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Autore Discussione: UMBERTO ECO.  (Letto 132934 volte)
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« Risposta #135 inserito:: Ottobre 06, 2012, 11:45:13 am »

Opinioni

Selvaggia contro Sciuellen

di Umberto Eco


L'immaginario si costruisce sui miti o su alcune visioni del sacro. Ma anche su quel mondo comune che la televisione ci propone ogni giorno.
Per questo Samanta è un nome "reale". Più di altri solo snob come Oceano o Azzurra

(27 settembre 2012)

Credo di avere scritto in qualche vecchia Bustina che uno dei miei desideri è mettere fine a questa rubrica, dove ogni quindici giorni devo trovare un argomento che finga di essere "attuale", anche se rileggo Pindaro, per tenere una rubrica di Recensioni in Ritardo, parlando cioè di libri magari dimenticati ma che ritengo "attuale" rileggere. Potrebbero essere libri di secoli fa, ma vorrei anche parlare di libri contemporanei che tuttavia io ho letto in ritardo, perché non si può sempre essere aggiornati.

Ho letto in ritardo un libro apparso in Francia nel 2003 e tradotto nel 2008 dal Melangolo: "L'immaginario" di Jean-Jacques Wunenburger. Dire che cosa sia l'immaginario è difficile ma proviamo, sulla scorta di questo libro, ad accennare a una possibile teoria. L'immaginario non appartiene alle costruzioni della ragione come la logica, la matematica o le scienze naturali, ma a una serie di rappresentazioni "immaginate" che possono andare dai miti alle idee che circolano in una cultura e a cui tutti si conformano, anche se sono fantastiche, erronee o scientificamente indimostrabili. Si può parlare di immaginario per i miti, per cui Ulisse è qualcosa che domina il nostro modo di pensare, o per alcune visioni del sacro, narrazioni che si insinuano nel nostro vissuto, per cui alla fine Pinocchio diventa più reale (che so?) di Metternich, e ci atteniamo nella vita quotidiana più alla sua lezione che a quella di Darwin.

FANNO PARTE DELL'IMMAGINARIO collettivo Gulliver, Madame Bovary, o il Werther da cui tanti giovani nell'Ottocento hanno tratto esempio per il loro suicidio - ma per Wunenburger c'è anche un immaginario gnostico, alchemico o occultistico. Ci sono delle "narrazioni" che formano e dirigono il nostro modo di vivere anche se non sono sostenibili in modo razionale.

La cosa più interessante di questo libro è che alla fine tenta di ricostruire le strutture fondamentali dell'immaginario televisivo. Certamente la televisione ci affascina con delle immagini del mondo, alcune delle quali presumibilmente reali (come accade per i reportage), altre riconosciutamente fittizie, ma che i televedenti ormai assumono come parte del loro mondo: Wunenburger parla in proposito di una sorta di rappresentazione vissuta come di una manifestazione laica e desacralizzata del Sacro, dove «non occorre più credere nella presenza di ciò che è al di là della rappresentazione, dal momento che la rappresentazione si fa essa stessa simulacro della presenza». In altri termini (interpreto) per l'utente della tv è più reale la caduta delle Twin Towers o lo tsunami cosmico di un "disaster movie"? «Mentre la funzione dell'immagine religiosa consiste nel mettere in contatto con un dio assente, l'immagine televisiva si pone come una manifestazione ultima», e i suoi eroi e le sue gesta si trasformano in una sorta di mondo comune dell'immaginario collettivo. D'altra parte tempo fa un'inchiesta aveva confermato che gran parte degli utenti tv non sapevano più chi, tra Churchill e Sherlock Holmes, fosse esistito davvero.

VORREI AFFRONTARE IL PROBLEMA da un lato del tutto secondario. Una volta i parroci si rifiutavano di battezzare chi non portasse il nome di un santo del calendario, e per chiamare i figli Libertà o Lenino, come avveniva nelle Romagne, bisognava astenersi dal battesimo. Da decenni invece vediamo nella piccola e media borghesia fanciulle che si chiamano Jessica o Gessica, Samantha o Samanta, Rebecca, o addirittura Sue Ellen - o, come è accaduta una volta, Sciuellen. Questo non c'entra con l'idea di chiamare i figli con nomi raffinati (come Selvaggia, Azzurra o addirittura Oceano) che è tipica degli aristocratici, degli abbienti o degli snob. Le classi medie non oserebbero mai impiegare nomi così eccezionali. Jessica, Sue Ellen o Samanta sono invece nomi "reali", suggeriti appunto dall'immaginario televisivo. Sono più veri dei nomi delle sante, troppo lontane da noi, sono nomi dei miti che costituiscono l'immaginario moderno.

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http://espresso.repubblica.it/dettaglio/selvaggia-contro-sciuellen/2191904/18
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« Risposta #136 inserito:: Ottobre 22, 2012, 04:44:25 pm »

L’orgoglio perduto di Milano


Non solo la politica milanese si trova compromessa con la 'ndrangheta ma addirittura ormai appare che non è la politica a usare la 'ndrangheta bensì la 'ndrangheta a usare la politica, che prende ordini dai suoi sgherri, piange e si umilia di fronte alle loro minacce.
Come se ne esce, come purificare una città in cui il potere criminale è "imprendibile"?

di Umberto Eco, da Repubblica

Sono arrivato a Milano nell'autunno del 1954, conquistato dalla possibilità di andare a teatro quasi ogni sera, e siccome eravamo giovani funzionari televisivi, gli attori e i registi che venivano in Studio 1 ci trovavano sempre i biglietti omaggio. Le
Starlette di allora, annunciatrici, presentatrici, comparse, venivano dopo lo spettacolo con noi, giovanotti squattrinati, e andavamo a ballare al Santa Tecla.

Quelle tra loro che avevano bisogno di denaro facevano, accollatissime, i fotoromanzi o, in camicetta e jeans, apparivano sui muri della città mentre spalmavano il Ducotone. La peccatrice ufficiale del Santa Tecla andava vestita di nero, col trucco chiaro di luna, e si faceva chiamare Olivia l'esistenzialista. Hanno poi sposato tutte impiegati, garagisti, venditori di aspirapolvere.

Andavamo molto al cinema e vedevamo storie che si svolgevano in Sudamerica, dove il criminale passava la frontiera mettendo un biglietto da cinquanta dollari nel passaporto, l'agente incassava e lasciava passare. In quei luoghi regnava, apprendevamo, la corruzione generalizzata.

Beati noi che vivevamo in una città civile, capitale morale d'Italia, dove la criminalità era prevedibile e localizzata, un matto che uccideva a martellate la moglie e i figli dell'amante, poi verso gli anni Sessanta rapinatori quasi professionisti che emulavano i film di gangster, ma alla fine si facevano prendere, come Cavallero; e per il resto piccola malavita da Porta Romana bella, roba da commissario Nardone. Salivano a Milano migliaia di meridionali, e i Cipputi di allora gli dicevano «Tas ti, brütt terun!», ma giocando insieme a scopone all'osteria, e gli offrivano da bere.

Di quel che accadeva al Sud si sapeva poco, e si guardava a Roma come a una sentina di vizi, coi deputati democristiani che i disegnatori comunisti rappresentavano come "forchettoni", e le follie della dolce vita. Ma il mondo dell'imprenditoria milanese viveva corazzato nelle proprie impenetrabili fortezze, i banchieri si chiamavano Cuccia o addirittura Leo Valiani, o Mattioli che a quanto mi risulta non aveva una barca ma finanziava i classici della letteratura italiana delle edizioni Ricciardi.
Gli artisti passavano le sere al bar Giamaica, e mangiavano per pochi soldi alla table d'hôte delle sorelle Pirovini, gli scrittori conducevano vita morigerata come Montale chiuso in un ufficetto del Corriere della Sera.

In televisione apparivano le prime ballerine in calze nere, ma negli studi di Corso Sempione si allestivano per i programmi di prima serata Shakespeare, Pirandello o, al peggio, Rosso di San Secondo; il giovedì sera i cinematografi sospendevano la proiezione, mettevano un televisore sotto lo schermo, e tutti seguivano con orgasmo massmediatico "Lascia o raddoppia?"; la satira politica era sommessa, ma Tognazzi e Vianello avevano osato imitare il presidente Gronchi che era caduto da una sedia alla Scala (Tognazzi cadeva e Vianello gli chiedeva: «Ma chi ti credi di essere?»). Era scoppiato uno scandalo nazionale, ma insomma. Andava in onda "Tribuna Politica", dove giornalisti e parlamentari parlavano uno alla volta.

Ogni sera si poteva trovare un dibattito o alla Casa della Cultura, o al Circolo Turati o, poi, a quello di Via De Amicis, ma anche dai gesuiti del San Fedele. Dal centro di fonologia musicale di Corso Sempione si diffondevano le nuove esperienze di musica elettronica e, sia pure tra qualche fischio, alla Scala apparivano Schoenberg, Webern e poi Luciano Berio.

Era Milano centro di cultura, sede delle grandi case editrici, ombelico del mondo produttivo. Era una città bianca che non prendeva ordini neppure dal Vaticano e faceva il carnevale in una data tutta sua, ma poteva mandare al governo della città i socialisti storici.

Milano ha cominciato a mutare volto col Sessantotto, e poi con la città che si svuotava a sera nel periodo del terrorismo, ma questo non metteva in questione la tenuta dei partiti e dello Stato. E la vita era ripresa negli anni Ottanta con qualche cedimento a un "edonismo reaganiano" e con quella che solo dopo sarebbe stata chiamata la "Milano da bere".

