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Autore Discussione: FRANCESCO LA LICATA. -  (Letto 23170 volte)
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« inserito:: Novembre 03, 2008, 11:00:30 am »

3/11/2008
 
Quando i boss uccidono i ragazzini
  
 
FRANCESCO LA LICATA
 


L’educazione mafiosa si regge sulla certezza della pena, sulla ineluttabilità della punizione. Grandi, piccoli, anziani, donne e bambini: nessuno sfugge al contrappasso pedagogico riservato a tutti quelli che sbagliano. L’educazione mafiosa non ammette remore, non è previsto il rifugio nella clemenza nel caso si debba impartire l’esempio ai più piccoli e, dunque, ai più indifesi. Non esiste ipocrisia più frequentata, nel mondo delle mafie, non v’è regola più disattesa di quella che dovrebbe proteggere donne e bambini dalla violenza degli uomini adulti. Secondigliano o la periferia palermitana di Brancaccio o San Lorenzo, i Quartieri spagnoli piuttosto che i paesini arroccati dentro la ‘ndrangheta calabrese: non fa differenza, non c’è latitudine che tenga distante l’intransigenza dell’educazione mafiosa.

Dicono che a Secondigliano hanno sparato proprio sui «minori rimasti feriti», eufemismo che nasconde la consapevolezza di aver assistito a una spedizione punitiva, a colpi di pistola, contro ragazzini di 12 anni. E dicono pure che il commando armato fosse formato anch’esso da baby pistoleri. Già, la mafia baby, ultima evoluzione criminale di una realtà che da tempo ormai rotola verso il degrado più inaccettabile. Ma dove sono più i bambini? Se lo chiedeva pure il boss Giovanni Brusca, oggi collaboratore di giustizia, mentre teneva prigioniero il piccolo Giuseppe Di Matteo. Lo accudiva, gli faceva avere le riviste sui cavalli e contemporaneamente lo torturava inculcandogli l’odio verso il padre pentito che non ritrattava e quindi l’esponeva alla rappresaglia. Fino alla decisione di farlo strangolare e squagliare nell’acido, proprio come un adulto. Giuseppe era stato preso a 12 anni, Brusca lo descriverà come un pericolo «perchè era già abbastanza cresciuto» e gli si leggeva negli occhi una determinazione degna di un uomo fatto.

E’ piena di crudeltà la storia nera dei bambini di mafia. Ci fu un momento che a Gela si combattè una guerra per bande. Le armi falcidiarono gli adulti e, a sorpresa, si capì che il comando di una delle famiglie della Stidda era stato preso per mano militare dalla piccola Manuela Azzarelli, orfana di una delle vittime. Manuela si faceva chiamare Bonnie, aveva imparato a essere fredda e violenta come il padre.

I bambini non si toccano, è la legge antica della mafia. E invece li hanno sempre toccati e duramente. Era l’inverno 1960 quando sotto un albero di mandarini nella campagna palermitana fu trovato il cadavere di Paolino Riccobono: una fucilata in petto per avvertire il padre e i fratelli che era ripresa la faida coi Cracolici. E aveva soltanto 13 anni il pastorello Giuseppe Letizia, ucciso con un’iniezione dal medico capomafia di Corleone Michele Navarra. Che aveva fatto Giuseppe? Niente, aveva visto gli uomini di Luciano Liggio gettare in un crepaccio il corpo del sindacalista Placido Rizzotto.

Morì a 12 anni anche il piccolo Claudio Domino. Un colpo di pistola in fronte, uno solo, sparato da un killer professionista. Era la sera del 7 ottobre 1986. Cosa nostra, in quel momento alla sbarra dentro le gabbie del maxiprocesso, fu duramente attaccata per quello sfregio alle regole. Divenne un problema politico per la mafia, quel bimbo assassinato. La cupola dovette intervenire per respingere la paternità dell’omicidio e, per la prima volta nella sua storia, Cosa nostra lesse un comunicato in un’aula di giustizia. Poi fece trovare il killer: ucciso da una overdose procurata. Ecco, omicidio pedagogico.
 
da lastampa.it
« Ultima modifica: Aprile 05, 2010, 11:58:51 am da Admin » Registrato
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« Risposta #1 inserito:: Gennaio 08, 2009, 12:16:32 am »

7/1/2009 (8:21) - PERSONAGGIO

L'ultimo picciotto tra verità e depistaggi
 
Il sanguinario quadro di Cosa Nostra

FRANCESCO LA LICATA
PALERMO


Tre fermi-immagine, tratte dal terrificante film della mattanza mafiosa siciliana, possono fornire una nitida descrizione di Gaspare Spatuzza, 44 anni, il nuovo pentito che scompagina le verità consacrate della strage Borsellino. La prima risale al 23 novembre del 1993, quando l’allora picciotto di Brancaccio si presenta insieme con altri - vestiti da carabinieri - al maneggio di Altofonte e preleva il piccolo Giuseppe Di Matteo, dicendogli che ha il compito di accompagnarlo dal padre (pentito) in un luogo segreto. Il bambino, aveva 13 anni, non vedrà più nè il padre nè nessuno. Morirà strangolato dopo 27 mesi di prigionia. La seconda immagine è datata 15 settembre dello stesso anno e descrive Gaspare Spatuzza che si abbassa sul corpo di don Pino Puglisi, appena raggiunto dal piombo del killer Salvatore Grigoli, prende il borsello del prete e si appropria delle marche della patente. La terza scena non ha ancora una data perchè i magistrati stanno lavorando per trovare il riscontro a quanto raccontato dallo stesso Spatuzza. Ma non è meno cruenta delle precedenti: descrive l’uomo che penetra nell’appartamento occupato da due studentesse universitarie fuorisede a Palermo.

Immobilizza la prima e la lega ad una sedia, poi si avventa sull’altra, la vittima designata, e le inietta una medicina. Perchè Spatuzza, detto ‘u tignusu (il calvo), fa questo? Ecco la sua risposta: era incinta di un boss di Brancaccio con cui aveva una relazione clandestina. Lui, il capo, che era sposato e padre di figli, le aveva proposto di abortire ma la ragazza si era rifiutata. «E allora ci abbiamo pensato noi, grazie anche ad un medico amico che ci ha fornito tre fiale di non so che medicina». Questo è Gaspare Spatuzza. Anzi, forse sarebbe più esatto dire «era», a giudicare almeno dal «manifesto» del suo pentimento: una lettera inviata al Vescovo e alla «Santa Chiesa». Una crisi maturata in undici anni di carcere ed esplosa, anche contro le pressioni contrarie della moglie e del figlio, nel desiderio di raccontare tutto e nella richiesta di incontrare il procuratore Piero Grasso. Ma una volta conosciute le colpe che si è addossato, specialmente la storia del furto della Fiat 126 usata per l’attentato al giudice Borsellino, l’ambiente giudiziario siciliano sembra essersi diviso circa l’affidabilità, ma soprattuto sull’utilità, del nuovo pentito. Una parte dei magistrati sospetta che Spatuzza possa essere una sorta di «virus» mandato per minare la «certezza» dei processi ormai passati al vaglio della Cassazione. La sua versione della fase preparatoria della strage, riflettono i pm, sostanzialmente non sposta molto del quadro generale ma attribuisce a se stesso ciò che la sentenza invece ha definitivamente attribuito all’altro pentito, quel Vincenzo Scarantino che nel 1994 raccontò come fu organizzato il furto dell’auto.

Il racconto di Spatuzza, oggi, cambia il soggetto principale, non più Scarantino ma il nuovo pentito, lasciando pressocchè immutato lo sfondo, con le responsabilità anche della mafia di Brancaccio. La storia di Gaspare Spatuzza non sembra poter far sperare in un «salto di qualità» circa la scoperta dei cosiddetti mandanti occulti della strage Borsellino. Il mafioso è stato un killer sanguinario, il preferito dei fratelli Graviano, ma non pare abbia avuto contatti di vertice. Fu affiliato solo nel 1996, a 33 anni, in un momento di crisi di Cosa nostra, tanto che appena affiliato fu nominato capomandamento per far fronte alla penuria di «quadri» a Brancaccio, un quartiere falcidiato dalla repressione investigativa. E questo è un altro aspetto che rende ancora più incerta la sua sorte: nel calcolo tra costi e ricavi, il bilancio potrebbe sembrare in disavanzo. Dalla sua parte c’è la credibilità e una sorta di riconoscimento generale della sua buonafede. Gaspare Spatuzza non chiede protezione, non vuole soldi nè sconti di pena. Anzi desidera rimanere in carcere perchè, dice, è il solo modo per espiare la pena per tutto il dolore che ha arrecato ai familiari delle sue vittime. Ha raccontato decine di omicidi che neppure ricorda nei particolari, tanti ne ha compiuti. Ed è un riscontro importante per quanto finora appurato anche sulle stragi del 1993 a Roma, Firenze e Milano. Spatuzza è stato tra i preparatori dell’attentato (per fortuna fallito) allo stadio Olimpico, a Roma.

