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Autore Discussione: MIGUEL GOTOR -  (Letto 9770 volte)
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« inserito:: Ottobre 20, 2008, 12:32:19 pm »

20/10/2008
 
Pio XII e la fabbrica dei santi
 
 
MIGUEL GOTOR
 
La Santa Sede ama i tempi lunghi e i passi felpati, in materia di santità e non solo. E dunque l’autorevole smentita di padre Lombardi delle parole del gesuita Gumpel, postulatore del processo di canonizzazione di Pio XII, merita di essere sottolineata, insieme con la volontà di Benedetto XVI di continuare a fare di quella causa «oggetto di approfondimento e riflessione».

Quest’increspatura non è solo il segno di una frizione estemporanea riguardante la diplomazia tra gli Stati e subito ricomposta, né il frutto dell’inopportuna quanto comprensibile reazione di un sacerdote che ha dedicato buona parte della sua esistenza a un obiettivo che vede forse allontanarsi per sempre dal proprio orizzonte di vita. In realtà, è anche il sintomo di un movimento più profondo che concerne la «politica della santità» della Sede apostolica negli ultimi quarant’anni, dal Concilio Vaticano II fino ai nostri giorni. In quella assise epocale fu deciso di delineare i contorni di una vocazione universale alla santità e si auspicò la possibilità di un suo esercizio multiforme e quotidiano che investisse non solo i sacerdoti, ma anche il mondo dei laici «tutti invitati a perseguire la santità e la perfezione del proprio stato».

A partire dalla svolta conciliare, due fenomeni contraddittori, ma bilanciati, hanno caratterizzato l’attività della cosiddetta «fabbrica dei santi», costituendo un’anomalia significativa se confrontata con la plurisecolare tradizione ecclesiastica precedente, molto cauta in materia di canonizzazioni. In primo luogo, Giovanni Paolo II ha deciso di proclamare da solo più della metà delle proposte agiografiche elaborate dal 1588 in poi dai suoi 37 predecessori: 1.338 beati e ben 482 santi. Inoltre, il Novecento è diventato il secolo in cui si sono avviati più processi di canonizzazione in onore di Pontefici: su 8 Papi, ben 6 hanno avuto una causa aperta e, a partire dal 1939, proprio da Pio XII, tutti i successori si trovano avviati all’onore degli altari o già beatificati, come Giovanni XXIII.

Insomma, l’apertura alla santità universale ha portato a una moltiplicazione mai vista prima di proposte agiografiche, che rischiano di svilirsi nella loro autorevolezza carismatica; ma questa spinta diffusa è stata controbilanciata da un parallelo investimento gerarchico e verticistico sulla sovranità pontificia. Si tratta dell’inevitabile conclusione di un processo di centralizzazione normativa e burocratica che ha consegnato, a partire dal 1588, con l’istituzione della Congregazione dei Riti, le chiavi di accesso della santità nelle mani del Papa. Gli esiti, oggi, possono essere paradossali: il Pontefice decide della santità del suo predecessore, con buone speranze di vedere il proprio successore fare lo stesso con lui, in una catena agiografica in cui sembra delinearsi qualche conflitto di interessi di troppo. Ovviamente, il fenomeno non è solo di natura normativa, ma anche di carattere culturale e finisce con l’offrire l’immagine di una Chiesa di Roma arroccata intorno alla figura del suo Pontefice e però impoverita della molteplicità e della ricchezza dei modelli esemplari di vita cristiana esistenti nella società.

Anche sotto questo profilo, il modo di procedere di Benedetto XVI in merito alla causa di Pio XII appare assai saggio.
La santità è un modello universale di fede e di comportamento proposto pubblicamente ai fedeli, ma nel caso di papa Pacelli la volontà di canonizzarlo si è ormai trasformata in una battaglia in cui sembrano prevalere l’ideologia e la politica piuttosto che la dimensione religiosa e spirituale. Un atto che già sembra destinato non a unire, bensì a dividere. Nell’attuale temperie storica sembrerebbe più opportuno lasciare l’esperienza umana di Pio XII, con le sue complessità, difficoltà, ricchezze e tensioni, al libero giudizio degli studiosi e alla privata devozione dei fedeli. E, forse, accettare che non tutti i pontificati, proprio come le ciambelle, riescono necessariamente col buco, ossia con l’aureola. Meglio guardare avanti con fede e speranza a nuove proposte agiografiche perché, come ha scritto la poetessa Alda Merini in L’altra verità, «la santità è di tutti, come di tutti è l’amore».
 
da lastampa.it
« Ultima modifica: Marzo 26, 2009, 10:53:43 am da Admin » Registrato
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« Risposta #1 inserito:: Novembre 06, 2008, 11:49:36 am »

6/11/2008
 
Tutto merito dei Jefferson
 
MIGUEL GOTOR

 
Non saremo noi a smentire il refrain che accompagna nelle nostre contrade il trionfo di Obama: ha vinto il sogno americano della più grande democrazia del mondo. Un’opinione comune che unisce sinistra e destra, quanti scommettevano su di lui, venendo irrisi, e quanti, fino a ieri l’altro, menavano vanto delle pacche sulle spalle ricevute nel ranch dell’ex-imperatore Bush; i cantori dell’America profonda (fucili, petrolio, fondamentalismo religioso e drugstore), destinati a un eterno trionfo globale sulla scia del pensiero teocon, e la spaurita pattuglia di nevrotici metropolitani ermafroditi, dispersi tra New York, Los Angeles e San Francisco, buoni solo a guardare Sex and the city, ma incapaci di connettersi con la nuova onda conservatrice della storia del mondo.

Eppure, questo ritornello mediatico è così insistito e trasversale da risultare sospetto e non basta a spiegarlo l’abusata immagine che tutti salgono sul carro del vincitore. Forse scaturisce anche dal fatto che ormai in tanti nutrivano perplessità sulla qualità della democrazia statunitense e, in un mondo senza più alternative, non osavano confessarlo neppure a se stessi. Negli ultimi 25 anni quel modello sembrava attraversare una crisi d’intorpidimento e ora la difficile sfida di Obama, fino all’ultimo accompagnato dallo spettro di essere un Woody Allen della politica mondiale - amato dai salotti della buona borghesia progressista europea, ma indigesto a quella americana - starà nella capacità di rilanciare quel sogno, non solo di vincere, bensì di governare.

In realtà, i democratici di tutto il mondo guardavano con crescente disagio al fatto che dal 1981 a oggi gli Usa fossero governati da due famiglie e dai loro clan che si distribuivano le cariche come se giocassero a Monopoli: i Bush, padre e figlio, per i repubblicani, e i Clinton, marito e moglie, per i democratici, secondo una narrazione tv che alternava i petrolieri di Dallas al buon padre della Famiglia Bradford. E poi era difficile dimenticare quanto avvenuto nel novembre 2000 in Florida: quella maggioranza di consensi popolari per il democratico Al Gore, quei 536 voti di differenza in favore dell'allora figlio di Bush senior in uno Stato governato dal di lui fratello Jeb, la Corte Suprema che blocca il riconteggio delle schede e la conseguente espressione di una sovranità debole e incerta, costretta a rifondare se stessa intorno al trauma dell’11 settembre. Infine, l’unilateralismo di questi anni, la bugia e l’errore del conflitto in Iraq, l’immagine del segretario di Stato Powell che agita una provetta di antrace in diretta mondiale e oggi ammette che quelle informazioni della Cia erano infondate e che «senza la presenza delle armi di distruzione di massa, sulla quale l’intelligence aveva insistito tanto, non penso ci sarebbe stata una guerra».

Il trionfo di Obama cancella tutto questo e qui sta il sale della sua vittoria: nella capacità ricostituente di dare nuova fiducia nella democrazia politica, nell’avere spezzato il cerchio fra paura e consenso. Il neopresidente degli Stati Uniti è nato nel ’61 e anche per lui il discorso di Martin Luther King del ’63, «I have a dream», è solo un mito. Siamo piuttosto cresciuti, da una sponda all’altra dell’oceano, divertendoci con Arnold, il paffuto nano nero strappato con suo fratello Willis dalle miserie di Harlem e adottato da una ricca famiglia bianca di Manhattan, o con I Jefferson, storia d’un piccolo imprenditore di colore che lottava quotidianamente contro lo strisciante razzismo dei compatrioti. Non lo sapevamo, ma quella era l’America di Obama in gestazione che si stava culturalmente preparando alla svolta storica di queste ore. Ieri ci faceva soltanto sorridere, utilizzando l’espediente sonoro delle risate artificiali di sottofondo, oggi finalmente vince riempiendo il Grant Park di Chicago e le piazze democratiche di tutto il mondo. Allora, «Yes We Can»: grazie Obama.
 
da lastampa.it
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« Risposta #2 inserito:: Febbraio 19, 2009, 11:57:59 am »

19/2/2009
 
L'arte della fuga
 
MIGUEL GOTOR
 

Yes, the end», così ieri Elle Kappa commentava con fulminante sarcasmo le dimissioni di Veltroni, ma non ne saremmo tanto sicuri.
 
L’ormai ex segretario del Pd è un maestro nell’arte della fuga, virtù che non dovrebbe mancare al buon politico. Nel 2001, da segretario dei Ds lasciò il partito ai minimi termini organizzativi ed elettorali per candidarsi a sindaco di Roma e attendere da quello scranno il prevedibile evolversi degli eventi; nel 2007, da sindaco dell’urbe abbandonò la capitale, prima per fare il segretario del Pd e poi per concorrere al governo del Paese, lasciando a Rutelli la gestione di una sconfitta sempre più annunciata. E di nuovo, rispetto al comunismo, quando ancora fumavano le brucianti macerie del muro di Berlino: «Io? Mai stato comunista».

