città del Sole" di Campanella, e di "preteso comunismo campanelliano" parlerà Croce, ma i gesuiti si ispiravano piuttosto alle primitive comunità cristiane. Mentre costituivano dei consigli elettivi formati solo da nativi (ma ai padri rimaneva l'amministrazione della giustizia), insegnavano a quei loro soggetti architettura, agricoltura e pastorizia, la musica e le arti, l'alfabeto (anche se a non a tutti, ma producendo talora artisti e scrittori di talento).

I gesuiti avevano certamente instaurato un severo regime paternalistico, anche perché civilizzare i Guaranì significava sottrarli alla promiscuità, alla neghittosità, all'ubriachezza rituale e talora al cannibalismo. Quindi, come per ogni città ideale, tutti siamo pronti ad ammirarne la perfezione organizzativa, ma non vorremmo certo viverci.

Però il rifiuto dello schiavismo, e gli attacchi dei "bandeirantes", cacciatori di schiavi, avevano portato alla costituzione di una milizia popolare, che si era valorosamente scontrata con schiavisti e colonialisti. Sino a che, a poco a poco, visti come sobillatori e pericolosi nemici dello Stato, nel XVIII secolo i gesuiti erano stati prima banditi da Spagna e Portogallo e poi soppressi, e con loro finiva il "sacro esperimento".

Contro questo governo teocratico si erano scagliati molti illuministi, parlando del regime più mostruoso e tirannico mai visto al mondo; ma altri parlavano però di «comunismo volontario ad alta ispirazione religiosa» (Muratori), dicevano che la Compagnia aveva iniziato a guarire la piaga dello schiavismo (Montesquieu), Mably comparava le riduzioni al governo di Licurgo e più tardi Paul Lafargue avrebbe parlato del «primo stato socialista di tutti i secoli».

Ora quando si propone di leggere le azioni di Papa Bergoglio in questa prospettiva si deve tener conto del fatto che sono passati da allora quattro secoli, che la nozione di libertà democratica è ormai comune persino agli integralisti cattolici, che certamente Bergoglio non si propone di andare a compiere né sacri né laici esperimenti a Lampedusa, e grasso che cola se riuscirà a liquidare lo Ior. Ma non è male vedere ogni tanto, su quanto accade oggi, il baluginio della Storia.

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« Risposta #161 inserito:: Agosto 24, 2013, 04:26:17 pm »

Opinione

Il Cavaliere, il mugnaio, l'Italia

di Umberto Eco


"C'è un giudice a Berlino" è un vecchio modo di dire nato dalla vicenda di un poveraccio, in Germania, rimasto senza mulino ma che alla fine ebbe giustizia. Ora possiamo dire, con orgoglio, che c'è un giudice anche a Roma

(12 agosto 2013)

Ci deve pur essere un giudice a Berlino' è espressione che, anche quando se ne ignora l'origine, molti usano per dire che ci deve essere una giustizia da qualche parte. Il detto è così diffuso che l'aveva citato anche Berlusconi (noto estimatore delle magistrature), quando nel gennaio 2011 aveva visitato la signora Merkel con la curiosa idea di interessarla ai suoi guai giudiziari. La signora Merkel (con un tratto di humour che una volta avremmo definito all'inglese - ma anche i popoli si evolvono) gli aveva fatto osservare che i giudici ai quali lui pensava non erano a Berlino ma a Karlsruhe, nella Corte Costituzionale, e a Lipsia nella Corte di Giustizia. Non potendo girare per tutte le città tedesche a cercare soddisfazione, Berlusconi se n'era tornato a casa coi pifferi di Hamelin nel sacco, ma aveva continuato a ignorare che, senza fare dispendiosi viaggi all'estero, si sarebbero potuti trovare giudici corretti (e non corruttibili) anche a Roma.

Come nasca e come si diffonda la storia del giudice a Berlino è faccenda complessa. Se andate su Internet vedrete che tutti i siti attribuiscono la frase a Brecht, ma nessuno dice da quale opera. Comunque la cosa è irrilevante perché in tal caso Brecht avrebbe semplicemente citato una vecchia vicenda. I bambini tedeschi hanno sempre trovato l'aneddoto nei loro libri di lettura, della faccenda si erano occupati vari scrittori sin dal Settecento e nel 1958 Peter Hacks aveva scritto un dramma ("Der Müller von Sanssouci"), di ispirazione marxista, dicendo che era stato ispirato da Brecht, ma senza precisare in qual modo.

