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Autore Discussione: BRUNO TINTI. Tornelli della guerra ai magistrati  (Letto 4577 volte)
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« inserito:: Ottobre 29, 2008, 11:05:31 pm »

29/10/2008
 
Tornelli della guerra ai magistrati
 
BRUNO TINTI*
 
Su La Stampa di ieri il ministro Brunetta chiarisce il suo pensiero sull’organizzazione del lavoro giudiziario; che sarebbe notevolmente migliorata dall’introduzione dei tornelli. Non è un male che un ministro che non ha tra le sue competenze l’organizzazione della giustizia tuttavia se ne occupi; visto che il competente ministero è, da decenni, latitante. Il problema è che Brunetta finisce con l’occuparsene male. Non esiste un nesso tra la presenza di un magistrato in ufficio e la sua produttività. Un Pm bivacca in ufficio, dalle 8,30 di mattina alle 7 di sera, con panino al bar. Gran parte del suo lavoro consiste nell’interrogare; inoltre si occupa di più fascicoli nel corso di una giornata. E nel suo ufficio vi è un viavai di gente con cui deve conferire. La situazione è diversa per un giudice. Quando deve scrivere sentenze, tutto ciò che gli serve è un computer e un posto tranquillo dove consultare carte, giurisprudenza e dottrina. Questo in ufficio non lo può fare. Perché l’ufficio non c’è: certe volte manca, certe volte lo deve dividere con uno o più colleghi. È la situazione di quasi tutti i grandi Tribunali d’Italia. Ma poi, in casa le sentenze si fanno meglio: nessuno ti disturba, il computer funziona (quelli degli uffici si rompono frequentemente), la biblioteca (acquistata a rate) contiene tutta la dottrina che ti serve (in ufficio, manco a parlarne).

Naturalmente giudici e pubblici ministeri sono in ufficio quando ci sono le udienze. E qui la loro presenza ha un tempo variabile: nelle udienze penali alle 15 si smette perché il ministero non paga gli straordinari ai cancellieri (senza cui udienza non si può fare). Nelle udienze civili (dove pure ci andrebbe il cancelliere ma nessuno protesta se non c’è) si va avanti a oltranza finché tutti i processi fissati non sono stati trattati.

Così si arriva al secondo punto. Brunetta non lo sa, ma i magistrati tutti gli farebbero un monumento se introducesse i tornelli nei palazzi di giustizia. Perché i tornelli significano orario, nel caso di specie quello proprio del pubblico impiego. Che è di 36 ore la settimana: dalle 8 alle 14. Sicché giudici e Pm alle 14 non solo se ne andrebbero a casa; ma soprattutto potrebbero smettere di lavorare. Considerato che, in genere, è nel pomeriggio che tutti cominciano a scrivere (perché prima sono stati in udienza, in carcere a interrogare, hanno ricevuto gli avvocati) il risultato del tornello sarebbe poco salutare per l’Amministrazione della Giustizia o per gli utenti di essa. Delle due l’una: o meno udienze, meno processi e meno sentenze; oppure straordinari a go-go. Siccome i magistrati sono abituati a lavorare fino alle 7 di sera, continuare con questo ritmo e raddoppiare lo stipendio gli farebbe proprio piacere.

Ma è il terzo punto che fa capire come Brunetta non sappia quello che dice. Il tornello, e dunque l’orario di lavoro, è ontologicamente incompatibile con i compiti del magistrato. Hai un pentito che ti racconta della ventina di omicidi che sono stati commessi negli ultimi 10 anni? Alle 15 gli dici: ci sentiamo domani (o magari fra una decina di giorni, visto che domani sei in udienza, e dopodomani sei di turno arrestati...)? Hai un uomo che ha ammazzato la famiglia, che stai cercando di convincere a confessare e a spiegare perché l’ha fatto? E lui in effetti confesserà, magari all’alba. E tu alle 15 interrompi e te ne vai? Stai in udienza con 5 testimoni in corridoio che aspettano d’essere sentiti e alle 15 gli dici di tornare un’altra volta? Certo, in questo caso, potresti evitare di citarli, ne senti solo 2 o 3 al giorno, quanti se ne possono sentire entro le 15. Poi però Brunetta non si lamenti se i processi durano un paio d’anni in più. Ma si è chiesto, Brunetta, che ne sarebbe della famosa legge Pinto, quella che obbliga lo Stato a pagare i danni derivanti dai processi che durano troppo a lungo? Perché i suoi tornelli i tempi dei processi li triplicano.