Anche nell’attuale circostanza Veltroni ha rivelato una notevole abilità riuscendo a prendere in contropiede gli avversari interni, in primis Bersani: con le sue repentine dimissioni dopo la disfatta sarda, sceglie ancora una volta un’uscita di scena anticipata per non assumersi sino in fondo la responsabilità politica di condurre il partito alla prova delle elezioni europee. Alcuni pensano che questo sarebbe stato un comportamento coerente, che avrebbe consentito un bilancio effettivo della stagione incominciata con il discorso del Lingotto; altri, invece, ritengono che Veltroni avrebbe dovuto dimettersi già all’indomani del verdetto elettorale del 2008, come avviene in una democrazia normale: non ora, quando la barca del Pd è esposta ai marosi più perigliosi, quelli agitati dai venti di scissione. Eppure, le due posizioni non tengono nel giusto conto l’astuzia e il tempismo di Veltroni, che ha drammatizzato la sconfitta di Soru, pur di sottrarsi alla presa d’atto del fallimento della sua politica: evitando quindi di ammettere che la strategia dell’autosufficienza riformatrice e la retorica del correre da solo («ma anche» con Di Pietro e i Radicali) si sono rivelate velleitarie nell’immediato e sbagliate nel medio-periodo, condannando l’elefante Pd a un rissoso e autodistruttivo isolamento politico.

Ma i problemi, ovviamente, restano tutti in piedi: spezzare l’isolamento, riprendendo una strategia di alleanze che deve guardare anzitutto all’Udc, che ancora una volta ha mostrato di saper intercettare porzioni di elettorato preziose. Al riguardo i segnali politici degli ultimi due anni sono stati sin troppo evidenti: l’ex segretario del partito Follini che entra nel Pd, il suo padre nobile Casini che abbandona lo schieramento berlusconiano pagando un duro prezzo per difendere la propria autonomia politica, e che è ancora lì ad aspettare (Moro avrebbe detto «un appuntamento»): ma per quanto potrà ancora resistere, sottraendo i suoi alle lusinghe berlusconiane? E poi, a sinistra, auspicare la nascita di un cartello dichiaratamente post-comunista, libertario, ambientalista, pacifista che ha già validi leader (Vendola, Fava) e un potenziale elettorale non disprezzabile (i tanti astenuti a sinistra nel 2008 e i pentiti dal «voto utile» al Pd). Un bacino che qualunque proposta alternativa a Berlusconi dovrà essere capace di motivare e mobilitare se vuole avere una prospettiva di governo. Questa nuova stagione del centro-sinistra, che chiude un ciclo novecentesco incominciato nel 1994, può essere avviata anche da un segretario di transizione duttile e virtuoso, se sarà in grado di trasformare in forza la sua debolezza: come fece Zaccagnini a metà Anni Settanta nella Dc e in tal senso Franceschini non avrebbe che da ispirarsi al proprio maestro. A patto che si approfitti di questa crisi per confermare, una volta per tutte e per sempre, le ragioni di fondo dell’esistenza del Pd, a prescindere dalle sorti elettorali.

Poi verrà la questione della nuova leadership nella sfida di governo, quella del federatore necessario. Allora il «semplice deputato» Veltroni potrà ancora fornire un suo contributo alla cultura riformista italiana, proprio perché non si è bruciato con la scelta di oggi.

Ma, come sosteneva Mitterrand, bisogna lasciare il tempo al tempo.
 
da lastampa.it
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« Risposta #3 inserito:: Marzo 20, 2009, 11:41:08 am »

20/3/2009
 
La recita antifascista
 
MIGUEL GOTOR
 

Ieri a Torino, tre ore di lezione, la finestra spalancata sull’incipiente primavera, la Mole alle spalle, alle spalle della Mole il profilo delle Alpi. E da quella finestra sale lungo l’aria frizzantina una voce megafonata, che disturba e incuriosisce al tempo: «Fuori i fascisti dall’università!». Cosa succede?

La lezione è finita, raggiungo l’uscita di Palazzo Nuovo e assisto a una scena da raccontare: lungo le scale dell’ingresso, un manipolo di ragazzi - ugualmente vestiti - si spinge come se stesse giocando a rugby. Chi è al megafono batte il tempo, incitando la sua mischia antifascista a resistere alla pressione di quella fascista che cerca di entrare nell’università: ondeggiano, si strofinano i visi schiacciati l’uno con l’altro, sembrano tanti piccoli robot che mimano un duello, una giostra medievale. Non c’è cattiveria, c’è ideologia; non c’è violenza, c’è gusto della citazione. La scena dura una ventina di minuti, senza che nessuno dei contendenti voglia veramente affondare il colpo, ma solo esserci, vivere un’emozione e soprattutto filmarla. Ciò mi sorprende: in entrambi i gruppi, le seconde linee tengono ben levati in alto i telefonini per testimoniare dal loro punto di vista la verità dell’assalto e raccontare le proprie ragioni. La realtà non sembra lì, è nel film che stanno riprendendo e domani pubblicheranno su YouTube.

Intorno, lungo la strada, centinaia di studenti e alcuni passanti osservano la scena da lontano come se anche loro stessero guardando il film di un film.

I poliziotti in borghese, ne conto almeno una decina, controllano premurosi la scena da vicino, come degli arbitri di boxe che devono evitare colpi sotto la cintura. All’improvviso, da via Po, irrompe una squadra di celerini, armati come tanti Goldrake, che decide di mettere fine alla baruffa; qualcuno ha stabilito che quei ragazzi si sono sfogati abbastanza. La temperatura per un istante cresce, i poliziotti forzano il blocco senza usare violenza e consentono ai fascisti di entrare nell’università. Gli antifascisti hanno l’imperdibile occasione per urlare contro le forze dell’ordine, ma, a guardarli bene, si ha l’impressione che quello sia soltanto un intermezzo atteso che prepara il secondo tempo della recita. Infatti, non appena la celere sale le scale non c’è alcuna forma di resistenza, lo striscione cala per incanto e si apre il varco, le forche caudine che i fascisti dovranno percorrere.

Ma non è finita. Il manipolo di intrusi si chiude in un gabbiotto trasparente, dove normalmente vengono dati gli statini agli studenti, e lì staziona asserragliato: fuori un centinaio di ragazzi li assedia, gridando e picchiando sulle porte, i poliziotti in borghese, cresciuti di numero, sono sparpagliati ovunque. Eppure, non c’è tensione.
La scena è ancora più grottesca della precedente: i fascisti sembrano prigionieri dentro un acquario, ma ridacchiano tra loro perché sanno che si tratta di un finto assedio: tutto è ritualizzato, esangue, ovattato. A loro interessa recitare la parte delle vittime, agli altri affermare il proprio ruolo di guardiani dell’ortodossia antifascista.

Finalmente, dopo circa due ore, i fascisti escono protetti da due cordoni di polizia, inseguiti dal coro dei rivali che celebrano il loro contrattato trionfo urlando: «Hasta la victoria siempre!». La recita è finita, il megafono si spegne e ciascuno sente di avere compiuto la propria missione quotidiana. Tutti, compreso il ministro Brunetta, che seguendo il ritmo delle agenzie di stampa, non esita a definire i ragazzi dell’onda dei «guerriglieri che vanno trattati come tali». Non sa di cosa sta parlando, ma gli interessa la formula prepotente che verrà ripresa come uno slogan dalle televisioni. In realtà, sulla testa di questi studenti - i fascisti, gli antifascisti, ma soprattutto la maggioranza che li osservava stupiti - si sta giocando un’altra partita, quella del consenso su un progetto di smantellamento dell’università pubblica tra tagli di risorse e concorsi bloccati: Brunetta lo sa e soffia sul fuoco, ma purtroppo sotto la cenere c’è solo un video su YouTube.
 
da lastampa.it
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« Risposta #4 inserito:: Marzo 25, 2009, 06:07:36 pm »

20/3/2009
 
La recita antifascista
 
MIGUEL GOTOR
 

Ieri a Torino, tre ore di lezione, la finestra spalancata sull’incipiente primavera, la Mole alle spalle, alle spalle della Mole il profilo delle Alpi. E da quella finestra sale lungo l’aria frizzantina una voce megafonata, che disturba e incuriosisce al tempo: «Fuori i fascisti dall’università!». Cosa succede?

La lezione è finita, raggiungo l’uscita di Palazzo Nuovo e assisto a una scena da raccontare: lungo le scale dell’ingresso, un manipolo di ragazzi - ugualmente vestiti - si spinge come se stesse giocando a rugby. Chi è al megafono batte il tempo, incitando la sua mischia antifascista a resistere alla pressione di quella fascista che cerca di entrare nell’università: ondeggiano, si strofinano i visi schiacciati l’uno con l’altro, sembrano tanti piccoli robot che mimano un duello, una giostra medievale. Non c’è cattiveria, c’è ideologia; non c’è violenza, c’è gusto della citazione. La scena dura una ventina di minuti, senza che nessuno dei contendenti voglia veramente affondare il colpo, ma solo esserci, vivere un’emozione e soprattutto filmarla. Ciò mi sorprende: in entrambi i gruppi, le seconde linee tengono ben levati in alto i telefonini per testimoniare dal loro punto di vista la verità dell’assalto e raccontare le proprie ragioni. La realtà non sembra lì, è nel film che stanno riprendendo e domani pubblicheranno su YouTube.

Intorno, lungo la strada, centinaia di studenti e alcuni passanti osservano la scena da lontano come se anche loro stessero guardando il film di un film.

I poliziotti in borghese, ne conto almeno una decina, controllano premurosi la scena da vicino, come degli arbitri di boxe che devono evitare colpi sotto la cintura. All’improvviso, da via Po, irrompe una squadra di celerini, armati come tanti Goldrake, che decide di mettere fine alla baruffa; qualcuno ha stabilito che quei ragazzi si sono sfogati abbastanza. La temperatura per un istante cresce, i poliziotti forzano il blocco senza usare violenza e consentono ai fascisti di entrare nell’università. Gli antifascisti hanno l’imperdibile occasione per urlare contro le forze dell’ordine, ma, a guardarli bene, si ha l’impressione che quello sia soltanto un intermezzo atteso che prepara il secondo tempo della recita. Infatti, non appena la celere sale le scale non c’è alcuna forma di resistenza, lo striscione cala per incanto e si apre il varco, le forche caudine che i fascisti dovranno percorrere.

