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Autore Discussione: FRANCESCO LA LICATA. -  (Letto 23101 volte)
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« Risposta #15 inserito:: Giugno 20, 2011, 05:02:39 pm »

20/6/2011

L'isola-palcoscenico alla fine resta sola

FRANCESCO LA LICATA

Da qualche tempo Lampedusa sembra diventata un grande palcoscenico dove, in alternanza, si rappresenta ora l’enorme tragedia dell’umanità in fuga da guerre, povertà e tirannia, ora l’intramontabile commedia della politica che cerca l’affermazione di idee della vita e della libertà spesso opposte e contrastanti.

È toccato ieri ad Angelina Jolie, star autentica e dunque lontanissima dal sospetto di autoesaltazione, celebrare con parole sincere Lampedusa e indicarla come «Porta d’Europa» aperta e accogliente. L’ambasciatrice Onu di buona volontà ha avuto giudizi generosi sui lampedusani che ormai da anni affrontano l’emergenza umanitaria senza abbandonarsi ad isterismi e senza chiudersi nell’egoismo ottuso.

Solo un paio di settimane prima Claudio Baglioni, che a Lampedusa tiene casa, attraverso la sua Fondazione aveva messo su una manifestazione per concentrare l’attenzione sui problemi dell’isola. Ha portato 33 cantautori in concerto e per tre giorni tutti insieme hanno incitato: «Lampedusa sùsiti», alzati. «Qui - commentava Baglioni - si gioca una partita bella».

Già, si gioca proprio una partita: questo è certo. Una partita politica il cui esito non è prevedibile e che attira nell’isola personaggi contrastanti e non sempre vicini alle necessità degli isolani.

A marzo giunse il leghista Borghezio che accompagnava Marine Le Pen, candidata all’Eliseo dell’estrema destra francese. Anche in quell’occasione il sindaco De Rubeis - come ieri con la Jolie - fece da padrone di casa. Ma le parole della Le Pen erano molto diverse e annunciavano rudemente ai migranti che per loro non ci sarebbe mai stato spazio in Europa. Ecco, quella era un’altra missione ancora. E pure la discesa del governo, l’arrivo di Berlusconi, accorso per placare le proteste dei cittadini nel momento più acuto degli sbarchi massicci. Non fu esattamente felice la promessa del premier di trasformare l’isola in un enorme campo da golf, espediente probabilmente suggerito da chi ha interessi in quel settore del tempo libero e dello sport.

E così, gli ospiti illustri si succedono a ritmo sempre più frequente, ma Lampedusa rimane immobile coi suoi problemi, divisa tra il dovere della solidarietà insito nella propria origine di terra d’accoglienza e la paura del nuovo sconosciuto.

da - lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=8875&ID_sezione=&sezione=
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« Risposta #16 inserito:: Luglio 06, 2011, 05:16:50 pm »

6/7/2011

Quel senso siciliano della morte

FRANCESCO LA LICATA

In Sicilia, a Palermo in particolare, i morti non si celebrano. Si festeggiano. Il 2 di novembre arriva la Festa dei Morti: una Befana anticipata per i bambini siculi. E la notte prima resta aperto fino all’alba il gran bazar dei giocattoli dove i genitori si riversano per esaudire i desideri dei piccoli che hanno deposto nella tomba dei propri cari il pizzino con l’elenco dei giochi richiesti.

Saranno i morti, nell’immaginario infantile, a deporre i doni sulla tavola imbandita con frutta di marzapane, noci, castagne, melograni e «la pupa di zucchero»: l’Orlando con lo scudo per i bambini, la bella Angelica per le femminucce.

Il pensiero della morte è presente nei siciliani e non c’è verso di esorcizzarlo. Giovanni Falcone arrivava a praticare l’ironia e l’autoironia per tenerlo lontano: «Il pensiero della morte - disse alla scrittrice Marcelle Padovani - mi accompagna ovunque. Ma, come afferma Montaigne, diventa presto una seconda natura... si acquista anche una buona dose di fatalismo; in fondo si muore per tanti motivi, un incidente stradale, un aereo che esplode in volo, una overdose, il cancro e anche per nessuna ragione particolare».

«Terribile» è la morte per Leonardo Sciascia, ma «non per il non esserci più ma, al contrario, per l’esserci ancora in balia dei mutevoli pensieri di coloro che restavano». Sempre sorprendente il punto di vista originale dello scrittore di Racalmuto. Puntuale come l’incrollabile pessimismo di Gesualdo Bufalino che vede nella Sicilia «una mischia di lutto e di luce». E «dove è più nero il lutto, ivi è più flagrante la luce, e fa sembrare inaccettabile la morte».

Fu l’ironia a renderla accettabile all’eccentrico barone Agostino La Lomia, che si fece costruire la tomba mentre era in vita e a 62 anni celebrò il proprio funerale, con accompagnamento della banda musicale e regolare «giro» di paste alle mandorle. «La vera casa è la tomba argomentò - e perciò bisogna pensare alla morte quando si è in letizia». Un po’ eccessivo, il barone.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=8946&ID_sezione=&sezione=
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« Risposta #17 inserito:: Luglio 12, 2011, 05:50:52 pm »

12/7/2011

Mafia, il ministro impermeabile al sospetto


FRANCESCO LA LICATA

Lo stato di salute di un Paese si misura anche dalle capacità di reazione, in difesa della soglia di decenza, che dimostrano le istituzioni ogni volta che la loro credibilità viene messa in discussione da scandali piccoli e grandi. Non v’è comunità al mondo che possa vantare di essere impermeabile alla corruzione, al malaffare e a tutti i moderni mali incurabili. Ma sicuramente ci sono modi diversi di far fronte alla «malattia».

Se è vero tutto ciò, dobbiamo concludere che le nostre istituzioni - e la politica in particolare - non godono di buona salute.

La recentissima vicenda che riguarda il ministro delle Politiche agricole, il «responsabile» Saverio Romano, per cui il gip di Palermo ha richiesto l’imputazione coatta per il reato di concorso esterno in associazione mafiosa, ne è dimostrazione illuminante. Anzi, per il modo in cui la storia è stata affrontata dal protagonista, per l’assoluta assenza di reazione a livello istituzionale e di opinione pubblica (la comunicazione innanzitutto) - eccettuata quella addirittura precedente del Quirinale - non è esagerato affermare che l’«affare Romano» sia da considerare una vera e propria cartina di tornasole delle pessime condizioni in cui versa la vita pubblica italiana.

L’inchiesta giudiziaria su Saverio Romano non è esattamente roba da poco. Quelle indagini hanno portato già alla condanna definitiva dell’ex governatore della Sicilia, Salvatore Cuffaro, e riguardano un intreccio di boss e politica attorno ad un gruppo mafioso vicino a Bernardo Provenzano. Per una imputazione analoga, il concorso esterno, Giulio Andreotti ha subito un lungo processo, dopo una velocissima autorizzazione a procedere richiesta, tra l’altro, dallo stesso imputato eccellente che così si sentì libero di potersi difendere al meglio.

