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Autore Discussione: PACO IGNACIO TAIBO II Poesie d’amore e conforto: l’antologia privata del Che  (Letto 3406 volte)
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« inserito:: Ottobre 28, 2008, 07:54:22 pm »

Ignacio Taibo II all'università: «Non dovete pagare per il Titanic neoliberista»


Leonardo Sacchetti




Parla a raffica. «Ci vogliono far pagare il conto della serata, ma noi, a cena sul ponte di comando del Titanic, non ci siamo stati».

Scusi, Paco: in che senso?


«È come sul Titatic: sta affondando e solo adesso vengono a dirci che il conto della serata sfrenata lo dobbiamo pagare noi. Che lo devono pagare i nostri figli. Non ci cascate, ragazzi! Che s'inabissi, ecco».


Paco Ignacio Taibo II, scrittore spagnolo di nascita ma messicano d'adozione, è appena atterrato in Italia per due giorni di incontri e presentazioni. È nato a Gijón, nel 1949. Nel 1958 si è trasferito in Messico con la famiglia, di solide tradizioni antifranchiste, e da allora è sempre vissuto a Città del Messico. Laureato in sociologia, lettere e storia, ha vissuto da protagonista le drammatiche vicende del ‘68 messicano; giornalista dal 1969, ha diretto numerose riviste. E infatti, appena arrivato, ha già letto i giornali e si è fatto fotocopiare - dalla fidata Cristina della sua casa editrice italiana - un bel malloppo di rassegna stampa sul movimento studentesco che si oppone alla contro-riforma del ministro Gelmini. «Non so, avrei bisogno di altro tempo per poter giudicare nel merito», è la sua posizione da storico. «Ma di una cosa sono certo: questi ragazzi non devono pagare il conto del Titanic».


Allora, Taibo, partiamo dall'inizio. Di quale Titanic sta parlando?


«Per me, il Titanic sono questi ultimi 15 anni di politiche neoliberiste. Ci hanno relegato laggiù nelle stive, mentre sul ponte del capitano se la raccontavano di poter fare e disfare gli Stati. Hanno puntato a dismettere tutto e adesso siamo alla resa dei conti: alla lista delle privatizzazioni mancano solo la sanità e la scuola pubbliche. Per me, i giovani, gli insegnanti, i genitori italiani fanno bene a protestare: non spetta a loro pagare il conto di questo delirio».

Un delirio che, poi, è una crisi della finanza che abbraccia anche l'economia reale. Ma se il Titanic affonda, ci rimettiamo anche noi, no?


«Forse. Ma non è che se rimane a galla per noi sarà un fatto positivo. Soprattutto perché è la stessa idea di Titanic ad essere stata costruita ad arte. Certo: alla cena al tavolo del capitano c'hanno pasteggiato in tanti. Ma al cittadino normale, nemmeno le briciole. Se il Titanic si inabissa, la colpa sarà di chi ha scambiato il neoliberismo per l'invito al galà e non come lo strumento per smontare lo stato sociale».


Un po' come dire: ci han fatto credere di essere dei Leonardo Di Caprio e invece, sul piroscafo, ci siamo svegliati con l'acqua della crisi già alla gola, un po' come stare nella Terza Classe che è solo "dolore e spavento". Paco Ignacio Taibo II è in Italia per presentare un libro. Non un suo libro (l'ultimo è la monumentale e fascinosa biografia di Pancho Villa, edita per la Tropea), ma quello del padre, Paco Ignacio Taibo I. "Fuga, ferro e fuoco", il titolo.


Una curiosità, Paco: è più difficile presentare un proprio libro o il libro di un altro, per di più quello di suo padre?


«Beh, non è la prima volta che succede. Sinceramente devo dire che, cronologicamente, io sono diventato uno scrittore famoso ben prima di mio padre. È che lui ha passato la sua vita a fare: il giornalista di mattina, l'autore tv di pomeriggio, il saggista di cucina e di teatro la sera. In questo senso, è sempre stato uno scrittore clandestino. Forse scriveva di notte, non so».


