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Autore Discussione: FRANCESCO MANACORDA.  (Letto 29679 volte)
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« Risposta #45 inserito:: Dicembre 07, 2014, 05:36:20 pm »

Le incognite ancora da sciogliere

04/12/2014
Francesco Manacorda

Il Paese con un tasso di disoccupazione del 13,2% da ieri ha una nuova legge sul lavoro. Certo, è una legge delega i cui contenuti di dettaglio sono in buona parte ancora da scrivere. E certo, per farla passare in ultima lettura al Senato si è deciso di imporre il voto di fiducia, mentre fuori da Palazzo Madama andavano in scena ancora una volta gli scontri di piazza di una stagione inquieta. Ma è un dato di fatto che da ieri il dibattito politico può superare la diatriba infinita sull’Art. 18 – un totem sia per chi lo ha difeso fino all’ultimo, sia per chi ha visto nella sua caduta la condizione necessaria e sufficiente per un cambio di passo – e concentrarsi non solo sul tema del contratto di lavoro a tutele crescenti che sarà la forma prevalente da applicare ai nuovi assunti, ma anche sul modo per aggredire quel tasso di disoccupazione che segna l’Italia in generale e le sue generazioni più giovani in particolare. 

Pensare che con il testo approvato ieri il lavoro sia concluso è sbagliato. Sono i decreti delegati, che il governo vorrebbe varare già a metà mese per poter avere le nuove regole in funzione dall’inizio del prossimo anno, quelli che daranno il segno vero delle novità. 

E con i decreti delegati andranno risolti vari interrogativi che la riforma ancora si porta dietro. Ad esempio bisognerà vedere come il governo graduerà le «tutele crescenti» del nuovo contratto e come identificherà i casi in cui non ci può essere il licenziamento con indennizzo economico, ma scatta comunque il diritto al lavoratore ad essere reintegrato: dovrà definire quindi quali siano i «licenziamenti nulli e discriminatori» e quali le «fattispecie di licenziamenti disciplinari ingiustificati». 

È innegabile, poi, che il nuovo sistema si porti dietro alcune incognite. Il Jobs Act è destinato a creare un nuovo «dualismo» rispetto a quello attuale, che vede chi è dentro il mondo del lavoro e in aziende sopra i 15 dipendenti tutelato dall’Art. 18 e chi è fuori privo di tutele. D’ora in poi, invece, come ha sottolineato Francesco Giavazzi sul Corriere della Sera, nelle aziende si vedranno fianco a fianco «vecchi» lavoratori tutelati dall’articolo 18 e «nuovi» senza quella protezione. Il possibile effetto sarà quello di inceppare la mobilità della prima categoria di dipendenti, che prima di cambiare posto di lavoro e vedersi applicare le nuove regole ci penseranno mille volte. 

E poi c’è un «dualismo» meno evidente, ma che rischia di perpetuare disparità antiche. I contratti del pubblico impiego saranno anch’essi a tutele crescenti o si manterrà per questa categoria di lavoratori il classico contratto a tempo indeterminato? Se così fosse ecco una differenza difficilmente accettabile. E sempre nei decreti delegati bisognerà affrontare contraddizioni che oggi balzano agli occhi: è pensabile mantenere la possibilità di prorogare i contratti a termine per cinque volte in tre anni con il contratto a tutele crescenti? O invece tutti i datori di lavoro preferiranno affidarsi alla prima soluzione, creando di fatto una lunga anticamera per i lavoratori ancor prima di entrare nel mondo dei contratti a tempo indeterminato?

E in ogni caso è sempre a quel 13,2% di disoccupazione che bisogna tornare. Con il lavoro che è la prima emergenza per l’Italia, aumentare la flessibilità in uscita dei lavoratori è un passo che serve, ma che da solo non basta. Pietro Ichino, tra i padri di questa riforma, ha sottolineato anche martedì in Senato la necessità di coniugare alla flessibilità anche la sicurezza per chi si muove nel mercato del lavoro, con assicurazione contro la disoccupazione e servizi efficaci per chi cerca nuova occupazione. Proprio su questo secondo pilastro della sicurezza – con risorse adeguate e un sistema di agenzie per l’impiego decisamente più funzionante di quello attuale – si gioca una parte tutt’altro che secondaria della partita.

