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Autore Discussione: IL MERCATO IMPAZZISCE E I FONDI SOVRANI  (Letto 2322 volte)
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« inserito:: Ottobre 27, 2008, 11:03:57 pm »

Dopo il venerdì nero

Prezzi da saldo sul listino milanese: così nel mirino finiscono tutte le «blue chip», da Telecom a Fiat e Generali, fino alle banche e agli energetici.


IL MERCATO IMPAZZISCE E I FONDI SOVRANI


Non solo Libia nel capitale dei maggiori gruppi italiani.

La scorsa settimana era a Roma al-Ghurair, il banchiere del gruppo


Dopo il venerdì nero il pericolo è ancora più attuale. Cosa accadrà oggi in Borsa? La discesa del listino non sembra aver fine e questo moltiplica le opportunità di chi, con i soldi in mano guarda all’Italia. I primi a muoversi sono stati i libici. Si sono presentati con i petrodollari in mano in piazza Affari e si sono portati il 4,23 per cento di Unicredit tra le sabbie della Tripolitania. Era il 16 ottobre e proprio il giorno prima il premier Silvio Berlusconi aveva evidenziato il rischio che — ai prezzi di saldo a cui si è ridotta la Borsa — ci potesse essere qualcuno pronto ad approfittare dell’Italia in svendita. Una «nazionalizzazione transfrontaliera» l’ha subito ribattezzata il ministro dell’Economia Giulio Tremonti, evidenziando come sia concreta la prospettiva che fondi sovrani — ovvero il braccio operativo di governi stranieri, in particolare arabi e orientali — possano entrare nel capitale delle migliori aziende italiane. Portando altrove i gioielli di famiglia.

I barbari sono dunque alle porte? Dopo i libici anche i cosacchi abbevereranno i loro cavalli in Italia, preferendo stavolta piazza Affari a piazza San Pietro? E poi, chi altri? La realtà appare diversa. E ogni osservazione parte dalla Borsa: dall’inizio dell’anno Unicredit ha perso il 70 per cento, Fiat il 65, Telecom il 60, Intesa Sanpaolo il 58, Eni il 45, Enel il 44, Generali il 38 per cento, solo per rimanere tra le più blu delle blu chips. Dunque, perché non approfittarne? Da qui a trasformare investitori in barbari, però, ne corre. Tanto più che l’operazione libica sulla banca di Piazza Cordusio è stata realizzata con il preventivo benestare del management milanese, così come per il successivo arrotondamento a quota 4,9 per cento realizzato giovedì scorso. Quindi non di barbari si tratta, bensì di capitali freschi che arrivano a sostegno di un’impresa in evidente difficoltà che però ha — e mantiene — un ruolo importante nell’economia europea e prospettive meno funeree di quanto si vorrebbe far credere. L’aspetto friendly dello shopping libico su Unicredit non deve di contro portare a sottovalutare i rischi che una svendita dell’«Italia Spa» potrebbe portare, a caduta, sull’intero sistema economico nazionale.
Solo la scorsa settimana il fondo Mubadala di Abu Dhabi ha stretto una partnership industriale con Finmeccanica e la holding della famiglia Burani (moda) è stata descritta vicina a un accordo con un fondo arabo che entrerebbe nel capitale e avvierebbe il delisting . Se invece allarghiamo l’orizzonte, le aziende italiane il cui dossier è finito sulle scrivanie di chi decide le strategie di questi super-fondi si moltiplicano. In primis c’è Telecom, ma la lista è lunghissima, da Mediaset a Piaggio, dalle Generali a Benelli alla Robe di Kappa, fino a Impregilo (vedi tabella).

Ad acuire il senso di accerchiamento che pervade le aziende italiane c’è stata, sempre la scorsa settimana, la visita di Abdulaziz al-Ghurair, presidente del parlamento degli Emirati e banchiere a capo del gruppo Mashreq, a Roma, dove ha incontrato prima il Papa e poi Gianfranco Fini, Gianni Letta, Franco Frattini ed Emma Marcegaglia. Una visita di piacere, fede e affari.