Se proprio volete avere un resoconto di quel celebre processo, che non è per nulla leggenda, come molti siti di Internet, mendaci per natura, dicono, dovreste ricuperare un vetusto libro di Emilio Broglio, "Il Regno di Federico di Prussia, detto il Grande", Roma, 1880, con tutti i gradi di giudizio seguiti per filo e per segno. Riassumendo, non lontano dal celebre castello di Sanssouci a Potsdam, il mugnaio Arnold non può più pagare le tasse al conte di Schmettau perché il barone von Gersdof aveva deviato certe acque per interessi suoi e il mulino di Arnold non poteva più funzionare. Schmettau trascina Arnold davanti a un giudice locale, che condanna il mugnaio a perdere il mulino. Ma Arnold non si rassegna e riesce a portare la sua questione sino al tribunale di Berlino. Qui all'inizio alcuni giudici si pronunciano ancora contro di lui ma alla fine Federico il Grande, esaminando gli atti e vedendo che il poveretto era vittima di una palese ingiustizia, non solo lo reintegra nei suoi diritti ma manda in fortezza per un anno i giudici felloni. Non è proprio un apologo sulla separazione dei poteri, diventa una leggenda sul senso di equità di un despota illuminato, ma il "ci sarà pure un giudice a Berlino" è rimasto da allora come espressione di speranza nell'imparzialità della giustizia.

Che cosa è successo in Italia? Dei giudici di Cassazione, che nessuno riusciva ad ascrivere a un gruppo politico e di cui si diceva che molti fossero addirittura simpatizzanti per un'area Pdl, sapevano che qualsiasi cosa avessero deciso sarebbero stati crocifissi o come incalliti comunisti o come berlusconiani corrotti, in un momento in cui (si badi) persino la metà del Pd auspicava una soluzione assolutoria per non mettere in crisi il governo. Ma, lavorando solo su elementi di diritto e giurisprudenza, indipendentemente dai loro desideri o passioni, e ignorando ogni pressione politica, i giudici hanno scelto di attenersi alla legge, riconoscendo che la sentenza della corte d'appello di Milano non poteva essere annullata (e i particolari sulla durata dell'interdizione erano solo un contentino). Il mugnaio avrebbe detto "Ci sono dunque ancora dei giudici a Berlino". E che ci siano anche a Roma dovrebbe accenderci d'orgoglio. Eppure la cosa ci sconvolge a tal punto che parliamo di tutto meno che di questo. Tra i tanti sciacallaggi politici non riusciamo ad accettare l'idea che al mondo ci siano ancora delle persone per bene.


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« Risposta #162 inserito:: Agosto 31, 2013, 08:21:02 am »

Opinione

Marina leader? Non stupirebbe

di Umberto Eco

Non sarebbe la prima volta di un passaggio dinastico in politica: si pensi ai Bush in America, ma anche ai Le Pen in Francia. Però qui avrebbe un connotato diverso. Originato da una stortura iniziata nel 1994

(26 agosto 2013)

Mentre scrivo (ma va a sapere, e mi scuso se nel frattempo qualcuno non abbia cambiato idea, come ormai accade quotidianamente) Marina Berlusconi ha decisamente affermato che non intende accettare l'eredità politica del padre, e che ritiene più saggio continuare a fare l'imprenditrice, probabilmente rifacendosi al popolare proverbio milanese "ofelé fa el to mesté", che suggerisce al pasticcere di fare quello che sa fare bene e non il pasticcione.

Ma, esclusa Marina, niente vieta che Berlusconi possa cercare un altro membro della famiglia per perpetuare la dinastia, e ne ha a bizzeffe, tra figli e figlie, e probabilmente cugini, tanto che quest'uomo che una ne fa e cento ne pensa potrebbe persino concepire una discesa in campo di Veronica Lario, visto che ogni Perón può avere la sua Evita. Ma se la signora Lario non ci stesse, perché non pensare a un erede adottivo, per esempio la Minetti, Ruby o altra olgettina?