Da - http://www.lastampa.it/2014/12/04/cultura/opinioni/editoriali/le-incognite-ancora-da-sciogliere-t0VhTSQxLeF0tlH42u5FtJ/pagina.html
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« Risposta #46 inserito:: Dicembre 24, 2014, 11:37:37 am »

Flessibilità contro precarietà

22/12/2014
Francesco Manacorda

Il 2014 dell’economia se ne andrà - lo sappiamo - senza rimpianti. Il Pil italiano ha perso ancora terreno, la disoccupazione è ai massimi storici, anche l’iniezione di liquidità per i redditi più bassi con gli 80 euro in busta paga non pare aver dato per ora effetti sensibili sulla domanda interna. Il prossimo anno, invece, è quello in cui si prevede una minima ripresa del Pil, un primo spiraglio di luce. Ma per l’occupazione, dicono le stesse previsioni, non ci saranno miglioramenti. E una ripresa senza lavoro per molte famiglie italiane, specie quelle dove c’è chi il lavoro lo ha perso o quelle dove ci sono dei giovani in cerca di prima occupazione, non sarà davvero una ripresa. 

Quando e come potrà incidere la politica del governo su questa situazione? Lo studio della Cisl, di cui scrive oggi sul giornale Paolo Baroni, afferma che grazie al bonus previsto assumere a tempo indeterminato quattro nuovi lavoratori potrà costare quanto assumerne tre a tempo indeterminato.

Se è così c’è da sperare che già nei prossimi mesi l’effetto del Jobs Act si faccia sentire non solo sulla quantità, ma anche sulla qualità dell’occupazione. 

Uscire dalla giungla dei contratti parasubordinati e dalle forme di collaborazione più o meno fittizie usate da molte aziende in modo improprio, per avviarsi sulla strada del contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti può significare per molti giovani anche l’abbandono di una precarietà che prima che economica è esistenziale e limita i progetti, impedisce scelte di autonomia. Essere soggetti deboli, come spesso sono i giovani, in un mercato del lavoro rigido come quello che abbiamo avuto finora significa venire sottoposti alle tensioni maggiori, rischiare di trovarsi là dove quelle rigidità finiscono per creare una rottura che espelle o mette ai margini. Essere giovani in un mercato del lavoro più flessibile - in entrata come in uscita - può invece dare prospettive diverse. Per un venticinquenne di oggi è più importante essere inserito in un percorso che mano a mano aumenti le sue tutele o venire subito garantito contro i rischi di perdere un lavoro - che peraltro oggi non ha - dall’Articolo 18? La risposta non pare difficile.

Anche dal mondo dei giovani professionisti giungono segnali di grande difficoltà, come raccontiamo nelle nostre pagine. Per loro, che guadagnano in media la metà degli «over 40» che fanno la stessa professione, il problema non è solo l’oggi, ma anche il domani. Si avviano, infatti, a una carriera dove sarà difficile aumentare i redditi e dove risulterà complicato anche assicurarsi una pensione dignitosa. E anche in questo caso ci sono rigidità da abbattere: i vincoli degli ordini, le tariffe minime, le caste parentali, ostacolano un mercato dei servizi davvero libero. 

Con i decreti delegati attesi prima di Natale e molte aziende che già aspettano di capire se da gennaio potranno trasformare i contratti in scadenza nella nuova formula a tempo indeterminato, siamo davvero di fronte a una svolta cruciale. Se la flessibilità sarà prevalente sulla precarietà allora tutti - aziende, lavoratori e soprattutto quei giovani che nel mondo del lavoro vogliono e devono entrare - avranno fatto un buon affare. Se invece dovesse avvenire il contrario anche la politica ne pagherebbe il prezzo: un esercito di giovani sempre meno garantiti ma anche sempre più precari sarebbe sempre più tentato di non scegliere le urne per farsi sentire.