Un’auto al tritolo doveva fare strage di carabinieri. Qualcosa (il telecomando, forse) non funzionò e poi, mentre si cercava di ripetere l’operazione, l’ordine fu improvvisamente revocato: «Si torna a Palermo». Su questo nodo aveva indagato a lungo il giudice Gabriele Chelazzi (scomparso nel 2003). E lo stesso Spatuzza, non potendo collaborare ufficialmente, aveva accettato di offrire informalmente al magistrato il patrimonio delle proprie conoscenze.
Anche questo capitolo dovrà essere esplorato meglio: i temi del colloquio sostenuto col procuratore Grasso, infatti, sono già a conoscenza delle procure di Palermo, Caltanissetta, Roma, Milano e Firenze.

DA lastampa.it
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« Risposta #2 inserito:: Marzo 16, 2009, 10:08:14 am »

16/3/2009
 
I parenti scomodi del giudice
 

FRANCESCO LA LICATA
 
Le cosiddette «parentele scomode» del Procuratore della Repubblica di Palermo, Francesco Messineo, tornano d’attualità nel dibattito che riprende oggi al Consiglio superiore della magistratura. L’organo di autogoverno dei giudici dovrà prendere in considerazione una copiosa documentazione che riguarda il passato, ma anche il recentissimo presente, del fratello della moglie del dott. Messineo, più volte - negli ultimi trent’anni - entrato come sospettato in svariate indagini di mafia, senza mai riportare condanne o giudizi definitivi.

Sergio Maria Sacco, questo il nome del «parente scomodo», dopo numerose peripezie è finito nuovamente in un rapporto dei carabinieri inviato alla Procura della Repubblica l’11 dicembre del 2008 e per questo si è ancora ritrovato oggetto dell’interesse di alcuni giornali che hanno pubblicato la notizia. Da qui parte l’accertamento della prima Commissione del Csm, che si occupa di dirimere le questioni di incompatibilità ambientale dei magistrati. Vedremo come si svolgerà e a quali conclusioni giungerà l’istruttoria del Consiglio.

Una premessa, comunque, sembra d’obbligo. La ricerca dei giudici non è certamente rivolta all’accertamento di comportamenti sconvenienti o censurabili del Procuratore Messineo, sulla cui condotta non sembrano esserci obiezioni di sorta. È l’atteggiamento complessivo dell’Istituzione che regola il buon funzionamento della magistratura, semmai, a suscitare qualche perplessità. La prima parte del dibattito al Csm, infatti, sembra essersi sterilmente arenata su un falso problema: è indagato il cognato del Procuratore? No, quindi è tutto a posto.

Per il passato, inoltre, cioè per le vicende meno recenti ma forse ancor più gravi, le archiviazioni hanno fatto sì che non si frapponessero ostacoli alla nomina del dott. Messineo, avvenuta nel 2006. Di questo tenore sono stati un comunicato di solidarietà dei sostituti procuratori di Palermo («fatti datati» e sepolti), l’audizione del Procuratore generale Luigi Croce («massima stima a Messineo») ed alcuni commenti di solerti fiancheggiatori, in altre occasioni rivelatisi molto più intransigenti nel censurare parentele o semplici contatti tra indagati e soggetti sospettati di mafia. Ma non è esattamente questo, a nostro parere, il cuore del problema.

La risposta che i cittadini si aspettano non riguarda l’accertamento di una responsabilità penale del sig. Sacco, che - tuttavia - andrebbe fermamente ricercata, ma la certezza che un ruolo così importante e delicato come quello ricoperto dal dott. Messineo in nessun modo possa essere ostaggio di maldicenze e chiacchiericcio malizioso. Gli stessi sostituti palermitani sanno ed hanno più volte, giustamente, sottolineato come Palermo sia una città che vive di segnali. Ecco, sarebbe un buon segnale la presenza del nome del cognato del Procuratore - qualunque fosse l’esito di un eventuale processo - in un rapporto, dei carabinieri non di un giornale, che lo indica come contiguo al clan mafioso dei Colli? È appena il caso, forse, di ricorare qualche precedente. Senza scomodare le clamorose dimissioni di Antonio Di Pietro (per un’accusa finita in assoluzione), basterebbe citare il «processo per incompatibilità» al Csm a suo tempo subìto da Giuseppe Ayala «colpevole» di una scopertura con la principale banca della città. Francamente non appare meno grave la lista di sospetti che ha interessato il cognato del Procuratore: dal traffico della droga a qualche omicidio, compreso un arresto nell’ambito delle indagini sull’assassinio del capitano dei carabinieri Emanuele Basile. E inviterebbe ad ulteriore riflessione il fatto che anche il fratello del dott. Messineo sia attualmente sotto processo, in attesa di sentenza, per truffa aggravata. Forse è un po’ troppo, anche a fronte del cristallino comportamento del Procuratore.

 
da lastampa.it
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« Risposta #3 inserito:: Dicembre 12, 2009, 03:31:39 pm »

12/12/2009 (7:35)  - UNO SHOW STUDIATO PER I MEDIA

Una sceneggiata dove niente è come appare

Messaggi da vero boss dietro le dichiarazioni ufficiali

FRANCESCO LA LICATA
PALERMO


Il copione è stato rispettato. Ogni attore ha recitato bene la propria parte. Tanto che tutti - protagonisti e comparse - adesso sono nelle condizioni di potersi dichiarare soddisfatti.

L’imputato, Marcello Dell’Utri, esce dall’aula della Corte d’Appello esibendo come trofeo vittorioso Filippo Graviano che scandisce: «Non conosco il senatore». Lo stesso boss di Brancaccio può vantare di aver, finalmente, spiegato la propria posizione di mafioso non pentito che da qualche tempo ha preso le distanze dal suo passato senza, per questo, fare il salto verso la collaborazione. Ed anche il fratello, Giuseppe, può dire di aver raggiunto l’obiettivo di «mettere in chiaro» che ciò che gli sta più a cuore è di risolvere il problema della sua condizione di detenuto ad un «41 bis» duro, durissimo, tanto duro da costringerlo in condizioni di salute così precarie da «non consentirgli di sopportare un interrogatorio».

E per questo motivo, abbondantemente spiegato in una lettera alla Corte (che il Presidente non ha voluto leggere in aula), «per il momento» si avvale della facoltà di non rispondere. Ma, ha ripetuto più volte, «per il momento». Esattamente come aveva fatto coi magistrati che erano andati a sentirlo in carcere. Com’era ampiamente preventivato, dunque, non c’è stato il colpo di scena. Non c’è stata conferma alle dichiarazioni di Gaspare Spatuzza che coinvolgono Dell’Utri e il Presidente del Consiglio nel groviglio istituzionale delle indagini sulle stragi e sulla cosiddetta «trattativa». Ma davvero qualcuno pensava che i Graviano, mafiosi ancora saldamente ancorati alla loro «ideologia», si sarebbero consegnati alla magistratra, così, nel corso di un processo pubblico, senza nessun accordo preventivo e senza un «contratto»?

Che Filippo avrebbe proseguito nella sua «riflessione» (giudiziariamente innocua) era quasi scontato. Perché il maggiore dei Graviano, questo «percorso di ricerca del bene e della legalità», dice di inseguirlo da almeno dieci anni. Da quando «inviai una lettera alla Procura di Palermo, esternando queste mie convinzioni». Nessuno «ha mai risposto». Il boss non sa esplicitare bene in che cosa consista questo «percorso». Se deve esemplificare racconta dell’aiuto offerto ad altri detenuti per esempio «nella spiegazione della matematica che è una mia passione», oppure del «rapporto corretto nei confronti degli agenti di custodia».