«Fuga, ferro e fuoco» è un libro che parte dalla cittadina di Puebla, in Messico, nel 1772 per tornarci nel 1973. Dalla cosiddetta «Rivolta delle monache» alla repressione del movimento studentesco.

Che storia racconta Paco Ignazio Taibo I in questo libro?


«Mio padre ha voluto riscrivere la storia di queste monache di Puebla che, nel XVIII secolo, lottarono contro l'oligarchia ecclesiastica per una vita, un convento migliori. Furono accusate di "reazione" quando in realtà, sostiene il vecchio Taibo, fu tutto il contrario. E poi, rimanendo sempre a Puebla, mio padre ci racconta la violenta repressione degli studenti messicani che, dopo aver alzato la testa nel '68, protestarono contro la corruzione e il nepotismo. Sullo sfondo c'è il Messico, terra di rivolte e di libertà».


Nel libro, tra i ragazzi del movimento studentesco sembra esserci anche lei. O è solo un'impressione?


«In realtà, in quei giorni io ero sempre a Città del Messico a organizzare gli scioperi dell'università. Mio padre si è preso una licenza poetica, ma il succo del racconto rimane tutto. Mentre io scendevo in piazza per protestare contro i tagli all'educazione pubblica e per una vera democrazia, mio padre si è comportato come un protettore.

In che senso?


«Sì, come un protettore di seconda fila. Il suo lavoro di giornalista lo portava nelle stesse piazze dove io sfilavo con gli altri studenti. Lui stava là, a guardare e a cercare di capire per raccontarlo sul giornale. Poi, però, mi consigliava, mi guidava e, in tante occasioni, mi ha protetto da sbagli o da situazioni troppo pericolose. Devo ricordare che io ero uno straniero, uno spagnolo. E la polizia messicana non ci andava leggera con gli stranieri che protestavano contro il governo. Oggi come allora».

Il movimento studentesco messicano, di cui ha raccontato la genesi nel suo saggio "'68", è stato stroncato nel sangue e un'intera generazione ridotta al silenzio. In Messico, la polizia entrò davvero nelle scuole. E uccise.


«Sì, ma la loro vittoria fu effimera. Dopo 40 anni, poche settimane fa, abbiamo organizzato un'enorme manifestazione a Tlatelolco (la piazza delle Tre Culture, teatro della repressione nel 1968 a Città del Messico). Mi dovete credere: dopo 40 anni, tanti messicani sanno che quella è ancora una ferita aperta. "Il passato ritorna", c'era scritto nello striscione che apriva la manifestazione di quest'anno. Una frase semplice ma che ricorda che la battaglia per la libertà non è finita».

Nel pomeriggio di oggi (martedì), Paco Taibo II farà visita agli studenti di Scienze Politiche dell'Università Statale di Milano. Cosa gli dirà?


«Niente. Non voglio fare il professorino della rivolta, né il nostalgico. Ho voglia di capire questo progetto del governo Berlusconi. Conosco l'entità dei tagli e, fosse solo per questo, sto dalla parte di chi protesta, di chi non vuol svendere la scuola pubblica».

Taibo II che presenta un libro di Taibo I. Un rapporto padre-figlio che passa dalla scrittura alla "protezione" politica. Come si comporterebbe se sua figlia si trovasse nel mezzo di una protesta studentesca come quelle che lei stesso organizzava trent'anni anni fa?


«Per fortuna, mia figlia non fa la scrittrice - ride Paco Ignacio -. È fotografa e già questo segna una differenza nel clan Taibo. Però, tra pochi giorni, uscirà il primo romanzo di mio fratello Benito (tranquilli: in onore dell'eroe del Messico moderno, Benito Juarez, ndr). Dopo un libro di poesie, ha cercato di misurarsi con la narrativa. Come dire: il clan continua la sua strada, sulla carta come nell'indole alla protesta. Un po' come racconta sempre mio padre nel suo libro che, almeno per me, rimane il migliore. "Para parar las aguas del olvido" (Per fermare le acque dell'oblio), che presto arriverà anche da voi, è un libro sull'infanzia e l'adolescenza, sullo spirito di ribellione durante la Guerra Civile spagnola. Lì c'è già tanto di quel che io chiamo il clan dei Taibo».

