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Autore Discussione: ENNIO CARETTO.  (Letto 2415 volte)
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« inserito:: Novembre 05, 2008, 11:44:33 am »

 
I compiti della squadra del vincitore sono cruciali

I sorrisi di Clinton, il gelo Carter-Reagan

Quella che si prepara sarà una delle transizioni più difficili.

Fu Jefferson a inventare il team per il cambio


WASHINGTON - Sarà la transizione presidenziale più difficile degli ultimi 75 anni, la prima in tempo di depressione da quella tra il repubblicano Herbert Hoover e il democratico Franklin Roosevelt nel 1933. La prima in tempo di guerra da quella tra il democratico Lyndon Johnson e il repubblicano Richard Nixon nel 1968. Ma potrebbe anche essere la transizione - i due mesi e mezzo di preparativi dello scambio di consegne - più costruttiva della storia Usa. Per la prima volta, una nuova legge ha infatti permesso all’Fbi di avviare le indagini di routine sui membri dei due «transition team » già in campagna elettorale e quelle sui membri del futuro governo da oggi. Il 9 ottobre Bush ha poi istituito un Consiglio di coordinamento della transizione, bipartisan e diretto da due ex capi di gabinetto della Casa Bianca: uno suo, Andrew Card, e uno dell’ex presidente Clinton, Mack McLarty, che ha lavorato con i due team e continuerà a lavorare con quello vittorioso.

Il nuovo sistema è l’effetto della traumatica transizione del 2000, quando il candidato democratico Al Gore, vincitore del voto popolare ma non di quello dei grandi elettori, si diede per sconfitto solo il 13 dicembre, dopo la sentenza della Corte Costituzionale. La transizione, resa ulteriormente ardua dall’antipatia personale tra il presidente uscente Clinton e Bush (i clintoniani la boicottarono al punto di fare sparire la lettera Wdai computer della Casa Bianca) fu troppo breve, 47 giorni contro i 77 di oggi, e ostacolata dalla burocrazia. Nel settembre 2001, quando Al Qaeda abbatté le Torri Gemelle, molte cariche governative erano ancora scoperte. «Non deve accadere mai più», ha ammonito Josh Bolten, capo di gabinetto di Bush. «Il periodo della transizione e i primi cento giorni di governo sono i due periodi in cui il Paese è più vulnerabile. All’ingresso alla Casa Bianca, il nuovo presidente deve potere affrontare ogni emergenza».

È stato Obama il primo a formare un «transition team», al comando di John Podesta (ex capo di gabinetto di Clinton). A luglio, quando lo annunciò, McCain lo derise: «Che arrogante: sta già scegliendo le tende della Casa Bianca». Ma in agosto McCain varò in segreto la propria squadra al comando di John Lehman, come lui eroe della guerra del Vietnam. Quando lo venne a sapere, Martha Kurman, direttrice del Progetto di transizione alla Casa Bianca, istituto di ricerca bipartisan, applaudì i candidati: «È una dimostrazione di responsabilità. I compiti della squadra del vincitore sono cruciali: deve impostarne la politica, consigliarlo nella scelta dei ministri, agevolare i rapporti con il Congresso e i leader stranieri, programmarne i primi cento giorni». I due team non hanno perso tempo. Ieri hanno confermato i primi nomi dei papabili ai vari ministeri. Podesta ha preparato la rosa più vasta: accanto al clintoniano Rahm Emanuel, che nel 2006 guidò il Partito alla riconquista del Congresso, figurano anche repubblicani come l’attuale ministro della Difesa Robert Gates o il senatore Richard Lugar.

Lehman prevede un incarico importante per il senatore indipendente Joe Lieberman, l’ex democratico che ha condotto la campagna 2008 per McCain. L’attesa maggiore riguarda il ministero del Tesoro: Obama punterebbe su Tim Geithner, direttore della Federal Reserve di New York, o su Paul Volcker, il mitico ex governatore centrale. McCain sul presidente della Banca mondiale Robert Zoellick o su John Thain, presidente di Merrill Lynch. I «transition team» risalgono ai primi dell’Ottocento, dopo che uno dei padri fondatori, John Adams, consegnando la Casa Bianca al successore Thomas Jefferson si portò via tutto, servitù compresa. La transizione modello rimane quella tra Hoover, vittima del crack di Borsa, e Franklin Roosevelt, l’architetto del New Deal: i due si detestavano, ma Roosevelt seppe gestire il passaggio di consegne al meglio. Ebbe però a disposizione ben 105 giorni (allora il presidente si insediava in marzo).