Ma il ministro Romano non ha avvertito la stessa necessità, neppure quando - ancora prima che il Gip decidesse per l’imputazione - il Capo dello Stato aveva esternato le sue perplessità sulla nomina avanzata dal presidente del Consiglio. Anzi, in quella occasione, l’allora indagato dava quasi per scontato che si andasse verso un sicuro proscioglimento e non ebbe esitazioni a presentarsi al Quirinale per il giuramento, accompagnato da moglie e figli, come in un giorno di festa. Era abbastanza chiara l’origine della forza contrattuale di Saverio Romano: la debolezza del governo che per garantirsi la maggioranza saldava il debito coi «responsabili» chiamati a riempire il vuoto lasciato dalla fronda dei finiani. La stessa forza che oggi gli consente di mostrarsi addirittura «sconcertato» per la decisione del giudice e di intravedere un «corto circuito tra le istituzioni e dentro le istituzioni».

Ma oggi qualcosa è cambiato, in peggio. Romano è imputato di mafia, eppure la cosa non sembra sollevare troppo scandalo. Certo, è possibile che funzioni da freno la condizione generale del Paese: c’è la crisi e la speculazione contro l’Italia, c’è lo scandalo Bisignani, l’inchiesta sull’uomo di fiducia del ministro Tremonti, il nostro garante presso i mercati europei e c’è un presidente del Consiglio condannato a risarcire una cifra da capogiro, dopo una lunga tornata mediatica (ed ora anche giudiziaria) che lo ha visto al centro di scandali a sfondo sessuale. Insomma, non stiamo bene. Ma proprio per questo, forse, la vicenda processuale del ministro Romano, passata quasi in sordina, finisce per assumere il valore di controprova del nostro malessere.

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=8974&ID_sezione=&sezione=
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« Risposta #18 inserito:: Luglio 31, 2011, 11:19:58 am »

31/7/2011

Non è soltanto follia d'estate

FRANCESCO LA LICATA

Un inseguimento notturno da film sul raccordo anulare: la polizia spara su un’auto in fuga guidata da un energumeno-stalker che aveva sparato (a salve) alla casa dell’ex fidanzata.
Dentro l’auto è rimasto il cadavere del quarantenne che aveva anche tentato di travolgere un poliziotto. Nello stesso tempo, ad Artena (50 chilometri dalla capitale), venivano trovati i corpi di due uomini, uccisi con coltelli e, forse, con accetta e quindi bruciati. E alle prime luci dell’alba il Tevere restituiva un terzo cadavere di cui ancora pochissimo si sa.

Una notte da «Criminal Mind», anche se si lasciano inesplorati i mille episodi di piccola violenza che ormai non trovano neppure più posto nelle cronache. E puntualmente si mette in moto l’automatismo psicologico che fa scattare l’allarme, la paura, l’inquietudine per la «scoperta» di «Roma violenta». Dentro questo automatismo vanno collocate reazioni diverse e contrastanti di tecnici (responsabili della sicurezza) e politici, alcuni propensi a minimizzare per autodifesa del proprio ruolo, altri ad alzare il tiro per mettere in difficoltà i propri avversari politici.

D’altra parte è, questo, un canovaccio che si ripropone periodicamente e a parti invertite, a seconda di chi ha la responsabilità della gestione della città. Se oggi, dunque, le opposizioni lamentano poca sicurezza, non è certo l’avversa parte politica che se ne può lamentare, visto che le precedenti elezioni sono state fortemente condizionate da una campagna tutta giocata sui temi della sicurezza e della paura dei «clandestini». Ne è testimonianza l’atroce vicenda della signora Giovanna Reggiani, violentata e uccisa da un romeno a Tor di Quinto.

Ma bastano alcuni, anche efferati, episodi, concentrati in uno spazio di tempo breve, per certificare l’entrata di Roma capitale nel novero delle città violente? C’è soltanto un problema di sicurezza dietro le esplosioni di violenza metropolitana? E deve impensierire di più il timore della criminalità organizzata, rispetto alla patologia di una caduta di considerazione del valore della vita umana che costituisce la base dell’imbarbarimento del nostro vivere civile?

Sono domande di non facile risposta che presuppongono valutazioni poco sensibili alle spinte emozionali. Certo, fa impressione che in pieno quartiere Prati un giovane venga assassinato a revolverate alla luce del giorno. E incute certamente paura l’idea che Roma possa tornare quella degli anni di piombo del terrorismo o della morsa paramafiosa dei criminali della Banda della Magliana. Ma come dovrebbe definirsi allora quanto è accaduto e accade in Sicilia e nel Sud in generale? Altro che violenza criminale.

Ventidue assassinati dall’inizio dell’anno non sono pochi, anche se non tutte le vittime sono prodotto del crimine organizzato. Un’analisi più attenta rivela che sono di più i morti prodotti da una «normale, quotidiana violenza». Insomma, il pericolo dell’escalation mafiosa è presente negli addetti ai lavori, ma è un dato ancora «fisiologico» specialmente se rapportato alle dimensioni di una grande metropoli come Roma.

In una recente dichiarazione, all’indomani di uno dei tanti allarmi-criminalità, lo stesso prefetto Pecoraro ha sentito la necessità di distinguere nettamente i delitti di matrice pseudomafiosa dagli altri che presentano moventi cosiddetti «privati» e quindi, a giudizio di tanti, meno allarmanti.

Ma è davvero così? Dobbiamo serenamente rimanere immobili se attorno a noi prolifera una violenza ormai quasi endemica? L’estate, si sa, amplifica malesseri reconditi che esplodono improvvisi. Ma nella cronaca degli ultimi tempi sembra rintracciabile qualcosa in più della follia estiva, qualcosa di più inquietante. Si muore troppo per motivi di interesse: lite col morto a Tor Vergata per un prestito non pagato, muore cadendo dal balcone mentre si cala dalla grondaia dopo aver rubato la borsa al vicino, pastore assassinato dal dipendente perché non lo aveva pagato, rapinatore muore schiacciato dalla porta blindata che aveva fatto saltare col gas. Questi gli episodi più gravi, che certamente ne nascondono molti altri sfuggiti alle cronache.

No, forse più della mafia è inquietante la fine toccata al giovane musicista ucciso a sprangate al rione Monti, o la coltellata inferta, a Porta Maggiore, al trans brasiliano colpevole di aver redarguito un automobilista indisciplinato. Sono sintomi di un malessere più profondo che non potrà essere curato dai 360 carabinieri e poliziotti che arriveranno a Roma a settembre. Quelli sì che sono utili, ma solo per la lotta al crimine. Per l’altra malattia necessita ritornare alla convivenza civile e sfuggire alla sindrome del «canaro della Magliana».

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9040
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« Risposta #19 inserito:: Ottobre 12, 2011, 12:06:20 pm »

11/10/2011

La memoria ritrovata svela 19 anni di misteri

FRANCESCO LA LICATA

La memoria del pentito Giovanni Brusca ha lasciato a desiderare per molti anni. L’assassino di Giovanni Falcone e carnefice del piccolo Giuseppe Di Matteo è stato, in passato, utile per liberare l’indagine sulle stragi mafiose dalla cappa del silenzio assoluto. Si deve a Brusca - prima ancora che a Massimo Ciancimino e agli altri «testi privilegiati» dell’indagine - la scoperta dell’esistenza della trattativa fra Stato e mafia portata avanti da Totò Riina per «convincere» le istituzioni ad alleggerire la repressione, soprattutto carceraria, abbattutasi su boss e picciotti.

Eppure Brusca non si era mai spinto nelle pieghe di quel momento storico ancora pieno di ombre, silenzi ed omissioni. Per vent’anni la memoria non lo ha sorretto sull’inizio di quella trattativa. Ricordava vagamente di averne parlato con Totò Riina, ma non quando e in che termini. Oggi assistiamo al prodigioso ritorno di memoria dell’uomo che dovrebbe portare un marchio indelebile nel cervello, dal momento che si è assunto l’onere di premere il pulsante che ha schiantato Giovanni Falcone e la sua scorta.