Da - http://www.lastampa.it/2014/12/22/cultura/opinioni/editoriali/flessibilit-contro-precariet-Nz2UK5yhQKGgHkmhJjOitO/pagina.html
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« Risposta #47 inserito:: Gennaio 08, 2015, 05:26:21 pm »

I rischi per Atene e per gli altri
06/01/2015

Francesco Manacorda
Quella che i mercati internazionali hanno battezzato «Grexit» – unendo il nome della Grecia all’exit, l’uscita, dall’euro – è per ora solo un fantasma, destinato con ogni probabilità a restare tale. Non a caso lo evocano soprattutto le formazioni politiche greche che si oppongono al rampante movimento di sinistra Syriza: se la formazione di Alexis Tsipras dovesse vincere le elezioni del prossimo 25 gennaio – è la profezia interessata che viene fatta – la sua richiesta di ristrutturare il debito greco porterà appunto all’uscita dall’euro. 

Ma certi fantasmi sono rischiosi anche se vengono semplicemente evocati. Lo hanno dimostrato anche ieri le convulsioni delle Borse europee, la caduta della valuta unica e qualche segnale – per la verità timido – di rialzo dei tassi sui titoli di Stato nella periferia della zona euro, Italia compresa. Sulla giornata non ha pesato solo la «Grexit» – i mercati azionari sono scesi anche perché ci si aspetta che la Bce agisca in fretta con l’acquisto di obbligazioni – ma la «Grexit» ha comunque avuto un suo ruolo.

La Germania smentisce, ed è credibile, di voler spingere la Grecia fuori dall’euro, nonostante alcune indiscrezioni riportate negli ultimi giorni da un settimanale.

A Bruxelles la Commissione ripete che dall’euro non è prevista alcuna exit per nessun Paese aderente, o per meglio dire che il caso non è contemplato dai trattati che hanno dato vita alla moneta unica, visto che poi se alla fine Atene dovesse scegliere – o fosse costretta – ad uscire, un modo si troverebbe. 

Ma se per ipotesi la Grecia dovesse uscire davvero dall’euro che cosa potrebbe accadere? Il rischio non sarebbe solo e tanto quello per Atene di trovarsi all’improvviso con una valuta deprezzata che potrebbe trasformarla in una meta turistica ancora più attraente, ma renderebbe insostenibili le importazioni; né quello per il resto dei Paesi della moneta unica di avere un debitore che non farebbe più fronte ai suoi impegni. Il rischio maggiore sarebbe di aver creato un precedente per quello che fino a qualche anno fa appariva addirittura impensabile, che ora appare invece ipotizzabile e che in futuro potrebbe diventare addirittura concreto. Se mai la Grecia dovesse uscire dall’euro che cosa impedirebbe agli operatori finanziari di pensare che altri Paesi – non solo periferici – la possano seguire? E che cosa potrebbe bloccare a questo punto il gioco della speculazione contro chi venisse identificato come il successivo anello debole della catena? L’Italia è certo oggi in condizioni migliori, in quanto a percezione dei mercati e quindi ad andamento dei tassi d’interesse, di quanto non fosse appena un paio di anni fa. 

Ma non va sottovalutato il peso del nostro enorme debito, che rappresenta un punto sempre vulnerabile. E anche la Spagna, che pure negli ultimi mesi sembra aver guadagnato ancora più fiducia di noi da parte degli investitori, potrebbe trovarsi in difficoltà. Qui, come in Portogallo, si vota nel 2015 e gli arrabbiati del movimento Podemos – che al pari dei greci di Syriza chiedono un radicale cambio di marcia nelle politiche di austerità imposte dall’Europa – veleggiano nei sondaggi. Perfino la Francia, in uno scenario simile e con le difficoltà di finanza pubblica che sta sperimentando, non avrebbe garanzie di evitare gli attacchi della speculazione.