L'ultima domanda è: dopo aver chiuso con un record di visite l'ultima edizione della Semana Negra di Gijon (la festa del romanzo poliziesco che Taibo organizza come se fosse, parole sue, "una disneyland trozkista"), a cosa sta lavorando?


«A due libri. Nel giro di tre mesi li finisco. Il primo lo scrivo al piano terreno della mia casa alla Condesa, a Città del Messico. È il racconto della vera storia della battaglia di Los Alamo (1836), con la precisa volontà storica di demolire il mito yankee che vuole questo episodio come esempio dell'eroismo a stelle e strisce. Il secondo libro, che scrivo al primo piano di casa mia, è un sogno che si fa realtà».

C'entra qualcosa Emilio Salgari?


«Sì. Dopo anni sono alle prese con un'avventura dedicata a Sandokan, alle tigri di Mompracem e a tutto il mondo di carta costruito dal vostro Emilio Salgari. L'ambientazione sarà tutta messicana, un delirio. Ma non vi dico di più: ogni volta che parlo di un libro in fase di scrittura è un po' come se lo ammazzassi. Lasciatemi ancora qualche settimana. E poi, oggi ho voglia di reagire, di ascoltare, di parlare del Titanic che affonda e di questo conto che le borse e i governi vogliono farci pagare dopo averci tenuto alla larga dal ponte di comando. Sai che vi dico: ci vediamo all'università».


Ok, Paco. Ci vediamo là.




Pubblicato il: 28.10.08
Modificato il: 27.10.08 alle ore 21.32   
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« Risposta #1 inserito:: Novembre 13, 2008, 03:04:56 pm »

Poesie d’amore e conforto: l’antologia privata del Che

Guevara aveva con sé il «quaderno verde» al momento della cattura


di  PACO IGNACIO TAIBO II


I tre ufficiali con la divisa da ranger e l’agente della Cia ispezionarono lo zaino minuziosamente. Alla fine poterono ricavarne solo un magro bottino: dodici rullini, una ventina di cartine con sopra i segni di matite colorate, una radio portatile che non funzionava da tempo, un paio di agende e un quaderno verde.

Le agende suscitarono scalpore. Gli ufficiali, dopo avere scorso la grafia minuta, confermarono trattarsi di un diario che andava dal novembre del ’66 all’ottobre del ’67. Poco dopo, vicino alla porta della scuola in cui è stata allestita una prigione per il proprietario dello zaino, si improvvisa un laboratorio dove un agente della Cia fotografa i diari. Il materiale viene portato in elicottero da un colonnello verso La Paz, capitale della Bolivia.
Il quaderno verde, in cui si può leggere una serie di poesie, non sembra in quel momento destare ulteriore interesse. Poche ore dopo il proprietario dello zaino, il comandante Ernesto Guevara, verrà assassinato nella scuoletta di La Higuera, e i suoi modesti beni terreni saranno spartiti.

Il quaderno verde
Una mattina d’agosto del 2002, J.A., vecchio amico dell’autore e compagno al di sopra di ogni sospetto, posò sul tavolo un fascio di fotocopie: «Che cos’è? Chi è l’autore? Riesci a identificare la grafia?». Sfogliai le pagine. Fui percorso da un brivido. Sembrava un testo scritto dalla mano del Che. Lo era davvero? Da dove saltava fuori? Chiesi al mio amico un paio di giorni. Portai le fotocopie a casa. Confrontai la grafia con diversi documenti che conservavo di pugno del Che. Era evidentemente la sua grafia. Riesaminai con calma quelle 150 pagine provando, non lo nego, una certa riverenza.