Eppure la sua «storia recente» offre qualche spunto di revisione che restituisce un uomo diverso, rispetto al clichè del boss ricco e crudele. Filippo e Giuseppe sono divenuti padri (chi dice per inseminazione in provetta, chi per contatto diretto con le mogli durante la celebrazione di un processo in Calabria) mentre erano già detenuti. La volontà del fratello grande era che il figlio nascesse lontano dalla Sicila e rimanesse distante da Palermo per sottrarlo all’ambiente mafioso. Ciò non si è verificato e Filippo ne attribuisce - così si intuisce dalle sue stesse dichiarazioni - parte di responsabilità alla moglie che è tornata a vivere a Palermo. Un attrito tanto importante da aver seriamento compromesso il legame matrimoniale. Diverso l’atteggiamento di Giuseppe, che non sembra aver battuto ciglio rispetto al «ritorno a casa» della propria moglie e del figlioletto coetaneo del cugino.

Se si dovesse proprio descrivere, rispettando i canoni mafiosi, i diversi atteggiamenti dei fratelli, si dovrebbe concludere che Filippo è lontano dalla possibilità di una collaborazione coi magistrati perchè riconosce di aver «un passato da farsi perdonare» (l’appartenenza a Cosa nostra), ma rifiuta l’accusa di stragismo e di violenza omicida. E ieri, in qualche modo, ha sottolineato la sua «lontananza», spingendosi fino a dichiarare che «le mie decisioni non sono appannaggio né del sig. Spatuzza, né di mio fratello». Una presa di distanza netta.

Ecco, tra i due, forse, chi ha qualcosa da contrattare è Giuseppe che, abilmente, ieri ha introdotto anche uno dei temi cari ai «trattativisti» e cioè il 41 bis e il carcere duro, sospendendo ogni decisione a quando starà meglio fisicamente. Cioè quando avrà una condizione carceraria migliore. Com’è evidente tutto ciò poco ha a che fare con il destino del sen. Dell’Utri che non dipende né da Gaspare Spatuzza né dai Graviano, ma dall’esito negativo del primo grado. Nei processi di mafia, di solito, non si citano neppure le fonti dei collaboratori, «se si tratta di affiliati non pentiti», perchè - dice la giurispudenza - non potrebbero che negare. L’aspettativa era, dunque, prevalentemente mediatica.

da lastampa.it
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« Risposta #4 inserito:: Gennaio 04, 2010, 09:59:22 am »

4/1/2010

Il ricatto del quieto vivere
   
FRANCESCO LA LICATA


La Procura Generale, nell’ambito di un distretto giudiziario, è l’ufficio della più alta carica dei magistrati che esercitano la pubblica accusa.

Chi ha messo, dunque, la bomba a Reggio Calabria ha inteso colpire l’ufficio giudiziario più importante del capoluogo della Calabria.
Il particolare non è irrilevante, visto che l’esplosivo mafioso - a giudizio dei più - voleva essere più che altro un messaggio alla controparte della 'ndrangheta. È scontato, infatti, che i mandanti dei due motociclisti con casco integrale non avevano - per fortuna - alcuna intenzione di far male. No, volevano soltanto «comunicare», col linguaggio congeniale alle cosche, il proprio malcontento per come si sono messe le cose a Reggio Calabria e in provincia. Altrimenti non avrebbero scelto le prime ore di una domenica di festa, quando le strade sono ancora vuote e gli uffici deserti.

Già, ma come si sono messe le cose ultimamente per i signori del territorio? Non bene, a giudicare dal numero dei latitanti catturati, dei beni sequestrati e della quantità di cocaina sottratta ai narcotrafficanti. Non passa settimana senza che si registri un qualche successo delle forze dell’ordine e dei magistrati. E di recente ci si è messa pure la Procura generale riuscendo a ribaltare in Appello qualche sentenza che era stata generosa nel giudizio di primo grado. Insomma la Calabria sembra voler dare una svolta, rispetto alla tradizionale immagine di terra poco incline alla battaglia antimafia. C’è tutta una letteratura che racconta le difficoltà investigative insite in un microcosmo fortemente condizionato dall’ambiente.

Si è detto tante volte che la realtà calabrese, in qualche modo, rispecchia la condizione in cui versava la Sicilia alcuni decenni fa.
Ecco, sul tema della lotta alla mafia, forse questa considerazione non è proprio campata in aria. La 'ndrangheta ha potuto godere di maggiore libertà d’azione, un po’ grazie al suo stesso humus, un po’ per aver scelto strategie di «basso profilo» che l’hanno in parte sottratta ai riflettori della comunicazione.

Ma era così anche in Sicilia, prima delle stragi, prima di Falcone e Borsellino e della mattanza corleonese, quando una società attenta solo al proprio quieto vivere produceva strumenti di contrasto spuntati e poco efficaci. Un impasto di politica compiacente e di borghesia collusa depotenziava i palazzi della repressione giudiziaria, spesso fino a contaminarli. L’eccesso di violenza svelò l’inganno nascosto nella scelta dell’immobilismo prudente: ma la rivelazione non fu indolore, basta scorrere la lista delle vittime della violenza mafiosa.

Perciò non è consigliabile sottovalutare il messaggio lasciato davanti alla Procura generale di Reggio. Per ora i boss hanno scelto la comunicazione rumorosa ma non mortale. Per ora. Ma chi può garantire per il futuro? C’è una trappola già predisposta: se il «botto» di domenica, scelto secondo la tradizione minimalista tanto cara alla ’ndrangheta, provocherà una deviazione verso il «ragionevole quieto vivere», soprattutto nelle istituzioni, allora avranno vinto ancora loro.

da lastampa.it
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« Risposta #5 inserito:: Giugno 30, 2010, 10:21:20 pm »

30/6/2010

Il confine tra il prima e il dopo

FRANCESCO LA LICATA

Se Marcello Dell’Utri fosse un imputato come tutti gli altri, la sentenza di ieri della Corte d’Appello - sette anni per concorso esterno in associazione mafiosa - non lascerebbe spazio a tante interpretazioni lontane e contrastanti tra di loro. Il reato è chiaro, il responso dei giudici pure, visto che - in sostanza - conferma l’impianto accusatorio del primo grado con un piccolo «sconto» (due anni) che nei processi d’appello è quasi fisiologico.

Ma Dell’Utri non è un imputato comune: è un senatore della Repubblica e, soprattutto, è uno dei fondatori - insieme con Silvio Berlusconi - del partito che esprime il presidente del Consiglio. Ecco perché, dunque, la sentenza della Corte d’Appello di Palermo si è caricata di significati particolari, di aspettative che vanno oltre la normale dialettica giudiziaria, fino a consentire ai diversi schieramenti reazioni addirittura opposte. Fino a far dire allo stesso imputato che i sette anni inflittigli sarebbero addirittura «un contentino» alla Procura di Palermo.

In cambio dello smantellamento del teorema accusatorio che vorrebbe legare la genesi del concorso tra la mafia e Dell’Utri alla nascita di Forza Italia, come conseguenza quasi diretta della precedente «collaborazione» sul piano imprenditoriale, vale a dire la storia da «Milano 2» alla Fininvest.

E così, come avviene da anni nelle vicende di mafia e politica, ciascuno offre una propria versione, una propria lettura, sempre rimandando alla conoscenza delle motivazioni (fra tre mesi, nella migliore delle ipotesi) una valutazione più approfondita. In un clima del genere, dunque, nessuna sorpresa se si fa strada la suggestione di una analogia tra le vicende Dell’Utri e Andreotti. Ma forse si tratta proprio di una suggestione: nel caso del sette volte presidente del Consiglio, infatti, c’era il punto fermo dell’assoluzione e della prescrizione che chiudevano sostanzialmente la vicenda in modo definitivo. Su Dell’Utri, invece, sembra aver prevalso un atteggiamento della Corte che dà ragione all’ipotesi accusatoria di primo grado, ma per le vicende che precedono il 1992. Secondo i giudici, cioè, esisterebbero prove sufficienti dei contatti fra Dell’Utri e la mafia per il periodo che precede la sua discesa in politica e la successiva stagione stragista ordita da Cosa nostra. Per il resto, non bastano le prove raccolte. Né le rivelazione di Ciancimino, né quelle di Gaspare Spatuzza, fino a questo momento, sembrano avere la forza di offrire la prova regina. Appare lontana, tuttavia, l’ipotesi che possa intervenire una prescrizione a sanare l’intera vicenda: a conti fatti sembra che manchino circa quattro anni al limite previsto dalla legge e un eventuale ricorso in Cassazione potrebbe concludersi nel giro di un anno.