Creare un precedente per l’uscita di un Paese – anche se piccolo e in grande difficoltà come la Grecia – dall’euro, rischia insomma di essere pericoloso per l’euro stesso. Dopo le elezioni di gennaio capiremo fino in fondo quali sono le posizioni degli schieramenti politici greci sul debito pubblico – oggi al 175% del Pil – e quanto i partner europei, Germania in testa, sono pronti a cedere sul fronte di una sua eventuale ristrutturazione. Il rischio da evitare – per il bene di tutti – è appunto quello che nei negoziati che paiono destinati ad aprirsi la «Grexit» diventi un’opzione praticabile. 

Da - http://www.lastampa.it/2015/01/06/cultura/opinioni/editoriali/i-rischi-per-atene-e-per-gli-altri-xkoc7gCgP0GSsOLTNXIEEI/pagina.html
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« Risposta #48 inserito:: Febbraio 18, 2016, 11:55:55 am »

“I tedeschi devono capirlo Solo con più crescita si abbatte il debito”
Gutgeld: “Meno spesa improduttiva. Più risorse a scuola e sanità”


17/02/2016
Francesco Manacorda
Roma

«Fare la spending review è come rimettersi in forma. Prima di tutto bisogna seguire una dieta, ma poi si deve anche cambiare stile di vita. Ecco, noi stiamo passando alla fase due della revisione della spesa in cui si va dai semplici tagli a una revisione strutturale, che punta a cambiare la qualità della spesa». Incurante dell’effetto delle sue metafore sui 120 chili abbondanti di cronista che ha di fronte, stretto in una stanzetta provvisoria di Palazzo Chigi mentre stanno ridipingendo il suo studio, Yoram Gutgeld fa il bilancio del suo primo anno da consigliere economico del premier e da commissario alla spending review. Ma guarda più che altro avanti. Alla «fase due», per l’appunto, e allo scontro tra il governo italiano e Bruxelles sulla flessibilità di bilancio. Uno scontro che non ha ragione di esistere, dice: «Tutte le persone di buon senso capiscono che il debito si abbatte solo se aumenta la crescita».

Dopo un biennio di governo Renzi come si sostanzia questa fase due? E che cosa replica a chi dice che la revisione della spesa va a rilento?  
«Che stiamo facendo tanto, anzi tantissimo. Basta pensare che la spesa corrente dal 2013 al 2016, come percentuale del Pil, è scesa dell’1,6%. In Germania quando Gerhard Schroeder fece le riforme a inizio anni 2000 in un triennio le spese scesero solo dello 0,6% del Pil».  

Questa è la replica alle critiche. E la revisione strutturale?  
«Le faccio qualche esempio. Stiamo passando alla centralizzazione degli acquisti, da 35 mila a 33 centrali di acquisto: significa non solo spendere meno per i beni acquistati, ma anche razionalizzare e snellire i processi, con altri risparmi. Da una settimana 15 miliardi di acquisti, soprattutto nella sanità, sono passati a centrali su base regionale o pluriregionale. Per i Comuni stiamo passando ai costi standard come parametro di spesa: nel 2015 riguardavano il 20% della spesa, quest’anno passiamo al 40% e nel 2019 arriveremo al 100%».  

In concreto che cosa significa cambiare il mix di spesa e come influenza i servizi pubblici?  
«I dati finali li daremo in marzo, ma intanto posso anticipare che nel 2016 la spesa nominale per i cosiddetti servizi generali, quella meno produttiva, è scesa di circa 4,5 miliardi rispetto al 2014. Sono soldi che si sono potuti dirottare su altre voci, con l’obiettivo di non ridurre il livello di servizi per i cittadini, ad esempio aumentando di oltre 3 miliardi la spesa per la scuola e di un miliardo quella per la Sanità, con effetti molto concreti: l’anno scorso 32 mila ammalati di Epatite C hanno potuto usufruire di un farmaco salvavita molto costoso e passato dal Servizio sanitario nazionale».  

Domani Matteo Renzi sarà al vertice europeo di Bruxelles. Il primo dopo settimane di polemiche sulla flessibilità dei conti pubblici. Come andate al vertice e quali risultati vi aspettate?  
«Arriviamo là con una conferma della linea che abbiamo adottato fin dall’inizio, spiegando che siamo ligi a tutte le regole di bilancio europee, più di altri Paesi».  