Era una raccolta di poesie, molte delle quali con il titolo o con il rimando numerico a una serie, mancanti di dati sull’autore tranne una: «L. Felipe», indicazione che sicuramente corrispondeva al poeta spagnolo León Felipe, esiliato in Messico negli ultimi anni della sua vita. Parecchi testi erano riconoscibili. Certamente si trattava del quaderno verde scomparso in Bolivia. Com’era arrivato fino a me?

Una parte del quaderno era senz’altro stata scritta durante la campagna boliviana. Esiste una fotografia che sembra mostrare il Che, arrampicatosi sui rami di un albero per fare la guardia, mentre sta leggendo o scrivendo. L’elenco dei libri che il Che aveva portato nello zaino in quei mesi era conosciuto, e alcuni degli autori corrispondevano con i poeti che mi sembrava di identificare nel quaderno. Copiati o riscritti a memoria? Cercai nella mia biblioteca e feci un confronto con quelli che mi risultavano noti.

Copiati, sicuramente. Quando si conserva qualcosa nella mente, non si può essere così precisi da ricordarsi che una quartina finisce con un punto e virgola, o che una frase è tagliata arbitrariamente in due righe in un certo modo. Perché allora l’omissione degli autori? Era una di quelle sfide umoristiche che tanto piacevano al Che? Era un gioco intellettuale? («Io li conosco, perché dovrei scrivere i loro nomi?»). Oppure, tra il serio e il faceto, il Che aveva pensato che così trasformava il suo quaderno in un documento privato, con una chiave d’accesso riservata soltanto a lui? Qualunque cosa fosse, si trattava di un’antologia. Era l’antologia del Che. Un’antologia personale.

Il Che e la poesia
Ernesto Guevara, nel corso della sua vita, fu un vorace lettore di poesia. Centinaia di aneddoti lo attestano. È una passione scoperta durante l’adolescenza, in un periodo di continui attacchi d’asma, quando il Che, costretto a passare parecchie ore di immobilità, trova nei libri un mondo parallelo in cui rifugiarsi. I suoi primi amori saranno Pablo Neruda e I fiori del male di Baudelaire, curiosamente letto in francese. A 15 anni è la volta di Verlaine e di Antonio Machado, e oltre alla scoperta di Gandhi, che lo colpisce profondamente, i suoi amici lo ricordano mentre recita Neruda, certo, ma anche poeti spagnoli.

Nel 1952, quando ha 24 anni e si trova a Bogotá, il Che conosce un dirigente studentesco colombiano. Parlano di politica, di letteratura, e lui dice che ha imparato tutte le poesie d’amore di Neruda. Lo studente colombiano lo sfida: «La 20...». Guevara senza esitazioni risponde: «Posso scrivere i versi più tristi stanotte. / Scrivere, ad esempio...» e prosegue. Un paio d’anni dopo, da un carcere messicano, avrebbe detto ai suoi genitori in una lettera: «Se per qualunque motivo, anche se mi sembra improbabile, non potessi più scrivere e le cose andassero male, considerate queste righe come un addio, non molto magniloquente ma sincero. Ho attraversato la vita cercando la mia verità tra mille ostacoli, e adesso, ormai su questa strada e con una figlia che mi perpetuerà, ho chiuso il ciclo. D’ora in poi non considererei la mia morte un fallimento. Casomai, come Hikmet, "Nella tomba porterò soltanto / il rammarico di un canto incompiuto"». (...)

Durante la campagna nella Sierra Maestra, il Che riesce a organizzare una rete di contatti in grado di fare arrivare in montagna libri di José Martí e raccolte poetiche di José María de Heredia, Gertrudis de Avellaneda, Gabriel de la Concepción e Rubén Darío, da alternare con la biografia di Goethe scritta da Emil Ludwig, che sta leggendo, come si può vedere in una foto che lo ritrae sdraiato in una capanna di rami, con una coperta addosso e un enorme sigaro in bocca.