Ma non è finita. Il manipolo di intrusi si chiude in un gabbiotto trasparente, dove normalmente vengono dati gli statini agli studenti, e lì staziona asserragliato: fuori un centinaio di ragazzi li assedia, gridando e picchiando sulle porte, i poliziotti in borghese, cresciuti di numero, sono sparpagliati ovunque. Eppure, non c’è tensione.
La scena è ancora più grottesca della precedente: i fascisti sembrano prigionieri dentro un acquario, ma ridacchiano tra loro perché sanno che si tratta di un finto assedio: tutto è ritualizzato, esangue, ovattato. A loro interessa recitare la parte delle vittime, agli altri affermare il proprio ruolo di guardiani dell’ortodossia antifascista.

Finalmente, dopo circa due ore, i fascisti escono protetti da due cordoni di polizia, inseguiti dal coro dei rivali che celebrano il loro contrattato trionfo urlando: «Hasta la victoria siempre!». La recita è finita, il megafono si spegne e ciascuno sente di avere compiuto la propria missione quotidiana. Tutti, compreso il ministro Brunetta, che seguendo il ritmo delle agenzie di stampa, non esita a definire i ragazzi dell’onda dei «guerriglieri che vanno trattati come tali». Non sa di cosa sta parlando, ma gli interessa la formula prepotente che verrà ripresa come uno slogan dalle televisioni. In realtà, sulla testa di questi studenti - i fascisti, gli antifascisti, ma soprattutto la maggioranza che li osservava stupiti - si sta giocando un’altra partita, quella del consenso su un progetto di smantellamento dell’università pubblica tra tagli di risorse e concorsi bloccati: Brunetta lo sa e soffia sul fuoco, ma purtroppo sotto la cenere c’è solo un video su YouTube.
 
da lastampa.it
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« Risposta #5 inserito:: Agosto 05, 2010, 06:46:38 pm »

In politica non c'è partita (a due)

Miguel Gotor

Questo articolo è stato pubblicato il 05 agosto 2010 alle ore 08:06.

  
Il modo in cui è stata respinta la mozione di sfiducia al sottosegretario Caliendo rivela come l'Italia si appresti a vivere uno scenario che ha il sapore del deja vu, solo a parti invertite: sembra il gioco dell'oca. Se nel 2006 era Prodi a dover contrattare giorno per giorno la sua maggioranza, nei prossimi mesi assisteremo a un'analoga azione da parte di Berlusconi, che, a parole, minaccerà le elezioni anticipate un giorno sì e l'altro pure ma, nei fatti, proverà a stare in piedi aprendo il calciomercato, come già ai tempi del governo Prodi, intercettazioni docet.

È la "sindrome Melchiorre" quella che affligge lo sconquassato bipolarismo italiano. Di che si tratta? Daniela Melchiorre, classe 1970, ex Margherita, ex sottosegretaria della Giustizia nel governo Prodi nella quota liberaldemocratica di Lamberto Dini, nel 2008 si è candidata con Berlusconi insieme con il suo mentore. Ma contrariamente a Dini, dopo un mese ha lasciato il Pdl per passare al gruppo misto e ora sta contrattando il suo ritorno nella maggioranza in seguito allo strappo dei finiani, con i suoi 4 deputati e un senatore: buttali via, di questi tempi. In cambio, s'immagina, di un nuovo posto come sottosegretario.

Questa storia personale, benché irrilevante sul piano del consenso politico (la lista Melchiorre alle elezioni europee del 2009 ha preso lo 0,23%) ha il merito d'introdursi come una sonda dentro la malattia congenita del sistema politico italiano. Se il bipolarismo non riesce a garantire la governabilità promessa, la creazione in vitro di terze forze - qualora perdurasse l'attuale legge elettorale - non rappresenta una medicina consigliabile, anzi rischia di essere peggiore del male che pretenderebbe di curare. L'impressione di fondo è che la scelta bipolare abbia difficoltà a penetrare nella cultura profonda, non tanto dell'elettorato italiano, desideroso di scelte semplificate e chiare, ma delle classi dirigenti. I motivi sono diversi.

Anzitutto, la crisi delle culture politiche intorno a cui sono prosperati i partiti di massa ha portato a una personalizzazione del messaggio che favorisce lo spirito di fazione e il rafforzarsi delle spinte corporative: berlusconiani, finiani, diniani, casiniani, rutelliani, veltroniani, dalemiani, dipietristi, vendoliani, e chi più ne ha ne metta. Divisi si conta di più, ciascuno ha una piccola, grande corte e questo produce un'oggettiva frammentazione del quadro con conseguente dispersione di preziose energie.

In secondo luogo, vi è un problema determinato dalla mancanza in Italia di uno spirito di coesione, di un tessuto comune fondato su 3-4 punti fondamentali in grado di unire l'intera comunità nazionale che poi potrebbe dividersi in modo semplice e limpido come di fatto non avviene. Ad esempio, non è un caso che Fini abbia rotto con il suo storico alleato soltanto venti giorni dopo la condanna a 7 anni per concorso esterno in associazione mafiosa di Dell'Utri, il polmone destro di Berlusconi; e qualche ora dopo dal rifiuto dell'ex sottosegretario all'Economia, Nicola Cosentino di Casal di Principe - che, a quanto pare, ha avuto un ruolo nello sgombrare Napoli dall'immondizia, ma sul quale pende un ordine di arresto per concorso esterno in associazione camorristica - di dimettersi dalla carica di coordinatore del Pdl in Campania, ossia non dalla poltrona di governo ricevuta in cambio come premio, ma dalla base che fonda il suo potere. Il tema della legalità è purtroppo un argomento drammaticamente serio perché si è superato il livello di guardia.

Infine, vi è una questione legata a questa legge elettorale che dovrebbe fissare le regole del gioco e invece ha creato le fatali condizioni di un suo continuo logoramento. Essa ha favorito un presidenzialismo di fatto attraverso una doppia forzatura: la definizione di un premio di maggioranza abnorme e la possibilità d'indicare il nome del capo della coalizione sulla scheda. Così il presidente del Consiglio può ritenere di essere di fatto eletto direttamente dal popolo, quando invece, in base alla Costituzione, è nominato dal presidente della Repubblica. Il premio di maggioranza è un istituto anomalo che ha avuto il solo precedente nella legge Acerbo ai tempi di Mussolini per assicurare al Partito nazionale fascista una solida base parlamentare con un premio che scattava al 25%; basti pensare che la tanto vituperata "legge truffa" di De Gasperi del 1953 lo prevedeva per chi avesse superato il 50% dei votanti.

Nel "Porcellum", invece, per papparsi tutta la torta è sufficiente prendere un voto in più dell'avversario. Pertanto abbiamo un terzo del corpo elettorale a cui viene regalato indebitamente un bonus di maggioranza in nome di un malcelato senso di governabilità che i fatti, non le teorie, stanno mostrando - a destra come a sinistra - quantomeno difficile da sostenere.

Il "Porcellum" è un ibrido perché ha alimentato una cultura presidenzialista, lasciando inalterate le regole del parlamentarismo ed è quindi privo dei necessari contrappesi. Ad esempio, manca il contraltare dell'elezione autonoma e separata dell'assemblea rappresentativa come avviene negli Stati Uniti e in Francia, un'elezione funzionale a controbilanciare il suffragio diretto del presidente. Qui da noi, invece, il parlamento è cooptato come corte del primo ministro e, non a caso, ha toccato vertici di svilimento delle sue prerogative come non mai nella storia repubblicana. In questo modo abbiamo subito una torsione in senso presidenziale del parlamentarismo riuscendo nell'impresa di assommare i vizi potenziali di entrambi i sistemi: il plebiscitarismo da un lato e la dequalificazione del principio di rappresentanza dall'altro.

Per alcuni s'intravede la luce in fondo al tunnel dell'infinita transizione italiana, ma l'errore più grave sarebbe quello di dare per scontato che l'uscita debba essere necessariamente a sinistra o al centro e non a destra. Un malinteso ancora più irresponsabile in assenza di una leadership credibile e aggregante, nella mancanza di un'unità delle forze che oggi si oppongono a Berlusconi, nella carenza di una seria e realistica politica delle alleanze.

http://www.ilsole24ore.com/art/commenti-e-idee/2010-08-05/politica-partita-080601.shtml?uuid=AYvPZCEC
« Ultima modifica: Settembre 25, 2010, 05:20:49 pm da Admin » Registrato
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« Risposta #6 inserito:: Settembre 25, 2010, 05:21:18 pm »

Una Lega di lotta e di Palazzo

di Miguel Gotor

Questo articolo è stato pubblicato il 25 settembre 2010 alle ore 09:54.
L'ultima modifica è del 25 settembre 2010 alle ore 08:05.

   
Gli ultimi avvenimenti sembrano indicare il grado di mutazione morfologica ormai raggiunto dalla Lega che, nel volgere di pochi anni, da forza antisistema si è trasformata in un movimento di lotta e di governo e ora si accinge a diventare il partito del palazzo.

Intendiamoci: tale natura camaleontica è un indizio di vitalità della classe dirigente di questa organizzazione capace di cambiare la barra della tattica tenendo fermo il timone della strategia senza scarrocciare.