All'inizio degli anni Novanta si era scoperto che nella capitale morale si era sviluppata una politica fatta di bustarelle e tangenti, ma anche allora si pensava che i corrotti - e in grandissima parte era vero - praticassero la corruzione non per arricchire se stessi bensì per foraggiare la propria parte politica.

Il male però si era diffuso e si è avvertito in quei decenni un calo dell'attività culturale, nel senso che scomparivano i centri di discussione e di dibattito. Milano sonnecchiava. Ricordo che durante l'amministrazione leghista di Formentini si era tentato un rilancio della gloriosa Triennale (uno dei vanti della città), ma da una riunione a cui aveva partecipato tutto il mondo culturale milanese erano rimasti assenti e il sindaco e l'assessore alla cultura (anche se bisogna ammettere che il rilancio della Triennale è poi avvenuto a opera delle successive amministrazioni di centro destra).

Eppure l'idea di una Milano come sorgente di innovazione aveva convinto molte persone rispettabili che persino la discesa in campo di Berlusconi fosse un tentativo di introdurre nell'agone politico, agonizzante dopo Mani Pulite, il mondo sano dell'imprenditoria. Illusione durata pochissimo, ma anche questa illusione aveva testimoniato del mito di una Milano sana contro la capitale corrotta che infettava la nazione.
Anche i più ingenui si sono poi accorti che una nuova forza che si basava sul conflitto d'interessi, e quindi sulla difesa dell'interesse privato, non poteva essere che fonte di successiva corruzione - e i meno ingenui hanno avvertito che si apriva per loro l'epoca di una Italia da bere.

Così è accaduto quello a cui stiamo assistendo, scandalo dopo scandalo, con la scoperta che Milano era sorella di Roma nell'introdurre nel gioco uomini che si davano alla politica nel solo intento di arricchirsi personalmente. Ma ancora lì, per molto, si pensava che Milano non fosse tuttavia Palermo, era forse diventata una città di disonesti ma non di mafiosi.
Ed ora eccoci al rendimento dei conti: non solo la politica milanese si trova compromessa con la 'ndrangheta ma addirittura ormai appare che non è la politica a usare la 'ndrangheta bensì la 'ndrangheta a usare la politica, che prende ordini dai suoi sgherri, piange e si umilia di fronte alle loro minacce, ha creduto di emulare politici romani che sapevano sfruttare la mafia, ma di quelli non avevano l'astuzia e il pelo sullo stomaco. Milano che non voleva prendere ordini da Roma ladrona e disprezzava il meridione, si è ridotta a prendere ordini dal peggio del profondo Sud.

Come se ne esce, come purificare una città in cui il potere criminale, quasi indistinguibile da certe frange del potere politico, è imprendibile, non facilmente identificabile e nessun commissario Nardone è in grado di spezzare una orrenda catena di complicità? Siamo entrati nella fase sudamericana della Lombardia di Berchet, Cattaneo, Manzoni? E ci rendiamo conto che tutto questo produrrà disaffezione per la politica, astensionismo e quindi dittatura di coloro che l'hanno provocato?
Una delle domande che circolano in questi giorni è: "Che cosa possono fare gli onesti?". Dico subito che la nozione di "onesti" mi pare inapplicabile, visto che i ladri non hanno più il ghigno riconoscibile di Cavallero ma siedono accanto a noi al ristorante, vestiti da persone per bene. Di qui il senso di disorientamento che coglie moltissimi. Non è come in quei casi di rapina, stupro, malavita notturna che puoi (sia pure per decisione criticabilissima) costituire pattuglie di vigilantes. Non sai dove colpire e da chi guardarti.

Non credo si possano costituire gruppi di cittadini obbedienti alle leggi che in qualche modo, con attività culturali, appelli morali, nuovi impegni politici, possano fare un proselitismo che quasi suona a ideale deamicisiano. Viene da pensare a quel romanzo ingiustamente dimenticato di Giovanni Mosca, "La lega degli onesti", dove alla fine i presunti onesti, definendosi come tali, diventano peggio dei disonesti.

Sto pensando - come ultima spiaggia - a una serie di reazioni individuali, al richiamo certamente moralistico a una vita proba e riservata. Non sappiamo ormai chi siano gli onesti, che vediamo persino andare a messa, ma ciascuno può sapere con certezza se paga le tasse, non ha mai dato o ricevuto bustarelle, e fa il suo mestiere come si deve. E allora bisogna essere astuti come colombe, vivere una vita più ritirata e isolare in qualche modo coloro di cui sospettiamo.
Ci invitano a una cena che si annuncia fastosa? Ci propongono una vacanza in barca? Non ci si va. Notiamo facce nuove nel circolo che frequentavamo? Si danno le dimissioni. Ci invitano all'inaugurazione di un ente benefico? Se proprio non siamo sicuri di che si tratti, ci si defila. Non c'è niente di male se qualcuno si concede una dozzina di ostriche, ma è sospetto che le offra anche a noi e a molti altri, gratis. Riduciamo le nostre frequentazioni, stabiliamo - se tutti parteciperanno a questo richiamo ascetico - una sorta di mobbing nei confronti di tutti coloro che ci paiono spendere con troppa disinvoltura o cambiano macchina con troppa frequenza, anche se il nostro sospetto può essere ingiusto.

Secondo Wikipedia il mobbing è "un insieme di comportamenti violenti (abusi psicologici, angherie, vessazioni, dimensionamento, emarginazione, umiliazioni, maldicenze, ostracizzazione, etc.) perpetrati da parte di uno o più individui nei confronti di un altro individuo, prolungato nel tempo e lesivo della dignità personale e professionale nonché della salute psicofisica dello stesso". Troppo. Si può esercitare il mobbing senza mettere in opera comportamenti violenti, abusi psicologici o maldicenze: basta attuare forme di emarginazione.

Fare mobbing si può ridurre a dire "io con te non ci parlo", e lo si può dire anche stando zitti. Si potrebbe arrivare, a lungo andare, alla manifestazione evidente del comportamento di una parte della popolazione che non accetta più certe frequenze, che si sottrae con noncuranza all'interessamento spesso affettuoso di chi ci vorrebbe a copertura della propria vita pubblica e privata. Fare il deserto intorno ad alcuni.
E attenersi in ogni circostanza al detto aureo che mi comunicava mio padre: «Se qualcuno vuole darmi qualcosa che non mi pare aver meritato, tanto per cominciare io chiamo i carabinieri».

(18 ottobre 2012)

da - http://temi.repubblica.it/micromega-online/lorgoglio-perduto-di-milano/
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« Risposta #137 inserito:: Ottobre 26, 2012, 09:38:34 am »


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Quello che non si deve fare

di Umberto Eco

Se qualcuno esprime un parere insultante sulla vostra opera letteraria o artistica, non ricorrete a vie legali. Meglio lasciar perdere e aspettare che il successo smentisca il nemico. Se poi il critico era in concorrenza...

(11 ottobre 2012)

Ogni tanto mi accade di vedere che alcuni miei contemporanei fanno cose che io non farei. Sarà che non hanno accumulato abbastanza esperienze.
E allora mi permetto di seminare alcuni grani di saggezza dall'alto (o dal basso) della mia canizie. Se qualcuno esprime un parere insultante sulla vostra opera letteraria o artistica, non ricorrete a vie legali, anche se per caso le espressioni del vostro nemico avessero superato il limite (talora esilissimo) che può intercorrere tra giudizio critico spietato e insulto.

Nel 1958 Beniamino Dal Fabbro, critico musicale grintoso e assai polemico, in un articolo su "Il Giorno" aveva fatto a pezzi una esecuzione della Callas, diva che lui non amava. Non ricordo esattamente cosa ne avesse scritto, ma ricordo l'epigramma che quell'amabile e sarcastico personaggio faceva circolare tra gli amici del bar Giamaica a Brera: «La cantante d'Epidauro - meritava un pomidauro». La Callas, caratterino per conto suo, infuriata gli aveva dato causa. Ricordo il racconto che Dal Fabbro ne faceva al Giamaica: il giorno che al processo doveva parlare il suo avvocato, si era presentato tutto vestito di nero per permettere al difensore di indicare quella figura di severo e incorruttibile studioso; ma il giorno in cui doveva parlare l'avvocato della Callas (che forse avrebbe usato, diceva Dal Fabbro, alcune maligne dicerie che lo dipingevano come iettatore), si era presentato con un arioso completo di lino bianco e panama color paglierino.

NATURALMENTE LA CORTE aveva assolto Dal Fabbro riconoscendo il suo diritto alla critica. Ma il lato comico della faccenda era stato che il grande pubblico, che seguiva la polemica sulla stampa, ma aveva idee confuse circa giurisprudenza e diritto costituzionale alla libera espressione dei propri convincimenti, aveva inteso il giudizio della corte non come un riconoscimento della libertà del critico, ma come un riconoscimento di quanto aveva detto, e cioè che la Callas cantava male. E quindi la Callas era uscita dalla vicenda con una (ingiusta) patente di pessima cantante firmata da un tribunale della nostra repubblica. Ecco quindi provata l'inopportunità di trascinare in giudizio chi ha detto peste e corna di noi. Con ogni probabilità una corte riconoscerà il suo diritto di dirlo, ma agli occhi della rozza folla e delle masse indotte sarà stato provato da giudici togati che noi meritavamo e peste e corna. Il che sarebbe corollario ai due antichi principi per cui una smentita è una notizia data due volte e quando ti trovi immerso sino al collo in una materia vischiosa non devi muoverti per non fare l'onda.