Ma forse è possibile cogliere un’analogia col processo Andreotti e riguarda una certo contrasto interno al collegio giudicante, desumibile dall’assenza di uno sguardo unico e condiviso. La separazione dei fatti tra un «prima» e un «dopo», il 1982 per Andreotti, il 1992 per Dell’Utri, in genere, è sintomo di diverse vedute fra giudici. Non a caso uno dei legali del senatore siciliano ha parlato apertamente della possibilità di una «spaccatura» fra Presidente e giudice relatore e di «divisione», dopo questa sentenza, tra i destini di Silvio Berlusconi e di Marcello Dell’Utri. Un giudizio inespresso aggiunge che in questa divaricazione dei destini è sottinteso che, per «ragion politica», si possa ricorrere al sacrificio del più debole in difesa dell’istituzione superiore. Cosa accadrà adesso? Difficilmente si allenteranno le difese corporative e assisteremo al consolidato ruolo delle parti. Si dimetterà Dell’Utri, com’è avvenuto per il governatore Cuffaro? Non sembra probabile, visto che lo stesso senatore azzurro ha ammesso più d’una volta di essere sceso in politica, che pare non piacergli, per avere uno scudo che lo difenda dalle «aggressioni della magistratura».

http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=7537&ID_sezione=&sezione=
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« Risposta #6 inserito:: Agosto 27, 2010, 09:01:17 pm »

27/8/2010

Non solo mafia
   
FRANCESCO LA LICATA


Il processo di «sicilianizzazione» della mafia calabrese ha fatto registrare un altro picco con la bomba contro la casa del pg di Reggio Calabria Salvatore Di Landro.

E’ la seconda volta - la prima risale a gennaio e fu preso di mira l’edificio dove ha sede l’ufficio del magistrato - che la ’ndrangheta alza il tiro in direzione della più alta carica inquirente del capoluogo. Ed è, dunque, questo il motivo della preoccupazione che ha portato il comitato per la sicurezza a decidere opportunamente il rafforzamento del livello di scorta al giudice. Ma, tra il primo e il secondo attentato, Reggio è stata teatro di tutta una serie di avvenimenti, piccoli e grandi, che oggi suggeriscono ad autorevoli osservatori di scegliere, nell’analisi di quanto sta accadendo, una «lettura complessa». In questi termini si esprimono il procuratore nazionale Pietro Grasso e il procuratore di Reggio Calabria Giuseppe Pignatone, con ciò sottolineando la difficoltà di decifrare un movimento sotterraneo - ormai costante da mesi e spesso adoperato come contraccolpo all’azione repressiva dello Stato - che sta finendo per diventare una vera spina nel fianco dell’apparato investigativo.

Lo stesso Di Landro, prima del «botto» dell’altra notte, era stato vittima di un sabotaggio alla propria auto di servizio. Ma altri «avvertimenti» erano stati riservati allo stesso procuratore Pignatone (lettera con proiettili), a diversi investigatori e a qualche giornalista particolarmente attivo. Una guerra sorda e sotterranea, dunque, che induce a intravedere una mutazione del Dna della mafia calabrese, un tempo abbastanza riluttante nel ricorrere alle «maniere forti alla siciliana». Una guerra che il sostituto procuratore nazionale Enzo Macrì definisce - con suggestiva metafora - «sciame intimidatorio».

Ma perché questa metamorfosi di una mafia che tradizionalmente ha sempre preferito risolvere le questioni al proprio interno, nel territorio, facendo appello al tradizionale sistema del «quieto vivere» silenzioso che fa ingrassare senza far male a nessuno? La risposta forse va ricercata nelle mutate condizioni ambientali che, da qualche tempo, non riescono più a garantire il tranquillo scorrere di una pace sociale capace di contemperare le esigenze di forze economiche, imprenditoriali, politiche, in una parola lobbistiche fino all’illegalità (mafia e massoneria deviata).

Non è casuale, perciò, che lo stesso procuratore Di Landro indichi nell’inizio della sua nuova gestione il punto di crisi da dove arriva l’ondata di violenza. In sostanza: la musica è cambiata. Intanto per l’innesto di forze nuove, sia magistrati che investigatori, giunte dalla Sicilia dopo la stagione dei successi conclusasi con la cattura di Bernardo Provenzano. E poi per la svolta impressa agli uffici della Procura generale, con la gestione Di Landro che è servita a interrompere una tradizionale «benevolenza» in sede di processi d’appello. Svolta concretizzatasi anche in modo non proprio tranquillo, se si pensa all’intervento del Consiglio superiore (il trasferimento del giudice Francesco Neri), che ha messo a soqquadro il tradizionale «andazzo» improntato alla gestione consociativa dei processi (persino con gli avvocati delle difese).

Ecco perché gli osservatori più attenti, nel commentare l’attentato della scorsa notte, sottolineano come «in Calabria ciò che accade non ha solo un movente mafioso», nel senso che non è solo la ’ndrangheta a muovere i fili. C’è una situazione di condizionamento ambientale, di collusione diffusa che può benissimo indurre a scelte cruente anche la più placida delle borghesie mafiose. Una magistratura attenta e sorda ai richiami delle sirene dai colletti bianchi può dare molto fastidio. Come dimostra una delle ultime indagini - a parte le maxiretate tra Reggio e Milano che hanno messo in crisi il brodo di coltura del riciclaggio dei soldi sporchi - che ha portato in cella Giovanni Zumbo, uno stimato commercialista, nonché perito del palazzo di giustizia col «vizietto» di riferire ai boss, i Pelle, tutte le indagini che i carabinieri stavano svolgendo. Un commercialista un po’ particolare, in contatto con militari ben accetti anche negli uffici dei servizi di sicurezza.

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« Risposta #7 inserito:: Settembre 14, 2010, 05:43:05 pm »

14/9/2010

Così Don Vito faceva politica

FRANCESCO LA LICATA

Con il materiale ora in possesso delle Procure di Palermo e Caltanissetta, prende forma il «quadro politico» che don Vito Ciancimino ha tenuto in piedi per anni - dai Settanta fino alla morte (2002) - attraversando praticamente la storia della Dc, prima, e tentando, poi, di entrare anche nella «Seconda Repubblica».

Per tutta la giornata di ieri, mattina a Palermo e pomeriggio a Caltanissetta, Massimo Ciancimino è stato sentito sui documenti recentemente acquisiti agli atti di indagini aperte da qualche tempo. Che cosa contengono quelle carte, in parte trovate nel corso della perquisizione ordinata dai magistrati di Caltanissetta, in parte consegnate dallo stesso Ciancimino?

C’è di tutto, là dentro: scritti autografi di don Vito, riflessioni politiche sul partito (la Dc) che si apprestava a «mollarlo» consegnandolo all’opinione pubblica come «unico capro espiatorio» del sistema politico-mafioso. Ci sono anche «pizzini» indirizzati a Bernardo Provenzano: corrispondenza interessante sul giro di soldi che fluttuava tra partiti e cosche.

E c’è lo sfogo politico di don Vito che, secondo un costume mai tramontato, denuncia di essere vittima di una macchinazione giudiziaria e lamenta «una differenza di trattamento», da parte della magistratura, fra le sue vicende ed altre storie, a suo dire, ignorate o sottovalutate perché riguardanti personaggi più importanti, come Marcello Dell’Utri e Silvio Berlusconi.