Ma alla lunga rischia di mettere a nudo la contraddizione di fondo della Lega, che la rende tanto simile al Psi di craxiana memoria: sano come un pesce nei sondaggi elettorali, con un robusto potere di interdizione come forza di governo, ma evanescente nella qualità politica dei risultati raggiunti.
Tutto era cominciato un secolo fa con lo sventolio in parlamento di un cappio da parte di un giovane deputato di cui oggi si sono perse le tracce, ma non il ricordo. Nel corso degli anni quella corda prima si è allentata, poi è stata slegata per essere tesa intorno al governo di Roma e ora, invece, viene utilizzata per dare la scalata finale alle ripide pareti dei palazzi del potere, a Roma come nei territori del Nord.

Sul piano economico la vicenda delle dimissioni di Profumo e alcune dichiarazioni di esponenti leghisti locali mostrano come il partito, in nome del territorio, dell'italianità e del ruolo delle fondazioni sia ormai determinato a seguire una politica di intervento e di controllo del potere bancario secondo modalità non diverse da quelle che furono negli anni Settanta della Dc veneta e nel decennio successivo del Psi lombardo. Sul piano strategico lo snodo è significativo perché segnala il desiderio di rafforzare un asse geografico e comunicativo tra la Baviera e il Veneto che non guarda agli interessi e agli equilibri nazionali dell'Italia, ma a quelli particolari del territorio e del bacino elettorale leghista. Certo, i tempi retorici, e mai eroici, dell'assalto ai poteri forti e marci sono ormai lontani. In questo campo al Nord il vero concorrente è il Pdl, ma il Carroccio ha il vantaggio di essere un partito-movimento obbediente, fideistico e compatto con una mission che diventa sempre più possibile: conquistare la rappresentanza politica del Nord produttivo, a prescindere dalla forza elettorale, che anzi è bene che resti quella di una forza media, necessariamente più dinamica e corsara di un partito contenitore pachidermico come il Pdl. Non a caso gli scontri maggiori avvengono con Formigoni, alla testa di una morsa di potere dall'impronta genetica simile.

Sul piano politico la situazione è più ingarbugliata, anche se mostra la fibra di una stessa intenzione strategica di difesa degli interessi di un pezzo di territorio. Legittimi o illegittimi poco importa: si pensi allo scandalo delle quote latte in base al quale tutti i cittadini italiani saranno obbligati a pagare l'illegalità degli allevatori del lombardo-veneto che si sono rifiutati di rispettare le regole pattuite dal governo con l'Europa. Proprio ieri l'altro è stato grazie ai voti determinanti della Lega che un politico sul quale pende un mandato di cattura per concorso esterno in associazione camorristica ha ottenuto dal parlamento il diritto a non vedere utilizzate delle intercettazioni che lo riguardano. Che un simile provvedimento sia stato avallato dal partito che esprime il ministro degli Interni e che ha la sua ragion d'essere nella protezione dei ceti produttivi settentrionali contro un Sud che si vorrebbe tutto parassitario e corrotto appare particolarmente grave. Un atteggiamento tanto spregiudicato, però, non deve stupire perché in realtà sono due particolarismi anti-nazionali che si sorreggono a vicenda: un certo Nord si è sempre servito di un certo Sud, in modo strumentale e privo di scrupoli, cementando insieme blocchi di potere, quelli sì di portata e destino nazionali.

Se questo è il quadro, sullo sfondo il problema resta: è difficile immaginare per quanto tempo ancora l'elettore leghista tipo possa resistere a un simile logoramento delle proprie parole d'ordine originarie e fare da stampella al navigare a vista di Berlusconi e della sua litigiosa compagnia. È probabile che mentre il governo, perdendo tempo ed energie preziose per l'Italia, continuerà a parlare della casa di Montecarlo e dei cognati di Fini, la Lega analizzerà il momento cruciale in cui sciogliere l'ambiguità di oggi, recuperare la sua anima movimentista e staccare la spina a questo esecutivo. Bossi lo ha già fatto una volta nel 1996, mostrando coraggio politico da vendere, e, immaginiamo, non esiterà a farlo di nuovo, anche perché la corda, proprio come l'estate, sta finendo.

http://www.ilsole24ore.com/art/commenti-e-idee/2010-09-25/lega-lotta-palazzo-080538.shtml?uuid=AYUIaSTC
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« Risposta #7 inserito:: Aprile 20, 2011, 04:26:03 pm »

Nasce l'Osservatorio sui costi della politica

...

di Miguel Gotor , pubblicato il 20 aprile 2011


La percezione di una politica debole e sempre più dequalificata accompagna in modo preoccupante il nostro tempo. Si tratta di un fenomeno che riguarda tutte le grandi democrazie occidentali, ma in Italia si presenta in forme particolarmente acute e radicate.

Sia chiaro. La politica, così come la democrazia, ha dei costi, anche elevati, a cui dovrebbero però corrispondere decisioni efficaci e servizi efficienti. Purtroppo non è così ed esiste un crescente problema di credibilità della politica, che appare asserragliata in un fortino, ridotta a una gigantesca impresa improduttiva incapace di stabilire un legame costruttivo con i cittadini, sempre più distanti dalle istituzioni e in preda a un sentimento di acuta disaffezione per la cosa pubblica.

Proprio in questo vuoto di autorevolezza e di disimpegno si sono fatti largo i linguaggi e i contenuti dell’antipolitica. Essa ha svolto un ruolo preponderante negli ultimi vent’anni seguendo la deriva populistica e plebiscitaria del nostro sistema che appare incapace di affrontare e risolvere gli autentici problemi dell’Italia. Per provare a sconfiggere l’antipolitica, l’unica strada percorribile è quella di contribuire a risanare la politica perché solo la moneta buona è in grado di scacciare quella cattiva.

Al di là della polemica qualunquistica e in fondo elitaria contro la casta, crediamo che il tema dei costi della politica costituisca attualmente una delle principali ragioni della crisi di credibilità dei partiti in Italia, il sintomo di una loro debolezza intrinseca e non già l’espressione di una qualche autorevolezza. Una recente indagine della Uil ha rilevato che il costo complessivo delle istituzioni (Parlamento, organi costituzionali, Regioni, Province, Comuni) ha oggi superato i 4,6 miliardi di euro annui. Il Parlamento costa un miliardo e mezzo, un miliardo è speso per garantire il funzionamento dei 21 consigli regionali e delle relative giunte, 459 milioni di euro sono impiegati nell’attività dei consigli provinciali. Gli oltre ottomila comuni italiani incidono sull’erario pubblico per oltre un miliardo e mezzo di euro l’anno. Sempre secondo le stime del sindacato, oltre un milione di individui vive in Italia direttamente o indirettamente di politica tra parlamentari, ministri, amministratori locali e consulenti.

Sono troppi soldi e troppe persone se paragonati agli standard europei e un confronto comparativo con gli altri paesi del continente rappresenta un’esigenza ineludibile per stabilire un livello medio di spesa cui ispirarsi. I campi dove intervenire sforbiciando per ridurre gli sprechi sono molteplici: si potrebbe razionalizzare il funzionamento delle Province, che questo governo aveva promesso in campagna elettorale di abolire ma è stato bloccato dal veto della Lega, diminuire il numero dei membri delle assemblee elettive a livello periferico e nazionale, accorpare funzioni per evitare doppioni amministrativi, ridurre il numero degli assessorati degli enti locali. Ciò produrrebbe un contenimento dei costi per i funzionari, i collaboratori, i segretari, nonché per l’utilizzo delle auto blu. Bisognerebbe anche agire sui consigli di amministrazione degli enti locali e sulle società miste legate ai Comuni, alle Province e alle Regioni che spesso funzionano come «discariche» per i politici sconfitti alle elezioni e agiscono come un vero e proprio contropotere in grado di condizionare la vita stessa dei partiti e la normale dialettica democratica. I parlamentari per primi si rendono conto di questo problema e, nel corso di quest’ultima legislatura, hanno presentato una serie di proposte di legge di diversa provenienza che, però, sono rimaste finora tutte lettera morta. Ciò rivela che le possibilità di autoriforma della politica hanno difficoltà a esprimersi autonomamente all’interno di una normale dialettica parlamentare ed è necessario un crescente impulso proveniente dalla società civile.

Per tutte queste ragioni Italia Futura ha deciso di istituire un Osservatorio sui costi della politica. Ci proponiamo di mettere in rete denunce concernenti gli sprechi e il malfunzionamento dei pubblici poteri, ma anche di segnalare esempi virtuosi che possano indicare la strada del risanamento. Contiamo di farlo anche raccogliendo le indicazioni provenienti dagli iscritti di Italia Futura nelle varie realtà locali e dagli utenti del sito che vorranno contribuire alla buona riuscita di questa iniziativa. Concentreremo la nostra attenzione sulle amministrazioni locali e sulle società a partecipazione pubblica perché il problema riguarda tutto il sistema istituzionale nel suo insieme e sarebbe sbagliato ridurlo al parlamento nazionale o ai vertici istituzionali oppure limitarlo a una sterile polemica sui privilegi dei parlamentari.

Siamo convinti che l’attività politica richieda anzitutto sobrietà e che solo in questo modo la gestione della cosa pubblica potrà recuperare la propria dignità e rilanciare il suo prestigio, prevalendo sulla disaffezione, il qualunquismo e il disfattismo che oggi non solo costituiscono il peggiore pericolo per la qualità della nostra democrazia, ma impediscono all’Italia di ripartire come potrebbe, dovrebbe e merita.


-I tagli che ancora attendiamo: ecco alcuni dei disegni di legge presentati in questa legislatura e mai approvati sulla riduzione dei costi della politica


-Partecipa anche tu all'osservatorio della politica. Segnala lo spreco più vicino a te scrivendo a quantocicosti@italiafutura.it

da - italiafutura.it/dettaglio/111401/
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« Risposta #8 inserito:: Maggio 09, 2011, 06:23:01 pm »


IL COMMENTO

Lo Stato siamo noi

di MIGUEL GOTOR


SI CELEBRA oggi il quarto anniversario del "Giorno della memoria" per le vittime del terrorismo, fortemente voluto dal presidente della Repubblica all'inizio del suo mandato. L'appuntamento di quest'anno costituisce un "omaggio particolare ai servitori dello Stato che hanno pagato con la vita la loro lealtà alle istituzioni repubblicane". Anzitutto i magistrati, caduti per "difendere la legalità democratica" come ha scritto il Capo dello Stato Giorgio Napolitano.