Dice il pentito, interrogato ancora su sua richiesta nell’ambito del processo Mori, che finalmente ha ricostruito l’attimo in cui ha saputo da Riina dell’esistenza della trattativa e del cosiddetto «papello» (le richieste della mafia allo Stato contenute in «alcuni fogli». E la data coincide perfettamente coi sospetti dell’accusa e con quanto ha rivelato due anni fa Massimo Ciancimino. Confermando così, indirettamente, la corretta ricostruzione fornita alla magistratura dall’ex ministro Claudio Martelli e da Liliana Ferraro a proposito dell’iniziativa dei carabinieri di intraprendere un contatto con l’ex sindaco di Palermo, Vito Ciancimino, al fine di convincere il vertice della mafia corleonese a finirla con le bombe assassine.

Ma non è solo questo il risultato dell’improvviso ritorno di memoria di Brusca. Cosa fa il pentito, parlando come ha parlato? In sostanza conferma la testimonianza di Massimo Ciancimino, pur non citandolo mai. Ma poi cita, con nome e cognome, Gaspare Spatuzza addirittura indicandolo come una delle sue fonti nel momento cruciale del passaggio dallo stragismo in Sicilia a quello «nel Continente» del 1993 e ‘94. Una perfetta legittimazione per Spatuzza, appena ammesso al programma di protezione. Se l’ex mafioso di Brancaccio - che tira in ballo nelle vicende mafiose Dell’Utri e Berlusconi - sapeva tanto da essere fonte di Brusca, nessuna sorpresa che fosse informato in tempo reale degli sviluppi della strategia di Totò Riina. Ed è credibile, dunque, che conoscesse anche i motivi della fine dello stragismo mafioso: i dissidi tra l’irriducibile Leoluca Bagarella e i «trattativisti» fratelli Graviano, capi di Gaspare Spatuzza. Certo, se la memoria non lo avesse abbandonato, Brusca avrebbe fatto risparmiare 19 anni di fragili indagini e depistaggi. E forse Ciancimino non avrebbe avuto il tempo di farsi del male, suicidandosi come teste.

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9309
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« Risposta #20 inserito:: Ottobre 15, 2011, 05:33:25 pm »

15/10/2011

Strage Borsellino, gli oscuri scenari di un depistaggio

FRANCESCO LA LICATA

Dopo mesi e mesi di anticipazioni, indiscrezioni, annunci e smentite si è raggiunta la certezza che il processo per la strage di via D’Amelio - che costò la vita a Paolo Borsellino e alla sua scorta - va rifatto. Lo chiede la Procura Generale di Caltanissetta con un documento che il capo di quell’ufficio, Roberto Scarpinato, deve aver scritto non senza fatica e con qualche disagio. Certamente non per inadempienze sue ma per il coinvolgimento, non esaltante, di magistrati e investigatori dell’epoca in una vicenda di cui non si intravede facile via d’uscita.

Scarpinato ha «dovuto» - glielo impone il senso della giustizia e del dovere che non gli manca - chiedere un nuovo giudizio per undici innocenti condannati per reati vari, alcuni dei quali da dieci anni in fase di espiazione dell’ergastolo. Ovviamente ha chiesto anche la sospensione della pena per tutti i detenuti. E’ certo, inoltre, che le porte del carcere si apriranno per altri finora rimasti liberi, protetti dell’enorme operazione di depistaggio che sulla strage Borsellino fu compiuta da organismi istituzionali e da singoli funzionari. Il grande inganno ha ruotato attorno alle dichiarazioni di due falsi pentiti, Scarantino e Candura, autoaccusatisi di aver rubato l’auto che servì per compiere l’attentato. E’ stato scoperto - seppure con grande ritardo - grazie alle rivelazioni di Gaspare Spatuzza, il pentito che ha esibito le prove di quanto afferma, quando racconta come e dove fu imbottita d’esplosivo la «126 bomba» e dove venne rubata. Potrà sembrare incredibile, ma le false rivelazioni di Scarantino e Candura - per la verità traballanti anche all’epoca dei processi - hanno resistito a tre gradi di giudizio, a riprova del fatto dell’esistenza di una specie di «doppio binario» nelle indagini sulla mafia che abbassa la soglia dell’onere della prova, senza alcun pianto greco di garantisti affranti, tranne che non vi sia il coinvolgimento di qualche potente.

Il procuratore Scarpinato ha imbastito un documento tecnico, scevro da analisi e considerazioni. E non poteva essere diversamente, dato che dovrà servire esclusivamente a riparare ad un errore grave. Ma dietro alla fredda certezza di porre rimedio all’ingiustizia c’è tutto un panorama alternativo che si può dedurre facilmente. Un nuovo canovaccio che non può non porsi come fine ultimo la ricerca del «movente» del clamoroso depistaggio. Sarà compito della Procura di Caltanissetta rassicurare i cittadini sul fatto che nessuna zona d’ombra rimarrà sull’atroce fine di Paolo Borsellino. E non solo, dal momento che i nuovi impulsi investigativi sembrano già aver riaperto il discorso anche sull’inchiesta (anch’essa risolta in Cassazione) sulla strage di Capaci. Solo un’indagine approfondita, affrontata senza timori reverenziali o ammiccamenti alla ragion di Stato, potrà riconciliare l’opinione pubblica e, soprattutto, i familiari delle vittime con le istituzioni. E si potrà impedire che Totò Riina continui a mandare i suoi messaggi a destra e a manca, forte dell’ambiguità che gli consente di dire, anche ai magistrati, che «Le stragi sono Cosa vostra». Chi ha pianificato le falsità di Scarantino e Candura? Chi ha mandato tra i piedi alla Procura di Caltanissetta quei due impostori? Chi ha falsificato i riscontri legittimando le bugie dei pentiti d’accatto? La Procura generale oggi chiede la scarcerazione anche per Scarantino. Cosa vuol dire questo? Forse che la calunnia per cui fu condannato quando, in una delle sue ritrattazioni, confessò di essere stato «costretto» a mentire, non è più una calunnia e che - quantomeno - bisognerà approfondire su quelle «pressioni» che disse di aver ricevuto.

Ma perché qualcuno avrebbe dovuto «deviare» le indagini? Le ultime rivelazioni dell’attendibile Spatuzza autorizzano il ragionevole sospetto che la versione Scarantino fosse una specie di toccasana per limitare l’inchiesta ad un movente minimalista della strage: mafia e basta. Il coinvolgimento della Cosa nostra di Brancaccio, dei fratelli Giuseppe e Filippo Graviano, di per sé, allarga gli scenari a ipotesi più complesse e di natura più «economico-politica».

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9323
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« Risposta #21 inserito:: Dicembre 08, 2011, 05:22:26 pm »

8/12/2011

L'ultimo camorrista della scuola siciliana

FRANCESCO LA LICATA

La cattura di Michele Zagaria, capo storico della «mafia dei Casalesi» e conosciuto ai più con l’eloquente nomignolo di «Capastorta», può davvero considerarsi una pietra miliare della lotta alla criminalità organizzata.