E ALLORA CHE FAI CON CHI ti ha insultato? Lasci perdere perché, se ti sei dato alle lettere o alle arti, avrai accettato in anticipo di ricevere anche stroncature e giudizi negativi, sapendo che fa parte del mestiere, e resterai in attesa che milioni di lettori futuri smentiscano l'invido nemico così come la storia ha fatto giustizia di Louis Spohr quando aveva definito la Quinta di Beethoven come «un'orgia di frastuono e di volgarità», di Thomas Bailey Albright, che aveva scritto di Emily Dickinson «l'incoerenza e la mancanza di forma delle sue poesiole - non saprei definirle altrimenti - sono spaventose», o del dirigente della Metro che, dopo un provino di Fred Astaire, aveva commentato «non sa recitare, non sa cantare ed è calvo. Se la cava un po' con la danza».

Che poi qualcuno abbia espresso un giudizio negativo su di te mentre con te era o era stato in lizza per un premio in cui egli non ha vinto, è altrettanto male, almeno sul piano del buon gusto. Uno scrittore noto e di talento, quando sua moglie stava partecipando a un concorso universitario, aveva scritto una severa stroncatura del libro di un suo concorrente. E' vero che anche Caravaggio non era un modello di virtù e Francis Bacon, grandissimo pensatore, era stato condannato per corruzione e privato di ogni carica pubblica; ma lo scrittore di cui dicevo, senza che si disconoscessero le sue virtù letterarie, era stato da molti considerato degno di censura morale.
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da - http://espresso.repubblica.it/dettaglio/quello-che-non-si-deve-fare/2192809/18
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« Risposta #138 inserito:: Novembre 02, 2012, 04:58:14 pm »

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I miracoli di un bugiardino

Umberto Eco

I fogli con le modalità d'uso dei farmaci contengono controindicazioni spaventose.

E va a finire che piuttosto di rischiare effetti collaterali si preferisce tenersi il mal di schiena

(01 novembre 2012)

Per lenire alcuni dolori artrosici il medico mi ha consigliato un farmaco che, onde evitare noiose contestazioni legali, indicherò con un nome di fantasia, Mortacc. Come fa ogni persona sensata, prima di prenderlo ho letto il bugiardino, e cioè quel foglietto accluso che ti dice in quali casi non devi assumerlo (per esempio se ci bevi sopra una bottiglia di vodka, se devi guidare un Tir di notte da Milano a Cefalù, se hai la lebbra e sei incinta di tre gemelli). Ora il mio bugiardino avvisa che prendendo Mortacc si possono avere alcune reazioni allergiche, gonfiore al viso, labbra e gola, capogiri e sonnolenza e (negli anziani) cadute accidentali, offuscamento o perdita della vista, danni alla colonna vertebrale, insufficienza cardiaca e/o renale, riduzione dell'urinazione. Alcuni pazienti hanno manifestato pensieri suicidari e autolesionistici e si raccomanda (immagino, quando il paziente sta tentando di buttarsi dalla finestra) di consultare un medico (io direi i pompieri). Naturalmente Mortacc può causare stipsi, intestino paralizzato, convulsioni e, se preso con altri medicinali, insufficienza respiratoria e coma.

Non parliamo della proibizione assoluta di guidare automobili o manovrare macchinari complessi, e intraprendere attività potenzialmente pericolose (immagino azionare una pressa stando in piedi su una putrella al cinquantesimo piano di un grattacielo). Se poi avete preso Mortacc in dosi superiori a quelle prescritte attendetevi di sentirvi confusi, assonnati, agitati e irrequieti; se ne prendete di meno o sospendete di colpo il trattamento si possono avere disturbi del sonno, mal di testa, nausea, ansia, diarrea, convulsioni, depressione, sudorazione e capogiri.

PIÙ DI UNA PERSONA su dieci avvertiranno aumento dell'appetito, eccitazione, confusione, perdita della libido, irritabilità, disturbi dell'attenzione, goffaggine (sic), compromissione della memoria, tremore, difficoltà nel parlare, sensazione di formicolio, letargia e insonnia (insieme?), spossatezza, offuscamento della vista, visione doppia, vertigini e disturbi dell'equilibrio, bocca secca, vomito, flatulenza, difficoltà nell'erezione, gonfiore del corpo, sensazione di ebbrezza, anomalie nell'andatura.

PIU' DI UNA PERSONA SU MILLE avvertiranno abbassamento degli zuccheri, alterata percezione di sé, depressione, oscillazioni dell'umore, difficoltà nel trovare le parole, perdita di memoria, allucinazioni, sogni alterati, attacchi di panico, apatia, sentirsi strani (sic), incapacità di raggiungere l'orgasmo, ritardo nell'eiaculazione, difficoltà di ideazione, intorpidimento, anomalie nel movimento degli occhi, riflessi ridotti, sensibilità cutanea, perdita del gusto, sensazione di bruciore, tremore durante il movimento, riduzione della coscienza, svenimento, aumento della sensibilità ai rumori, secchezza e gonfiore degli occhi, lacrimazione, disturbi del ritmo cardiaco, bassa pressione, pressione alta, disturbi vasomotori, difficoltà nella respirazione, secchezza nasale, gonfiore addominale, aumento nella produzione di saliva, bruciore gastrico, perdita di sensibilità intorno alla bocca, sudorazione, brividi, contrazioni e crampi muscolari, dolore articolare, mal di schiena, dolore agli arti, incontinenza, difficoltà e dolore nell'urinare, debolezza, cadute, sete, senso di costrizione al torace, alterazione degli esami del sangue e della funzionalità epatica. Per quel che accade a meno di una persona su mille, lascio perdere: impossibile essere così sfigati.

Ho evitato di prendere anche una sola pillola perché ero sicuro che mi sarei subito sentito affetto (come voleva l'immortale Jerome K. Jerome) da ginocchio della lavandaia - anche se il bugiardino non lo registrava. Ho pensato di buttare subito il resto, ma se lo gettavo nella spazzatura rischiavo di indurre mutazioni in colonie di topi con conseguenze epidemiche. Ho chiuso tutto in una scatola di metallo che ho seppellito in un parco a un metro di profondità.
Devo dire che nel frattempo mi sono passati i dolori artrosici.

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da - http://espresso.repubblica.it/dettaglio/i-miracoli-di-un-bugiardino/2193694/18
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« Risposta #139 inserito:: Novembre 19, 2012, 09:09:39 pm »

La bustina

Il vero nemico oggi è la pigrizia

di Umberto Eco


Chi investe nella 'ndrangheta per ottenere voti. Chi ruba e falsifica libri antichi.

Chi ricorre al popolo della rete per farsi fare il compito. Ovvero: si comincia con poco e poi si aumenta la posta. Pur di non lavorare. Perché lavorare stanca

(13 novembre 2012)

Il manifesto elettorale di Domenico Zambetti, l assessore finito in manette per aver comprato voti dalla ndrangheta Il manifesto elettorale di Domenico Zambetti, l'assessore finito in manette per aver comprato voti dalla 'ndrangheta

Investimenti. Siamo stati tutti scandalizzati dal signore che ha versato 200 mila euro alla 'ndrangheta per assicurarsi 4 mila voti. E infatti sono cose che non si fanno. Ma non si è riflettuto abbastanza su altri tre problemi. Primo, dove aveva preso quel signore 200 mila euro? Va bene, saranno stati i suoi sudati risparmi. Secondo, perché per ottenere un posto di consigliere regionale spendeva circa l'equivalente di un anno di stipendio netto? E come avrebbe vissuto il primo anno se i risparmi li aveva già spesi? Forse perché dalla sua nuova posizione poteva ottenere molto di più di 200 mila euro. Il terzo problema è che circolano per Milano 4 mila persone che per 50 euro hanno venduto il loro voto. O erano troppo disperati o troppo furbi. In entrambi i casi è una cosa triste.

DISINVESTIMENTI. Tutti coloro che amano il libro si sono sdegnati per l'attività del signor De Caro, direttore e svaligiatore della biblioteca Girolamini di Napoli, anche perché pare che da anni non solo facesse commercio di libri rubati ma producesse anche abilissime falsificazioni. Se devo dare ascolto a un documentato articolo di Conchita Sannino su "Repubblica" del 2 novembre, molti di questi libri erano stati venduti su eBay, e si menziona una "Cronaca di Norimberga", famoso incunabolo, per 30 mila euro. Ma allora in questa vicenda De Caro non è l'unico colpevole. Qualsiasi lettore di cataloghi (ma basta anche un'esplorazione di 15 minuti su Internet), sa che la "Cronaca" di Schedel si può trovare da un minimo di 75 mila euro a un massimo di 130 mila, a seconda della perfezione della copia. Pertanto una copia da 30 mila o è incompleta o in tali condizioni da essere pietosamente definita dai librai onesti come "copia di studio" (ma allora dovrebbe costare meno di 30 mila euro). Quindi chi ha comperato su eBay una "Cronaca" per quel prezzo non poteva ignorare che stava facendo un incauto acquisto (a essere indulgenti, e a essere severi una ricettazione). Siamo proprio attorniati da mascalzoni, alcuni in vendita a 50 euro, altri con uno sconto del 60 per cento sui prezzi di mercato.

S'INCOMINCIA DA PICCOLI. Leggo con stupefazione su "Yahoo Answers" il seguente appello: «Piccolo aiutinoo! Mi servirebbe il riassunto de "La cosa" di Umberto Eco. Mi potete aiutare?? Grazie mille». Allo stato dei fatti non ci sono risposte. C'è invece una risposta a un'altra richiesta di aiuto per un altro compitino: «L'effetto della tecnologia sui ragazzi Aiutatemi per favore». Risponde tale Luigia: «ahahaahha io direi proprio che la tecnologia ha fatto sì che i ragazzi cerchino risposte facili su social network e canali perché ormai non sono più in grado di formulare un pensiero da soli e vanno alla ricerca di qualcuno che li imbocchi. L'onniscienza del web è diventata la loro grande mamma in grado di viziarli e far loro progressivamente spegnere il cervello... ahahahahah».

