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Autore Discussione: Maurizio Chierici. Tornare sui Banchi  (Letto 2564 volte)
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« inserito:: Ottobre 21, 2008, 08:33:17 am »

Tornare sui Banchi

Maurizio Chierici


«Caro amico, ti scrivo… ». Non è la lettera di Lucio Dalla, ma l'invito che un maestro in pensione ha distribuito a chissà quanti ex ragazzi e maestri a riposo. «Tornate fra i banchi delle vostre elementari per capire come la scuola sia cambiata. Solo la stupidità immagina di resuscitare l’Italietta del passato… ». Sono tornato. Arsiero è un paese fra le valli dell'Astico e del Posina, provincia di Vicenza dove cominciano le montagne. 3350 abitanti. Alla fine degli anni quaranta i maestri facevano lezione nell’italiano dolce delle venezie, ma scioglievano il dialetto appena i ragazzi li guardavano senza capire. Bambine dal grembiule nero: non tutte. Nascoste negli ultimi banchi le scolare senza grembiule, famiglie che non potevano. Compagni vestiti come a casa, giacche rivoltate, maglioni dei fratelli.

Scarpe che non erano proprio scarpe: «sgalmare», zoccoli di legno avvolti da tomaie strappate ai vecchi scarponi dei padri. Chiodi e mezze lune di ferro sigillavano dita e talloni. Quando cominciava l’inverno il moccio si incrostava sotto il naso per sciogliersi in primavera. Mani arrossate dalla scabbia. L’arciprete e i cappellani venivano inseguiti dalla riverenza alla quale nessun osava sottrarsi: «Sia lodato Gesù Cristo… ». «Sempre sia lodato… ». Ogni domenica, in ogni casa, arrivava «L’operaio Cattolico», settimanale diretto da Pio Rumor, fratello di Mariano. Con alle spalle la provincia devota diventava ministro, capo del governo, incarnazione gloriosa del politico timorato di Dio. Tutti votavano per lui. Nella quinta del maestro Lazzarotto solo tre scolari su 38 preparavano l’esame d’ammissione alle medie, collegio vescovile di Thiene. Dei padri si sapeva poco. Tornavano d’estate assieme ai figli grandi. Muratori e contadini in Francia, saldavano rotaie o scavavano miniere in Germania, facchini nella Svizzera tedesca; mandavano soldi da Brasile, Uruguay, Australia.

Sono passati cinquant’anni, Arsiero non ha più fame. Non importa se la grande fabbrica (carta per sigarette) si è sfasciata nel fallimento. La tenacia del fare ha aperto una vita quasi morbida. Carla Zavagnin è stata l’ultima maestra unica vent’anni fa. Oggi 19 insegnanti ruotano su 10 classi. Si alternano nella didattica che l’università di Padova continua a sperimentare. Laureata in lettere, la Zavagnin collabora con la facoltà di scienze della formazione, insomma, tutor delle giovani diplomate che si avvicinano all’insegnamento accumulando 500 ore in 4 anni di tirocinio, entusiasmo di una vocazione che si nutre dalla pratica. Con 89 mila insegnanti da tagliare chissà se troveranno posto. Ad Arsiero i grembiuli non hanno mai smesso di essere neri. Maschi col giubbetto, bambine vestite come le nonne del dopoguerra, «per evitare il confronto tra gli eleganti firmati e chi ha i soldi contati». Le elementari del Veneto appartengono all’eccellenza d’ Europa, spalla a spalla con la Finlandia. «Quando ero in cattedra da sola spiegavo bene solo italiano, la formazione era questa. Per la storia mi affidavo ai testi della tradizione, ma ingrigivo con discorsi generici i progetti che avvicinano i bambini alla vita. Difesa dell’ambiente, rapporti interculturali, l’abc del computer. Adesso leghiamo la geografia alla cucina: i sapori aiutano a scoprire il mondo, e poi ciondoli, collane e musica. Riusciamo a far crescere nella stessa cultura chi è nato qui e chi arriva da lontano». Nella sua classe 14 facce straniere assieme ai 23 bambini con i nomi del paese. Il dialetto resta fuori dalla porta: l’italiano è la lingua nella quale tutti si ritrovano. Se la maestra torna ad essere sola, una tragedia. Perché le famiglie somigliano sempre meno alle famiglie di cinquant’anni fa, ormai allargate, genitori divisi, madri e padri senza matrimonio. I maestri diventano gli psicologi ai quali gli scolari fanno riferimento nella babele delle case dove devono traslocare. E quando i rapporti si aggrovigliano, il tribunale dei minori obbliga le insegnanti ad analisi alle quali ispirare le scelte che segnano le vite in erba. Se chi è in cattedra non entra in sintonia con un bambino, l’altra maestra può avere un carisma diverso e lo scolaro «non si addormenta nella solitudine dell’emarginato». E poi l’ora di religione. Gli stranieri escono quando entra la signora nominata dalla curia, unica a sopravvivere al decreto Gelmini. Ai genitori che diffidano della conoscenza di una fede diversa, si aggiunge l’irrazionalità della nuova legge. Fuori dall’aula, dove vanno ? Il giro delle tre maestre evita il ghetto. Per un’ora cambiano solo banchi e materia; un’altra maestra li aspetta. L’incomprensione li lascerà nel vuoto. Sempre più diversi per ignoranza e decisione del ministro, selezione che travolgerà anche i bambini «bianchi» di Arsiero e di ogni altro posto, figli di genitori al lavoro, stanchi nei silenzi Tv della sera. Resteranno nel buio che li accompagna e resteranno nella luce del privilegio anche gli scolari top, assistiti da padri e madri con meno pensieri. Non si parleranno mai con le stesse parole. Maestro unico vuol dire tre italie divise da opportunità disuguali. E se il maestro unico è leghista, anarchico o fascista? Fra qualche anno potrebbe essere nero. Chissà cosa succederà. «Vorrei che le famiglie non si lasciassero addomesticare dagli spot del ministro e delle apposite televisioni. Hanno il dovere di prendere coscienza su come può cambiare la loro vita e quale sarà il futuro dei ragazzi quando a mezzogiorno le scuole chiudono e i figli meno brillanti non recuperano: tornano a casa dove forse non trovano nessuno». Classi separate? «Terribile, non voglio pensarci… ».