Anche perché abbiamo sulle spalle un debito pubblico del 133% del Pil che non ci concede stravaganze...  
«Non c’è dubbio. Proprio per questo ancora prima di Bruxelles ci giudicano i mercati finanziari. E proprio per questo dobbiamo essere particolarmente seri e affidabili, come l’Italia non sempre è stata in passato. Del resto nel 2016, dopo nove anni il rapporto debito/Pil comincerà a scendere».  

Per ora, più che altro, non sale il Pil.
Lo 0,7% nel 2015 rispetto allo 0,9% previsto dal governo...  

«L’Italia è il Paese che in un anno ha fatto il balzo maggiore: da un -0,4% siamo passati a un +0,7%. Ma è vero che la crescita europea è insoddisfacente e l’unico modo per mettere il debito sotto controllo - per l’Italia e per tutta l’Europa - è garantire una crescita robusta. Anche chi si preoccupa per la sostenibilità del nostro debito, come i tedeschi, deve capire che la crescita oggi è la priorità».  

Di crescita ha appena parlato anche Mario Draghi.  
«Ho ascoltato con molto interesse le sue parole lunedì. Il presidente della Bce dice che da un lato bisogna ridurre le tasse e dall’altro aumentare gli investimenti. È proprio quello che stiamo cercando di fare, con una riduzione delle tasse di 29 miliardi nel 2015».

Draghi però dice che questo lo può fare chi in regola con i conti pubblici. L’Italia invece sembra chiedere più deficit adesso per fare meno debito in futuro. Non è così?  
«No, noi stiamo assolutamente dentro le regole europee. Regole che prevedono che chi fa le riforme e chi sta migliorando i conti ha la possibilità di avere un percorso di riduzione del deficit bilanciato, consentendogli di fare investimenti. Se si riduce il deficit troppo rapidamente si rischia la recessione. Lo abbiamo visto con il governo Monti».  

Ma Bruxelles vi invita a non spingere troppo sulla flessibilità. Oltre che per investimenti e riforme la volete anche per i migranti, peraltro includendo anche il «bonus» cultura...  
«Si tratterà anche su questo. Ma sui migranti chiediamo di fatto quello che hanno chiesto altri Paesi per un problema che affrontiamo già da 2012. Abbiamo appena dato 3 miliardi alla Turchia. Quel che chiediamo è in linea con quanto chiesto, e ottenuto, da altri».  

Chi vi seguirà in questa battaglia se non Spagna e Portogallo? E così non si rischia di ricreare un Club Med rispetto al quale mezza Europa - quella del Nord - avrebbe tutte le occasioni per chiedere uno sganciamento?  
«Penso che ci seguiranno tutte le persone di buon senso. Ho visto appoggio per alcune nostre istanze dalla Gran Bretagna e dal presidente del Parlamento europeo Martin Schulz».  

Capitolo banche. La «bad bank» trattata con Bruxelles pare solo un pannicello caldo che non risolverà certo i problemi delle sofferenze. Concorda?  

«No. È un aiuto, specie per le banche piccole che così potranno cedere meglio i loro crediti. È vero che non possiamo fare quello che hanno fatto altri in passato, con regole diverse, ossia mettere soldi pubblici nelle banche. Ma questo elemento aiuterà, assieme ad altri tasselli importanti come la norma che accorcia i tempi di rimborso dei creditori».  

La riforma delle Popolari che mette in moto a fatica le aggregazioni. Quella delle banche di credito cooperativo che scatena polemica sulle norme che «salvano» dalla holding unica alcuni istituti toscani. E sullo sfondo il caso Mps - banca toscana e legata al Pd - che nessuno vuole sposare. Non è abbastanza per dire che per il governo c’è un problema bancario?  

«Di nuovo no. Quello che il governo sta cercando di fare è di creare le condizioni per mettere assieme le banche più piccole e meno solide. Stabilire che, come nel caso delle Bcc, qualcuna di quelle più grandi possa restare autonoma mi pare buon senso. Mps sta pagando scelte del passato mentre la nuova gestione ha portato risultati migliori. Mi auguro che per questa banca si trovi una soluzione di mercato».  