Brava Luigia, ragazza di buon senso. Ma torniamo all'episodio, che mi lusinga, per cui un maestro o un professore ha invitato i suoi ragazzi a fare il riassunto di un mio testo. Non credo proprio che lo abbia soltanto nominato invitando i ragazzi ad andarselo a cercare; data la brevità del testo avrà dato una fotocopia. In ogni caso ecco l'atroce verità: quel mio raccontino (pubblicato non vi dico dove, se proprio vi scappa fatevi una ricerchina) conta cinque, dico cinque, pagine. Dunque chi ha lanciato l'appello faceva prima a leggerselo piuttosto che accendere il computer, entrare in linea, scrivere il messaggio e aspettare una risposta. Oppure l'ha letto ma non era in grado di dire che cosa dicesse (e vi assicuro che è un apologo semplicissimo alla portata anche di un cerebroleso).

Credo che si tratti solo di pigrizia. Si comincia col rubare una mela, poi un portafoglio e poi si strangola la propria madre, mi dicevano da piccolo. Si comincia a chiedere agli altri un riassunto, poi si vende il voto per 50 euro, poi si ruba un incunabolo, perché lavorare stanca, come diceva quel tale.

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da - http://espresso.repubblica.it/dettaglio/il-vero-nemico-oggi-e-la-pigrizia/2194544/18
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« Risposta #140 inserito:: Dicembre 07, 2012, 04:30:50 pm »

La bustina

Dov'è andata la morte?

di Umberto Eco

L'evento si consuma lontano, in ospedale. Non seguiamo più il feretro al cimitero. Non vediamo i morti. Se non al cinema. Ma non vivendo l'esperienza saremo più terrorizzati quando il momento si avvicinerà

(29 novembre 2012)

Il "Magazine Littéraire" francese dedica il suo numero di novembre a "Quello che la letteratura sa della morte". Ho letto con interesse i vari articoli, ma sono rimasto deluso dal fatto che, tra tante cose che non sapevo, in fin dei conti mi ripetessero un concetto notissimo: che la letteratura si è sempre occupata, oltre che dell'amore, della morte. Gli articoli del periodico francese parlano della presenza della morte sia nella narrativa del secolo scorso, sia nella letteratura gotica pre-romantica, ma si sarebbe potuto discettare sulla morte di Ettore e sul lutto di Andromaca, o sulle sofferenze dei martiri in tanti testi medievali. Per non dire che la storia della filosofia inizia con l'esempio più consueto di premessa maggiore di un sillogismo: «Tutti gli uomini sono mortali».

IL PROBLEMA MI PARE piuttosto un altro, e forse dipende dal fatto che oggi si leggono meno libri: noi contemporanei siamo divenuti incapaci di venire a patti con la morte. Le religioni, i miti, i riti antichi ci rendevano la morte, seppure sempre temibile, familiare. Ci abituavano ad accettarla le grandi celebrazioni funerarie, gli urli delle prefiche, le grandi Messe da Requiem. Ci preparavano alla morte le prediche sull'inferno e ancora durante la mia infanzia ero invitato a leggere le pagine sulla morte dal "Giovane provveduto" di Don Bosco, che non era solo il prete allegro che faceva giocare i bambini, ma aveva un'immaginazione visionaria e fiammeggiante. Egli ci ricordava che non sappiamo dove ci sorprenderà la morte - se nel nostro letto, sul lavoro, o per strada, per la rottura di una vena, un catarro, un impeto di sangue, una febbre, una piaga, un terremoto, un fulmine, «forse appena finita la lettura di questa considerazione». In quel momento ci sentiremo la testa oscurata, gli occhi addolorati, la lingua arsa, le fauci chiuse, oppresso il petto, il sangue gelato, la carne consumata, il cuore trafitto. Di qui la necessità di praticare l'Esercizio della Buona Morte: «Quando i miei piedi immobili mi avvertiranno che la mia carriera in questo mondo è presso a finire... Quando le mie mani tremule e intorpidite non potranno più stringervi, Crocifisso mio bene, e mio malgrado lascierovvi cadere sul letto del mio dolore... Quando i miei occhi offuscati e stravolti dall'orror della morte imminente ... Quando le mie barra fredde e tremanti.... Quando le mie guance pallide e livide inspireranno agli astanti la compassione e il terrore, e i miei capelli bagnati dal sudor della morte, sollevandosi sulla mia testa annunzieranno prossimo il mio fine... Quando la mia immaginazione, agitata da orrendi e spaventevoli fantasmi sarà immersa in mortali tristezze... Quando avrò perduto l'uso di tutti i sensi... misericordioso Gesù, abbiate pietà di me».

PURO SADISMO, SI DIR?€ . Ma cosa insegniamo oggi ai nostri contemporanei? Che la morte si consuma lontano da noi in ospedale, che di solito non si segue più il feretro al cimitero, che i morti non li vediamo più. O meglio, ne vediamo continuamente, che schizzano brandelli di cervello sui finestrini dei taxi, saltano in aria, si sfracellano sui marciapiedi, cadono in fondo al mare coi piedi un cubo di cemento, lascian rotolare sul selciato la loro testa - ma non siamo noi o i nostri cari, sono gli attori. La morte è uno spettacolo, persino nei casi in cui i media ci raccontano della ragazza realmente stuprata o vittima del serial killer. Non vediamo il cadavere straziato, perché sarebbe un modo di ricordarci la morte. Ci fanno vedere gli amici piangenti che recano fiori sul luogo del delitto e, con un sadismo ben peggiore, suonano alla porta della mamma per chiederle «Cosa ha provato quando hanno ucciso sua figlia?». Non si mette in scena la morte bensì l'amicizia e il dolore materno, che ci toccano in modo meno violento.

Così la scomparsa della morte dal nostro orizzonte di esperienza immediato ci renderà molto più terrorizzati, quando il momento si approssimerà, di fronte a questo evento che pure ci appartiene sin dalla nascita - e con cui l'uomo saggio viene a patti per tutta la vita.


da - http://espresso.repubblica.it/dettaglio/dove-andata-la-morte/2195696/18
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« Risposta #141 inserito:: Dicembre 28, 2012, 04:18:03 pm »

Opinione

Il senso di Bersani per la metafora

di Umberto Eco

Il leader del Pd, con l'aiuto di Crozza, ha creato un genere letterario. Ma i suoi detti come "non siamo qui ad asciugare gli scogli", vanno chiamati con il nome giusto. Che in retorica è quello di "esempio paradossale"

(21 dicembre 2012)

Ormai in lizza autorevole per le elezioni politiche Pier Luigi Bersani parlerà ancora a lungo nei prossimi mesi e, fedele all'immagine che si è creato, di persona di buon senso popolare, immagino che farà ancora uso di quelle che lui e altri definiscono ormai come le "metafore di Bersani", e che io da ora in avanti chiamerò "bersanemi" per le ragioni di cui dirò. I bersanemi hanno dato origine a una divertente serie di emulazioni, a partire da Crozza e, se pure l'origine dei suoi detti risale ad antiche saggezze popolari, Bersani ha creato un genere letterario.

IL FENOMENO E' ORMAI di tale portata che non siamo più in grado di distinguere i bersanemi originali da quelli inventati da Crozza, e Bersani stesso ha partecipato a confronti col comico genovese, talora riprendendo suoi vecchi e venerabili detti e talora impadronendosi di quelli del suo parodista. Pertanto si possono citare come bersanemi, distinguendoli solo per efficacia proverbiale ed effetto umoristico, senza preoccuparci della loro paternità, tutti i casi in cui si affermi che non siamo qui ad asciugare gli scogli, a smacchiare i leopardi (o i giaguari), a spalmarci la brillantina sui peli del petto, a tagliar via i bordi ai toast, a cambiare gli infissi al Colosseo, a mettere i pannelli fotovoltaici alle lucciole, a pettinar le bambole, a rompere le noci a Cip e Ciop, a rimettere il dentifricio nel tubetto, a fare il parmigiano con il latte di soia, a innaffiare l'orto con la cedrata Tassoni, a far l'elemosina all'uranio impoverito...

Bersani ha ammesso che i suoi detti sono un modo di parlare democraticamente a tutti gli elettori, e a tradurre in parole semplici un concetto complesso. Ma quello di cui voglio occuparmi è solo un equivoco tecnico che a mio parere non è irrilevante, perché non bisogna, in un'era di calo dell'informazione culturale e dei buoni usi linguistici, diffondere idee sbagliate – anche se l'errore è irrilevante dal punto di vista politico. I bersanemi non sono metafore e non bisogna incoraggiare i ragazzi ad andarlo a dire all'esame di maturità. In termini di teoria della retorica (da Aristotele ai giorni nostri) una metafora è un "tropo" in cui a un termine letterale se ne sostituisce un altro che tende certamente a definire meglio ciò di cui si parla, ma che se fosse preso alla lettera sarebbe una falsità. Dire di una cantante che è un usignolo è letteralmente falso, perché una soprano non è un uccello, ma vuole creare l'idea che quella donna canti in modo favoloso. Dire che Balotelli è un fulmine è falso, perché il giovanotto non è un fenomeno atmosferico, ma esprime la sua rapidità come goleador. Invece dire che qualcuno pettina le bambole e taglia i bordi al toast non suona letteralmente falso, salvo che esprime un'attività che è certamente complessa ma fondamentalmente inutile e contraria al buon senso; che qualcuno voglia spalmare l'Autan sulle zanzare non è impossibile, anche se fa pensare che stia perdendo tempo senza costrutto.