Le stesse modalità dell’arresto (il bunker, la cintura protettiva dei fedelissimi, l’assenza di cellulari intercettabili, l’ostinata presenza nel «suo» territorio, l’ironia del capo che concede ai poliziotti la palma della vittoria), ci consegnano il profilo di una grande operazione per la presa di un grande capo.

Grande, ma anche l’ultimo di una generazioni di criminali che, in Campania, hanno creato un gruppo nuovo e diverso, lontano dalla «cartolina» del guappo «anema e core» e molto più prossimo alla ferrea disciplina della mafia siciliana tutta tesa soprattutto alla concretezza degli affari. Michele Zagaria rappresenta l’ultimo discendente di una camorra cresciuta all’ombra e alla scuola della «migliore» Cosa nostra, quella della mafia di Ciaculli e di Michele Greco il «papa».

Sono ormai decenni che i giornalisti, gli osservatori più accorti sottolineano la particolare pericolosità dei casalesi, giustamente considerati un qualcosa di diverso, di particolare rispetto alla camorra rinchiusa e concentrata nella gestione dell’illegalità diffusa. No, i casalesi - come la mafia siciliana - hanno sempre dimostrato quella attitudine alla corruzione delle istituzioni e delle coscienze di tanti cittadini, specialità che ha consentito a Cosa nostra di assumere la leadership criminale fino a divenire la più potente del mondo.

Le radici non tradiscono: fu il gran capo Antonio Bardellino, socio fondatore della premiata ditta dei casalesi, a inglobare la «famiglia» dentro il redditizio guscio della mafia palermitana dei Greco, dei Bontade e dei Riccobono. Il piatto da spartire era, allora, il contrabbando delle sigarette. Quando cominciarono a prevalere i corleonesi, i fratelli Zaza e Lorenzo Nuvoletta andarono in quella direzione.

Il business delle bionde produceva lauti guadagni, ma i casalesi guardavano oltre. La «scuola siciliana» li portava ad ambire ai grandi affari. E così a furia di investire e intrecciare fortunate amicizie politiche - come dimostra la vicenda ancora aperta dell’on. Nicola Cosentino - si ritrovano oggi, proprio con Zagaria, dentro la realtà dei ricchi appalti che travalicano i confini del proprio territorio per spingersi verso zone erroneamente ritenute immuni dal contagio mafioso, come l’Emilia o la Lombardia.

Sono davvero sorprendenti le affinità del film visto ieri mattina con la moviola delle precedenti catture. Certo, la latitanza di «capastorta» non è stata lunga come quella di Provenzano o di Riina, ma anche le forze dell’ordine e la magistratura di oggi non sono quelle degli Anni Sessanta e Settanta. E’ difficile non accostare Zagaria ai grandi latitanti, tutti uguali nelle regole e nella disciplina: capaci di stare mesi interi segregati in una stanza che scompare in una botola (un meccanismo simile era nella casa di Giovanni Brusca), limitatissimi nei contatti con l’esterno e con gli estranei, sospettosi nell’uso dei cellulari e della tecnologia (Provenzano non li usava, Zagaria dicono usasse schede internazionali sempre diverse). E poi le immancabili immagini sacre e le foto dei propri cari in una cornice a forma di cuore.

Ma attenzione: finisce, come giustamente fa notare il procuratore Piero Grasso, il mito di un imprendibile, non si chiude la battaglia col mostro. L’animale feroce, anzi, può solo diventare più pericoloso perché il nuovo che avanza, anche nelle consorterie criminali, non promette nulla di buono.

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9530
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« Risposta #22 inserito:: Gennaio 06, 2012, 09:44:01 am »

6/1/2012

La follia di due balordi

FRANCESCO LA LICATA

La sera del 4 maggio del 1980 il capitano dei carabinieri Emanuele Basile fu ucciso da un commando mafioso mentre, con la moglie e la figlioletta di 4 anni, prendeva parte, a Monreale, alla processione per la festa del Santissimo Crocifisso.

Quando i killer di Cosa nostra spararono, l’ufficiale teneva in braccio la piccola Barbara. Lui fu raggiunto da numerosi colpi, la bambina - fortunatamente - non fu neppure sfiorata.

Questa immagine ci ha attraversato la mente nell’apprendere le fasi sconvolgenti, i particolari della terribile aggressione di Tor Pignattara. Si può azzardare un parallelo tra le due storie? Certo che no, se non per tentare - oltre l’identico sdegno per la violenza inaudita di entrambe le vicende - un ragionamento che possa aiutare a capire ciò che accade intorno a noi, senza cedere alla pur comprensibile trappola emotiva.

E il ragionamento ci dice che l’assalto alla famiglia cinese è opera di balordi, di «scoppiati», chiamiamoli come vogliamo, ma non identifichiamoli con la criminalità organizzata. Gli assassini di Basile, il paragone serve soltanto a sottolineare le differenze con gli altri, erano professionisti e perciò portarono a termine «chirurgicamente» la loro missione. E’ da scartare, dunque, qualsiasi accostamento tra l’eccidio di Tor Pignattara e vecchi fenomeni, come la mattanza della Banda della Magliana.

Drogati, forse. Tanto disperati da produrre il massimo del danno in modo assolutamente dissociato: due morti con un solo proiettile e la perdita del bottino (trovato poi nel giubbotto dell’uomo) sono la fotografia di una violenza cieca e gratuita.

Ecco perché i due assassini sono da considerare, se possibile, ancora più pericolosi del peggiore killer del crimine organizzato. Delinquenti liberi di attraversare qualsiasi territorio e difficilmente catalogabili nelle classificazioni approntate in ogni questura o commissariato. Cani sciolti, senza obiettivi né strategie, capaci di sparare soltanto per l’eccesso di adrenalina che affluisce nelle loro vene. Offuscati, probabilmente, anche dal pregiudizio indotto che vuole la vita di uno straniero, uno «che se la passa meglio» anche se - appunto - straniero, meno preziosa del vicino di casa italiano.

Ma la domanda da porsi è un’altra: quanti sono gli «scoppiati» in circolazione? E soprattutto: come mai rapaci di periferia, squattrinati, riescono a disporre di armi da fuoco? Cosa c’è dietro al salto di qualità che li porta dal taglierino alla pistola? Su questo tema, sembra, si stia concentrando l’attenzione di chi si appresta ad affrontare l’ennesima emergenza.

L’arrivo di uomini destinati al presidio di territori troppo spesso abbandonati al loro destino è una prima, saggia misura. L’altro lavoro investigativo deve essere rivolto al tentativo di bloccare i canali che portano armi dove c’è disagio sociale e la folta presenza di soggetti borderline. Ci dicono che a Roma ogni giorno, tra scippi e furti in appartamento, vengono rubate tre pistole. Sono numeri che devono far riflettere sulla facilità con cui nelle famiglie italiane entrano micidiali armi da fuoco. Negli Stati Uniti si piangono, sempre più spesso, le conseguenze della liberalizzazione delle armi. Noi ne conosciamo solo le più eclatanti: le stragi nelle scuole, gli eccidi. Forse sarebbe il caso di evitare di imitare gli americani anche in questo campo.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9621
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« Risposta #23 inserito:: Gennaio 11, 2012, 11:41:22 am »

11/1/2012 - VENT'ANNI DOPO LE STRAGI

Scotti, la Dc, la mafia e le verità nascoste

FRANCESCO LA LICATA


Quest’anno si celebra il ventennale delle stragi mafiose che provocarono la fine di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, i migliori magistrati che l’Italia abbia avuto. Vent’anni sono passati, quasi un quarto di secolo per ritrovarsi oggi ad arrovellarsi sui tanti misteri che nessuna indagine e nessun processo riescono a chiarire. Anzi, a distanza di tanti tempo, dall’inesauribile filo investigativo continuano a giungere notizie che - piuttosto che far luce - gettano ombre sinistre sul già complesso contesto politico di quel momento.