Inutile obiettare che in democrazia non ci sono dinastie e questo accade solo coi monarchi, accadeva con gli imperatori romani, quando non entravano in scena i pretoriani a cambiare le carte in tavola, e accade coi despoti coreani. No, accade anche in democrazia, vedi il passaggio dei poteri tra Le Pen padre e figlia. A voler insistere si potrebbe parlare della dinastia dei Kennedy (dove il passaggio dei poteri è stato impedito da una mano assassina che ha eliminato Bob), è accaduto con i due Bush, e non sarebbe impossibile che accadesse con la signora Clinton.

E' vero che in America un presidente non può passare il potere a fratelli mogli o figli di propria iniziativa, ma deve aspettare che un voto popolare sancisca il ritorno di un presidente della stessa famiglia, e comunque il potere non viene trasferito a staffetta, ma devono passare alcuni anni. Tuttavia è indubbio che in questi ritorni di un cognome nella vita politica gioca un senso della dinastia, una credenza profonda che buon sangue non menta.

Nel caso di un passaggio di consegne da un Berlusconi all'altro però gioca qualcosa di più del senso dinastico e del richiamo ai valori del sangue. Berlusconi giudica lecito e quasi normale che il potere possa passare a un proprio discendente perché ha un senso padronale del partito politico. Pensa che la legato sia trasferibile perché il capitale è suo, e si comporta come i grandi capitani d'industria, per cui l'azienda era bene di famiglia e doveva passare ai discendenti per asse ereditario. Si veda il caso esemplare degli Agnelli: il nonno Giovanni passa il potere al nipote Gianni (con Valletta che fa da Mazzarino sino a che l'erede non abbia l'età giusta) e alla morte di Gianni, in mancanza di altri Agnelli, diventa presidente un nipote di altro nome ma dello stesso sangue. Ricorderete il grande possidente americano che (in vari film) mostra al rampollo una enorme distesa di praterie e di mandrie dicendo «figlio mio, tutto questo un giorno sarà tuo».

Ma è normale che un partito sia un bene di famiglia come una industria di profilati metallici o di biscottini? A parte che idee del genere non avevano mai attraversato neppure il capo di Mussolini (eppure il partito era davvero cosa sua, tanto che, scomparso lui, si è dissolto), ma vi riuscite a immaginare un De Gasperi che pensasse di trasferire la Democrazia Cristiana a Maria Romana, un Craxi che lasciasse il Partito Socialista in eredità a Bobo o a Stefania, un Berlinguer che delegasse per diritto quasi divino la direzione del Pci a Bianca, e via dicendo? No, perché il partito non lo avevano creato loro, non lo finanziavano loro, dovevano rendere conto ai vari comitati che li avevano eletti, e pertanto del partito non potevano avere una concezione patrimoniale.

Decidere di passare il potere a un discendente significa sapere che il partito è stato creato dal Capo, che non può sopravvivere senza il nome del Capo, che è finanziato dal Capo, e che gli altri membri del partito non solo gli elettori del Capo bensì i suoi dipendenti. In ogni partito di proprietà privata ogni Pescecane ha diritto al proprio Delfino.

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« Risposta #163 inserito:: Settembre 20, 2013, 05:03:43 pm »

Bustina

Se prendi la multa, accusa il vigile

di Umberto Eco

Sicuramente era invidioso della tua Bmw, per questo ti ha fatto la contravvenzione. Anche se avevi lasciato l'auto in terza fila e bloccavi il traffico. Questo è il ribaltamento a cui assistiamo in Italia. Mica da oggi: da vent'anni

(16 settembre 2013)

Qualcosa del genere lo avevo scritto in una Bustina del 1995, ma non è colpa mia se a distanza di diciotto anni le cose vanno nello stesso modo, almeno in questo paese. D'altra parte in un'altra Bustina avevo scritto di quando "Repubblica", per festeggiare il suo ventennale, aveva inserito nel numero di vent'anni dopo la copia anastatica del numero di vent'anni prima. Io avevo scambiato distrattamente il secondo per il primo, l'avevo letto con grande interesse e solo alla fine, vedendo che si davano solo i programmi di due canali televisivi, mi ero insospettito. Ma per il resto le notizie di vent'anni prima erano le stesse che mi sarei aspettato vent'anni dopo, e non per colpa di "Repubblica" ma dell'Italia.