Se il neoeletto è dello stesso partito del predecessore, lo scambio di consegne in genere è morbido, rileva Martha Kurman, e il team ha un valore relativo. Determinante è invece il suo ruolo quando il cambio della guardia avviene tra un partito e l’altro e il successo della squadra dipende innanzitutto dagli sconfitti. Nel 1960, anno di grandi cambiamenti che sancì l’ascesa del movimento dei diritti civili, il presidente repubblicano Ike Eisenhower, liberatore dell’Europa dal nazismo, s’impegnò a fondo per instradare John Kennedy da lui liquidato inizialmente come «un giovanotto che crede di avere una soluzione per qualsiasi crisi». Gelidi furono invece i passaggi dal democratico Lyndon Johnson al repubblicano Richard Nixon nel 1968, all’apice della guerra del Vietnam, e dal democratico Jimmy Carter al repubblicano Ronald Reagan nel 1980, con la crisi degli ostaggi Usa a Teheran. Clay Johnson, capo del team di Bush nel 2000, sostiene che la sconfitta di un candidato è la morte politica per la sua squadra. Al contrario, la vittoria le spalanca le porte della Casa Bianca (Johnson ne diventò direttore del personale) o del governo, come la spalanca ai capi della campagna elettorale.



Ennio Caretto
05 novembre 2008


da corriere.it
« Ultima modifica: Novembre 06, 2008, 08:43:24 am da Admin » Registrato
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« Risposta #1 inserito:: Novembre 06, 2008, 12:01:48 pm »

«No» della California alle nozze gay E Washington rende legale l’eutanasia

Un trionfo firmato da donne e giovani

Record di consensi per un democratico dal ’64.

E il partito si rafforza al Senato

WASHINGTON


Mancano ancora i dati definitivi, ma la vittoria di Obama è la più massiccia ottenuta da un candidato democratico dal 1964, quando Lyndon Johnson fu eletto presidente: oltre il 52% dei voti contro il 47% del repubblicano John McCain. E a dargliela sono state innanzitutto le donne, il 53% dell’elettorato che si sono schierate al 55% per lui e solo al 43% per il suo avversario, dice il Washington Post. Dal ’64, un unico altro candidato democratico, Jimmy Carter nel 1976, aveva superato il 50% dei suffragi. Hanno appoggiato Barack anche le due massime minoranze americane: il 96% dei neri e il 67% degli ispano- americani, nonché il 68% dei giovani. Della «valanga Obama», al momento 349 grandi elettori contro 163 per McCain (non è il voto popolare, ma il voto di questi 538 delegati dei 50 Stati a eleggere il presidente) hanno beneficiato i deputati e i senatori democratici. Anche qui i risultati sono incompleti. Ma alla Camera, dove possedevano 235 seggi contro 199 dei repubblicani e uno vacante, i democratici ne hanno guadagnati almeno 20. Al Senato, dove ne controllavano 51 contro 49, una maggioranza molto esile, per adesso ne contano appena 5 in più. Ma se occupassero i 4 rimanenti, la cui destinazione appare tuttora incerta, arriverebbero a 60, una soglia magica: in base ai regolamenti del Senato, con 60 seggi i democratici sventerebbero qualsiasi ostruzionismo repubblicano. Per Obama, diverrebbe più facile governare.

La «valanga» ha fatto alcune vittime eccellenti tra i parlamentari repubblicani. Le più note sono la senatrice Elizabeth Dole, moglie di Bob e lei stessa anni fa candidata alla presidenza, sconfitta nella North Carolina da Kay Hagan, una liberal da lei falsamente accusata di ateismo; ma anche il suo collega John Sununu, figlio dell’ex capo di gabinetto di Bush padre, battuto da Jeanne Shaheen nel New Hampshire, tradizionale feudo repubblicano. Tra i nuovi volti democratici al Senato, il più significativo è però quello dell’ex governatore della Virginia Mark Warner, un altro stato conservatore: entrambi i senatori della Virginia sono ora di sinistra, cosa che non avveniva dal ’70. Una misura del riallineamento dei partiti e dell’urgenza dei repubblicani di riportarsi al centro. In palio c’erano anche 11 governatorati. I democratici ne hanno conquistato solo uno in più: su 50, oggi ne hanno 29 contro i 28 di prima, un segno che a livello locale l’effetto Obama è stato meno forte.Ma la North Carolina ha eletto per la prima volta una donna, pure lei democratica, Beverley Perdue (50% contro il 47% del repubblicano Pat McCrory). L’America, che ancora un anno fa pensava che il prossimo inquilino della Casa Bianca sarebbe stata una donna, l’ex first lady Hillary Clinton, si chiede se Obama premierà l’elettorato femminile con cui ha contratto un grosso debito, cioè quante girl porterà al governo, e con quali cariche. Attualmente, si fa un solo nome: quello dell’ex ambasciatrice Susan Rice, omonima ma non imparentata con il segretario di Stato Condi Rice.

Ennio Caretto
06 novembre 2008

da corriere.it
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