PROVIAMO DUNQUE , definito un bersanema come X, a pensare che ogni occorrenza degli X presuma la premessa "ragazzi, non stiamo a perdere tempo a fare qualcosa di complicato e stupidamente inutile come X". Ecco, ho sfogliato tutti i manuali classici di retorica e ne ho concluso che un bersanema è un "esempio", figura retorica per cui, invece di definire una serie molto vasta di cose, si ricorre alla citazione di un caso singolo (per esempio "non stiamo qui a pensare di salvare la repubblica ammazzando Cesare quando poi apriamo la strada ad Augusto"). Salvo che gli esempi dei bersanemi rappresentano azioni che per la loro faticosità e inutilità appaiono paradossali, e per questo fanno ridere. Quindi un bersanema è un esempio di "esempio paradossale", dove l'azione citata contrasta con l'opinione diffusa o universalmente accettata, con il buon senso e l'esperienza comune... Chiarito il problema, per tigna di semiologo, ben vengano i paradossi espressi dai bersanemi, purché non si continuino a fare cose faticose e stupidamente inutili.

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« Risposta #142 inserito:: Gennaio 05, 2013, 11:34:40 pm »

Giochini di fine anno

di Umberto Eco

Quando i tempi sono tristissimi è proprio allora che si deve ridere. Anche perché a questo punto i lettori sapranno che il 21 dicembre non è avvenuta l'apocalisse promessa dai Maya e si troveranno un poco più soli nell'universo

(27 dicembre 2012)

Quando leggerete questa bustina, Natale sarà già passato ma mentre la scrivo non è ancora arrivato. Devo comperare i giocattoli ai nipotini, cade la neve, e non ho voglia di abbandonarmi a pensieri seri. Inoltre non so nemmeno se i miei venticinque lettori, perduti tra le vette o (data la crisi) in qualche acquitrino, troveranno un'edicola per comperare "l'Espresso". Apro quindi alcuni cassetti per ritrovare antichi giochini che mi vergognavo a far circolare in tempi così tristi. Ma quando i tempi sono tristissimi è proprio allora che si deve ridere. Anche perché a questo punto i lettori sapranno che il 21 dicembre non è avvenuta l'apocalisse promessa dai Maya e si troveranno un poco più soli nell'universo. D'altra parte Stanislaw Lec aveva avvertito: «Non aspettatevi troppo dalla fine del mondo».

ANZITUTTO, UNA RISPOSTA a Stefano Bartezzaghi che nel suo "Dando buca a Godot" propone alcuni "less ambitious books" e cioè libri che dicono o promettono meno dei loro modelli, come dire "Sterminio a Venezia" o "L'Autostrada dei Nidi di Ragno", ma attende dei "more ambitious books", che cioè promettano più del loro modelli. A me pare che anche quelli che proponeva lui fossero già più ambiziosi, ma andiamo avanti. Ci siamo riuniti intorno al fuoco Danco Singer, Riccardo Fedriga e io e abbiamo tirato giù una prima lista. Alcuni sono evidenti, altri richiedono tra parentesi un richiamo all'opera originaria, come a esempio "Il duomo di Milano", che certamente darebbe più spazio alla "Certosa di Parma" o "La pariolina" che farebbe salire sulla scala sociale "La ciociara". Proseguiamo: Cristo si è fermato a Capalbio, Ventimila leghe nella stratosfera, I 6 mitraglieri, Due anni subito dopo, Gli sposi mantenuti, Le penthouse del Vaticano, I mausolei (I sepolcri), Strage ed ergastolo (Delitto e castigo), L'accettazione della Ragion Pura, 100 anni in compagnia, Il giro dell'universo in un secondo, I santi musical (Operette morali), Gli attentissimi (Gli indifferenti), Quel capolavoro bellissimo di via Veneto, Per chi suona la filarmonica, Pian de la paella, Il parco dei Rothschild (Il giardino dei Finzi Contini), Le certezze ritrovate (Le illusioni perdute), L'avventuroso komplicatissimus, I piaceri del Werther maturo, Gran mondo moderno, Oziare tira su (Lavorare stanca), I 90 giorni della città di Cuneo, Le mie prescrizioni, La donna piena di virtù (L'uomo senza qualità), Il duca di Capri (Il conte di Montecristo).


TRA ALTRI VECCHI GIOCHINI ritrovati c'è una serie che non so come definire: Dottore, tutti i paranoici mi perseguitano; Dice bugie, ma tutte inesatte; Dottore sto male, credo di essere ipocondriaco; Non solo ruba, ma ruba la roba altrui; E' uomo di poche parole, e anche quelle insensate; E' così falso che non si guarda mai negli occhi; Mente persino agli altri.Poi c'è la serie dei "vorrei ma non posso": La Fiat Zero, Le due persone della Trinità, Attenti a quell'uno, Il Gran Maestro 32, Il secondo uomo, Secondo Carnera, Il secondo escluso, Uscire a fare un passo, I trentanove giorni del Mussa Dag, Essere al sesto cielo, I sei samurai, Biancaneve e i sei nani, After seven, La carica dei 599, La spedizione dei 900, Nove piccoli indiani, A las quatro y media de la tarde, Gliene ho detta una.

Avevo poi un giorno rilevato che i nomi dei medicinali debbono avere un suono esotico e parascientifico ma devono nel contempo suggerire l'uso a cui sono destinati, tipo Benagol. Tuttavia alcuni sono destinati a un uso imbarazzante e allora il nome deve alludere senza dire. Di solito il risultato è deprecabile e pertanto suggerisco soluzioni ottimali che esprimano la destinazione del farmaco e al contempo mettano in forte imbarazzo l'acquirente: Piscindox, Anumal, Scolosan, Prostaton, Sifilol, Defecax, Stitican, Ruttoplux, Antidiarrol, Abortin, Arteriosklerox, Piattolix, Pausamen, Mestruax, Uretrin, Emorrax, Ritardan, Vaginbel, Ascellax, Puzzolin, Aidsolin, Solitarnox. Insomma, buon 2013.

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« Risposta #143 inserito:: Gennaio 18, 2013, 12:29:28 am »

La Bustina

Sono su Facebook a mia insaputa

di Umberto Eco

Un certo Eco Umberto intrattiene rapporti a mio nome sul celebre social network.  E molte anime candide mandano gentili messaggi al falso me. Considerazioni sui 'bufalasti'

(15 gennaio 2013)

In occasione della morte di Rita Levi Montalcini molti siti hanno ricordato l'episodio del 2007 quando Francesco Storace, poco prima del voto sulla Finanziaria alla quale la grande scienziata aveva partecipato a sostegno del governo Prodi, irritato per questo libero esercizio dei diritti parlamentari, aveva detto della (allora) quasi centenaria Premio Nobel: «Le porteremo a casa le stampelle». Dopo, pare si fosse giustificato dicendo che era una «goliardata». Dobbiamo invece complimentarci con Storace; si trattava di una virtuosa conversione. Infatti i suoi predecessori e ispiratori la Montalcini l'avrebbero mandata direttamente nelle camere a gas.

I MIEI AVATAR. Nel maggio 2012 si era diffusa da un mio presunto sito Twitter "UmbertoEcoOffic" la notizia del mio cordoglio per la morte di Gabriel García Márquez. Leggevo che la notizia era rimbalzata in tutto il mondo suscitando sgomento, con migliaia di richieste di conferma e messaggi di condoglianze in tutte le lingue, dalla Spagna alla Polonia, dagli Usa al Brasile. Però immediatamente la stampa, in particolare quella anglosassone, aveva anzitutto controllato (come sempre si dovrebbe fare) che Gabo era ancora vivo e vegeto e poi che io non ho né un indirizzo Facebook né un indirizzo Twitter. Infatti ricevo già troppi messaggi inutili e non desidero inquinare l'universo con messaggi miei. Tuttavia qualsiasi frustrato con problemi di identità può assumere su Internet qualsiasi pseudonimo, da Aristotele a Mariomonti.

Ma la storia non finisce qui. Ora mi informano che un altro Umberto Eco si intrattiene su Facebook con molteplici dialoganti. Specifico che la notizia mi è stata data non dal "New York Times" ma dagli amici di un bar Sport di provincia, che ne sorridevano, perché non è necessario essere membri dell'Accademia della Crusca per subodorare subito la bufala.

Infatti avevano notato che nel sito mi presentavo come Eco Umberto (non Umberto Eco) e ne avevano dedotto che il bufalaste (così chiamerei gli orditori di bufale) usava la formula cognome-nome che denota un bassissimo livello di scolarità. Infatti per cognome e nome si presentano solo i ragazzini delle elementari i quali, se poi passano alle medie superiori o all'università, e crescendo in età e sapienza, adottano la formula nome-cognome (a meno che non siano ungheresi, giapponesi, o reclute delle Forze Armate).

Ma la questione non è che esista un bufalaste che non riceverebbe alcun messaggio a colmare la sua solitudine se si presentasse col proprio nome, ma che alcuni abbiano instaurato un dialogo con lui (ovvero il presunto me). La tragedia non è l'esistenza del bufalaste ma quella di una certa quantità di anime candide (che peraltro, devo dire, mi rivolgono messaggi molto gentili), le quali non si sono neppure accorte che il bufalaste, nel settore "Informazioni", sia pure in caratteri piccoli come quelli sul retro delle polizze di assicurazione ha scritto "Not the real one" e ha inserito una improbabile data di nascita del primo aprile 1960. Inutile, per alcuni tutto ciò che appare su uno schermo retroilluminato è vero, e poi si capisce perché la gente vota come vota.