Così nel 1995 mi lamentavo di un curioso andazzo di alcuni giornali che parteggiavano per alcuni illustri accusati ma che, invece di sforzarsi di dimostrarne l'innocenza, pubblicavano articoli ambigui e allusivi, quando non deliberatamente accusatori, intesi a delegittimare i giudici.

Ora, si noti, dimostrare che in un processo l'accusa è prevenuta o sleale, in sé sarebbe una bella dimostrazione di democrazia, e fosse stato possibile fare così in tanti processi messi in scena da dittature di vario colore. Ma questo si deve fare in situazioni eccezionali. Una società in cui, sempre e a priori, non solo l'accusa, ma anche il collegio giudicante siano sistematicamente delegittimati, è una società in cui qualcosa non funziona. O non funziona la giustizia o non funzionano i collegi di difesa.
Eppure questo è ciò a cui stiamo assistendo da qualche tempo. La prima mossa dell'inquisito non è di provare che le prove di accusa sono inconsistenti, ma di mostrare all'opinione pubblica che l'accusa non è immune da sospetti. Se l'inquisito riesce in questa operazione, l'andamento del processo è secondario. Perché chi decide, in processi ripresi alla televisione, è l'opinione pubblica, che sfiducia l'inquirente e tende a convincere ogni giuria che sarebbe impopolare dargli ragione.

Quindi il processo non riguarda più un dibattito tra due parti che presentano prove e controprove: riguarda, e prima ancora del processo, un duello massmediatico tra futuri imputati e futuri procuratori e membri del collegio giudicante, a cui l'inquisito contesta il diritto di giudicarlo.

Se riesci a dimostrare che il tuo accusatore è un adultero, ha commesso peccati, leggerezze o crimini - anche se nulla hanno a che fare con il processo - hai già vinto. E non è necessario dimostrare che il giudice abbia commesso un delitto. Basta (ed è storia) averlo fotografato mentre getta una cicca per terra (cosa che ovviamente non avrebbe dovuto fare, neppure in un momento di distrazione) ma che dico, che (come è accaduto) gira con improbabili calzini celesti, e subito il giudicante diventa giudicabile, perché si insinua che sia essere bizzarro e inaffidabile, affetto da tare che lo rendono inadatto alla sua funzione.
A quanto pare questo modo di fare, visto che vi si insiste da almeno vent'anni, funziona. E d'altra parte queste insinuazioni solleticano i peggiori istinti della persona media che, se è multata per aver parcheggiato in terza posizione, si lamenta dicendo che quel vigile non era normale, che nutriva sentimenti d'invidia verso chi aveva una Bmw, come accade di solito ai comunisti. In qualsiasi inchiesta tutti si sentono il K di Kafka, innocente di fronte una giustizia insondabilmente paranoica.

Dunque, dicevo già diciott'anni fa, ricordate, la prossima volta che vi coglieranno con le mani nel sacco, nell'istante in cui date una mazzetta al poliziotto che vi ha sorpreso mentre spaccavate il cranio di vostra nonna a colpi di scure, non preoccupatevi di lavare le tracce di sangue, o di dimostrare che a quell'ora eravate altrove, a colloquio con un cardinale.

Basta che dimostriate che chi vi ha sorpreso con le mani nel sacco (o sulla scure), dieci anni fa non ha dichiarato al fisco un panettone natalizio ricevuto in regalo da una qualche azienda (e meglio se all'amministratore delegato dell'azienda donante è sospettabile di essere stato legato un tempo da affettuosa amicizia).