Torniamo al vertice di domani. Renzi ha battuto i pugni su tavolo. Ma ora non è il momento di mettere da parte i toni polemici?  

«Il presidente del Consiglio ha fatto diventare pubblico un dibattito che non doveva restare nelle segrete stanze europee, anche perché riguarda tutti noi. Ma confido che riusciremo a spiegare in Europa l’entità delle riforme che stiamo facendo, anche sul fronte del bilancio. Proprio la quantità e la qualità della spesa pubblica è un modo per affermare che siamo non seri, ma serissimi, sui nostri conti».

Da - http://www.lastampa.it/2016/02/17/italia/politica/i-tedeschi-devono-capirlo-solo-con-pi-crescita-si-abbatte-il-debito-C67agmBoxDP9grCBaMQJdK/pagina.html
« Ultima modifica: Gennaio 09, 2017, 06:09:46 pm da Arlecchino » Registrato
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« Risposta #49 inserito:: Aprile 08, 2016, 08:53:23 pm »

Il via libera del premier ai francesi: ormai Silvio non mi preoccupa più
La partita doppia di Bolloré: ottiene luce verde sul polo televisivo ma la sua Telecom adesso è messa nell’angolo dal governo


07/04/2016
Francesco Manacorda
Milano

Una coincidenza? Difficile crederlo. Lo stesso giorno in cui Telecom Italia, con Vincent Bolloré azionista di maggioranza, si vede chiudere in faccia la porta dal governo sullo sviluppo della banda larga, Vivendi - sempre con Bolloré azionista di maggioranza - compie l’abbraccio azionario con Mediaset. 

Una partita doppia, allora? Per il finanziere bretone che da decenni ha scelto l’Italia come destinazione favorita, senza dubbio. Nella colonna del dare c’è oggi una perdita di peso strategico della «sua» Telecom, dove nel giro di qualche mese ha messo quattro uomini in consiglio e ha appena cambiato l’amministratore delegato. In quella dell’avere, invece, Bolloré può segnare lo sbarco sul mercato televisivo italiano, ma soprattutto l’embrione di quello che ambisce ad essere il concorrente europeo di Sky e forse quello globale di Netflix. 

Uno scambio, addirittura? E perché no. Sotto la regia del governo, naturalmente, visto che il bon-ton di politica&finanza impone a qualsiasi latitudine di chiedere permesso se si entra in casa altrui occhieggiando oggetti di valore - non solo economico - come le telecomunicazioni e le televisioni. Anche per questo - raccontano fonti attendibili - nelle scorse settimane Bolloré è andato ancora una volta a trovare Renzi; in questo caso per chiedergli un informale via libera sull’operazione Vivendi-Mediaset. Via libera concesso dal premier anche sulla base della constatazione che ormai Silvio Berlusconi non rappresenta più per lui un pericolo politico e che quindi non c’è rischio ad alimentarne le attività nei media con nuovi soci.

A voler essere maliziosi si potrebbe addirittura pensare che con il suo sigillo sull’operazione Vivendi-Mediaset il premier offra all’avversario di un tempo un’onorevolissima via d’uscita, prospettando magari alla nuova generazione dei Berlusconi un ruolo non più come azionisti di maggioranza di un’azienda televisiva che nel passato ha avuto un ruolo essenziale anche nelle vicende politiche del capofamiglia, ma come soci di minoranza di un soggetto assai più grande che per la sua stessa natura paneuropea (Francia, Italia, un po’ di Germania e quella Spagna da sempre cara a Mediaset) e un profilo ben tagliato su sport e intrattenimento non troverebbe convenienza a impegnarsi in battaglie informative nazionali. 

 
Resta il fatto che quella che sembrava essere la missione principale di Bolloré - insediarsi al comando di Telecom mantenendo intatto il vantaggioso ruolo di ex monopolista dell’operatore telefonico sul mercato italiano - per ora non pare andata del tutto in porto. Certo, attraverso Vivendi il finanziere ha ormai una saldissima maggioranza relativa, appena sotto il 30%, nella società telefonica E certo, nel cda di Telecom Italia soffia ormai il vento di Bretagna. Ma la banda larga è adesso più un affare dell’Enel che non della società di telecomunicazioni che sarebbe stata il candidato naturale per l’operazione. 