Nel gennaio del ’61, quando lavorava come ministro dell’Industria della rivoluzione trionfante, il Che rivelava a Igor Man, durante un’intervista, che «conosco Neruda a memoria, e sul mio comodino c’è Baudelaire, che leggo in francese». Guevara aggiungeva che la sua poesia preferita di Neruda era il «Nuovo canto d’amore a Stalingrado». «Ho scritto del tempo e dell’acqua,/ descritto il lutto e il suo metallo viola, / ho scritto del cielo e della mela, / adesso scrivo di Stalingrado». Aleida March, la sua compagna, avrebbe ricordato: «Leggeva a tutte le ore, in qualunque momento libero avesse, tra due riunioni, mentre andava da un posto all’altro ».

Il Che poeta
Non solo Ernesto Guevara era un grande lettore di versi, ma per tutta la vita aveva civettato con la poesia come creatore, le si era avvicinato e allontanato, trattandola con molto rispetto. Non si sentì mai soddisfatto dei risultati, e pensando che i suoi componimenti non valessero più di tanto, non li diede mai alle stampe.

È probabile che il Che abbia scritto versi durante tutta l’adolescenza e la prima giovinezza, ma i pochi testi che oggi conosciamo furono composti tra il ’54 e il ’56, in Guatemala e in Messico. È la poesia di una persona in pieno processo di transizione, affascinata dall’immenso mondo che in qualche modo la sta aspettando e dalle rovine precolombiane. Nel ’55 il Che scrive: «Il mare mi chiama con la sua mano amica / il mio prato – un continente – / si srotola soffice e indelebile / come un rintocco nel crepuscolo».

Tornerà su questi temi in un’altra poesia: «Sono solo di fronte alla notte inesorabile / e nel gusto un po’ dolciastro dei biglietti / l’Europa mi chiama con voce di vino invecchiato / alito di carne bionda, oggetti da museo. / E nello squillo allegro di paesi nuovi / ricevo di fronte l’impatto diffuso / della canzone di Marx e di Engels».

Quando lavorava in Messico come dottore, il Che dovette assistere una donna di nome María, che soffriva di gravi disturbi respiratori associati ad asma. Sentendo come un’offesa personale la miseria in cui viveva la paziente e poi la sua morte oscura, Guevara scrisse una poesia: «Vecchia María, stai per morire / voglio parlarti seriamente / La tua vita è stata un rosario pieno di agonie / non ci fu uomo amato né salute né soldi / e da dividere solo la fame». Il testo è un po’ debole, ma a poco a poco ecco apparire l’offerta della dolce vergogna delle mani di medico che stringono quelle dell’anziana per prometterle, «con la voce bassa e virile delle speranze, / la più rossa e virile delle vendette, / e che i tuoi nipoti vivranno l’aurora». I versi finiscono con un «lo giuro» scritto in maiuscole, che suona sincero nonostante una certa magniloquenza.

È molto probabile che il Che abbia continuato a scrivere versi durante gli ultimi anni della sua vita, ma non fu mai dato conoscere quei testi.

L’antologia
Delle 69 poesie raccolte nel quaderno verde, soltanto una recava il nome dell’autore: la sessantasettesima, «La grande avventura», che terminava con la dicitura «L. Felipe». Le altre 68 non avevano attribuzione. All’inizio ebbi l’idea di fare un elenco dei poeti che sapevo cari al Che, ma questo procedimento risultò fuorviante quando mi trovai di fronte a una lista di una cinquantina di autori.

Avrei potuto fare appello alla migliore preparazione e memoria poetica di amici o esperti. Ero convinto che Roberto Fernández Retamar sarebbe riuscito in pochi minuti a dipanare la maggior parte dei misteri, ma la sfida era per me affascinante. Ripensando alle mie vecchie letture di Sherlock Holmes, applicai la sua logica inesorabile: una volta eliminato l’impossibile, ciò che resta... Iniziai allora identificando la quindicina di poesie che conoscevo o che mi suonavano in qualche modo familiari. Il César Vallejo degli Araldi neri; la numero 20 («Posso scrivere i versi più tristi stanotte») e «La canzone disperata » delle Venti poesie d’amore di Pablo Neruda, la famosa «Farewell»; altre due poesie di Vallejo, «In quell’angolo, dove dormimmo insieme» e «Smonto dal mio cavallo questa notte», da Trilce; diversi testi di Nicolás Guillén: «Non so perché pensi tu», «Sensemayá », «Un lungo caimano verde» e la poesia stessa di León Felipe di cui il Che aveva indicato l’autore: «Sono passati quattro secoli...».