Il presidente della Repubblica ricorda che la sua decisione di commemorare tali personalità "costituisce anche una risposta all'ignobile provocazione del manifesto affisso nei giorni scorsi a Milano, innanzitutto una intollerabile offesa alla memoria di tutte le vittime delle Br, magistrati e non", e invoca "senso della misura e della responsabilità da parte di tutti". Senso della misura che, ancora una volta, è stato oltrepassato proprio in queste ore dal presidente del Consiglio, il quale ha ribadito che "i pm di Milano sono un cancro da estirpare" e, in un comizio a Olbia, ha denunciato che in Italia sarebbe in atto una "guerra civile" contro di lui e il suo partito. Tutto ciò avviene, come ha giustamente sottolineato il presidente della Camera, Gianfranco Fini, alla vigilia del 9 maggio, in cui si vuole onorare quel sangue versato in difesa della democrazia e della libera convivenza civile.

I magistrati e non solo, perché servitori dello Stato sono anche le forze dell'ordine che oggi sono commemorate insieme con loro al Quirinale. Una fra tante, il poliziotto Fausto Dionisi, ucciso nel 1978 a Firenze da un commando di Prima Linea. Lo sguardo di sua moglie Mariella non l'ho ancora dimenticato: nei suoi occhi non c'era odio, ma dolore, non vendetta, ma smarrimento, non rabbia ma umiliazione. Era il 26 giugno 2008, presso la sede della Regione Toscana, durante un seminario su "Il caso Moro: riconciliare l'Italia". Il marito, quando morì, aveva 24 anni, lei 22, una figlia di 2 anni da crescere da sola: una vita rubata, una famiglia distrutta. Per sempre.

L'indignazione della donna derivava dal fatto che Sergio D'Elia, condannato per concorso nell'omicidio di suo marito a 25 anni di carcere, di cui ne aveva scontati dodici, non solo nel 2006, grazie alla nuova legge elettorale, era stato "nominato" deputato nelle file della Rosa nel pugno, ma l'assemblea l'aveva addirittura eletto segretario della presidenza dell'Aula di Montecitorio. Una scelta politica inopportuna e una prova di insensibilità istituzionale perché un ex dirigente di Prima Linea, efferato gruppo terroristico, non avrebbe dovuto essere proposto e votato dai suoi colleghi a quella carica, un gesto destinato inevitabilmente a trasformarsi in un'ulteriore umiliazione per i familiari delle sue vittime. E così era avvenuto.

Anche questo episodio ricorda quanto sia importante il "Giorno della memoria". Riconciliare e ricordare, ma anche risarcire una ferita che c'è stata in passato fra cittadini e istituzioni. Qualunque discorso di riconciliazione ha il dovere di passare da questa stazione, partire da una simile assunzione di responsabilità, farsi carico di un disagio e di un silenzio che troppo a lungo hanno gravato su queste storie spesso cadute nell'oblio. È importante questa cerimonia per dare carne e volto, e dunque un senso, all'espressione "servitore dello Stato", che altrimenti rischierebbe di suonare retorica. Essa ci ricorda che lo Stato siamo noi, con le nostre responsabilità, ma anche con le nostre colpevoli indifferenze: il "Nostro Stato" si intitolava la rubrica di Carlo Casalegno, ucciso dalle Br nel 1977, ed è giusto non dimenticarlo mai.

La vicenda di Dionisi è rappresentativa della storia di centinaia di familiari, molto spesso emigrati dal sud al nord della penisola alla ricerca di un lavoro: vedove, padri, madri, fratelli, figli, che si sono trovati all'improvviso soli e spaesati in una città distante dai loro affetti di sempre, abbandonati col fardello del proprio dolore. È una folta schiera di morti anonimi che non hanno neppure il risarcimento postumo di un prestigio riconosciuto al loro congiunto dalla pubblica opinione. Sono la maggioranza: non sempre i familiari di costoro hanno gli strumenti intellettuali, la formazione culturale e la forza psicologica necessari per arrivare a un'elaborazione del lutto in grado di trasformarsi in energia costruttiva e quindi sono ancora più indifesi e fragili, ma ciò non può trasformarsi in una colpa.

La loro storia fa capire che, anche nel dolore e nella sua elaborazione, l'appartenenza di classe e la provenienza sociale contano, continuando a marcare un invisibile confine tra garantiti e non garantiti. Forse è questo l'aspetto più bello e misconosciuto della cerimonia del 9 maggio: una fotografia, uno straordinario spaccato di tutti i volti e le storie dell'Italia repubblicana che viene riunita dal Capo dello Stato e mostra la sua anima degna e autenticamente popolare. Almeno per un giorno quel confine scompare e tutti sono ricordati con la stessa intensità. Di fronte a questa esperienza, emotivamente forte per chi ha avuto la possibilità di parteciparvi, le polemiche sulla ritualizzazione della cerimonia e sull'uso pubblico del dolore delle vittime appaiono fuori fuoco: ora esiste uno spazio istituzionale che prima non c'era, a disposizione di ognuno per essere riempito con una riflessione la cui qualità è determinata dalla sensibilità civile e politica con la quale i diversi soggetti preferiscono partecipare a questo appuntamento.

E le affermazioni di Berlusconi, volte a racimolare un pugno di voti, risultano incredibilmente inadeguate al ruolo istituzionale rivestito, tanto che hanno suscitato lo smarcamento anche di Bossi. In questi giorni "la Repubblica" ha opportunamente dedicato a ognuno dei magistrati caduti durante gli anni del terrorismo un ritratto biografico per costruire un punto tra passato e presente, e ricordare il profilo civile di questa mobilitazione. Una scelta che le parole del presidente del Consiglio rendono non solo attuale, ma necessaria perché questo Paese avrebbe oggi bisogno come non mai di unità e non di divisione, di moderazione e non di pulsioni destabilizzanti. Questo Paese e il nostro Stato.

(09 maggio 2011) © Riproduzione riservata
da - repubblica.it/politica/2011/05/09/news/
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« Risposta #9 inserito:: Luglio 10, 2011, 03:56:27 pm »

08 Luglio 2011

La politica e il vaso di pandora

Argomento: Politica
Autore: Miguel Gotor

Di tragedie, vicende dense di mistero, il nostro Paese ne ha vissute, sopportate e superate in grande quantità, a partire almeno dalla strage di piazza Fontana. Tra l'altro, per uno dei casi più noti e inquietanti, la cronologia fa proprio in questi giorni cifra tonda. Sono infatti trascorsi trent'anni da quando nel corso della perquisizione a villa Wanda a Castiglion Fibocchi, spuntarono i famosi e famigerati elenchi degli iscritti alla loggia P2. Tre decenni dalla scoperta di uno dei complotti più oscuri della storia della repubblicana, con cui si tentò di inquinare le fonti stesse della democrazia del nostro Paese: un vero e proprio progetto di destabilizzazione sulla cui reale portata non è stata ancora fatta piena luce. E da allora che in Italia al sostantivo potere si accompagna l'aggettivo occulto. Anzi, per la precisione, l'espressione viene citata al plurale: poteri occulti. Piani, livelli, stratificazioni, che più o meno combinati, più o meno in sintonia, da decenni cercano di condizionare la vita democratica del nostro Paese. Con una preoccupante riemersione proprio in questi ultimi due anni. Dalla P3, il cosiddetto sistema Anemone - Balducci, all'attualissima inchiesta sulla P4 che ruota intorno al faccendiere Luigi Bisignani, ex P2, passa appena una manciata di mesi. E si ha sempre più la sensazione che nella lunga transizione dalla prima alla seconda repubblica, ad occupare i vuoti che si sono spalancati a partire dai primi anni novanta siano state le stesse forze oscure contro cui si combatteva. Che insomma la loro transizione si sia pienamente realizzata, che la minaccia persista e sia ben più complessa di quel che traspare attraverso le lenti di un Bisignani. Ce ne potremo liberare? In che modo? Perché queste poteri sono così difficili da estirpare? Perché questa anomalia tutta italiana professor Gotor?

Non sono sicuro che si tratti di una specificità solo italiana anche perché la massoneria è un movimento internazionale...

Lo storico Miguel Gotor, nel suo recente Il memoriale della repubblica ha messo sotto stretta osservazione oltre tre decenni di vita del nostro Paese, a partire dall'evento che segna uno dei suoi più tragici passaggi: il caso Moro. Sul quale certo non scarseggiano ombre e cappucci, manine e manone ...

Semmai il fatto da evidenziare è che in Italia ha assunto e continua ad assumere forme particolarmente invasive e che vi sia da parte dei cittadini la costante percezione di una dimensione oscura del potere, che esista sempre un'altra faccia della luna che sfugge al controllo e alle regole. Riguardo invece al perché succeda proprio in Italia...

Ecco...

E' una domanda che richiede una risposta di lungo periodo. L'esistenza di uno Stato debole fondato su legami di fedeltà e non di lealtà, il ruolo delle cricche, cioè delle organizzazioni corporative di parte legate da interessi particolari, ha una storia antica che segue gli sviluppi dello stato unitario. Questa caratteristica dell'esistenza della cricca è utilizzata come espressione da Antonio Gramsci nei Quaderni dal carcere (Quaderno 14 n.d.r). Gramsci scrive che c'è una difficoltà a farsi Stato nel nostro Paese, cioè a stabilire un dominio della legge. E proprio perché c'è una difficoltà a farsi Stato e a stabilire un dominio della legge emerge il potere delle cricche. Gramsci sta guardando alla organizzazione del potere dell'Italia fascista.
Ma a partire da quel che rileva Gramsci, mi chiedo a questo punto, e si tratta di un aspetto legato all'organizzazione del potere con Berlusconi, se la torsione plebiscitaria e populistica che egli ha voluto dare e ha dato al suo impegno politico, non abbia in una qualche misura aumentato il ruolo dell'oscurità nella politica: nel senso che se si stabilisce un legame diretto tra capo e popolo, se si rifiutano il più possibile le mediazioni in questo rapporto, che è dunque un rapporto verticistico e plebiscitario, mi domando se tutto ciò non finisca per portare da un lato all'aumento del potere delle cricche...