In realtà le esternazioni di Brunetta sono analoghe a quelle di tutta la classe politica italiana: il processo migliorerà, sarà rapido, efficiente, razionale... riformando i magistrati e riducendo i mezzi tecnici e giuridici a loro disposizione. Introduciamo l’immunità per le alte cariche dello Stato, separiamo le carriere di giudici e Pm, vietiamo le intercettazioni, togliamo al Pm la disponibilità della polizia giudiziaria, non copriamo le Procure e i tribunali del Sud con giovani magistrati e dunque lasciamole vuote, trasferiamo i capi degli uffici dopo 8 anni: e per miracolo il processo funzionerà. Perché di questo si sono occupati, mica del processo.

Ministro Brunetta, i suoi discorsi sugli uffici vuoti sono tendenziosi. Il suo sdegno per gli errori procedurali e la tagliola della prescrizione male indirizzato: sono le leggi che avete emanato che sono sbagliate. Il suo invito a informatizzarsi è patetico e irritante, visto che avete tagliato le risorse necessarie per l’informatica giudiziaria. La sua scoperta che i tempi del processo sono biblici è incoerente con l’inesistenza di ogni pertinente iniziativa legislativa. Sappia che qualsiasi magistrato e qualsiasi avvocato è in grado di spiegarle cosa occorre per far funzionare il processo. Si informi; scoprirà che lei e i suoi colleghi avreste ben altro da fare che alimentare disprezzo e sfiducia nei confronti della magistratura. Forse i tornelli dovreste usarli voi.

* magistrato a Torino

 
da lastampa.it
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« Risposta #1 inserito:: Novembre 24, 2008, 02:17:07 pm »

24/11/2008
 

Mille e una espulsione per Alì
 
 
BRUNO TINTI - Procuratore aggiunto della Repubblica di Torino


 
Il 5 novembre le commissioni Affari Costituzionali e Giustizia del Senato si sono riunite in seduta comune. Erano le 20,30 quando hanno cominciato i lavori. Tra le tante cose approvate spicca un emendamento (9.100) all’ennesimo pacchetto sicurezza (il disegno di legge n. 733): si tratta del nuovo reato di ingresso e permanenza illegale nel territorio dello Stato. Non si dovrebbe mai lavorare di notte se non si è abituati; si rischia di fare cose sbagliate; e anche di farle male.

Cominciamo dalle cose sbagliate. Con la nuova legge, se Alì Ben Mohamed viene beccato senza documenti sarà accusato del reato di permanenza illegale nel territorio dello Stato e denunciato alla Procura della Repubblica; questa lo passerà al Giudice di Pace, che dovrebbe condannarlo a una pena variabile tra i 5 mila e i 10 mila euro. In realtà Alì non sarà condannato perché con la denuncia ci sarà l’ordine di espulsione del Questore; e l’espulsione, una volta avvenuta, obbligherà il giudice a emettere sentenza di non doversi procedere. Il che almeno un lato positivo ce l’ha perché ci impedirà di renderci ridicoli cercando di eseguire coattivamente una sentenza di condanna a pena pecuniaria nei confronti di un lavavetri. Siccome con la legge attualmente in vigore tutto si svolge esattamente nello stesso modo (Alì viene beccato senza documenti ed espulso), solo che non c’è un reato punito con quattro soldi, che del resto si prevede non saranno pagati, mi chiedo qual è l’utilità di scaraventare sulle Procure e sui Giudici di Pace centinaia di migliaia di processi.