Fra la documentazione ritrovata in casa della sorella Luciana e in casa della madre, inoltre, è stato trovato un biglietto scritto a macchina e «commentato» a penna da don Vito. Si tratta di una sorta di rendiconto di soldi a lui pervenuti tra il 1979 e il 1983. È un documento davvero sorprendente perché, se fosse provato il contenuto, sarebbe accertato - per esempio - che prima ancora dei legami con Bettino Craxi - Berlusconi avrebbe intrattenuto rapporti con Giulio Andreotti, fino a sostenerlo finanziariamente. Ciò si evince dal flusso di denaro (20 milioni in contanti e 35 in assegni) che il «cavaliere» - allora soltanto imprenditore in ascesa - invia al «divo». Quei soldi, secondo le spiegazioni di Massimo, sarebbero serviti per «risarcire» il padre delle spese sostenute per il tesseramento della sua corrente in quel momento entrata in quella andreottiana.

Una bella storia, quella di Ciancimino che passa con Andreotti ma pretende un risarcimento per le spese di tesseramento, come stabiliva la mediazione sottoscritta da Salvo Lima, l’uomo di Andreotti in Sicilia. Ovviamente non si sa se questa versione sia quella vera; si sa - però - che a don Vito arrivarono soldi «girati» da finanziatori di Andreotti.

Secondo il «pizzino», oltre a Berlusconi, anche Ciarrapico e Caltagirone avrebbero offerto un lauto contributo. Ma è possibile immaginare un Ciancimino nella corrente del suo acerrimo nemico Andreotti? È lo stesso don Vito che racconta come andò, convinto dalle parole del capocorrente che prometteva l’«abbraccio mortale per i comunisti». E siccome il sindaco corleonese non si fidava di nessuno, conservò gelosamente gli assegni come prova dell’«inciucio» con Andreotti.

Così faceva politica, don Vito. E mentre trattava con amici di partito, teneva rapporti stretti con Provenzano. In un altro biglietto, anche questo consegnato, indica a don Binnu come spartire una certa somma a suo dire proveniente «da Berlusconi» non è chiaro a quale titolo. Ma il documento che i magistrati di Palermo analizzano con attenzione è uno «sfogo» di don Vito scritto a macchina e corredato di note autografe. Con la solita prosa astiosa, l’ex sindaco impreca contro giudici e investigatori per la «persecuzione giudiziaria» riservatagli.

Ma mentre impreca scrive di essere stato di grande aiuto a Dell’Utri e Berlusconi nell’impresa edilizia di Milano. Il riferimento va ancora alla Edilnord, a Milano 2, e alla presunta partecipazione economica di soldi mafiosi e di personaggi come i Buscemi e i Bonura.

Che cosa scrive don Vito? «Quello che Berlusconi ha fatto a Milano io ho fatto a Palermo. Ma a lui l’han fatto Cavaliere del lavoro, a me mi hanno arrestato».

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« Risposta #8 inserito:: Ottobre 19, 2010, 11:53:41 am »

19/10/2010

Mafia, le donne vittime nell'ombra

FRANCESCO LA LICATA

L’universo mafioso - si sa - pensa solo al maschile. Non c’è spazio per le donne, se non nelle vesti di vittime o protagoniste di immani tragedie e comunque personaggi dal destino segnato. Nessuna donna ha mai ricoperto il ruolo di capo e quando qualcuna si è imposta fino a sfiorare il vertice, ciò è avvenuto per necessità di sostituire un uomo momentaneamente assente. Ma anche le supplenze sono episodi sporadici. Più frequenti, invece, le storie tragiche, la violenza cieca esercitata su «deboli e indifese» che la stessa legge mafiosa vorrebbe ipocritamente destinate ad una «tutela assoluta».

Non si può dire che sia stato osservato il comandamento di rispettare le donne nel caso della vendetta trasversale riservata al pentito siciliano Francesco Marino Mannoia. Aveva da poco accettato di collaborare col giudice Giovanni Falcone quando, era l’ottobre del 1989, Cosa nostra uccise Leonarda, la madre, Vincenza, la sorella, e Lucia, la zia del neo collaboratore. Si salvò a stento Rita, la compagna che adesso vive con lui fuori dall’Italia. Era la prima volta che la mafia contravveniva alle proprie leggi, ma la posta in gioco era troppo alta per non tentare qualsiasi azzardo. Si trattava di bloccare sul nascere il fenomeno del pentitismo che già aveva mostrato tutta la sua pericolosità con le collaborazioni di Tommaso Buscetta e Salvatore Contorno.

Già, Buscetta. Anche questa storia è popolata di donne: tutte in qualche modo vittime del fascino del «mafioso buono». Era vittima Melchiorra Cavallaro, la madre dei suoi figli, relegata al ruolo di comparsa silenziosa. Ed anche la soubrette Vera Girotti, sua compagna nell’attraversamento della «bella vita», lusso e champagne, ma delusa dalla chiusura che il boss opponeva alla richiesta di una «vita più normale». Privilegio, questo, poi concesso da don Masino alla compagna della maturità: Cristina de Almeyda Guimares, donna colta e intelligente che, non a caso, non ha mai voluto prender posto dentro il baraccone mediatico che ha accompagnato l’ultino scorcio della vita del grande pentito.

Chissà, forse la stessa ansia di normalità avrà convinto Lena Garofalo a fidarsi del padre di sua figlia. Forse Lena inseguiva una sistemazione per il futuro di Denise, già stanca di fuggire - insieme con la madre - ai maschi di una famiglia che avevano già deciso di eliminare una testimone, Lena, della loro mafiosità. Imprudente, povera donna: mentre si illudeva che il padre di sua figlia si fosse rassegnato al «perdono», per lei colpevole di aver collaborato coi giudici, quello aveva già messo da parte l’acido per squagliarla. È incredibile come tante donne si rifiutino di vedere ciò che accade attorno a loro. Prendiamo Ninetta Bagarella, la moglie di Totò Riina. Ha sempre difeso il suo uomo, sin da quando, giovanissima, andò al Tribunale di Palermo per «spiegare» ai giudici che Totò era il migliore degli uomini. Poi si è lasciata trascinare nella clandestinità: trent’anni di anonimato riuscendo a partorire quattro figli. Dalla sua bocca non è uscita mai una sola parola di rimpianto, neppure davanti al figlio Giovanni, giovanissimo e già condannato definitivamente all’ergastolo. Ma lei è la moglie del Padrino e, perciò, recita un ruolo importante. Quello di custode dei «valori» di Cosa nostra «correttamente» trasmessi ai figli. Non v’è raffronto possibile con storie più marginali, come quella di Lea Garofalo. Ma anche dentro la «mafia nobile» ha albergato e incombe la tragedia. Che dire della drammatica fine di Vincenzina Marchese, moglie innamoratissima di Leoluca Bagarella? Lui è fratello di Ninetta, la moglie del Padrino. Lei, morta suicida, era figlia e sorella di grandi mafiosi palermitani. Amava tantissimo il suo Luca, fino a sopportare anche lei la clandestinità. Ma aveva un cruccio: l’assenza di figli che lei viveva come un castigo di Dio. Una nemesi divina per la crudeltà con cui Bagarella aveva fatto uccidere e sciogliere nell’acido il piccolo Giuseppe Di Matteo, ‘u picciriddu sequestrato per ricattare il padre pentito e indurlo a ritrattare ogni rivelazione. Bagarella trovò la moglie impiccata in cucina. E come in un racconto dell’orrore l’ha seppellita in un posto che lui solo conosce. Perchè il suo dolore sia soltanto il suo, senza dover condividere la «vergogna» di una moglie suicida.

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« Risposta #9 inserito:: Novembre 18, 2010, 12:30:27 pm »

18/11/2010

I clan stanno con chi comanda

FRANCESCO LA LICATA

Una nota stonata, il rumore di fondo delle polemiche Saviano-Maroni. Specialmente nel giorno della cattura di Antonio Iovine.
Il successo delle forze dell’ordine, frutto di lavoro e sacrifici di tanti poliziotti e magistrati, in sostanza dello Stato, avrebbe dovuto placare il clamore provocato dal monologo dell’autore di Gomorra.

Colpevole», a giudizio del ministro dell’Interno, di aver «ideologizzato» la lotta alla mafia screditando la Lega Nord, cioè il partito di appartenenza del titolare del Viminale.