In teoria restavano quattro poeti: Pablo Neruda, César Vallejo, Nicolás Guillén e León Felipe. Mi sembrò la prima strada da seguire: incominciai a riesaminare tutte le rimanenti poesie tenendo presenti questi quattro autori e lasciando alla fine le identificazioni più problematiche. C’erano cose relativamente facili, altre che mi facevano pensare a Canto generale, testi che potevano essere solo di León Felipe o di un imitatore molto vicino, frasi vallejiane e sones caraibici di Guillén. Alcune antologie si rivelarono insufficienti, così dovetti procurarmi le edizioni delle opere complete di Vallejo, Neruda, Guillén e saccheggiare la biblioteca di mio padre alla ricerca di tutti i libri di León Felipe.

Probabilmente un esperto avrebbe avuto meno difficoltà, ma non si sarebbe divertito altrettanto nel lavoro. Una settimana dopo, notti comprese, con vistose occhiaie e numerosi sbadigli, avevo identificato 67 poesie su 69, e sarei venuto a capo delle restanti due di lì a poco. Durante la ricerca mi ero imbattuto in alcune trappole: il Che aveva omesso il titolo di due poesie, una era copiata in due pagine diverse ed era intercalata con un’altra, due erano state trascritte in modo frammentario e una risultava attaccata direttamente alla successiva. Ma alla fine l’antologia del Che aveva contorni precisi.

Il quaderno conteneva una scelta di versi di Pablo Neruda, César Vallejo, Nicolás Guillén e León Felipe, solo questi quattro poeti. Non uno di più. Stranamente i testi non erano ordinati per autore, anzi, non sembravano ordinati affatto (per esempio nella sequenza cronologica in cui li avrebbe disposti un’antologia), vale a dire che il Che aveva letto e copiato libri di poesia dei quattro senza un criterio definito. All’inizio esiste una successione: una poesia di Vallejo, una di Neruda, una di Guillén, successione che si ripete otto volte. Mi venne da pensare all’esistenza di una chiave segreta, ma quella sequenza a un certo punto si interrompe, e in seguito non può essere individuato alcun ordine.

Alcune poesie mi spiazzarono; le date sembravano non corrispondere. «Aconcagua» di Guillén appare nel libro Il grande zoo, pubblicato nel ’67, ma era uscita in precedenza su Lunes de la Revolución, a Cuba, nel ’59; poteva quindi figurare in un’antologia, oppure il Che aveva con sé un ritaglio della rivista. Il secondo dubbio riguardava le poesie tratte da Oh, questo violino vecchio e rotto! di León Felipe, pubblicate in Messico verso la fine del ’65 dal Fondo de Cultura Económica, ma non risultava affatto strano che il poeta avesse spedito il libro a Cuba, e che qualcuno lo avesse preso e portato al Che a Pinar del Río, durante il breve periodo di addestramento prima della guerriglia boliviana.

Resta un ultimo dubbio: come mai il Che ha scartato dall’antologia la sua poesia preferita,«Nuovo canto d’amore a Stalingrado» di Neruda? Come mai ha lasciato fuori le poesie di Vallejo sulla guerra di Spagna? La spiegazione che le sapeva a memoria è da escludere, poiché sarebbe valida anche per i versi d’amore di Neruda, che qui sono compresi. Per qualche motivo, non mettendo quei testi, il Che lascia spazio nell’antologia a poesie amorose e a riflessioni intimiste. Era forse il contrappunto obbligato in quegli ultimi due anni della sua vita, avviluppati nel vortice di una rivoluzione che gli sfuggiva dalle mani. La poesia come rifugio per recuperare, di fronte alla durezza dell’esistenza di ogni giorno, la sfera personale e la visione storica dell’America e della Spagna.


13 novembre 2008

da corriere.it
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