Pochi lo sanno ma l’espulsione è finta; lo era prima e lo sarà dopo questo capolavoro legislativo. L’accompagnamento coatto alla frontiera a opera della polizia non viene mai eseguito perché non ci sono uomini e mezzi; quindi Alì riceve un pezzo di carta che gli ordina di andarsene; lui ne fa un uso appropriato e poi non se ne va, sicché, quando lo ripescano, ha commesso un reato (questa volta grave: è punito con la reclusione da 1 a 4 anni). Quindi viene arrestato e processato, in genere scarcerato, espulso (per finta) e via così. Poi c’è qualcuno che si chiede perché il processo penale non funziona. In attesa dell’espulsione vera (quella che non c’è quasi mai) Alì viene messo (quando c’è posto) nel Cpt che adesso si chiama Cie; insomma in un campo di concentramento che costa un sacco di soldi e dove si vive come bestie. Anche dopo questa nuova legge sarà così; ma in campo di concentramento ci potrà restare fino a 18 mesi (adesso sono 60 giorni). Un vero monumento alla civiltà: secondo i calcoli del Senato (che non ha proprio un grande interesse a fornire i numeri esatti) nel 2008 costerà 47 milioni di euro, 103 nel 2009, poi 152 nel 2010 e 93 nel 2011. Perché solo 93 nel 2011? Perché, secondo il nostro legislatore, a quel punto il rigore della politica italiana avrà convinto questa gente che scappa dalla morte a smetterla di venire in Italia.

Le cose sbagliate sono state anche fatte male. Infatti è successo che le due inclite commissioni hanno approvato questo emendamento destinato a processare più o meno 800 mila persone (tanti sono i clandestini in Italia e aumentano di 50 mila all’anno: i dati sono sempre del Senato) insieme con una modifica al processo avanti al Giudice di Pace, senza di cui tutto il marchingegno sarebbe crollato: «al procedimento penale per il reato di cui al comma 1, si applicano le disposizioni di cui agli articoli 20-bis, 20-ter e 32-bis del decreto legislativo 28 agosto 2000, n. 274»; si tratta di norme che istituiscono una sorta di processo per direttissima avanti al Giudice di Pace. Capito? 800 mila direttissime, da mettersi a ridere per non piangere. Il problema è che queste norme non esistono; avrebbero dovuto far parte del disegno di legge sottoposto all’attento esame dei nostri legislatori; ma non c’erano, se ne erano dimenticati. E così, tutti d’accordo, hanno approvato una legge che faceva riferimento a un’altra legge che però non esisteva. Si vede che era davvero notte inoltrata.

Ma accogliere gli immigrati, essere felici del loro contributo alla nostra economia e spendere tutti questi soldi per costruire nuove carceri in cui mettere i delinquenti, immigrati e no: questo non sarebbe un modo migliore di affrontare il problema invece di alimentare razzismo, egoismo e stupidità?


da lastampa.it
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« Risposta #2 inserito:: Gennaio 18, 2009, 07:43:56 pm »

18/1/2009
 
Processi lenti, la colpa non è dei giudici
 
BRUNO TINTI
 

Le udienze finiscono troppo presto; e i giudici stanno in ufficio troppo poco. Sono dunque queste le cause della lentezza dei processi.

È un peccato che non sia vero perché, se lo fosse, sarebbe facile rendere efficiente la giustizia italiana: due leggi e un adeguato ma non esagerato stanziamento di bilancio. Le udienze debbono durare dalle 9 alle 19; quindi si debbono pagare gli straordinari ai cancellieri per le ore di lavoro eccedenti quelle previste dai contratti di pubblico impiego, 6 ore al giorno per 6 giorni la settimana. Poi basta costruire uffici per i giudici, uno per ognuno, e lì staranno durante l’orario di lavoro (quale?). Costerà un po’ ma i problemi della giustizia sarebbero risolti.

Naturalmente non è così.
Prima di tutto il prodotto giustizia non consta solo del processo e dunque dell’udienza: prima del processo (anche di quello civile) c’è l’istruttoria; e dopo c’è la sentenza; lavoro che prende molto più tempo del processo puro e semplice. Ma restiamo alle udienze che durano troppo poco. Poco che durino, sono sufficienti per far incassare al giudice un certo numero di sentenze; perché ogni udienza comprende parecchi processi, e ogni processo concluso significa una sentenza da scrivere. Difficile dire quante se ne incassano per ogni udienza, minimo 3 (nei processi collegiali, quelli con tre giudici, quelli complessi); e 5, 6, ma anche di più, nei processi monocratici, quelli (teoricamente) più semplici. Più o meno altrettante in Corte d’Appello. E quante udienze si fanno? Da 3 a 4 ogni settimana. Dunque ogni giudice deve scrivere da 9 a 20 sentenze ogni settimana. E quando le scrivono? Quando l’udienza è finita, nel pomeriggio, perché il giorno dopo quasi sempre di udienza ce ne è un’altra e si incassano altre sentenze. In realtà il saldo tra le sentenze incassate e quelle scritte è sempre negativo, sicché i giudici le scrivono nei fine settimana e nei primi 15, 20 giorni di ferie (quelle famose ferie troppo lunghe dei magistrati).