Anemome, Balducci, Bisignani, in ordine di apparizione...e alfabetico.

La cricca che ruota intorno a Bisignani è simile come meccanismo di funzionamento a quella emersa un anno fa a intorno a Balducci e Anemone. Non si può non rilevare che si tratta di segnali che rafforzano la sensazione dell'esistenza di corpi che si muovono come delle onde in base ad interessi particolari e che sono del tutto in grado di condizionare il potere politico...

Da un lato quindi con Berlusconi si accresce il potere delle cricche...e dall'altro?

E dall'altro il volto della politica si fa sempre più oscuro. Si tratta a questo punto di interrogarsi se questo rapporto capo-popolo non riveli un nesso tra populismo e "oscurimo" che si può definire in questi termini: quanto più il popolo è in maniera informe, acritica, portato al centro dell'azione politica del capo, tanto più si ha l'impressione che i gangli del potere, invece, si possano muovere seguendo strade non visibili. Che aumenti lo spazio della non visibilità dell'azione politica che ha per effetto l'impoverimento della qualità stessa della democrazia.

Rapporti politici diretti che cercano di sgombrare il campo da ogni mediazione, che semplificano le procedure del consenso. Berlusconi ha fatto della semplificazione del messaggio uno dei cardini della comunicazione politica. Semplificare, oscurare, due facce di una stessa medaglia...

E' possibile. Più in generale va detto che assistiamo ad una crisi della politica, dei Parlamenti, che non è solo italiana. Il problema è che da noi si manifesta a partire da uno snodo cruciale come l'attuale legge elettorale - che va ricordato è stata votata e voluta dal partito di Berlusconi e dalla Lega - che contribuisce a svilire ancora di più il valore rappresentativo del Parlamento. In questo caso semplificare è al tempo stesso svilire. E poi: come altro definire la questione della scomparsa del concetto dell'autonomia di una maggioranza parlamentare rispetto all'esecutivo? Quando la semplificazione si traduce in svilimento siamo davanti ad un problema serio. Ma di questo gli italiani ormai se ne sono resi conto. Quello che oggi è al centro del dibattito in effetti non è più la critica al populismo, ma il fallimento delle politiche populistiche e del progetto di governo Berlusconi, che degli ultimi dieci anni ne ha governati otto. Il decennio berlusconiano è stato quest'ultimo: un lungo periodo in cui ha accumulato una serie di promesse, di paure, che non è stato in grado di risolvere. Questo è il punto sul quale oggi ci confrontiamo per riorganizzare una proposta di governo che sia alternativa. La vera questione però è che non si tratta solo di battere Berlusconi elettoralmente, ma di riorganizzare un nuovo principio di equilibrio del sistema politico italiano nel suo complesso, un nuovo perno su cui possa ruotare una politica riformista alternativa dentro un nuovo sistema di equilibrio, perché quello su cui si è retto quest'ultimo decennio non funziona più.

Continuità e differenze, P2, P3 P4, P...n?

Si tratta di una formula giornalistica efficace. In particolare perché ricorda un dato di fatto che invece tende ad essere dimenticato, quello della continuità. Il fatto che Berlusconi fosse iscritto alla P2 e che persone di responsabilità all'interno dello schieramento politico di centro destra, penso all'onorevole Cicchitto, ex socialista, fossero fra gli iscritti alla P2, mettono in luce un perdurare di rapporti e di relazioni.

Lo stesso Bisignani...

Ho tuttavia una perplessità nell'utilizzare queste formule, la cui efficacia giornalistica è indubbia.

Perché?

Perché implica un limite che è la relativizzazione di quel che è stata la P2. In una intervista di qualche giorno fa Gelli ricordava che la P2 è stata a una cosa seria, più seria di quello che sta emergendo dall'inchiesta di Napoli. La P2 era riuscita a penetrare nei governi di allora, controllava direttamente o indirettamente ministri, sottosegretari...ecco il limite è: attenzione a non relativizzare il potere destabilizzante che la crisi della P2 ha rivelato. Certo, quando saltarono fuori le liste di Castiglion Fibocchi ci fu un arretramento. E furono importantissime da questo punto di vista l'azione del presidente Spadolini, del presidente della Repubblica Pertini e di Tina Anselmi nella commissione d'inchiesta. Ma i legami piduisti non si sciolsero. Si ritirarono come un'onda per poi riorganizzarsi e riemergere con un vigore nuovo. Da questo punto di vista Berlusconi può essere considerato, anche se è sbagliato ridurlo solo a questo, sia l'espressione di quel gruppo di potere riorganizzato, sia come l'erede di una continuità di governo e di una politica lungo l'asse Andreotti - Craxi. Dunque le cose vanno distinte: da una parte l'eredità piduista, il piano delle relazioni non visibili, oscure, che si riorganizzano dopo la crisi dell'81, mentre sul piano politico si ha la sensazione che gli elementi di continuità con il cosiddetto Caf prevalgano sugli elementi di rottura. In questo senso va sottolineato che c'è stata tutta una retorica, a destra come a sinistra, e una lettura, volta a marcare più gli elementi di rottura che si sarebbero manifestati con le modifiche dei sistemi istituzionali, dei sistemi elettorali e con il passaggio dal proporzionale al maggioritario. C'è stato un eccesso di enfasi, che spesso ha corrisposto ad una volontà di propaganda. Ma gli elementi di continuità tra il vecchio e il nuovo, come del resto spesso è accaduto e accade nel nostro paese, sono prevalsi. Ormai è una banalità citarlo, ma sono banalità che valgono: dobbiamo sempre stare attenti all'anima gattopardesca che è parte della nostra cultura e mentalità, ai riposizionamenti più o meno radicali che possono assumere posizioni di rottura e che invece rispondono a dei riposizionamenti perché nulla cambi. Questo è accaduto tra il 92 e il 93. E ho l'impressione che stia avvenendo e che possa avvenire anche in questi mesi.

Gli anticorpi di allora e di oggi...

La forza dell'attacco è diversa. Nel 1981 l'attacco arrivava al termine di un decennio terribile per la democrazia e la storia italiana: stragi neofasciste, lotta armata delle Br...La democrazia italiana è stata veramente sotto schiaffo e sottoscacco e credo che complessivamente bisogna dare merito ai partiti, o a ampi settori dei partiti di massa di allora, di governo e di opposizione, di aver retto a questo evidente tentativo di destabilizzazione interno ed esterno, nazionale e internazionale. L'Italia ha resistito attraverso una mobilitazione democratica senza cadere nelle trappole della provocazione. Da questo punto di vista la situazione di oggi è imparagonabile. Per questo dicevo di fare attenzione al gioco delle sigle: le varie P2, 3 e 4. E a non relativizzare l'efficacia sovversiva di ciò che avviene in Italia da piazza Fontana all'arresto di Peci, tra il golpe Borghese e l'arresto di Savasta. C'è la sensazione che in quel lungo decennio l'Italia sia stata presa a tenaglia da due forze che provarono a soffocarne la democrazia ancora fragile: prima con una fase stragista e fascista e poi con le Brigate Rosse, con un terrorismo selettivo che sceglieva i suoi obbiettivi dentro il campo riformista: da Moro a Bachelet a Ruffilli. Oggi il problema non è quello di difendere la nostra democrazia intesa come quantità, come forma di stato.
La questione che sta davanti a noi cittadini è piuttosto quello di difendere e affermare la qualità democratica del nostro stare insieme. E' necessario trovare forme migliori per stare insieme. Guardiamo per esempio al bipolarismo: è stata posta una grande enfasi rispetto alla novità del bipolarismo che avrebbe caratterizzato la seconda repubblica. Va bene. Ma in fin dei conti anche i primi decenni della repubblica erano strutturati secondo una forma bipolare, non bipartitica: da una parte la Dc che era il polo che aveva l'egemonia al governo, e dall'altra il Pci che aveva l'egemonia all'opposizione. Era un bipolarismo bloccato, che non poteva prevedere l'alternanza. La novità del tempo che stiamo vivendo è che questo bipolarismo ha garantito l'alternanza. E si tratta di una novità molto importante nel lungo periodo della storia italiana, perché in precedenza le alternanze erano sempre state violente, forse con la sola eccezione della sinistra storica che prende il potere nel 1876. Altrimenti i cambiamenti sono sempre stati traumatici. L'alternanza al governo è sempre un elemento positivo per definire la qualità di una democrazia. Il punto è che siamo passati da un bipolarismo bloccato ad un bipolarismo malato. Ecco allora qual è il problema da affrontare: guarire, sanare la conquista del bipolarismo che resta una fatto positivo. Ora non so in che misura, sanarlo significhi esclusivamente sconfiggere Berlusconi. Credo sia altrettanto importante arrivare ad un quadro politico diverso, con una nuova destra per esempio.

E' piuttosto condivisa la percezione che un certo sistema di rapporti non visibili vada oltre Berlusconi e il suo sistema...

Bisogna essere chiari. L'ipotetica fine politica di Berlusconi non è la fine del berlusconismo. Il berlusconismo è una malattia che ha pervaso l'Italia, che ha conquistato e penetrato l'Italia. A destra certamente, ma con qualche elemento anche a sinistra: l'idea della scorciatoia carismatica ad esempio. Stabilito che non ci sarà un rapporto automatico tra la fine politica di Berlusconi e il berlusconismo, il dato su cui riflettere è la ragione per cui si sta prolungando questo stallo berlusconiano che sta assumendo le forme di una agonia.