Un classico colpo alla Renzi - sostiene una scuola di pensiero - per scuotere una Telecom troppo ferma e costringerla a confrontarsi su un’infrastruttura essenziale per lo sviluppo del Paese. Una dimostrazione di dirigismo alle vongole - è la tesi opposta - in cui si prende una società partecipata dallo Stato come Enel e la si indirizza su una missione non sua, escludendo nel contempo un soggetto privato e competente come Telecom. Presto, probabilmente, per giudicare gli effetti di questa mossa sul sistema italiano. E presto, prestissimo, anche per archiviare con un semplice pareggio la partita italiana di Bolloré. Se consolidamento, nelle tv come nelle telecomunicazioni, è comunque la parola d’ordine di questi tempi, c’è da giurare che il finanziere non perderà troppo tempo alla guida di una Telecom immobile, ma si muoverà attivamente. Magari evitando di replicare certe sortite come quella del 2010 nella Premafin dei Ligresti che portarono la futura stella francese della finanza italiana a guadagnarsi - era il gennaio 2014, non il secolo scorso - una multa Consob da 3 milioni di euro e diciotto mesi di interdizione da qualsiasi carica sociale per manipolazione del mercato.

Da - http://www.lastampa.it/2016/04/07/economia/il-via-libera-del-premier-ai-francesi-ormai-silvio-non-mi-preoccupa-pi-U2ulWpF1vC0qCyEd3PnC4O/pagina.html
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« Risposta #50 inserito:: Ottobre 21, 2017, 12:09:56 pm »

Quella fiducia spezzata

Di FRANCESCO MANACORDA
19 Ottobre 2017

La bomba sotto forma di mozione parlamentare sganciata martedì dal Pd di Matteo Renzi sulla Banca d’Italia ha un effetto immediato nettissimo e una conseguenza a breve altrettanto netta. L’effetto è che il solitamente mite presidente del Consiglio Paolo Gentiloni — spiega chi lo ha sentito ieri — è a dir poco infuriato per il metodo e per il merito del blitz portato avanti dai fedelissimi di Renzi. La conseguenza in arrivo è che lo stesso Gentiloni è intenzionato a riconfermare il governatore Ignazio Visco. Questo nonostante la mozione presentata martedì dal Pd alla Camera che chiede una «figura più idonea» per via Nazionale.
 
A scrivere il testo della mozione Pd che attaccava il vertice di Bankitalia e chiedeva i presupposti per «una nuova fiducia nell’istituzione» – è infatti la ricostruzione che si fa a Palazzo Chigi – è stato il capogruppo del Pd alla camera Ettore Rosato con la fattiva collaborazione della sottosegretaria alla Presidenza del Consiglio Maria Elena Boschi; proprio lei avrebbe aggiunto alcuni punti di suo pugno a una mozione che suonava come uno schiaffo a Visco e a Bankitalia. Peccato che Rosato abbia assicurato – prosegue la ricostruzione – alla presidenza del gruppo Pd che il testo fosse ovviamente noto anche al governo mentre così non era. E davvero peccato che la Boschi si sia ben guardata dall’informare i suoi compagni di governo come lo stesso Gentiloni e il ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan, per non parlare del Presidente della Repubblica.
 
Martedì alla Camera si è spezzato, insomma, il filo di fiducia che ancora teneva legato il presidente del Consiglio e il segretario del Pd, suo azionista di maggioranza. Una rottura acuita dal comportamento della Boschi e dal fatto che nessun altro dei ministri, anche quelli più vicini a Renzi come Maurizio Martina, era stato avvertito della mossa in preparazione. Alla profonda irritazione di Gentiloni si aggiunge quella del Presidente Sergio Mattarella, che già martedì pomeriggio dopo la mozione Pd con 213 voti a favore era dovuto intervenire con parole nette per sottolineare la necessità di preservare una Banca d’Italia autonoma e indipendente. E poi ci sono le telefonate preoccupate arrivate nelle stesse ore a Roma dalla Banca centrale europea e il fuoco di sbarramento che Renzi ha incontrato e incontra anche da esponenti di primissimo piano del suo partito. Ecco così che tutto sembra allinearsi per la riconferma di Visco.