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« Risposta #164 inserito:: Settembre 28, 2013, 04:31:43 pm »

Opinioni

Guardarsi in faccia al festival

di Umberto Eco

Ci si interroga sul successo dei raduni letterari e filosofici. Anche se non è un fenomeno nuovo. Molti giovani sono stanchi della superficialità che dilaga. E poi la socializzazione virtuale mostra tutti i suoi limiti

(20 settembre 2013)

Festival di Mantova Festival di MantovaIn questo scorcio d'autunno proliferano i festival letterari-filosofici. Ogni città, pare, vuole avere il proprio, emulando le fortune originarie del festival di Mantova; ogni città cerca di avere le menti migliori esistenti sul mercato; in alcuni casi alcune menti migrano da festival a festival, ma in ogni caso il livello dei partecipanti è piuttosto alto. Ora quello che sta eccitando giornali e riviste non è tanto il fatto che questi festival siano organizzati, perché potrebbe trattarsi della pia illusione di qualche assessore alla Cultura, ma che attraggano folle quasi da stadio, in gran parte giovani che arrivano da altre città e spendono uno o due giorni per ascoltare scrittori e pensatori. E in più a gestire questi eventi concorrono squadre di volontari (anche qui giovani) che vi si dedicano come un tempo i loro padri andavano a disseppellire dal fango i libri dopo l'alluvione di Firenze.

Quindi mi pare superficiale e stolta la riflessione di alcuni moralisti che prendono sul serio l'interesse alla cultura solo quando è praticato da un esiguo numero di loro simile, e vedono in questi eventi un esempio di McDonald's del pensiero. Il fenomeno è invece degno di interesse e bisogna chiedersi perché i giovani vadano lì invece che in discoteca; e non si dice che è la stessa cosa, perché non ho ancora udito di auto piene di ragazzi in ecstasy che si schiantano alle due di notte tornando da un Festival della Mente.

Vorrei solo ricordare che il fenomeno, anche se è negli ultimi anni che è esploso in misura massiccia, non è nuovo, perché è dagli inizi degli anni Ottanta che la biblioteca comunale di Cattolica aveva iniziato a organizzare serate (a pagamento!) su "Che cosa fanno oggi i filosofi", e il pubblico arrivava anche in pullman da un raggio di almeno cento chilometri. E già allora qualcuno si era domandato che cosa stesse succedendo.
Né credo che si possa assimilare la faccenda al fiorire di bistrot filosofici intorno a Place de la Bastille a Parigi, dove alla domenica mattina, mentre si sorseggia un Pernod, si fa della filosofia spicciola e terapeutica, una sorta di psicoanalisi meno costosa. No, in questi raduni il pubblico ascolta per ore dei discorsi da aula universitaria. Ci va, ci sta, ci torna.

E allora rimangono solo due ordini di risposte. Di uno si era già parlato sin dai primi raduni di Cattolica: una percentuale di giovani è stanca di proposte d'intrattenimento leggero, di recensioni giornalistiche ridotte (salvo pochi casi eccellenti) a finestrelle e stelloncini di una decina di righe, di televisioni che, quando parlano di un libro, lo fanno solo dopo la mezzanotte. E dunque danno il benvenuto a offerte più impegnative. Si parla per i pubblici dei festival di centinaia e talora di migliaia di partecipanti e certo sono una percentuale assai bassa risetto alla maggioranza generazionale, corrispondono a quelli che frequentano le librerie a più piani, sono certamente un'élite; ma sono un'élite di massa, vale a dire quel che può essere un'élite in un mondo da 7 miliardi di abitanti. E' il minimo che una società può chiedere al rapporto tra autodiretti ed eterodiretti, non si può averne statisticamente di più, ma guai se questi non ci fossero.

La seconda ragione è che questi raduni culturali denunciano l'insufficienza dei nuovi modi di socializzazione virtuale. Puoi avere migliaia di contatti su Facebook ma alla fine, se non sei completamente drogato, ti accorgi che non sei davvero in contatto con esseri in carne e ossa, e cerchi allora occasioni per stare insieme e condividere esperienze con gente che la pensa come te. E' come raccomandava Woody Allen non ricordo dove: se vuoi trovare delle ragazze devi andare ai concerti di musica classica. Non a quelli rock, dove urli verso il palco ma non sai chi ti sta accanto, ma a quelli sinfonici o da camera, dove nell'intervallo intrecci qualche contatto. Non sto dicendo che si vada ai festival per trovare un partner, ma certamente lo si fa per guardarsi in faccia.

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