Il 5 dicembre scorso, la Procura di Palermo ha ascoltato (vent’anni dopo i fatti) l’ex ministro Vincenzo Scotti, che nel 1992 guidava il Viminale e venne misteriosamente rimosso senza una comprensibile ragione. I magistrati di Palermo sono gli stessi che indagano sulla famigerata trattativa tra mafia e Stato ed è quindi probabile che in quel trasferimento forzoso vedano qualche attinenza con la decisione politica di avviare - allora - un contatto con Cosa nostra per cercare di fare cessare le stragi mafiose.

Le risposte di Scotti non ci consegnano una bel ricordo di quella stagione. Si potrà dire che si tratta di notizie datate, di «archeologia giudiziaria«, degli ultimi fuochi di una guerra interna alla Dc sul fronte della lotta alla mafia. Si dica quel che si vuole, ma rimane l’amaro in bocca per un boccone indigesto che ha avuto come conseguenza il sacrificio «inutile» di diversi servitori dello Stato.

Dice, in sostanza, Scotti che nel ‘92 (governo Andreotti) la lotta alla mafia andava per «due linee diverse»: una, rappresentata anche da lui, intesa come «strategia di guerra senza condizioni», un’altra «più prudente». E spiega anche di aver subito una vera aggressione per aver lanciato l’allarme che riguardava l’incolumità di alcuni uomini della politica, indicati da un pentito come obiettivi del terrorismo mafioso.

Fu rimproverato da Andreotti per aver dato credito «a una bufala», rivela Scotti. Una «bufala» divenuta drammaticamente attendibile, subito dopo, a giudicare dal terrore disegnato sul volto di Andreotti ai funerali dell’eurodeputato Salvo Lima e dall’apprensione dimostrata dall’allora capo della Polizia, Vincenzo Parisi.

Ricorda anche, Scotti, di aver subito due strane intrusioni nel suo alloggio fino ad arrivare alla sua rimozione, con telefonata imbarazzata di De Mita e lettera del presidente Scalfaro che spiegava: «...se ci fossimo parlati forse le cose sarebbero andate diversamente...».

Ecco, per anni la sostituzione di Scotti è stata rimossa nel silenzio generale e le anomalie della cosiddetta trattativa - prima negata drasticamente poi ammessa a mezza bocca per essere alla fine relegata come esclusiva iniziativa di singoli investigatori - lasciate senza risposte.

Il tempo non sempre è galantuomo.

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« Risposta #24 inserito:: Gennaio 12, 2012, 12:19:38 pm »

12/1/2012 - LA STORIA

Citato a deporre ma il pentito è morto da anni

FRANCESCO LA LICATA

Chiamato a testimoniare a Trapani, in Corte d’Assise, al processo per l’assassinio del giornalista Mauro Rostagno, non si presenta e solo allora giudici, investigatori, avvocati e giornalisti scoprono che il preziosissimo teste, un pentito di mafia abbastanza famoso, è morto. E allora si ingenera l’ulteriore equivoco che colloca la morte «sospetta» proprio nel giorno dell’importante deposizione.

Alla fine si deve cedere all’evidenza: il pentito Rosario Spatola è morto nel suo letto nell’agosto del 2008, ucciso da stenti, da una lunga malattia e dalla povertà in cui era precipitato dopo essere uscito dal programma di protezione.

Tutto ciò è avvenuto durante l’udienza di ieri mattina, nell’ambito del dibattimento che vede alla sbarra i vertici della mafia trapanese accusati dell’uccisione di Rostagno, avvenuta il 26 settembre del 1988 a Valderice, nelle vicinanze della comunità «Saman» fondata dallo stesso Rostagno. Nell’imbarazzo generale, tutti - dai giudici ai giornalisti, passando per gli investigatori - hanno dovuto prendere atto che la morte di un pentito portato per tribunali a sostenere accuse pesanti contro personaggi del calibro dell’ex ministro Calogero Mannino o di Bruno Contrada, era passata del tutto inosservata. Tanto da aver inserito il suo nome tra i testi in un processo cominciato dopo la sua morte.

Una fine ingloriosa per il povero Rosario Spatola, passato dagli onori delle tribune televisive, alla fame nera, per precipitare nell’anonimato assoluto nel paesino dov’era nato (Campobello di Mazara) e tornato, vecchio e debole, sfidando il pericolo di una ritorsione mafiosa. Ma quella fine, in verità, appare quasi consequenziale all’andamento della sua vita spericolata e sregolata.

Spatola apparve all’orizzonte nel 1989, quando la Procura di Trapani raccolse la sua testimonianza e quella di Giacoma Filippello (una delle prime donne pentite) che accusavano il sistema politico-mafioso e puntavano il dito contro il ministro Calogero Mannino. Accuse che furono accantonate dall’allora procuratore di Marsala, Paolo Borsellino, che tuttavia - continuò a utilizzare per altri versi le conoscenze di Spatola. Sul versante politico, in verità, non dimostrò grande attendibilità, tanto da incorrere in qualche errore di omonimia, confondendo un Nicolosi per un altro, e restando parecchio sul generico.

Il suo nome riacquistò notorietà nel 1993, quando diede la sua versione sulle presunte collusioni dello «007» Bruno Contrada. Spatola raccontò di aver visto il poliziotto a cena col boss Rosario Riccobono (allora latitante) in un ristorante, nella borgata di Sferracavallo. Fu smentito dal proprietario del locale con una motivazione irrituale ma efficace: «Secondo la testimonianza di Spatola - disse il ristoratore rivolto al tribunale - Riccobono e Contrada stavano seduti in un certo tavolo. Questo è impossibile, signor presidente, perché quel tavolo sta accanto alla porta del gabinetto e io Riccobono non l’avrei mai fatto sedere vicino al cesso. Contrada sì, ma Riccobono mai».

Poi, dopo le stragi del ’92 e specialmente dopo la morte di Paolo Borsellino, cominciò il lento e inesorabile declino del pentito Spatola. Era diventato bizzoso ed esigente, una spina per i funzionari del Servizio di protezione impegnati spesso a fare muro alle richieste del pentito. Eppure aveva ricevuto adeguata protezione, anche per la moglie e per la figlioletta, nata quasi in concomitanza con l’inizio della sua «nuova vita» di collaboratore di giustizia.

Entrò in confusione quando una parte del potere politico avviò la campagna per depotenziare l’importanza dello strumento processuale dei pentiti. Cominciò a denunciare presunte e mai provate irregolarità nella gestione dei collaboratori di giustizia, posizioni rese poco credibili dai precedenti scontri intrattenuti col Servizio di protezione e sempre per problemi economici.

Alla fine Rosario Spatola fu costretto ad accettare una «liquidazione» e ad uscire dal programma ministeriale. Così cominciò la sua lenta agonia. Provò a rifarsi un’esistenza, ma con scarsi risultati. Fu sfrattato dall’alloggio dove viveva sotto falsa identità e si trasferì al suo paese d’origine, forse sperando in un colpo di pistola che avrebbe potuto garantire ai familiari uno straccio di indennizzo. Alla fine, però, è arrivato prima il suo male oscuro.