Allora già si capisce che la durata dell’udienza è un falso problema: si potrebbero anche fare udienze più lunghe e dunque più processi; ma poi non si riuscirebbe a scrivere le relative sentenze.

Ma, si dice, basta con le sentenze troppo dotte: sintesi ci vuole e quindi sentenze in maggior numero. Sarebbe bello poterlo fare; ma il motivo di appello favorito degli avvocati è il difetto di motivazione: loro scrivono una memoria di 25 pagine proponendo eccezioni e tesi, infondate magari, ma ben costruite. E, se il giudice non le confuta una per una, la sentenza verrà riformata in Appello o in Cassazione. Che significa altro lavoro sullo stesso processo e quindi spreco di risorse. La sentenza dunque, per quanto sintetica, deve tener conto delle tesi della difesa; anche perché, se così non fosse, gli avvocati che ci starebbero a fare? Quindi scrivere sentenze è cosa abbastanza complicata.

Però i giudici stanno in ufficio troppo poco, pochissimo le mattine e mai nel pomeriggio. E allora?

I giudici della Corte di Cassazione fanno 4 o 5 udienze al mese, per il resto del tempo se ne stanno a casa loro, nelle varie città d’Italia dove risiedono. Ogni udienza incassano da 5 (i civilisti) a 15 (i penalisti) sentenze, che vuol dire da 20 a 60, 70 sentenze ogni mese. È davvero importante che queste sentenze siano scritte in un ufficio di piazza Cavour a Roma (che non esiste) piuttosto che nello studio di ognuno di loro, dotato di computer, stampante, biblioteca (tutta roba che a piazza Cavour non c’è)?

In molte città d’Italia i palazzi di giustizia sono vecchi stabili di grande valore storico e di nessuna funzionalità; uffici per i giudici non ce n’è. E il problema è che molti giudici in ufficio ci debbono stare per forza, fin a ora tarda. Tutti i pubblici ministeri d’Italia stanno in ufficio mattina e pomeriggio, almeno fino alle 19 (e poi le notti, le domeniche e insomma tutti i giorni in cui capita qualche cosa di urgente, cioè spessissimo); i giudici di famiglia (quelli che fanno separazioni e divorzi) fanno udienza quasi tutti i pomeriggi, oltre che le mattine (e poi debbono scrivere le sentenze); i giudici civili che fanno interdizioni tengono udienza quasi tutti i pomeriggi; le udienze civili per prove (interrogare i testimoni, sentire i periti) si fanno quasi sempre di pomeriggio. Insomma, quelli che non stanno in ufficio dopo aver finito le udienze sono i giudici penali del Tribunale e i giudici di Corte d’Appello, il cui lavoro consiste nello scrivere sentenze. Gli altri in ufficio ci stanno, altro che se ci stanno.

Alla fine bisognerà rendersi conto che la lunghezza dei processi dipende da codici di procedura dissennati e, in parte minore ma significativa, da carenza di risorse economiche.

Continuare a prendersela con i giudici che non lavorano (qualcuno naturalmente ce n’è) significa solo creare alibi per un legislatore incompetente.

da lastampa.it
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« Risposta #3 inserito:: Aprile 30, 2009, 09:49:40 am »

30/4/2009
 
Per le sentenze ci manca il Re Sole
 
 
BRUNO TINTI
 
AI tempi del Re Sole, quando si mandava una persona in prigione, si usava la «lettre de cachet». C’era scritto che Tizio doveva essere portato alla Bastiglia dove sarebbe restato per anni o per tutta la vita. Semplice ed efficace come sistema. Per fortuna le cose sono cambiate e adesso per farlo un pm deve chiedere a un gip; e gip e Tribunale della libertà debbono essere d’accordo. Poi si deve fare un processo con sentenza confermata in Appello e in Cassazione. Si capisce che oggi tenere qualcuno in prigione è più complicato.