ADULTERI. Ma la navigazione in Internet riserva molte altre sorprese. Su un sito che non nomino per non incoraggiare chi non riesce neppure a organizzarsi un onesto adulterio per conto proprio, trovo il seguente invito: «Voglia di mettere un po' di pepe nella tua vita in tutta discrezione? Osa fare nuovi incontri extraconiugali e viviti i tuoi fantasmi tra adulti 100 per cento consenzienti sul nostro servizio! Milioni di amanti hanno già raggiunto la community!».

Avrei voluto approfondire la cosa e collegarmi oltre per vedere che cosa mi si chiedeva di fare, ma ho intuito che sarei finito nella lista di "milioni di amanti", inevitabilmente decrittabile malgrado le promesse di privatezza. Come l'Ingrassia di "Amarcord" che, arrampicato su un albero, gridava di volere una donna. Mi viene in mente il detto di Woody Allen: «Desidero ritornare nell'utero. Di chiunque».


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dall' Espresso.
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« Risposta #144 inserito:: Gennaio 31, 2013, 07:20:44 pm »

Opinioni

Errata scorrige

di Umberto Eco


Da "sain dai" invece di sine die a "Doic bank", sui giornali e in tv si moltiplicano gli errori. Di scrittura o di pronuncia. E non si tratta solo di lapsus. Eppure basta una rapida consultazione di Internet per evitare strafalcioni

(24 gennaio 2013)

Da tempo immemorabile salto sulla sedia ogni qual volta leggo su giornali e riviste inaccettabili svarioni: può per esempio un quotidiano, come è avvenuto più di una volta, scrivere nella pagina culturale "Beaudelaire" invece di Baudelaire? La mia generazione imparava dai giornali come si scrivevano certe parole, e imparava dallo speaker del giornale radio (e mi scuso se non faccio trascrizioni fonetiche come si dovrebbe ma vado giù alla buona tanto per farmi capire) che si diceva "Cièrcil" e non "Scerscìll" – come leggevano i nostri maggiori, che pronunciavano tutti i nomi stranieri come se fossero francese. E invece i giornali scrivono oggi "suspence" invece di "suspense" e radio e televisione ci abituano a dire "sàspens" (o addirittura "süspàns" alla francese) invece di "suspéns", per non dire dell'orrido "manàgment" che appare spesso anche sulle bocche di un manager. Persone amiche mi segnalano (detto in tv) un Des-cartes con la "s" ben evidenziata, ed è peraltro memoria storica il caso dell'annunciatrice che, credendola espressione inglese, ha pronunciato "sine die" come "sain dai".Ho pertanto consigliato ad "Alfabeta" di raccogliere dai suoi redattori e dai suoi lettori segnalazioni di tutti i casi del genere e aprire una rubrica, che volgarmente intitolerei "Errata scorrige". Vedremo.

PER QUALI RAGIONI giornali e radio-televisioni svirgolano così? Ammettiamo pure casi di crassa ignoranza o di lapsus fatale (chi tra noi che scriviamo non ne ha mai commesso alzi la mano), ma almeno sulla carta stampata esisteva una volta il proto, che verso la chiusura del giornale con estrema pignoleria rileggeva ogni articolo, ogni titolo, ed era di solito persona dal sicuro mestiere che sapeva tutto, e Dio sa come faceva. Ma oggi che un quotidiano ha sessanta e più pagine questo controllo non è più possibile, e inoltre l'articolo arriva già formattato dall'autore e non occorre più controllare gli errori del compositore tipografo; ma con questo non si controllano gli errori del giornalista.

Poi c'è il calo di memoria storica. Leggevo su un grande quotidiano una rievocazione del 1945, con l'arrivo degli americani e le ragazze che impazzivano per il rock'n'roll. Il rock'n'roll? Ma nel '45 si ballava il boogie woogie e il rock'n' roll era ancora allo stato nascente e ignoto al grande pubblico! Ora non solo l'articolo parlava anacronisticamente di questa danza, ma il richiamo era ripreso nei sottotitoli, segno che gli smemorati erano due, l'autore del pezzo e il redattore. Forse entrambi nel '45 non erano ancora nati, ma questa non è una scusa. Molti di noi (immagino) non erano ancora nati nel Sei-Settecento ma sanno che il minuetto non è stato introdotto in Italia dai marines.

D'ALTRA PARTE, SEMPRE PARLANDO di ignoranza, nel famigerato incontro Santoro-Berlusconi si è dibattuto a lungo su una confusione tra Bundes Bank e Deutsche Bank, salvo che tutti, dal conduttore al cavaliere non pronunciavano "doice" bensì "doic" (con la "c" dolce così come ormai si scrive "c'a"). Certamente non è obbligatorio conoscere il tedesco, ma moltissimi che non lo parlano sanno almeno che non si pronuncia "Freud" bensì "Froid".

Il fatto è che il giorno dopo un noto quotidiano, riprendendo le fasi salienti dello scontro, scriveva allegramente "Deutsch Bank" invece di "Deutsche Bank". Niente da fare, la pronuncia televisiva faceva aggio sulle conoscenze scolastiche o parascolastiche.

Si noti che, malgrado tutte le critiche che si possono fare a Internet, con una breve visita a Wikipedia si può trovare il modo in cui si scrivono le parole straniere e che esistono siti in cui una voce gentile pronuncia nel modo giusto le parole che vi servono. Se andate su "http://www.howjsay.com/" sentite come si dice "management" e in "http://www.comesipronuncia.it/pronuncia_query.php?select_lettera=D" vi si insegna come pronunciare "deutsche" (anzi addirittura "Deutsche Bank"), e persino come si scrive.

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« Risposta #145 inserito:: Febbraio 22, 2013, 11:09:40 am »

Opinioni

Un Asterix europeo?

di Umberto Eco


L'idea di Europa sta morendo. Eppure il senso di identità è forte, almeno nelle élite intellettuali. Forse lo è di meno tra la gente comune. Abituata a celebrare come eroi personaggi che ammazzavano cittadini dei paesi confinanti

(07 febbraio 2013)

Brutti tempi per chi crede nell'Unione europea: da Cameron che chiama i suoi compatrioti a decidere se la vogliano ancora (o l'abbiano mai voluta), da Berlusconi che un giorno si dichiara europeista ma il giorno dopo, se non fa un appello viscerale ai vecchi fascisti, lo fa a chi ritiene che tornando alla lira starebbe meglio, alla Lega e al suo provincialismo ipoeuropeo, insomma, si direbbe che - a distanza di più di cinquant'anni - le ossa dei padri fondatori dell'Europa unita fremano nella tomba.

Eppure tutti dovrebbero sapere che nel corso della seconda guerra mondiale sono morti 41 milioni di europei (dico i soli europei, non calcolando gli americani e gli asiatici) massacrandosi l'un l'altro e che da allora, salvo il tragico episodio balcanico, l'Europa ha conosciuto 68 (dico sessantotto) anni di pace; e se si raccontasse a dei giovani che i francesi potrebbero oggi arroccarsi sulla linea Maginot per resistere ai tedeschi, che gli italiani vorrebbero spezzare le reni alla Grecia, che il Belgio potrebbe essere invaso, che aerei inglesi potrebbero bombardare Milano, questi giovani (che magari stanno appressandosi a compiere un anno in qualche altro paese del continente col programma Erasmus, e forse alla fine di questa esperienza incontreranno un'anima gemella che parla una lingua diversa dalla loro) crederebbero che stiamo inventando un romanzo di fantascienza. Né gli adulti si rendono conto che ormai attraversano senza passaporto frontiere che i loro padri o i loro nonni avevano varcato con un fucile in mano.

MA DAVVERO L'IDEA DELL'EUROPA non riesce ad attrarre gli europei? Bernard-Henri Lévy ha recentemente lanciato un appassionato manifesto perché si ritrovi una identità europea, "Europe ou chaos", che inizia con una minaccia inquietante: «L'Europa non è in crisi, sta morendo. Non l'Europa come territorio, naturalmente. Ma l'Europa come Idea. L'Europa come sogno e come progetto». Il manifesto è stato firmato da António Lobo Antunes, Vassilis Alexakis, Juan Luis Cebrián, Fernando Savater, Peter Schneider, Hans Christoph Buch, Julia Kristeva, Claudio Magris, Gÿorgy Konrád e Salman Rushdie (che europeo non è ma in Europa aveva trovato il suo primo rifugio all'inizio della sua persecuzione). Siccome avevo firmato anch'io mi sono ritrovato con alcuni dei cofirmatari, qualche giorno fa, al Théâtre du Rond-Point a Parigi, per un dibattito. Uno dei temi che è subito emerso, e che mi trova ampiamente consenziente, è che esiste una coscienza dell'identità europea, e mi è accaduto di citare le pagine del "Tempo ritrovato" di Proust quando, in una Parigi che teme i bombardamenti degli Zeppelin tedeschi, gli intellettuali continuano a parlare e scrivere di Goethe o di Schiller come di una parte integrante della loro cultura.