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« Risposta #25 inserito:: Marzo 10, 2012, 03:51:41 pm »

10/3/2012

Dell'Utri, la verità giudiziaria e quella della storia

FRANCESCO LA LICATA

E adesso ci sarà chi griderà alla vittoria sui «pubblici ministeri che pretendono di scrivere la storia» e chi si aggrapperà ancora all’eventualità che un nuovo processo, già ordinato dalla Cassazione in un collegio diverso da quello appena sconfitto, possa dimostrare la fondatezza della tesi accusatoria della Procura di Palermo. Questo è il quadro che puntualmente ci viene consegnato, ogni volta che una sentenza definitiva accontenta o scontenta i contrapposti gruppi politici l’un contro gli altri armati.

Così è avvenuto con l’«assoluzione parziale» di Giulio Andreotti, «macchiata» dalla millimetrica prescrizione per alcune delle accuse, così durante gli altalenanti risultati dei diversi gradi di giudizio del processo all’ex ministro Calogero Mannino, alla fine assolto - anche lui - per la difficoltà di tenere il punto in Cassazione sul reato di concorso esterno in associazione mafiosa.

Ma forse bisognerebbe concludere che così avviene quando la posta in palio riguarda i volti delle istituzioni e, per automatismo, i giudici vanno alla ricerca di accertamenti più profondi risolvibili con salomoniche mediazioni. Nel caso del processo Dell’Utri - a giudicare dalle parole del procuratore generale e della relatrice - ci sarebbe in più una certa debolezza nell’esposizione delle tesi accusatorie, debolezza che si riverbera irrimediabilmente nella logica delle motivazioni offerte alla Suprema Corte. Ma questo sarà argomento discutibile solo dopo la lettura delle conclusioni di ieri sera.

E’ vero che logica vorrebbe che ogni processo facesse storia a sé, ma è pur vero che lo stesso svolgersi degli avvenimenti quotidiani offre il fianco per una lettura, come si dice, di squisita natura politica. Del resto basterebbe mettere in fila gli ultimi sviluppi giudiziari, cominciati con l’avvento della cosiddetta «Seconda Repubblica», per verificare come siano tenuti insieme da un sottile filo politico. Dall’uccisione dell’eurodeputato Salvo Lima, fino alle stragi mafiose di Capaci, via D’Amelio, Roma, Firenze e Milano: un’unica storia che ha visto coinvolti uomini politici di prima grandezza e fior di istituzioni. In appena 48 ore abbiamo assistito all’agghiacciante quadro descritto dai magistrati di Caltanissetta sulla strage Borsellino e al clamoroso ribaltamento di due sentenze di condanna nei riguardi del sen. Marcello Dell’Utri. Sono vicende separate, certo. Ma sono storie che nell’immaginario viaggiano sulla stessa trama. Forse, allora, si dovrebbe prendere atto che la soluzione giudiziaria possa non corrispondere al reale conseguimento della giustizia, che la verità processuale possa non coincidere con quella storica. In tal caso, però, dovrebbero essere le istituzioni politiche, il Parlamento, ad assumersi l’onere di colmare i vuoti che la magistratura per forza di cose è costretta a lasciare.

Si potrebbe discutere a lungo sui singoli «addebiti» contestati all’imputato Dell’Utri. Certo, sono provate alcune frequentazioni discutibili (Tanino Cinà, lo stalliere Vittorio Mangano in primis) e si potrebbe persino fare della facile ironia sulle telefonate coi mafiosi o sulla sua presenza al matrimonio londinese di un boss italo-americano, presenza giustificata come «casuale», trovandosi lui a Londra per visitare una mostra sui vichinghi. Sono episodi non edificanti ma, ha sostenuto il Pg, non dimostrano il concretizzarsi del concorso esterno. Le frequentazioni, insomma, non sono reato, come non lo furono per Calogero Mannino e per le strette di mano dispensate da Andreotti. Ma non dovrebbero neppure essere sottovalutate in un giudizio politico e morale che non attiene più alle prerogative delle aule di giustizia.
Paradossalmente, forse, a favore di Dell’Utri ha giocato l’enorme mole di atti entrati nel processo in corso d’opera. Durante l’appello sono arrivate le rivelazioni del pentito Gaspare Spatuzza (lo stesso del processo Borsellino) con le accuse sul presunto coinvolgimento dell’imputato, e di Berlusconi, allora presidente del Consiglio, nelle vicende delle stragi mafiose.

Ancora le stragi, ancora il filo rosso che trascina nelle aule di giustizia un’intera stagione politica. Nessun processo, finora, è riuscito a mettere un punto fermo nella direzione della conferma dell’esistenza di una innaturale sinergia, diciamo organica, tra mafia e politica. Neppure quello ad Andreotti pure offerto all’opinione pubblica come «La vera storia d’Italia». E il processo che si profila all’orizzonte di Caltanissetta soffre già del vizio d’origine: la difficoltà di provare il coinvolgimento dei politici che, infatti, sono stati indicati come «presenti» nel palcoscenico del periodo della «trattativa» e delle stragi, ma senza «mani sporche». Una mediazione possibile, come in quasi tutti i processi di mafia e politica, compreso quello contro il sen. Dell’Utri, che può sperare in un nuovo processo e, in subordine, nella prescrizione. Il nuovo clima, derivato dalla caduta di Berlusconi, per paradosso gli può persino giovare. Senza con questo voler credere in una magistratura sensibile ai cambi di stagione.

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« Risposta #26 inserito:: Marzo 24, 2012, 03:21:06 pm »

24/3/2012

Sciascia e il Paese della ragione smarrita

FRANCESCO LA LICATA

No, questa volta non si tratta di un’invenzione letteraria. E il Comune appena sciolto per mafia non è un luogo immaginario, la Regalpetra di Leonardo Sciascia, ma la Racalmuto di oggi, con le ferite non ancora rimarginate della guerra di mafia degli Anni Novanta, con le lacerazioni dolorose figlie delle accuse sottoscritte dai pentiti che non hanno risparmiato parentele né vecchie e solide amicizie.

La statua di Siascia, senza piedistallo e appoggiata sul marciapiede, si confonde col popolo dello struscio pomeridiano e sembra aprire l’orecchio ai commenti dei soci del circolo Unione. Chissà se finalmente potrà ascoltare anche un semplice accenno sulla mafia, sulla malapolitica, su come l’amministrazione comunale è stata infiltrata dal malaffare. Già, perché nella patria di Leonardo Sciascia, che di mafia parlò quando tutti ne negavano l’esistenza, il problema continua ad essere rimosso nell’indifferenza generale. Una distrazione che non dove essere estranea al contagio.

Descrivendo la sua Regalpetra, annotava Sciascia: «Ho tentato di raccontare qualcosa della vita di un paese che amo, e spero di aver dato il senso di quanto lontana sia questa vita dalla libertà e dalla giustizia, cioè dalla ragione». Era il 1956 e la lontananza dalla «libertà e dalla giustizia» si riferiva soprattutto alla mancanza di equità sociale, all’arretratezza, alla vita grama di chi non aveva né voce né potere. Oggi l’assenza della ragione sta interamente in quella apatia, denunciata da voci isolate come i redattori del periodico «Malgrado tutto» (il giornale «adottato» e protetto dallo scrittore), che non ha saputo o voluto fare tesoro delle terribile esperienza della mattanza mafiosa e della successiva conoscenza del fenomeno scaturita dalle rivelazioni dei pentiti.