Diceva Giovanni Falcone che la lotta alla mafia non è, non dovrebbe essere, né di destra né di sinistra. E i successi dello Stato sono successi di tutti, perché ogni sconfitta delle cosche è una vittoria del bene comune. Così dovrebbe essere, ma così non è e non è mai stato, sin dagli albori della «questione mafiosa» che è antecedente all’Unità d’Italia. Un’autolesionistica vocazione alla rissa ha portato spesso il Paese a dividersi puntualmente, proprio quando - invece - sarebbe stata utile coesione e superamento delle diversità per combattere le mafie.

Cos’è accaduto nelle ultime ore? Un intellettuale tra i più amati dal grande pubblico ha raccontato in tv come la ‘ndrangheta calabrese abbia piano piano, nell’indifferenza generale, conquistato i territori del Nord, e in particolare la Lombardia, fino a ripetere un copione già collaudato nel tempo da tutte le mafie: la ricerca di interlocutori politici per meglio invadere il nuovo territorio e realizzare profitti. Come esemplificazione, esercitando una forzatura, ma sottolineando con onestà che nessuna conseguenza giudiziaria si era verificata, ha citato l’incontro fra un consigliere regionale lombardo della Lega Nord e un mafioso indicato come il capo di un gruppo criminale ben saldo in quella regione. È stata, questa, la miccia che ha fatto esplodere non una polemica ma una «Santabarbara», amplificata da una successiva intervista di Saviano che, con un’uscita infelice, accostava la reazione del ministro a quella del suo nemico giurato Francesco Schiavone, detto «Sandokan». Chiaro che, in simile clima, risulti davvero difficile mantenere la rotta giusta.

Ed è un peccato, perché il monologo di Roberto Saviano avrebbe potuto funzionare come punto di partenza per una riflessione necessaria, specialmente dopo l’esito delle indagini avviate da Ilda Boccassini (Milano) e Giuseppe Pignatone (Reggio Calabria). Un’inchiesta che fotografa una realtà pericolosissima, come sottolinea la relazione semestrale della Dia al Parlamento. «Si è visto - scrive la Direzione Investigativa, riferendosi alla situazione criminale in Lombardia - il coinvolgimento di alcuni personaggi, rappresentati da pubblici amministratori locali e tecnici del settore, che, mantenendo fede ad impegni assunti con talune significative componenti, organicamente inserite nelle cosche, hanno agevolato l’assegnazione di appalti ed assestato oblique vicende amministrative».

Nessuno, ovviamente, vuol dire che la Lega è collusa con la mafia e meno che mai si può mettere in discussione l’impegno antimafia del ministro, tra l’altro sotto gli occhi di tutti. Ma non si deve perdere di vista la vocazione delle mafie ad entrare in relazione coi gruppi politici che amministrano il territorio. Anche stavolta ci sorregge il pensiero di Falcone che metteva in guardia: «Attenzione, la mafia non ha ideologia. Sta o cerca di stare con chi comanda e amministra». Nulla di eccezionale, dunque, che ci provi anche con forze politiche lontane dalla cultura mafiosa.

Ecco, in questo senso l’allarme di Saviano non può essere antitetico al senso di responsabilità del governo, come confermato dallo stesso Maroni, laddove dichiara di conoscere perfettamente i tentativi di infiltrazione al Nord compiuti dai gruppi criminali del Sud. Lo scontro frontale, al contrario, risulterebbe perdente nel lungo tempo. In Sicilia si negò per decenni l’esistenza della mafia e i partiti difesero contro ogni evidenza le mele marce che avevano al loro interno. Il risultato è sotto gli occhi di tutti.

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« Risposta #10 inserito:: Dicembre 05, 2010, 12:29:41 am »

4/12/2010

La credibilità tra i fuochi di due procure

FRANCESCO LA LICATA


Non è facile districarsi fra le contraddizioni del guazzabuglio nel quale sembra essere caduto Massimo Ciancimino con le sue «rivelazioni» sul misterioso e imprendibile «signor Franco», l’uomo dei servizi che avrebbe in qualche modo monitorato l’attività del padre, l’ex sindaco di Palermo Vito Ciancimino, sia nella veste di punto di riferimento politico affaristico della mafia corleonese (fino al 1984), sia nel successivo ruolo di mediatore all’interno della trattativa fra Stato e Cosa nostra durante l’offensiva stragista di Totò Riina.

L’ultima novità del teste riguarda il coinvolgimento di Gianni De Gennaro, ex Capo della polizia e oggi direttore del Dis (Dipartimento informazioni per la sicurezza), tirato in causa come «vicino» all’ambiente del «sig. Franco». E’ ovvio, visto il personaggio, la sua reputazione e il passato di successi nella lotta alla mafia, che la notizia abbia suscitato parecchia fibrillazione. E anche confusione, dal momento che all’immediata reazione di De Gennaro non corrisponde un’altrettanta decisa presa di posizione della Procura di Caltanissetta. Col risultato che Massimo Ciamcimino potrebbe trovarsi due volte accusato di calunnia: una volta da De Gennaro, un’altra volta dai magistrati di Caltanissetta, qualora decidessero (non l’hanno fatto in una recente riunione) di certificare di non credere al teste.

Già, perché questa è una storia che va avanti da mesi, tra opposte convinzioni dei giudici (Palermo dà affidabilità al teste, Caltanissetta ha più volte preso le distanze) e conseguenti diversi atteggiamenti. In particolare si può dire che la Procura di Palermo - anche sulla base di attività investigative che hanno riscontrato molte affermazioni di Massimo Ciancimino - abbia l’interesse processuale a mantenere alta la credibilità del teste. Più complesso il compito dei giudici nisseni, anche per via delle difficoltà insite nella rivisitazione di un periodo storico che ha visto negativamente coinvolti alcuni rappresentati degli apparati di sicurezza impegnati sul fronte antistragista.

Per quel che si sa, Massimo Ciancimino ha fatto il nome di Gianni De Gennaro non durante un interrogatorio ufficiale coi magistrati, ma durante uno scambio di battute informale con alcuni funzionari della Dia che, correttamente, hanno subito presentato una relazione ai giudici. Chiamato, poi, a confermare, Massimo Ciancimino ha ridimensionato il suo pensiero, spiegando che quelle espresse erano convinzioni del padre «notoriamente avvelenato col giudice Falcone e con gli investigatori che lo assistevano». E De Gennaro era il più vicino a Falcone.

Massimo Ciancimino, però, aveva offerto un profilo del «sig. Franco» molto preciso e sorretto da particolari e aneddoti che poco si addicono alla figura di De Gennaro. A cominciare dall’identità anagrafica, per finire all’episodio della concessione di un passaporto al figlio appena nato. Episodio ancora al vaglio degli accertamenti, visto che una prima ricerca si era conclusa nel nulla.

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« Risposta #11 inserito:: Dicembre 14, 2010, 09:52:03 pm »

14/12/2010 - IL CASO

Mafia e pizzo ecco le prime conversioni

FRANCESCO LA LICATA

Quindici palermitani taglieggiati che mandano in galera una banda di mafiosi agguerriti - addirittura i resti della «famiglia» Lo Piccolo - è senz’altro una buona notizia. Specialmente in pieno periodo natalizio, quando Cosa nostra scatena i suoi esattori.

Li manda a «mungere» commercianti e imprenditori, spacciando le estorsioni per «donazioni volontarie» da destinare ad «auguri per i picciotti in galera». Una farsa che si ripete a Pasqua, con le stesse caratteristiche.

Ma questa volta niente auguri ai «picciotti», semmai una retata natalizia. Ed è un risultato importante - come fanno notare i magistrati della Procura di Palermo - soprattutto perché, per la prima volta, i riscontri alle risultanze investigative vengono proprio dalle vittime. Non capita tutti i giorni, nella latitudine siciliana, di poter fornire ai giudici elementi di prova prodotte dal racconto delle parti lese. Senza queste collaborazioni clamorose, le indagini avrebbero sofferto della solita preponderanza di indizi, rispetto alle prove certe: la malattia cronica di cui soffrono i processi di mafia. Ma non è soltanto l’aspetto giudiziario - che pure ha la sua importanza - a dover rallegrare chi tiene a cuore la lotta alla mafia. Denunciare il proprio taglieggiatore, in certe condizioni ambientali, equivale ad una vera e propria rivoluzione culturale. Non a caso polizia e magistratura fanno riferimento ad una «rivolta degli imprenditori palermitani». Quante volte gli sforzi compiuti per alzare la testa (tornano alla mente le passate, negative esperienze di lotta al pizzo) si erano infranti contro il muro della paura. Sì, paura delle conseguenze, paura di dover sostenere lo sguardo del mafioso ed indicarlo in un’aula di giustizia come il proprio carnefice.