L’interesse estero sull’Italia è evidente. Non solo dall’Oriente. Dice Guido Rosa, presidente dell’Aibe, l’associazione fra le banche estere in Italia: «I grandi attori della finanza internazionale si sono resi conto che l’Italia è un paese che, se al confronto di altri appare meno aggressivo e meno moderno, è probabilmente più stabile nelle sue componenti di base dell’economia. Sia le banche che le imprese stanno dimostrando, in Italia, una tenuta insospettata. Per questo c’è oggi una ricerca da parte delle banche estere di business con le imprese italiane, perché se ne vedono le caratteristiche positive».
L’idea di un tetto al possesso azionario da parte di fondi sovrani — fissato al 5 per cento nell’ipotesi sposata dalla coppia Berlusconi-Tremonti e che non trova concorde il ministro degli esteri Franco Frattini, contrario alla definizione di una soglia — appare quindi come risposta di tutela dell’Italia Spa davanti a possibili raider. Nulla di strano, ci sta pensando anche Sarkozy in Francia.

Ma fino a dove è giusto estendere l’ipotetica protezione di legge? Nei servizi essenziali al funzionamento del Paese, verrebbe da dire. Terna, la spa quotata che è responsabile della trasmissione dell’energia elettrica sulla rete ad alta e altissima tensione su tutto il territorio nazionale ha una valenza strategica che la trasformano in un patrimonio pubblico da tutelare. Per quanti altri vale una simile discriminante? Pochi, pochissimi. Mentre è sempre numerosa la schiera — recentemente resa afona dalla crisi — di quanti invocano il liberismo e i principi del cosiddetto «Metodo Wimbledon», applicato in Inghilterra. Secondo questi principi non importa che l’insalatiera d’argento vada a uno straniero, purché la partita finale del torneo di tennis venga giocata dai migliori giocatori del momento. Ovvero, non importa la nazionalità del padrone dell’impresa, purché il prodotto sia il migliore possibile. Certo, il superiore interesse pubblico dovrebbe venire tutelato da un sistema di Authority che in Italia fatica a decollare, ma questo è un altro discorso.
Resta così centrale la definizione di barbari, che taluni vorrebbero accostare automaticamente ai fondi sovrani. Una categoria, spiega Edwin Truman, del Peterson institute for international economics , nata da una definizione di Andrew Rozanov di tre anni fa e che raggruppa attivi per almeno 4 mila miliardi di dollari. Truman è uno dei massimi studiosi mondiali del «fenomeno» fondi sovrani: li ha indagati e catalogati.

I risultati del suo lavoro (disponibili sul sito www.petersoninstitute.org ), hanno considerato struttura, governance , trasparenza e comportamento di tutti i fondi sovrani, valutando da zero a cento ogni singola voce di analisi e mediandole poi per arrivare a un voto finale. Il famoso e temuto Cic, China investment corporation, si ferma secondo questa classifica a 29/100, la Mubadala development company di Abu Dhabi arriva a 15/100. La Lybian investment authority, che pure ha attivi per 50 miliardi di dollari, è stata invece esclusa dalla classifica del Peterson institute .

Un orizzonte larghissimo, in cui è difficile discriminare. Ferrari, una delle bandiere dell’italianità, ha da anni il 5 per cento del proprio capitale in mano alla Mubadala di Abu Dhabi. Lo spirito è quello della partnership per realizzare, in Oriente, un parco a tema dedicato alla scuderia di Maranello: forse che la vittoria nel mondiale costruttori di Formula 1 del 2007 è stato meno italiana in forza di quel 5 per cento?

E la Juventus, la fidanzata degli italiani? Il 7,5 del suo capitale è in mano alla solita Libia: forse che la partecipazione azionaria ha svalutato il 2-1 al Real Madrid in Champions League? Anche per questo un limite alla partecipazione di questi fondi potrà essere molto utile, ma andrà individuato con estrema cautela.

da corriere.it
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