Questa, del resto, era già l’accordo informale raggiunto tra Palazzo Chigi e il Colle. E questo è stato forse l’innesco che ha spinto Renzi a dare fuoco alle micce.
 
Tutto come prima, dunque? Non proprio. Perché oltre allo strappo tra Gentiloni e Renzi, anche in Banca d’Italia si respira un’aria di estremo nervosismo. Paradossalmente, mentre nei palazzi del potere politico l’accordo su Visco pare tenere, proprio in via Nazionale si nutrono i timori maggiori. E’ vero, il processo di nomina dei vertici di Bankitalia è per legge fuori dalla dinamica parlamentare proprio perché si tratta di un’istituzione di garanzia. Ma è inutile negare che quei 213 voti della maggioranza contro la Banca hanno fatto una certa impressione. Il Governatore avrebbe preferito una soluzione rapida per al sua riconferma; magari già al Consiglio dei ministri che lunedì scorso ha varato la legge di Bilancio. Ma così non è stato - anche perché Gentiloni non voleva interferire con le mozioni su Bankitalia annunciate dalle opposizioni (ma non dal Pd) in arrivo alla Camera - e così non sarà nemmeno oggi, quando il Consiglio è sì convocato, ma senza un punto Bankitalia all’ordine del giorno e soprattutto senza la presenza del premier, che è fuori Italia. Si andrà allora, a meno di convocazioni straordinarie, a venerdì 27; appena una manciata di giorni prima della fine di ottobre, quando il mandato del numero uno di Bankitalia scade e il nome per la successione dovrà essere inevitabilmente pronto. Per gli uomini più vicini al Governatore la settimana abbondante che deve passare è una iattura: più si allungano i tempi – è il ragionamento – più aumentano i rischi di una polarizzazione tra i sostenitori e gli oppositori di Visco e quindi la possibilità che si vada a un candidato di mediazione. Alla luce del “metodo Gentiloni”, invece, quello stesso tempo che passa è un toccasana: serve per provare ad appianare i dissidi, per cercare un’intesa che oggi appare impossibile.
 
Nei prossimi giorni, dunque, non sono da escludersi altri attacchi da parte di Renzi e nuove dimostrazioni di resistenza da parte di Palazzo Chigi. Visco, mentre anche ieri si addensavano voci interessate su un suo possibile passo indietro o sulla scelta volontaria di un mandato “a tempo” inferiore ai sei anni della legge, non ha alcuna intenzione di fare mosse di questo genere. Sa che probabilmente il suo prossimo mandato è a rischio di polemiche fortissime; è conscio che qualsiasi nuova crisi bancaria porterebbe nuovi attacchi politici contro via Nazionale - con il Pd in testa - ma non pensa che questo possa essere un ostacolo.

Se poi ci dovessero essere scossoni dell’ultimo minuto e la strada per la riconferma del Governatore dovesse essere davvero impercorribile, il suo successore non sarà un outsider - come ha spesso ventilato Renzi - ma uno dei componenti del Direttorio che in questi anni ha diviso scelte e responsabilità con lo stesso Visco. Al Presidente della Repubblica, che da statuto della Banca deve firmare il decreto di nomina del Governatore su proposta del presidente del Consiglio, potrebbe arrivare in quel caso non il solo nome di Visco, ma una terna che comprenderebbe anche il direttore generale di Bankitalia Salvatore Rossi e il vicedirettore Fabio Panetta.

© Riproduzione riservata19 Ottobre 2017

Da - http://www.repubblica.it/economia/2017/10/19/news/quella_fiducia_spezzata-178712357/?ref=RHPPLF-BH-I0-C8-P1-S1.8-L
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