La ragione avrebbe imposto un’attenzione maggiore alle conseguenze della faida: se c’è guerra di mafia deve esserci contagio nella società civile e nelle istituzioni. La comunità di Racalmuto quel contagio non ha voluto vederlo. Seppelliti i morti, è scoppiato il silenzio delle armi. E senza cadaveri, si sa, la mafia non esiste. Invece c’era, eccome. Sarebbe bastato andare a guardare dove la commissione prefettizia ha trovato le anomalie che indirizzavano gli appalti sempre nella stessa direzione oppure dare una spiegazione alle presenze, anomale appunto, in seno al consiglio comunale.

Oppure semplicemente chiedersi come mai il Comune continuava a pagare metà stipendio ad un boss condannato e poi divenuto collaboratore di giustizia.

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« Risposta #27 inserito:: Aprile 07, 2012, 11:54:02 am »

7/4/2012

Quei difetti meridionali in salsa padana

FRANCESCO LA LICATA

Chissà cosa avrebbe osservato Edward C. Banfield, autore del fortunato saggio su familismo amorale e «arretratezza» meridionale, leggendo le dichiarazioni che Nadia Degrada - dipendente amministrativa della Lega Nord - ha reso ai magistrati che indagano sullo scandalo dei «soldi facili» ai familiari di Bossi.

Sono davvero sorprendenti le risposte della signora Degrada ed anche quelle dell’altra impiegata di via Bellerio, Daniela Cantamessa. Chi ha dimestichezza con le storie immorali del profondo Sud, potrebbe essere facilmente tratto in inganno e credere che quei verbali provengano da qualche indagine sulla malapolitica siciliana o napoletana, oppure calabrese.

E invece riguardano il partito che della lotta al familismo amorale dei meridionali ha fatto la ragione della propria nascita e della propria esistenza. Fino a lasciarsi andare alla pretesa di un federalismo fiscale, pensato per sottrarre il popolo padano al giogo del debito pubblico provocato dal Sud famelico e «senza fondo». Per questo non v’era vicenda di mala amministrazione, registrata sotto il muro di Ancona, che non provocasse la «vibrata protesta» dei difensori del laborioso popolo padano. Per non parlare del (comprensibile) sdegno a fronte delle famigerate foto che ritraevano il governatore siciliano, Totò Cuffaro, alle prese coi cannoli che esorcizzavano l’onta di una condanna sfuggita al pericolo del concorso esterno.

Proprio per distinguersi da «quelli», dai brutti sporchi e cattivi, era nata la Lega. Era il simbolo di Giussano, la vera icona del giustizialismo dell’antipolitica. Sull’onda della lotta al familismo poggiava il successo di Bossi. Che tristezza, dunque, leggere oggi l’esistenza di una vera e propria squadra di fedelissimi del Capo - così chiamano Bossi i leghisti - che a tempo pieno si è occupata delle necessità materiali dei due figli di Umberto: i diplomi e le università private a Londra, le macchine sportive, le spese mediche, i soldi in nero, la «consulenza» al Parlamento Europeo generosamente concessa da Speroni al giovane Riccardo Bossi. E poi l’aiutino (a colpi di centinaia di migliaia di bigliettoni) alla signora Manuela per la sua «scuola bosina» di Varese e il dirottamento di fondi di una legge dello Stato a sostegno sempre dello stesso istituto. Per non parlare della ristrutturazione della terrazza della casa di Gemonio, abitazione del Capo. Gemonio, non provincia di Potenza, che era stato l’osservatorio del prof. Banfield.

Ma il «cerchio magico» di Bossi, quello dei fedelissimi, della ristretta cerchia di amici rinsaldata dopo la grave malattia che ha debilitato l’Umberto, il gruppo dei duri, insomma, accoglieva anche la senatrice Rosy Mauro, che i leghisti chiamano «la nera». Neppure la senatrice - a sentire i testimoni del lungo degrado amministrativo del partito, gestito ormai come un’azienda di famiglia - si è sottratta all’abuso del tesoriere Belsito. E così apprendiamo di una sua «installazione continua» nei pressi dell’abitazione di Bossi, fino a diventare la sua unica ispiratrice e badante. Dice la teste Dagrada che Belsito spesso staccava qualche assegno anche a lei, e aggiunge che coi soldi della Lega sono stati pagati gli studi del fidanzato della senatrice, un poliziotto in aspettativa ma «arruolato» con incarico del Senato, di cui la Mauro è vicepresidente.

Insomma, non sono una gran bella lettura gli interrogatori di Nadia Degrada e Daniela Cantamessa. Rigo dopo rigo si precipita verso la più completa negazione della missione moralizzatrice della Lega. Una tempesta improvvisa? Fulmine a ciel sereno? Chi conosce i meccanismi della vita quotidiana della politica, in verità, qualche indizio deve averlo raccolto ormai da qualche anno.
Anche prima della «caduta» di Bossi. Già quando il Parlamento si popolò di disinvolti nuovi abitanti, giunti al grido di «Roma ladrona», chi è abituato all’osservazione antropologica dei protagonisti della cosa pubblica intuì come i duri e puri del giuramento di Pontida ben presto avrebbero potuto cedere al benessere delle serate trascorse alla Trattoria dell’Orso o nelle comode stanze dei grandi alberghi. E, in fondo, si capì anche come i padroncini delle «fabbrichette» a conduzione familiare del profondo Nord, stazionanti davanti a Montecitorio in attesa del deputato di riferimento, non fossero poi tanto diversi dai famelici Cetto Laqualunque delle contrade meridionali.

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« Risposta #28 inserito:: Maggio 27, 2012, 09:47:27 am »

24/5/2012

Un faro sui pericoli in agguato

FRANCESCO LA LICATA

Dobbiamo essere grati al Capo dello Stato per avere, col suo generoso intervento nell’aula bunker di Palermo, riportato il tema della lotta alle mafie al centro dell’attenzione politica e istituzionale. Senza se e senza ma, di fronte a tanti familiari delle vittime del passato e alle giovani compagne di Melissa, ultima vita sacrificata alla follia terroristica, Napolitano ha detto a chiare lettere che la violenza mafiosa è un pericolo e un attacco alla democrazia. E’ ancora un pericolo mortale, nel senso che non è venuto meno tutto il suo potenziale distruttivo e di penetrazione nel consesso civile. Proprio nel ricordo dei nostri eroi Falcone, Borsellino, La Torre, Dalla Chiesa e di tutti i caduti, allora, bisognerà tenere alta la guardia e impegnarsi nel «garantire stabilità di governo e mettere in cantiere processi di riforma» senza farsi deviare da «attacchi criminali, fenomeni di violenza e comportamenti destabilizzanti di qualsiasi matrice». «Non ci facemmo intimidire - ha assicurato Napolitano - non lasciammo seminare paura e terrore né nel ’92 né in altre dure stagioni e sconvolgenti emergenze. Tantomeno cederemo ora».

Non è stata una semplice commemorazione, quella del Capo dello Stato. Certo, il ricordo di Falcone e Borsellino, il giusto tributo a due grandi italiani sono stati il motore di un discorso che, però, è andato ben al di là dell’esercizio di retorica. Le parole di Giorgio Napolitano hanno messo in evidenza tutta la reale preoccupazione per un momento generale ad altissimo rischio di tenuta istituzionale, ma anche la grande determinazione nel mettere in campo le forze e i rimedi migliori per arginare il pericolo.