Secondo lei per quale ragione?

Secondo me si sta prolungando perché un Berlusconi debole fa comodo a tanti. Incuteva timore, rispetto e fastidio un Berlusconi forte, imprenditore monopolista in un settore fondamentale come quello della comunicazione e non dimentichiamolo, della raccolta pubblicitaria in cui, in disprezzo di ogni forma di libero mercato, esercita un ruolo monopolista. Quel Berlusconi lì suscita sicuramente fastidio. Il Berlusconi tramontante - non sappiamo quanto a lungo ma tramontante - è un Berlusconi che dà la sensazione di trovarsi in balia di altre forze. In effetti non si capisce nelle vicende giudiziarie che stanno emergendo quanto Berlusconi sia la guida e quanto invece sia guidato dalle varie cricche, costretto di continuo a scendere a patti con esse. Ma questa è la conseguenza di un berlusconismo ferito e privo di leadership, che scopre dietro di sé qualcosa o che non si aspettava, o di cui conosceva l'esistenza ma che riusciva a tenere a bada.

A leggere le intercettazioni che riguardano la Rai, almeno nel 2005, Berlusconi sembra saldamente alla guida...

A me hanno colpito e impressionato i meccanismi di funzionamento della strutta Delta, per usare la formula felice di Repubblica, che sta realizzando un opera straordinaria di informazione, anche servendosi dei nuovi mezzi di comunicazione, per rendere visibile ciò che si voleva restasse nascosto. Quelle intercettazioni sono atti pubblici. Fa impressione ascoltarle. Vedere come nel 2005 in fin dei conti la realtà superasse non solo la fantasia ma perfino le accuse le più gravi che potesse muovere l'opposizione. Fa amarezza vedere delle professionalità ferite in quel modo e fa amarezza vedere il conflitto d'interesse agire nella forma più diretta e anche più volgare.
Stiamo parlando della Rai, di un servizio pubblico, che una fazione di Berlusconi si adoperava per occupare, controllare, al fine di non garantire la concorrenza, per non dare notizie che potessero disturbare il capo, che al tempo stesso era ed è proprietario delle tre più importanti reti private del sistema televisivo. Quello che viene fuori è un problema serio. E un quadro avvilente.

I media, l'informazione, sono in vario modo al centro della scena. Ormai parti contrapposte di un conflitto a cui partecipano talvolta in forme decisamente torbide, le varie macchine del fango...

Uno dei guasti del berlusconismo è il fatto che relativizza tutti gli altri comportamenti. Ormai ci siamo disabituati a faticare per fare buon giornalismo e buona editoria al di fuori di questo scontro quotidiano, di questo scontro militante. Il berlusconismo e l'anti berlusconismo sono due modi semplificati che non esauriscono la realtà e la possibilità di fare buon giornalismo e buona editoria. Anche se mi rendo conto che sono il campo su cui la sfida prevalentemente si svolge. Poi va aggiunta la variante terzista e così il quadro risulta completamente bloccato da una serie di militanze. Il problema è se questo aiuta a fare buona editoria e buon giornalismo. Io penso di no: perché semplifica i racconti, le narrazioni, oltre a porre in evidenza un problema di prevedibilità di conseguenza: tante volte capita di prendere un giornale e di sapere già quello che c'è scritto e com'è scritto. Quella che stiamo attraversando è una lunga stagione di cui io credo che il principale responsabile sia proprio il meccanismo attivato da Berlusconi, vale a dire quello di un referendum permanente sulla sua persona. Così ha sempre impostato le proprie campagne elettorali e il dibattito politico in Italia: intorno alla sua persona, ai suoi problemi giudiziari. Detto questo ho fiducia che la sconfitta di Berlusconi possa significare anche un maggiore impegno a fare del giornalismo e dell'editoria di qualità più di quanto non si è fatto finora.

Molti osservatori hanno recentemente proposto il paradosso di una contrapposizione politico mediatica, ma anche finanziaria e sindacale, che si acutizza mentre la società si ritira nell'antipolitica, dietro una qualche forma di purezza e dello slogan: tanto sono tutti uguali,

Il rischio c'è. Anzi, ho pensato a lungo che questo fosse il pericolo maggiore: il chiudersi della società in un indifferentismo, in una rinuncia, nell'idea del tutti uguali, berlusconiani e anti berlusconiani, destra e sinistra, mentre il corpo vivo del paese e della società andava da un'altra parte, indifferente, livida, in linea tra l'altro con sentimenti e atteggiamenti tipici associati al rapporto tra l'italiano e le istituzioni, tra l'italiano e la politica. Un modello interpretativo secondo il quale il rischio del distacco è sempre possibile e senza nemmeno la necessità di un grande sforzo. Ma è innegabile che siano avvenuti fatti che vanno in una direzione opposta: ciò che è accaduto in questi ultimi mesi, tra elezioni amministrative e referendum mi induce a pensare che il pessimismo, compreso il mio, fosse eccessivo. C'è invece, ed è piuttosto evidente, un fenomeno di risveglio civile: vero, importante, e che va al di là della questione di chi ha vinto e chi ha perso. Due fatti soprattutto sono da considerare importanti. Il primo concerne la partecipazione che si è registrata nelle tornate amministrative e in occasione della consultazione referendaria; partecipazione che è sempre sintomo quanto meno di un'assenza di sfiducia o di una ricerca di fiducia. I grandi sconfitti di queste tornate elettorali, quelli che avevano esplicitamente puntato sulla carta dell'antipolitica, Grillo, la Lega sono stati sconfitti. E ciò è avvenuto contro la diffusa percezione che si aveva alla vigilia di queste scadenze secondo cui le elezioni e i referendum avrebbero rappresentato un trionfo della Lega a destra e del grillismo a sinistra. Non è andata così. E la reazione scomposta che Grillo ha avuto all'elezione di Pisapia, sembra significativa. Così come il fatto che il suo elettorato non ha seguito l'indicazione qualunquista del sono tutti uguali, tutti rubano alla stessa maniera. L'opzione del sono tutti uguali è stata sconfitta. Duramente sconfitta. Ed è un aspetto molto importante, nuovo, sul quale bisogna riflettere a prescindere da chi ha vinto: leader, società civile, candidati o partiti.
E anche a prescindere dalle interpretazioni più o meno propagandistiche che si possono trarre. Quel che appare evidente è che c'è stata una richiesta di partecipazione che voleva distinguere e comprendere. Il discorso del tutti uguali, che tutti rubano alla stessa maniera non è passato. Ricordiamoci che un discorso di questo tipo è sempre un modo di difendere chi ruba, perché se tutti rubano nessuno ruba.

Ricorda vagamente un famoso discorso parlamentare...

Si tratta di un modo di pensare che favorisce i ladri, indirettamente o direttamente, un discorso organizzato in alcuni casi da chi, in buona fede, non appare in grado di comprendere l'effetto che produce, cioè di favorire i ladri. Dentro questo discorso, della casta, del tutti rubano, c'è anche però chi intenzionalmente, scientemente, sa che in questo modo difende il ladrocinio. E questo spiega la trasversalità del discorso, spiega il fatto che vi sia un anticasta di sinistra e una di destra che si stanno dando la mano, e che in buona o cattiva fede puntano comunque su un idea di dequalificazione della politica, che poi è l'opzione sulla quale Berlusconi ha scommesso e vinto nel 94 con la sua discesa in campo. E Berlusconi uscirà di scena rendendo parossistica questa dequalificazione della politica. Tutto ciò che è volto a squalificare la politica, a dequalificarla, fa in buona o cattiva fede il gioco di questa destra e chi non lo capisce se è in buona fede, deve sforzarsi di capirlo.

Questo dunque è il primo punto: c'è una partecipazione che testimonia un risveglio civile e sul quale bisognerà lavorare.

La seconda questione invece riguarda la richiesta di rappresentanza politica, risultata evidente in una serie di mobilitazioni: dal movimento referendario, al movimento delle donne Se non ora quando, dal movimento universitario a quello dei precari. Partecipazione e richiesta di rappresentanza mi sembrano essere le due grandi speranze sulle quali lavorando bene e senza dare per scontato che la partita sia già vinta si possa scommettere per risvegliare il nostro paese. Il timore che la società se ne vada altrove è per il momento scongiurato. Ma siamo all'ultima chiamata, e spero che chi fa politica e ha responsabilità politiche, ne sia consapevole.

Politica e società civile, un rapporto sempre problematico...

Ma l'uscita dalla crisi su questo si fonda: su un'alleanza e su un ascolto tra la società civile che si organizza nelle forme che sceglie e dei partiti, rinnovati, consapevoli dei loro limiti, che ascoltano e che siano rispettosi dell'autonomia delle varie espressioni della società civile. Perché questa alleanza potrà funzionare al meglio solo se sarà rispettosa della reciproca autonomia e della diversità degli ambiti. Ciò che unisce la società civile, i membri di associazioni, di gruppi, e chi sceglie l'attività in un partito, è la scelta volontaria, che in una società come questa dove tutto è commerciato e commercializzato è un bene prezioso, un bene comune prezioso. Se queste due gambe camminano insieme l'Italia può rimettersi in moto. Del resto è sempre stato così. Il Paese ha avuto momenti di sviluppo e di forza quando c'è stata un'armonia e non una contrapposizione tra società civile e rappresentanza politica che si esprime nei partiti. Questa è la sfida politica che va colta. Ogni generazione ha le sue sfide, i suoi avversari. E gli avversari di oggi non sono solo Berlusconi e il berlusconismo. C' è in più un'area e una cultura che mescola furbizia e qualunquismo, che si esprime a sinistra come a destra, nella retorica dell'anticasta e che tende a svalutare la politica nel suo insieme. E si tratta di un avversario più subdolo rispetto a ciò che appare in tutta evidenza.

da - http://www.nuovitaliani.it/adon.pl?act=doc&doc=1348
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« Risposta #10 inserito:: Aprile 25, 2012, 04:14:05 pm »

ANNIVERSARIO

La Resistenza da difendere

di MIGUEL GOTOR


IL 25 APRILE di quest'anno desideriamo celebrare il sangue versato dai vincitori e ricordare, accanto alla memoria e alla letteratura della Resistenza, anche la storia e la politica del movimento partigiano. Non solo, dunque, gli immaginifici sentieri dei nidi di ragno percorsi da piccoli maestri come il partigiano Johnny, ma i viottoli di montagna battuti 67 anni fa da uomini in carne e ossa come Arrigo Boldrini, Vittorio Foa, Sandro Pertini e Paolo Emilio Taviani.