Anche perché le scuole differenziate della Germania dove sono cresciuti i figli dei nostri emigranti, moltiplicano drammi scaricati sui paesini delle famiglie venete. Province dietro le montagne di Arsiero. Lo denuncia «L’italiano» di Stoccarda che è il giornale on line dell’ex ministro Tremaglia, An di Salò. Ormai adulti, rientrano nelle case dei padri. Erano partiti col dialetto che si parlava in famiglia. Sono diventati grandi mescolandolo allo slang delle periferie. All’improvviso la scuola impone altre lingue: tedesco-tedesco, italiano-italiano. Un labirinto. Finiscono nei gulag delle aule per stranieri assieme a turchi, spagnoli, pakistani. A sei anni già cittadini di ultima fascia.. Braccia per i lavori che nessun padrone di casa ha voglia di fare, ma braccia non strategiche e appena la crisi stringe le cinghie restano a mani vuote. Quando l’assegno di disoccupazione è scaduto e la previdenza non riesce a sopportarne il peso, la disperazione li costringe a tornare dove in fondo non sono mai stati. Non parlano italiano, male il tedesco, niente lavoro. Alcool e solitudine li precipitano nelle case protette. È il futuro che prepariamo a migliaia di ragazzi seduti nelle nostre scuole. Anche Arsiero, paese di emigrazione, ospita braccia straniere. Razzismo è una parola ingombrante, eppure paure e sospetti avvolgono gli estranei che pregano in modo diverso. Arnaldo Martini ha lavorato 35 anni a Viychatillon, piccola Italia attorno a Parigi. Muratore e poi fumista: puliva caldaie. È tornato con la pensione francese. Se un po’ di amici hanno attraversato il confine col tremore dei clandestini, nel 1955 il suo viaggio della speranza era quasi rosa. Ospite delle sorelle che lo avevano preceduto nel cammino della speranza, e compagni di dialetto coi quali far festa il sabato sera. Pagato meno dei francesi, lavori massacranti ma insomma, eccolo sotto le sue montagne a sfogliare ricordi. Da ragazzo rientrava tardi a cena e la madre sospirava: «Ci sei anche tu», pentola vuota, ripulita dai fratelli.

Ed è partito alla ricerca di un futuro decente. «Pur sbalorditi in terra straniera, non somigliavamo a quelli che stanno arrivando. C’era anche chi esagerava e i francesi si arrabbiavano rimproverandoci la pugnalata alla schiena della guerra di Mussolini: “Tornate in Italia, vigliacchi, macaroni”. D’accordo, qualche mela marcia, ma eravamo perbene. Nessun confronto con questi qui». Lo turba l’ipotesi di un minareto sui tetti del «suo» paese. Non lo permetterà mai. Sono tanti a pensarla così.

La Lega ha preso il posto della Dc, regina nelle valli da dove partivano i profughi della miseria. Governa il comune mescolata al Popolo della Libertà: 11 consiglieri su 15. Più il voto del sindaco, dottor Busato, medico al pronto soccorso di Thiene. «Sono tutti con noi perché diamo le risposte che vogliono sentire. Cittadini che hanno paura delle facce straniere anche se gli arsieresi sono aperti e non indottrinati. Ospitali con chi arriva da fuori. Gli avieri della base di Tonezza, per esempio: militari del sud subito adattati e subito bene accolti. Con negri e magrebini, impossibile. Non voglio sentire le storie della mafia portata fuori dai nostri emigranti. Noi non siamo di quelli». L’albergo dove dormo si chiama Italia Risorta ricostruito dopo la prima guerra mondiale fra le case bombardate dagli austriaci. Al bar del mattino un signore elegante sfoglia il Corriere della Sera. Scuote la testa, non è d’accordo. Vuol sapere dalla padrona come mai compra un giornale così e non la Padania dove le notizie sono giuste: «Me lo regalano. Una promozione», voce di chi chiede scusa. Dove finisce questa Italia? Il sindaco risponde con una domanda «Ha mai vissuto momenti di lavoro assieme ai siciliani?».

Gli occhi brillano di furbizia. Racconta del concorso che i terroni gli hanno scippato e fa sapere quali sono i nuovi confini: «Dal Po in giù è un altro paese, mi creda». Nessun dubbio sulla modernità delle classi apartheid.

mchierici2@libero.it



Pubblicato il: 20.10.08
Modificato il: 20.10.08 alle ore 10.27   
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