MA QUESTO SENSO DELL'IDENTIT?€ europea, se è certamente fortissimo presso le élite intellettuali, lo è anche presso la gente comune? Mi è accaduto di riflettere sul fatto che ancor oggi in ogni paese europeo si celebrano (a scuola e nelle pubbliche manifestazioni) i propri Eroi, che sono tutta gente che ha valorosamente ammazzato altri europei, a partire da quell'Arminio che ha sterminato le legioni di Varo, a Giovanna d'Arco, al Cid Campeador (perché i musulmani contro cui si batteva erano da secoli europei), ai vari eroi risorgimentali italiani o ungheresi, sino ai nostri caduti contro il nemico austriaco. Nessuno sente mai parlare di un Eroe europeo? Non ce ne sono mai stati? E chi erano Byron o Santorre di Santarosa, che andavano a lottare per la libertà greca, o i non pochi Schindler che hanno salvato la vita di migliaia di ebrei senza preoccuparsi di che nazione fossero, per finire con gli eroi non guerrieri, quali erano stati De Gasperi, Monnet, Schuman, Adenuauer, Spinelli? E andando a cercare nei recessi della storia se ne potrebbero trovare altri, di cui parlare ai ragazzi (e agli adulti). Possibile che non si possa trovare un Asterix europeo di cui parlare agli europei di domani?

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« Risposta #146 inserito:: Febbraio 28, 2013, 11:59:23 pm »

La bustina

Com'è empatico quel cantante

di Umberto Eco

Tra i peggiori vezzi linguistici recenti c'è quello di usare a vanvera il presunto sinonimo di «simpatico»: che in realtà vuol dire una cosa diversa. Come quelli che dicono «e quant'altro» invece di «eccetera», così si sentono più fighi

(27 febbraio 2013)

Nella scorsa Bustina lamentavo la cattiva pronuncia di parole straniere in cui eccellono anche molti personaggi pubblici, specie in televisione. Naturalmente è come parlare al vento, e ho risentito Berlusconi ridire "doic bank" invece di "doice" e Vendola dire "manàgment". Ma non si può pretendere che queste persone, così occupate nella battaglia elettorale, leggano "l'Espresso".

Un amico mi ha fatto osservare che non si deve essere severi con gli italiani perché francesi e inglesi (o americani) pronunciano immancabilmente i nomi stranieri in modo sbagliato. Ma anzitutto i francesi hanno una giustificazione perché la loro lingua non conosce l'accento tonico (ovvero essi accentuano tutte le sillabe, e così danno l'impressione di accentuare sempre l'ultima, e a noi pare che dicano Berlusconì e Montì ma loro stanno semplicemente dicendo Bérlùscònì e Mòntì).

Poi il francese prima, e l'inglese ora, sono o sono state lingue internazionali, e i loro parlanti non hanno mai sentito il bisogno di imparare altri idiomi - e non sanno cosa si perdono. Così accade che, come mi hanno spiegato gli amici francesi, quando noi parlando francese diciamo "Borghes" (come fanno gli ispano-parlanti) mentre loro dicono "Borgès", diamo l'impressione di essere un poco snob. Ma i tedeschi si sentirebbero imbarazzati se scoprissero di pronunciare male un nome straniero e così accade da noi. Quindi, se si parla in Italia, la regola è pronunciare bene i nomi stranieri, altrimenti si è considerati degli zotici.

Ma passiamo ad altri nostri vezzi linguistici. Abbiamo superato la fase in cui ormai si diceva "esatto" invece di "sì", e pochi ancora tirano fuori "un attimino" invece di dire "un momento", ma sono ancora legione quelli che (credendo forse di non parere zotici) dicono "e quant'altro" invece di "e via dicendo" o "eccetera". Ma non siamo i soli, da alcuni anni i francesi dicono a ogni passo che qualcosa è "incontournable" per dire che non ci si può passare intorno perché è importante prenderlo in considerazione, mentre potrebbero benissimo dire che qualcosa è "inévitable" o "indispensable". Non è che "incontournable" non sia buon francese, ma lo si sente ormai dire a ogni piè sospinto e dà un poco noia.

Uno dei nuovi vezzi che mi pare serpeggino è l'abuso della parola "empatia". Di solito l'adopera invece di "simpatia" chi evidentemente ritiene che provare empatia sia più bello che provare simpatia. Non è più bello, è un'altra cosa. La simpatia è un concetto corrente e secondo un buon dizionario significa «provare inclinazione e attrazione istintiva verso persone», così che posso provare simpatia verso una persona anche se non so esattamente che cosa provi nel suo animo, magari semplicemente perché ha un bel sorriso, mi ha fatto uno sconto o mi offre da bere al bar.

L'empatia invece è un concetto scientifico, che nasce in psicologia e in estetica tra diciannovesimo e ventesimo secolo. Vischer e poi Lipps parlavano di "einfühlung", poi tradotto in inglese come "empathy", e il concetto veniva applicato all'inizio anche al godimento estetico, per cui apprezzare una certa forma voleva dire, per così dire, vivere quella forma stessa come fosse parte del nostro corpo: così una colonna sottile che regge un grosso capitello può suscitare un senso di disagio, di squilibrio, di sforzo, e l'inverso avviene con una colonna ben proporzionata che ci fa vivere un senso di leggerezza. Per empatia si è condotti a provare, nel nostro intimo, lo stesso sentimento o sensazione che prova un altro ?€“ e di empatia alcuni parlano anche a proposito dei "neuroni specchio", ma non voglio mettere naso in una controversia che agita le neuroscienze.

Insomma, se per simpatia posso anche aiutare qualcuno che soffre (anche se so pochissimo della sua sofferenza interiore), per empatia proverei la sua stessa sofferenza anche se per costui o costei non avvertissi nessuna simpatia e non mi ponessi il problema di alleviare la sua pena. Per cui sovente dire di provare empatia per qualcuno o qualcosa è solo un modo di parlare difficile senza che ce ne sia bisogno.

 
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« Risposta #147 inserito:: Marzo 14, 2013, 11:19:57 pm »

La bustina

Com'è empatico quel cantante

di Umberto Eco

Tra i peggiori vezzi linguistici recenti c'è quello di usare a vanvera il presunto sinonimo di «simpatico»: che in realtà vuol dire una cosa diversa. Come quelli che dicono «e quant'altro» invece di «eccetera», così si sentono più fighi

(27 febbraio 2013)

Nella scorsa Bustina lamentavo la cattiva pronuncia di parole straniere in cui eccellono anche molti personaggi pubblici, specie in televisione. Naturalmente è come parlare al vento, e ho risentito Berlusconi ridire "doic bank" invece di "doice" e Vendola dire "manàgment". Ma non si può pretendere che queste persone, così occupate nella battaglia elettorale, leggano "l'Espresso".

Un amico mi ha fatto osservare che non si deve essere severi con gli italiani perché francesi e inglesi (o americani) pronunciano immancabilmente i nomi stranieri in modo sbagliato. Ma anzitutto i francesi hanno una giustificazione perché la loro lingua non conosce l'accento tonico (ovvero essi accentuano tutte le sillabe, e così danno l'impressione di accentuare sempre l'ultima, e a noi pare che dicano Berlusconì e Montì ma loro stanno semplicemente dicendo Bérlùscònì e Mòntì).

Poi il francese prima, e l'inglese ora, sono o sono state lingue internazionali, e i loro parlanti non hanno mai sentito il bisogno di imparare altri idiomi - e non sanno cosa si perdono. Così accade che, come mi hanno spiegato gli amici francesi, quando noi parlando francese diciamo "Borghes" (come fanno gli ispano-parlanti) mentre loro dicono "Borgès", diamo l'impressione di essere un poco snob. Ma i tedeschi si sentirebbero imbarazzati se scoprissero di pronunciare male un nome straniero e così accade da noi. Quindi, se si parla in Italia, la regola è pronunciare bene i nomi stranieri, altrimenti si è considerati degli zotici.

Ma passiamo ad altri nostri vezzi linguistici. Abbiamo superato la fase in cui ormai si diceva "esatto" invece di "sì", e pochi ancora tirano fuori "un attimino" invece di dire "un momento", ma sono ancora legione quelli che (credendo forse di non parere zotici) dicono "e quant'altro" invece di "e via dicendo" o "eccetera". Ma non siamo i soli, da alcuni anni i francesi dicono a ogni passo che qualcosa è "incontournable" per dire che non ci si può passare intorno perché è importante prenderlo in considerazione, mentre potrebbero benissimo dire che qualcosa è "inévitable" o "indispensable". Non è che "incontournable" non sia buon francese, ma lo si sente ormai dire a ogni piè sospinto e dà un poco noia.

Uno dei nuovi vezzi che mi pare serpeggino è l'abuso della parola "empatia". Di solito l'adopera invece di "simpatia" chi evidentemente ritiene che provare empatia sia più bello che provare simpatia. Non è più bello, è un'altra cosa. La simpatia è un concetto corrente e secondo un buon dizionario significa «provare inclinazione e attrazione istintiva verso persone», così che posso provare simpatia verso una persona anche se non so esattamente che cosa provi nel suo animo, magari semplicemente perché ha un bel sorriso, mi ha fatto uno sconto o mi offre da bere al bar.

L'empatia invece è un concetto scientifico, che nasce in psicologia e in estetica tra diciannovesimo e ventesimo secolo. Vischer e poi Lipps parlavano di "einfühlung", poi tradotto in inglese come "empathy", e il concetto veniva applicato all'inizio anche al godimento estetico, per cui apprezzare una certa forma voleva dire, per così dire, vivere quella forma stessa come fosse parte del nostro corpo: così una colonna sottile che regge un grosso capitello può suscitare un senso di disagio, di squilibrio, di sforzo, e l'inverso avviene con una colonna ben proporzionata che ci fa vivere un senso di leggerezza. Per empatia si è condotti a provare, nel nostro intimo, lo stesso sentimento o sensazione che prova un altro ?€“ e di empatia alcuni parlano anche a proposito dei "neuroni specchio", ma non voglio mettere naso in una controversia che agita le neuroscienze.