Le apprensioni del Capo dello Stato sembrano rivolte principalmente all’attuale fragilità del sistema politico, economico e finanziario, vista come potenziale cavallo di Troia per un possibile attacco mafioso. In questo senso è esplicito il riferimento al 1992 e «agli attentati della primavera del 1993 e il loro torbido sfondo». Aggressione che si esaurì, seppure «la mafia seppe darsi altre strategie, meno clamorose ma non meno insidiose». Anche di queste parole dirette, bisogna esser grati al Capo dello Stato, perché - senza cedimenti al politichese consolatorio - parte dall’esperienza trascorsa per accendere una luce sui pericoli in agguato. Specialmente laddove chiarisce che «la crisi favorisce l’azione predatoria dei clan criminali e questi tendono a porsi come procacciatori di occasioni di lavoro, sia pure irregolare».

Insomma è la debolezza economica che impensierisce più di tutto il Capo dello Stato, fino a temere pericolose irruzioni anche «nei più sofisticati circuiti finanziari». Lo impensierisce tanto da fargli temere persino «feroci ritorni alla violenza di stampo stragista e terroristico». Riferimento chiaro all’attentato alla scuola: «Un sollecito e serio svolgimento delle indagini sull’oscura, feroce azione criminale di Brindisi potrà fornirci elementi concreti di valutazione».

Ma non c’è rassegnazione nel discorso di Napolitano, anzi. Proprio il sangue degli eroi darà la forza di reagire e battere ancora il malaffare, anche con la fierezza di quei ragazzi presenti nell’aula bunker con gli occhi pieni di lacrime, ma fedeli all’eredità di Falcone e Borsellino.

Il Capo dello Stato ha indicato la strada da seguire: la ricerca onesta della verità, anche quella scomoda. Non v’è altro metodo per «dipanare le ipotesi più gravi e delicate di impropri o perversi rapporti tra rappresentanti dello Stato ed esponenti mafiosi». Ma procedere «con profonda sicurezza» non vuol dire «nasconderci la gravità degli errori che in sede giudiziaria possono compiersi, come ne sono stati compiuti nei procedimenti relativi alla strage di via D’Amelio». Non ha voluto tralasciare proprio nulla, il Presidente. A conferma della grande attenzione riposta nell’attuale momento della vita del Paese. Un grande conforto, un immenso sostegno a quanti non hanno abbassato la guardia e continuano a combattere una battaglia sul fronte dell’affermazione della legalità, anche tra gli scetticismi e le critiche di superficiali, frettolose e interessate autoassoluzioni.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10139
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« Risposta #29 inserito:: Giugno 20, 2012, 11:14:16 pm »


20/6/2012

Mafia, i veleni che allontanano la verità

FRANCESCO LA LICATA

Com’era ampiamente prevedibile con la chiusura dell’inchiesta sulla famigerata trattativa fra Stato e mafia l’intera vicenda diventa meno chiara e più confusa.

E tutto perché sulla scena ha fatto irruzione la solita battaglia di parte che non ha mai portato bene al raggiungimento della verità. Specialmente nelle storie di mafia e politica. L’occasione che ha funzionato da detonatore è data da alcune intercettazioni telefoniche.

Quelle tra Nicola Mancino, ex presidente del Senato oggi indagato a Palermo perché sospettato di essere uno dei terminali della trattativa, e il consigliere giuridico del Quirinale, Loris D’Ambrosio. Il primo, ormai è noto, invocava un qualificato intervento a protezione dell’indagato a suo parere vittima di un «differente trattamento» dei magistrati di Palermo, più «duri» di quelli di Caltanissetta. Il risultato di questo intrattenimento telefonico, per dirla in breve, sarebbe stato una lettera del Quirinale, al Pg della Cassazione, al quale si indica la strada dell’esercizio delle prerogative riguardanti i poteri di coordinamento fra le Procure. Questa la cronaca, seppure in sintesi visto che se ne dibatte ormai da giorni.

Ma la polemica sembra aver ampiamente travalicato i confini della dialettica politica perché, per forza di cose, ha finito per trasformarsi in un corposo attacco alla presidenza della Repubblica, anche dopo i chiarimenti offerti dal Quirinale e ritenuti perfettamente in linea coi poteri del Presidente e con il rispetto della legge.

Che le cose stiano in questi termini sembra dimostrato dalla proposta di Antonio Di Pietro, che chiede l’istituzione di una commissione parlamentare d’inchiesta (quindi con poteri giudiziari) per sapere «cosa è avvenuto tra esponenti di governo, esponenti che lavorano alle dipendenze del Quirinale e della magistratura su questa pagina oscura della Repubblica». Ovviamente l’iniziativa ha subito riprodotto gli schemi che sono propri dello scontro fra maggioranza e opposizione: Di Pietro e i movimenti da un lato, dall’altro il Pd («una follia»), Casini etc.

Non sfugge a nessuno quanto poco saggio possa essere il tentativo di coinvolgere il Quirinale in una polemica scivolosa come quella che riguarda il presidente Mancino. Anche perché, ancor prima di chiarire il comportamento dell’indagato e dei personaggi delle istituzioni venuti con lui a contatto, sarebbe forse il caso di fare piena luce su quello che è stato il torbido abbraccio che nel 1992 portò pezzi dello Stato, anche alti e qualificati, a trattare con Cosa nostra la fine dello stragismo mafioso e lo stop alla programmata mattanza di uomini della politica e delle istituzioni. Ma all’Idv sembra interessare più di ogni altra cosa il presunto «trattamento di favore», sempre che ci sia, concesso al «cittadino Mancino». Di questo tenore la polemica a distanza fra Pasquale Cascella, portavoce del Quirinale, e il Fatto Quotidiano , che si riconosce sulle posizioni di Di Pietro e delle opposizioni.

Ciò che è accaduto in Italia tra il 1989 e il 1994 merita davvero di essere approfondito e spiegato: troppo grande sarebbe il peso di un ennesimo buco nero senza verità. Ma una simile operazione avrebbe bisogno di una ferrea unità di intenti della magistratura, ed anche di una unità di vedute, senza steccati, senza la difesa del «proprio particulare» di ognuna delle Procure in campo. E non è sempre vero che le cose funzionino in questo modo. E’ vero, invece, che la magistratura di Palermo e quella di Caltanissetta su tante cose la pensano in modo diverso.

Ne è testimonianza la risposta che ieri il sostituto Nico Gozzo (Caltanissetta) ha dato all’Associazione delle vittime delle stragi mafiose, che lamentava proprio questa differenza di vedute. Gozzo, com’è comprensibile, difende il proprio operato. Ma nega che il diverso trattamento a Mancino sia conseguenza di una «maggiore malleabilità» rispetto ai colleghi di Palermo. Un ulteriore elemento di divisione, questo, di cui non si avvertiva la necessità. Divisione accentuata anche dalla verve polemica dello stesso Gozzo nei confronti dei giornalisti del Fatto Quotidiano , mai nominati ma indicati sostanzialmente come «qualcuno» che si è inserito per «truccare le carte». Anche questo, non sembra il modo migliore per agevolare la comprensione di una vicenda che è già difficile e complessa, di suo, tanto da aver indotto il Procuratore Nazionale, Pietro Grasso, ad augurarsi che «i rappresentanti delle istituzioni si pentano e comincino a collaborare». Se non davanti ai giudici, magari davanti ad una commissione di parlamentari.

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