Certo, siamo pur sempre all’inizio e tanto merito deve andare ai ragazzi di «Addio pizzo», il gruppo di giovani che da alcuni anni si è letteralmente «inventato» la rinascita della dignità dei commercianti palermitani. E’ vero che i quindici «rivoltosi» non avevano fatto denuncia autonoma, ma è pur vero che assistiti da «Addio pizzo» si sono convinti della bontà della scelta di collaborare. Ora non bisogna mollare: il coraggio dei quattordici va alimentato perché possa aprire la strada ad altre collaborazioni. E questo è compito delle istituzioni che possono fare molto, come dimostra l’altra bella notizia che giunge da Torre del Greco, dove la sinergia fra Stato e organizzazioni antiracket ha consentito di far riaprire a tempo di record la «Nautica Bottino» distrutta da un incendio camorristico. Questa è la strada.

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« Risposta #12 inserito:: Gennaio 20, 2011, 06:15:09 pm »

 7/2/2008 (7:48)  - LA STORIA, COSA NOSTRA AI TEMPI DELLA GLOBALIZZAZIONE

La mafia ai picciotti "Fuggite dall’Italia"
   
"Troppa pressione", i clan ora guardano al Sud America

FRANCESCO LA LICATA
ROMA

La cattura di Salvatore Lo Piccolo e del figlio, Sandrino, avvenuta lo scorso novembre nelle campagne della periferia palermitana, è arrivata nel pieno imperversare - dentro Cosa nostra - del dibattito sull’annosa questione del cosiddetto «rientro degli scappati». Cioè sulla possibilità di «autorizzare» il ritorno a Palermo dei numerosi esponenti della «famiglia» Inzerillo di Passo di Rigano, a suo tempo (1981, inizio della seconda guerra di mafia) costretti all’esilio dai corleonesi che si apprestavano al blitz finale per la conquista del potere assoluto in Sicilia.

Proprio all’inizio della mattanza era caduto Salvatore «Totuccio» Inzerillo, il grande capo, poi toccò a qualcuno dei parenti prossimi (anche un figlio non ancora diciottenne). E proprio per mettere fine al massacro fu avanzata ai superstiti la proposta fatidica: «Scegliete: o vivi a New York o morti a Palermo». Una proposta, come si dice, che non poteva essere rifiutata e così l’interno clan emigrò a Brooklyn, nel New Jersey, nella Little Italy. In sostanza in terra «amica» visto che lì da tempo comanda il clan Gambino, strettamente intrecciato ai parenti palermitani di Passo di Rigano, soprattutto per i vincoli matrimoniali e di affari, per esempio il traffico degli stupefacenti.

E’ recente la scoperta dei malumori insorti dentro Cosa nostra, quando si profilò la possibilità del ritorno degli «scappati». Si sa di una schermaglia cominciata alla fine del 2004, con l’arrivo a Fiumicino di Rosario «Sarino» Inzerillo, quando si delinearono posizioni nette sul problema: i corleonesi duri, massimo esponente Nino Rotolo, contrari al ritorno; Lo Piccolo e i palermitani, con la sostanziale astensione di Bernardo Provenzano ormai votato a galleggiare tra i due schieramenti, favorevolissimi, anche perchè ansiosi di poter usufruire del collaudato «know how» degli Inzerillo nel campo degli stupefacenti.

Ma le mazzate arrivate prima con la cattura del capo, don Binu, proseguite poi con la retata denominata «Gotha» (Rotolo, Cinà, Bonura e tutti i big corleonesi) e infine con l’arresto dei Lo Piccolo, sembrano aver rimescolato le carte e rimesso in discussione ciò che appariva ormai quasi una dato di fatto: l’accoglienza in grande stile di Palermo al ritorno della «famiglia» Inzerillo. E ciò non solo per l’acuirsi dei dissidi interni che ne sconsigliavano l’esplicitazione con un «editto» che annullasse quello emanato dalla «commissione» negli Anni Ottanta.

Alla fine, forse i problemi antichi potevano essere superati, anche alla luce della barca di soldi che la «professionalità» degli Inzerillo poteva far giungere in Sicilia. Le difficoltà nuove sembra fossero da ricercare nelle mutate condizioni ambientali, a causa dei numerosi successi delle forze di polizia e della nuova linfa che animava le inchieste della magistratura. E sono proprio loro, gli Inzerillo, a manifestare più di una perplessità sull’ipotesi del ritorno.

A testimoniare dubbi e perplessità - oltre al contenuto della sterminata corrispondenza (i «pizzini») sequestrata a Provenzano e ai Lo Piccolo, oltre alle disastrose (per la mafia) intercettazioni del processo «Gotha» - un sussurro carpito nel carcere di Torino alla fine della scorsa estate. E’ Francesco Inzerillo, detto «‘u tratturi», a parlare coi nipoti Giovanni e Giuseppe, andati a colloquio nella casa circondariale dove il boss è detenuto. Francesco tradisce preoccupazione e la trasmette ai giovani: «... qua c’è solo da andare via... e basta... il punto è che tu non puoi stare che ormai i nomi sono segnalati... se non fai niente devi pagare , se fai devi pagare per dieci volte...».

I timori, questa volta, sono originati dal sacro terrore per l’azione degli «sbirri». E, quindi, sarebbe bene «andarsene dall’Europa... non dall’Italia... devi andare via dall’Europa... non si può stare... non si può lavorare liberamente... moralmente...qua futuro non ce n’è... mi dispiace è una bella terra ma futuro non ce n’è».

Sembra una vera ossessione che fa dire allo zio: «Appena ti metti in contatto con una telefonata pure con tua madre o con tua sorella, o con un tuo fratello, tuo nipote... già sei sempre sotto controllo. Te ne devi proprio andare, ma da tutta l’Europa.. perchè ormai è tutta una catena e catenella... te ne devi andare in Sud America.. come lo vuoi chiamare Centro America...». Ma il vero terrore è per «l’articolo 416 bis, automaticamente scatta il sequestro dei beni... cosa più brutta della confisca dei beni non c’è».

Già, la difesa dei soldi, dei «piccioli». E così sembra perdere forma il sogno del ritorno degli Inzerillo, accuratamente coltivato anche grazie a sinergie e parentele, come quella che lega il clan Gambino di New York ai cugini «paisà». Proprio come avevamo appreso dall’indagine Gotha, che rivelava lo stretto legame con lo «zio americano» Frank Calì, socio in affari ma, soprattutto, cognato di Pietro Inzerillo.

http://www.lastampa.it/redazione/cmsSezioni/cronache/200802articoli/29908girata.asp
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« Risposta #13 inserito:: Gennaio 23, 2011, 06:18:59 pm »

23/1/2011

Una sentenza costruita nella legalità

FRANCESCO LA LICATA

La vicenda giudiziaria di Cuffaro rappresenta qualcosa di unico nella storia della «malapolitica» siciliana, marchiata da un sistema che presuppone un’insana convivenza tra partiti, istituzioni e mafia.

L’ex governatore della Sicilia finisce a Rebibbia alla fine di un «normalissimo» iter giudiziario che, nei tempi previsti e senza sbandamenti fra i vari gradi di giudizio, ha ritenuto convincente l’impianto accusatorio che imputava a Cuffaro il favoreggiamento aggravato dall’aver favorito Cosa nostra. Esistono pochi precedenti «netti» come questo che si è concluso ieri mattina con la sentenza di giudici talmente «terzi» da aver disatteso persino le richieste più miti del procuratore generale.

Ma questo vuol dire che Cuffaro è mafioso? Non spetta a noi dare risposte così impegnative, qui, semmai, deve bastare prendere atto di una sentenza costruita nella legalità, cioè nel pieno rispetto delle garanzie costituzionali e della dialettica processuale che, per una volta, non ha fatto leva prevalentemente sull’apporto dei collaboratori di giustizia. E la sentenza dice che l’ex Presidente della Regione Sicilia ha favorito la mafia anche rivelando particolari investigativi che potevano essere molto utili a qualche boss, oppure agevolando l’ascesa di politici graditi ad esponenti di Cosa nostra.