Grazie alla loro storia commemoriamo i migliaia di giovani caduti in nome della libertà, per la dignità e il riscatto della Patria, in difesa della propria comunità di affetti.
Lo facciamo nella consapevolezza che senza la riscossa partigiana e senza la fedeltà all'Italia e il senso dell'onore di quei militari che, a Cefalonia e non solo, scelsero di impegnarsi nella guerra di liberazione dal nazifascismo, non sarebbe stato possibile gettare le fondamenta della nuova Italia democratica e repubblicana, quella che ancora oggi abbiamo il privilegio di abitare. Ma avvertiamo questa esigenza anche perché abbiamo alle spalle oltre vent'anni di un senso comune anti-antifascistiche ha egemonizzato il discorso pubblico intorno a due concetti meritevoli invece di maggiore ponderazione.

Il primo è quello che vede nell'8 settembre 1943 la morte della patria. In quei giorni si assistette al collasso dello Stato e delle istituzioni, ma la patria trovò, grazie alla scelta partigiana e alla coscienza di tanti, le ragioni per resistere,
rigenerarsi e rinascere alimentando un secondo Risorgimento della nazione.
Il secondo concetto è quello di guerra civile, che è stato indebitamente strumentalizzato. In questo caso, la condivisibile interpretazione azionista di un partigiano come Franco Venturi ("le guerre civili sono le uniche che meritano di essere combattute") è stata piegata agli interessi del reducismo fascista e saloino che da sempre hanno negato il carattere di lotta di liberazione alla Resistenza e, sin dalle origini, hanno utilizzato il concetto di guerra civile per equiparare, sul piano politico e morale, le ragioni delle parti in lotta.

Da questa duplice manipolazione della realtà storica è scaturita la rivalutazione di carattere moderato/terzista della cosiddetta "zona grigia": l'attendismo e l'indifferentismo, motivati da umane e comprensibili ragioni, inizialmente vissuti con disagio e un sentimento di vergogna, si sono trasformati nella rivendicazione orgogliosa di una zona morale di saggezza e virtù. Al contrario, se la Resistenza non avesse avuto il consenso implicito ed esplicito della società civile non sarebbe riuscita a prevalere sul piano militare e politico. Bisogna piuttosto rammentare che l'intrinseca moralità della Resistenza sul piano storico deriva dal fatto che quei giovani combatterono non soltanto per la propria libertà, ma anche per quella di chi era contro di loro e di quanti scelsero di non schierarsi: lo ha dimostrato senza ombra di dubbio la storia successiva dell'Italia democratica e parlamentare.

Oggi questi atteggiamenti, alimentati dalla lunga stagione del berlusconismo con la sua corrosiva ideologia della divisione, segnano il passo e offrono l'occasione alla Resistenza di trasformarsi finalmente in un patrimonio nazionale condiviso anche sul piano del giudizio storico. Un giudizio in cui devono albergare un sentimento di pietas per gli sconfitti, la volontà di studiare in modo equanime - contestualizzando e non per rinfocolare odi di parte - tutta la Resistenza, anche quella più violenta, vendicativa e oscura, e, infine, il riconoscimento dell'importanza del percorso compiuto da quanti oggi, pur essendo cresciuti nel Movimento sociale, hanno dichiarato di riconoscersi nella condanna delle leggi razziali del 1938 e nei valori dell'antifascismo.

È indicativo che in un momento di crisi della politica e della rappresentanza come questo, stiano aumentando le iscrizioni all'Anpida parte dei più giovani. Nell'Italia attuale è necessario recuperare lo spirito di collaborazione e di ricostruzione civica che ha animato il movimento partigiano da cui scaturì la stagione della Costituente in cui forse politiche di estrazione profondamente diversa impararono a conoscersi e seppero fare fronte comune nell'interesse nazionale. Quello spirito lontano e generoso è il testimone della Resistenza che serve oggi all'Italia.
 

(25 aprile 2012) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/politica/2012/04/25/news/la_resistenza_da_difendere-33910878/?ref=HRER1-1
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« Risposta #11 inserito:: Settembre 23, 2015, 10:04:01 am »

16 settembre 2015

di Manolo Lanaro

Senato, Gotor (minoranza Pd): “Governo bluffa sui numeri.
Non si può giocare ad ‘asso piglia tutto'”

“Alla luce dell’Italicum per noi non funziona l’idea che i futuri 730 parlamentari per oltre tre quarti siano scelti a tavolino da 3/4 grandi nominatori che trasformerebbero il Parlamento in un gregge. La democrazia non è giocare ad ‘asso piglia tutto’. Così Miguel Gotor, senatore Pd ed esponente della minoranza non arretra sulla contrarietà alla non elettività dei futuri senatori. “Il governo bluffa sui numeri”, afferma Gotor che aggiunge: “Spero che il governo ascolti i nostri consigli affinché il processo vada avanti e si concluda.

Se questo non avverrà, noi voteremo i nostri emendamenti e poi se ci saranno delle conseguenze politiche dovranno essere valutate dal presidente del Consiglio. Spero – conclude Gotor – sia determinante l’unità del Pd, non voglio neppure pensare a un partito che viene sostituito da Verdini e dagli amici di Cosentino, non sarebbe un buon messaggio al nostro elettorato”

Da - http://tv.ilfattoquotidiano.it/2015/09/16/riforma-senato-gotor-minoranza-pd-governo-bluffa-sui-numeri-non-si-puo-giocare-ad-asso-piglia-tutto/414749/?utm_source=newsletter&utm_medium=email&utm_campaign=newsletter-2015-09-16
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« Risposta #12 inserito:: Settembre 23, 2015, 10:06:46 am »

Aspettando Gotor
Pd   

Sulla riforma del Senato la rottura nel Pd si può evitare. Ci sono persone di esperienza nel partito che non possono non vedere che all’accordo non c’è alternativa, ma dovrà prevalere la ragione e non la pancia.

La festa cominciata è già finita? Dai segnali delle ultime 24 ore parrebbe proprio di sì: nel Pd lo scontro finale stile Mezzogiorno di fuoco non ci sarà. Così pare, almeno. Sarebbe un bel problema per tutti quelli che, nel Palazzo, nei giornali, nelle tv, già pregustavano un delirio politico fatto di cadute del governo, eventuali bis, governi istituzionali e chi più ne ha più ne metta.

Tutto è possibile ma ad oggi sullo scenario apocalittico non punteremmo un centesimo. Meglio integrati che apocalittici. Se il clima politico si rasserena sarà anche possibile restituire un pochino di dignità a quello di cui si sta discutendo.

Perché non è vero che si sta discutendo del sesso degli angeli, si sta cercando di mutare radicalmente la funzione del Senato, non è cosa da poco, ma è pur vero che i cittadini normali stanno smarrendo il punto della questione. Che è abbastanza semplice: la sinistra ha posto un problema, questo problema è stato discusso, analizzato, sviscerato, e sembra anche risolto – o almeno si è capito che è risolvibile. Già solo questo è un bel passo in avanti. La rottura si può evitare. Psicologicamente cambia tutto, anche nell’animo di chi si augurava (o lavorava per) che stesse per giungere l’ora X della scissione.

Dovranno rifare un po’ di conti: la rivoluzione è rimandata a data da destinarsi, al massimo potremo fare un pochino di guerra di posizione, magari su qualcosa di più eccitante del comma 5 dell’articolo 2.

Invece qui siamo in presenza della più classica delle mediazioni: il Governo non vuole che il ddl Boschi riparta da zero (e una modifica piena dell’articolo 2 questo comporterebbe) e la sinistra chiede che nel medesimo articolo 2 vi sia contenuto il principio – vedremo come tecnicamente formulato – della indicazione dei senatori da parte dei cittadini. Si sta capendo che si possono fare entrambe le cose grazie a quello che è stato chiamato “intervento chirurgico”, tale da non ricominciare da capo come Penelope.

Un compromesso. Bersani è ancora guardingo, giustamente. Come in ogni trattativa – e Bersani queste cose le sa benissimo – bisogna chiedere di più, mantenere la faccia feroce, tenere il punto fino alla fine. Ma sa anche che se la mediazione andasse in porto la sinistra porterebbe a casa un risultato di merito. Oltre a quello di rafforzare il il governo e il quadro politico, essendo chiaro che superato questo scoglio Renzi potrebbe guardare al futuro con molta minore ansia soprattutto in relazione a un Parlamento totalmente legato alla vita di questo esecutivo. Il post di Bersani che “vede” le cose muoversi nel senso da lui auspicato segnala che la sua componente si dispone positivamente all’accordo.

I Migliavacca, i Chiti, i Gotor sono persone di esperienza che non possono non vedere che all’accordo non c’è alternativa. Il problema sarà costruire una nuova linea che gli consenta di spiegare perché il ddl Boschi che ieri era l’anticamera della fine della democrazia ora diventa votabile: forse si era esagerato prima. Ma tutto è razionalmente ricomponibile. Se prevale, appunto, la ragione e non la pancia. Aspettiamo Migliavacca e Chiti. Aspettiamo Gotor.

Da - http://www.unita.tv/focus/aspettando-gotor/
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