Insomma, se per simpatia posso anche aiutare qualcuno che soffre (anche se so pochissimo della sua sofferenza interiore), per empatia proverei la sua stessa sofferenza anche se per costui o costei non avvertissi nessuna simpatia e non mi ponessi il problema di alleviare la sua pena. Per cui sovente dire di provare empatia per qualcuno o qualcosa è solo un modo di parlare difficile senza che ce ne sia bisogno.


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« Risposta #148 inserito:: Marzo 14, 2013, 11:20:48 pm »

Opinione

Consiglio al Pd: vola bassissimo

di Umberto Eco

In Italia la sinistra può vincere solo se tutti pensano che stia per perdere. Altrimenti non ha chance. E' uno dei paradossi emersi dalle urne. Facciamone tesoro, la prossima volta

(14 marzo 2013)

Ci si attendeva una decisa vittoria del Pd e una pallida rimonta di Berlusconi, e le previsioni non si sono verificate. Ma c'è stato un precedente, quando Occhetto aveva annunciato di aver messo in piedi una gioiosa macchina da guerra, e poi è iniziata l'epoca berlusconiana. Parimenti, nel corso della scorsa campagna elettorale, tutto l'approccio del Pd è stato in termini trionfalistici: Bersani dava per certa la propria decisiva maggioranza, asseriva che chi avrebbe vinto (e cioè lui) avrebbe governato. Così, mentre a molti di noi pareva che il leader Pd conducesse una campagna da gran signore, senza svaccare come i suoi avversari, la sua campagna è risultata fiacca, perché condotta in base alla tranquilla persuasione che, secondo i sondaggi, ormai il Pd aveva vinto.

Corollario: ogni volta che la sinistra si presenta come sicuramente vincente, perde. Pura jella? Non ricordo più in quale talk show, Paolo Mieli aveva detto che è ormai un dato di fatto assodato, e da almeno sessant'anni, che in Italia il 50 per cento dei votanti non vuole un governo di sinistra o di centrosinistra. Sarà (commento io) la paura remota che risale ai tempi del "terribile Stalino l'orco rosso del Cremlino" di cui a noi fanciulli raccontava settimanalmente "il Balilla", sarà il terrore del bolscevico che abbevera i suoi cavalli alle acquasantiere di San Pietro (su cui aveva bene giocato la propaganda dei Comitati Civici nel 1948), sarà il terrore continuo che la sinistra aumenti le tasse (cosa che peraltro ha sempre annunciato, mentre è la destra che poi l'ha fatto), ma in sostanza quel popolo di buoni borghesi di mezza e tarda età, che non leggono giornali e vedono solo le televisioni di Mediaset, e a cui si rivolge Berlusconi quando minaccia il ritorno del comunismo, queste cose le pensa, e la paura dei governi di sinistra è un poco come il terrore dei Turchi, che dev'essere continuato a lungo anche dopo che a Lepanto era iniziato il declino dell'impero ottomano.

Dunque, e torno a quelle parole di Mieli, se la metà degli elettori italiani vive questo costante timore, non potrà che rivolgersi a chi ne propone l'antidoto, per cinquant'anni la Dc e per venti il berlusconismo. Credo che Mieli facesse questa analisi quando pareva che una salita in campo di Monti potesse offrire un'alternativa - e si veda come infatti, guidato da questo timore, Berlusconi abbia sempre condotto la sua battaglia contro Monti mostrandolo come servo sciocco della sinistra.

Bene, Monti non ce l'ha fatta e la difesa dalla sinistra è tornata a essere monopolio di Berlusconi. Da cui una riflessione che mi pare ovvia: la destra vince quando la sinistra convince l'elettorato moderato che sarà essa a salire al potere. La sinistra invece vince come, quando nel caso delle campagne di Prodi, non ha ostentato troppa fiducia, ha solo comunicato il messaggio subliminale "io speriamo che me la cavo", ed è riuscita a vincere quando non tutti ci avrebbero scommesso.

Una dose di vittimismo è indispensabile per non galvanizzare gli avversari. Grillo ha fatto una campagna da vincente, ma è riuscito a dare l'impressione che lo escludessero dalla tv e dovesse rifugiarsi nelle piazze - e così ha riempito i teleschermi prendendo le parti delle vittime del sistema. Ma sapevano piangere Togliatti, che presentava i lavoratori come tenuti fuori dalla stanza dei bottoni dalla reazione in agguato; Pannella che, lamentandosi sempre che i media ignorassero i radicali, riusciva a monopolizzare l'attenzione costante di giornali e televisioni; Berlusconi, che si è sempre presentato come perseguitato dai giornali, dai poteri forti e dalla magistratura, e quando era al potere si lamentava che non lo lasciassero lavorare e gli remassero contro. E' dunque fondamentale il principio del "chiagne e fotti", ovvero, per non esprimerci in modo troppo volgare, quello del "keep a low profile", tieni sempre un "profilo basso".

Solo se non dà per sicura l'avanzata della sinistra il signore di mezza età si astiene o disperde i suoi voti. Se la sinistra millanta vittoria, il moderato si rifugia presso l'Unto del Signore.


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« Risposta #149 inserito:: Marzo 29, 2013, 12:01:25 pm »

La Bustina

Sì, ma cosa beve James Bond?

di Umberto Eco

La questione è intricatissima. E non bisogna fidarsi dei film, specie doppiati. Meglio leggere direttamente Fleming. Tenderei quindi a escludere la tesi che si facesse servire Martini con il vermouth rosso e dolce

(28 marzo 2013)

Leggo, in una lettera inviata su "Sette" a Antonio D'Orrico, che in una recente traduzione di "Vivi e lascia morire" James Bond ordina un cocktail Martini con Martini "rosso". Eresia parlare di un Martini con vermouth dolce, e una traduzione italiana precedente parlava di gin e Martini e Rossi, che è un'altra faccenda. E' vero che secondo alcune antiche cronache i primi cocktail Martini inventati in America nell'Ottocento sarebbero stati fatti di due once del "Martini and Rosso" italiano, un'oncia di gin Old Tom, più del maraschino e qualche altro ingrediente che suscita l'orrore di ogni persona bene educata. Ma, se pure il Martini Rosso appare nel 1863, secondo altri esperti il cocktail Martini si diffonde inizialmente nella forma attuale non usando il vermouth Martini bensì il Noilly Prat, e il nome Martini sarebbe associato al cocktail originario vuoi a causa di una località californiana (Martinez) vuoi dal nome Martinez di un barman. Insomma, su tutta questa intricatissima vicenda si veda il fondamentale "Martini straight up"di Lowell Edmunds, tradotto nel 2000 in Italia da Archinto come "Ed è subito Martini".

Ora, che cosa beve James Bond? In realtà beve di tutto e rimane famoso l'incipit di "Goldfinger" che, reso malamente nella traduzione del 1964, recitava "James Bond stava seduto nella sala d'aspetto dell'aeroporto di Miami. Aveva già bevuto due bourbon doppi e ora rifletteva sulla vita e la morte" – come se oltretutto Bond attendesse l'aereo come un passeggero della turistica. Invece scriveva Fleming (maestro di stile): «James Bond, with two double bourbon inside him, sat in the final departure lounge of Miami Airport and thought about life and death». Ma il primo Martini che 007 beve, in "Casino Royale" (e non "Casinò Royal" come nell'edizione italiana) è quello che poi sarebbe passato alla storia come Vesper Martini: «Tre misure di Gordon, una di vodka, mezza di China Lillet. Versate nello shaker, agitate sino a che è ben ghiacciato e poi aggiungete una bella di scorza di limone». Il China Lillet è un altro e più raro tipo di vermouth dry, e Bond berrà un Vesper Martini anche nel film "Quantum of solace".

In realtà Bond beve di solito il Martini come lo conosciamo noi ma, quando lo ordina, specifica «shaken, not stirred», il che vuole dire mettere gli ingredienti in uno shaker da agitare o scekerare (come avviene con vari altri cocktail) ma non mescolato in un mixer. Il problema è piuttosto che da Hemingway in avanti per fare un buon Martini si versano in un mixer già pieno di ghiaccio una dose di Martiny Dry, si versa il gin, si mescola o "mixa", e si filtra il liquore nel classico bicchiere triangolare in cui alla fine si inserirà l'oliva. Ma gli intenditori vogliono che, dopo versato il Martini e mescolato ben bene, si ponga una griglia sopra il mixer, si butti via il vermouth così che ne rimanga solo una patina a insaporire i cubetti, solo dopo si versi il gin e infine si filtri il gin ben freddo e insaporito di dry. Il rapporto tra gin e vermouth varia da intenditore a intenditore, compresa la versione per cui si dovrebbe soltanto far passare un raggio di luce attraverso la bottiglia del vermouth sino a toccare il ghiaccio, e basta. Nella versione che gli americani chiamano Gin Martini invece di Martini Cocktail si versa nel bicchiere anche il ghiaccio, ma i raffinati ne inorridiscono. Come mai un intenditore come Bond vuole il Martini scekerato e non mixed? C'è chi sostiene che se il Martini viene scekerato si introduce più aria nella mistura (si dice "bruising the drink") migliorandone il sapore. Ma personalmente non ritengo che un gentiluomo come Bond voglia il Martini scekerato. Infatti ci sono siti Internet che asseriscono che la frase, se appare nei film, non appare mai nei romanzi (così come in Conan Doyle non appare mai "elementare caro Watson"), se non forse a proposito del discusso Vodka Martini. Ma confesso che, se avessi dovuto controllare su tutta l'opera omnia di Fleming, chissà quando avrei scritto questa bustina.

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