Cuffaro, dunque, ha assunto atteggiamenti più che discutibili ed ha interpretato il proprio ruolo istituzionale in modo inaccettabile e contrario alle regole ed alle leggi. Questo vuol dire che, insieme al populismo bonario che gli procurava il consenso di migliaia di clientes (i favori, i cannoli, i pellegrinaggi religiosi), coltivava un sistema di relazioni molto più pericoloso perché intimamente connesso con la mafia.

Sta proprio qui quella «specificità» siciliana che spesso sottrae alla «ordinaria malapolitica» le vicende isolane, politiche e non. Già, perché in Sicilia tutto viene deformato, amplificato reso «particolare e più grave» dalla presenza mafiosa. La «fisiologica corruzione amministrativa» che impera nel mondo in fondo allo Stivale diventa ancora più inaccettabile perché intinta nel sangue di centinaia di uomini e donne vittime del sistema mafioso. E comportamenti censurabili ma non gravissimi, in Sicilia assumono i connotati di un vero e proprio alto tradimento.

Per questo, forse, come ha detto qualcuno, fare politica in Sicilia è un grande azzardo. Per via del contesto: un sistema vecchio e collaudato, che negli anni ha concesso alla mafia lo status di protagonista, ma oggi deve fare i conti coi tempi che cambiano e con la saturazione di ogni capacità di sopportazione, provata da lutti e tragedie collettive. E l’azzardo, si sa, ha un costo: può finir bene o malissimo.

Quando a Cuffaro in primo grado fu tolta l’aggravante mafiosa, l’imputato quasi «festeggiò» per una condanna pesante (5 anni) che però lo sollevava dall’«azzardo malavitoso». Vero è che quei festeggiamenti aggravarono la sua posizione, dato che fu costretto alle dimissioni da una foto galeotta che lo ritraeva mentre distribuiva cannoli ai suoi supporters. Ma l’assenza dell’alone mafioso sulla propria testa, lo sollevava parecchio. Poi l’appello ripristinò l’aggravante del terribile art.7 e tornò lo spettro di una condanna che lo avrebbe rovinato politicamente e umanamente. Ci sarebbe, a dire il vero, un modo per sottrarre la politica all’abbraccio innaturale e sarebbe quello, a suo tempo, intrapreso dal Presidente Piersanti Mattarella, che preferì l’azzardo nobile pagandone le conseguenze col sacrificio della propria vita.

La fine toccata a Totò Cuffaro non sarà ricordata come una nobile uscita di scena. Eppure un merito bisogna riconoscerlo al «democristianissimo governatore»: quello di aver guardato, ad un certo punto, in faccia la realtà e di essere rimasto in piedi mentre gli crollava il mondo addosso. Da fervido credente qual è, si è aggrappato alla sua fede e alla famiglia, senza nascondersi tra le pretestuose lacrimazioni da vittima del complotto politico. Senza disconoscere la corretta dialettica istituzionale che delega alla magistratura il compito di applicare la legge. Ovviamente questa non è un’ammissione di colpevolezza, ma, appunto, una presa d’atto dell’ineluttabile conclusione della propria vicenda.

«Adesso - ha detto ai pochi amici vicini - affronterò la pena, com’è giusto che sia. E’ un insegnamento che lascio come esempio ai miei figli». E nel pieno rispetto della magistratura è andato a costituirsi, prestandosi - tuttavia - anche alle maligne interpretazioni di quanti vorrebbero vedere nel suo gesto l’assunzione di responsabilità di chi coscientemente ha giocato con l’alta tensione e oggi ne accetta le conseguenze. Ma aiuta di più credere a un Cuffaro che la coscienza non l’ha perduta.

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« Risposta #14 inserito:: Giugno 09, 2011, 05:26:24 pm »

9/6/2011

Il biglietto da visita della mafia

FRANCESCO LA LICATA

Fa sempre un certo effetto ricevere conferme sull’estrema facilità con cui il virus della mafia attecchisce in zone del territorio nazionale ritenute, per storia e caratteristiche socio-culturali, immuni dal contagio della mala pianta. Ogni volta ci lasciamo andare all’autoassolutorio commento («Ma chi l’avrebbe mai detto?») e alla pronta archiviazione di quel qualcosa che in fondo alla mente insinua una certa inquietudine. Vista, però, la frequenza con cui cominciano a squillare i campanelli d’allarme nel «laborioso Nord», non si può che esser soddisfatti dell’iniziativa investigativa del gruppo interforze che ha portato a termine l’operazione Minotauro e disarticolato un’associazione mafiosa di origine calabrese capace di controllare un vasto territorio tra Piemonte, Lombardia ed Emilia.

Non v’è dubbio, in tal senso, che l’esperienza maturata in Sicilia da Giancarlo Caselli non avrebbe lasciato spazio ad attendismi e sottovalutazioni che non appartengono alla cultura del procuratore di Torino. Il magistrato conosce benissimo le cause che, in passato, hanno contribuito al radicamento della mafia nel territorio siciliano: prima di tutto il malinteso senso di difesa dell’onorabilità di un’intera regione «mortificata da una minoranza malavitosa». Benvengano, dunque, azioni mirate, capaci di interrompere trame delinquenziali già fin troppo disconosciute.

Già, perché non è scoperta recente che il Nord sia diventato, nel tempo, terreno appetibile per le cosche mafiose che restano saldamente ancorate alle origini ma, nello stesso tempo, esportano un modello assolutamente identico alla cellula-madre. Sappiamo che il proliferare delle cosche al Nord non è fenomeno recente: ricordiamo i «palermitani» a Milano a braccetto con gli Epaminonda, i Vallanzasca, i Turatello; e non abbiamo dimenticato i «catanesi» a Torino violenti e arroganti fino a decretare in società con i calabresi l’uccisione del procuratore Caccia. La mafia al Nord è un tema dibattuto da anni.

Oggi, però, qualcosa sembra cambiato e sembra gettare un’ombra più cupa del passato. Eravamo assuefatti allo stereotipo del mafioso che, al Nord, si occupa di affari illegali: il gioco d’azzardo, le prostitute, i traffici di armi e droga, la protezione. Già nel 1994, cioè 17 anni prima degli ultimi, recentissimi «allarmi», l’operazione di polizia «Fiori di San Vito» aveva consegnato all’opinione pubblica e ai giornali il quadro di una mafia calabrese saldamente padrona di un vasto territorio, tra Piemonte, Liguria e Lombardia. E già allora si parlò dell’esuberante forza economico-finanziaria della ’ndrangheta.

Ecco, quella forza ignorata per tanto tempo oggi troviamo all’origine del mutato potere mafioso. Un potere che tende a far parte a tutti gli effetti di un blocco sociale egemone, come dimostra - per esempio - la vicenda dello scioglimento del consiglio comunale di Bardonecchia, completamente «infiltrato» dalla mafia calabrese. Oggi le mafie sembrano interessate soprattutto alle attività legali: le grandi opere pubbliche, persino quelle attività diretta emanazione della politica. Basti pensare a cosa è stata la Sanità - specialmente nel Meridione d’Italia - per intuire il processo di trasformazione di una mafia che si allontana da coppola e lupara per identificarsi sempre più con la borghesia corrotta dei colletti bianchi.

Questo il motivo per cui ogni azione di polizia giudiziaria viene, ormai quasi sempre, affiancata da un’attività investigativa imperniata sulla ricerca di beni frutto di attività illegali. E ogni volta si scopre sempre meno profondo il distacco tra società civile e illegalità. Ne sono testimonianza attendibile le prese di posizione di Gian Carlo Caselli e Piero Grasso, procuratore nazionale antimafia. «L’aggressione ai beni e ai patrimoni della criminalità organizzata è la strategia vincente per sconfiggere i clan», così Grasso che indica come un «grande successo» i 70 milioni di euro in beni sequestrati dalla Guardia di Finanza. E Caselli, sull’arresto di Nevio Coral sindaco di Leini per un trentennio, dice: «Era il biglietto da visita della ’ndrangheta da spedire al mondo politico piemontese. Non è certo uno spettatore passivo delle vicende che lo riguardano, ma un soggetto ben collocato nell’ambiente ’ndranghetista».

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