Soprattutto perché chi firmava la «lettre de cachet» non spiegava perché il malcapitato doveva andare alla Bastiglia. Oggi i giudici debbono motivare. Questa faccenda della motivazione è sottovalutata da tutti. Quando si parla di giustizia, sembra che i problemi siano la separazione delle carriere, l’obbligatorietà dell’azione penale, le intercettazioni. Nessuno che si chieda: ma, dopo che il giudice ha detto in aula che Fiero Farabutto è stato condannato a 20 anni di reclusione, che succede? Bisogna spiegare la decisione, scrivere la sentenza.

Il problema è che tutti credono che il processo penale sia come nei film: la giuria dichiara l’imputato colpevole: il giudice gli dice che dovrà scontare 20 anni; e poi tutti a casa, meno l’imputato che va in prigione. Solo che succede nei film e negli Stati Uniti d’America, dove giudici e giuria non emettono sentenze ma verdetti: sentenze di condanna non motivate. In Italia questo non è possibile: bisogna spiegare. È a questo che serve la sentenza. Solo che spiegare è una cosa complicata. Bisogna raccontare quello che è successo, quello che hanno detto gli imputati, le parti offese, i testimoni, la polizia, i periti; perché quello che hanno detto alcuni è ritenuto attendibile mentre quello che hanno detto altri è falso; bisogna analizzare le argomentazioni degli avvocati difensori, se è necessario bisogna confutarle. Per un processo che abbia un imputato, un reato (ma un reato semplice), una parte offesa e due testimoni, in meno di due ore non ce la si fa. A volte arriva il cataclisma o maxiprocesso: 100 imputati, 13 associazioni a delinquere, 28 omicidi, centinaia di rapine ed estorsioni, centinaia di testimoni, decine, centinaia di avvocati. Si va avanti per un anno o due. Poi la sentenza: e si comincia a scrivere. Quanto ci si mette? 200, 500, 1000 ore? In giorni, 10, 100, 200? Ma se il giudice che deve scrivere questo romanzo fiume fa solo questo; se, tre volte la settimana, deve andare in udienza e il pomeriggio deve scrivere le sentenze dei processi che ha trattato la mattina, i tempi si moltiplicano.

Nei giorni scorsi tutti si sono indignati per i mafiosi di Bari scarcerati perché, dopo un anno, il gup non ha ancora depositato la sentenza. Il processo di Bari aveva 161 imputati. I reati erano quattro associazioni a delinquere e un’infinità di reati comuni. Quanti mesi erano necessari per scrivere questa sentenza? E cosa è stato fatto per aiutare il giudice in quest’opera micidiale? È stato sollevato parzialmente dal lavoro ordinario (ma solo per i processi con detenuti) per 4 mesi. Per il resto, rimboccarsi le maniche e via.

Dobbiamo metterci d’accordo. Vogliamo un processo supergarantito (il nostro processo penale lo è, anzi, di più)? Allora dobbiamo rassegnarci a un processo che dura anni. E, se non vogliamo tenere in prigione gli imputati per tempi lunghissimi fino alla sentenza definitiva, ma non vogliamo farli uscire prima, dobbiamo moltiplicare per 10, 15 - chi lo sa? - i giudici che debbono scrivere le sentenze. E dove pigliamo questi giudici, visto che a ogni concorso non si coprono nemmeno i posti disponibili per mancanza di candidati con preparazione sufficiente? E poi, ammesso che li troviamo, come paghiamo migliaia di giudici? La verità è che tutto questo non si può fare: mancano giudici e soldi. Quindi è inevitabile che i mafiosi di Bari e di tanti altri posti escano per decorrenza termini. Questa virtuosa indignazione di chi sa bene che il sistema giudiziario italiano non può fornire il prodotto che gli si chiede è inaccettabile. La nostra classe dirigente dovrebbe una buona volta riconoscere che è arrivato il tempo di costruire un nuovo processo penale, efficiente e razionale. E se questo significherà la perdita dell’impunità per quella parte di essa che prospera nel malaffare, pazienza.
 
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